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Mariella Gramaglia
Indiana. Nel cuore della democrazia più
complicata del mondo
Titolo: Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo.
Autore: Mariella Gramaglia
Editore: Donzelli
Pubblicazione: 2008
Pagine: 218
Biografia (Da Ordito e trama, il blog di Mariella Gramaglia)
Mi chiamo Mariella Gramaglia, sono nata a Ivrea e mi sono laureata in filosofia nel
1972. Tra Palazzo Campana, Mirafiori, Vanchiglia e Palazzo Nuovo ho visto molte albe
lungo i viali e sotto i portici, quando Torino era fiammeggiante di molte passioni, ma
non ancora swinging. Poi Roma e il femminismo, la grande scoperta della mia vita:
quando i cuori delle donne hanno cominciato a cantare solo quando ne avevano voglia
loro. Insieme alla politica ho cominciato il lavoro giornalistico: al manifesto, alla Rai, al
Lavoro, nelle riviste e infine a Noidonne, come direttrice nel 1985. Intanto nascevano
due figli: Maddalena e Michele. Oggi due adulti, con dei bei sorrisi e due teste piene di
idee. Nel 1987 sono stata eletta al Parlamento Italiano nella sinistra indipendente. Dai
banchi della Camera ho visto qualche transatlantico della prima repubblica abbandonare
gli ormeggi e qualcun altro restare saldamente alla fonda, ho visto cadere il muro di
Berlino e spiegare al vento le bandiere bucate proprio là dove stavano gli odiati simboli
del comunismo. Ho accompagnato convinta Occhetto nell’avventura della nascita del
Pds. Dal 1994 mi sono misurata con il governo locale. Tredici anni al Comune di
Roma, prima con Francesco Rutelli con compiti manageriali, poi con Walter Veltroni,
di nuovo nella politica come assessore. Ho lavorato tanto, con quella fatica artigiana e
quotidiana che difficilmente si pratica altrettanto in altri ruoli politici. L’elenco tecnico
delle cose fatte per cercare di semplificare la vita dei cittadini, comunicare con loro e
ascoltare il loro punto di vista, sarebbe lungo e noioso. Quello che conta è la sostanza: la
consapevolezza vissuta che i diritti dei cittadini non si esercitano solo una volta ogni
cinque anni per votare, ma sono il sale della democrazia ogni giorno. E che la loro
dignità, la loro uscita dal ruolo di sudditi o di clientes, è uno straordinario valore per il
quale impegnarsi. Oggi, maggio 2007, lasciato il mio incarico di assessore, comincia
una nuova storia. Vado in India, ad Ahmedabad, Gujarat, a collaborare con Sewa, un
importante sindacato autonomo di donne, su incarico di Progetto Sviluppo e della Cgil.
2
Dico solo che non sto scappando né dall’impegno, né dalla politica, che non ho una
personalità particolarmente eroica o spericolata e che mi sto facendo un bellissimo
regalo di libertà.
Abstract
Un proverbio indiano recita: «qualunque cosa tu dica dell’India, è sempre vero anche il
suo contrario». Schiacciati da tanta complessità, noi occidentali abbiamo spesso scelto
di racchiudere un oceano sconfinato di differenze nelle piccole ampolle dei nostri
stereotipi. La spiritualità esercitata fino allo sfinimento, il fatalismo arreso di fronte al
dolore di vivere, il furore primitivo delle mille rivolte di comunità e gruppi religiosi, la
povertà estrema sopportata dagli umili e inflitta dai potenti come un destino. Finché,
con gli anni novanta, ecco farsi strada prepotentemente nell’immaginario occidentale
l’ultimo dei clichés: l’India sfavillante, l’India che cresce, l’India del Pil da primato, la
terra delle stelle di Bollywood, dei miliardari in dollari, dei supermanager
dell’informatica neppure trentenni. Un’immensa minoranza, di oltre cento milioni di
persone, fa tendenza nel mondo. Ma intanto, l’altra India, quella degli ottocento milioni
di esseri umani che vivono con un dollaro al giorno, quella dell’analfabetismo
femminile di poco inferiore al 50%, è rimasta uguale a se stessa? Mariella Gramaglia è
vissuta un anno nel subcontinente. Dopo un lungo impegno nel femminismo, nella
politica italiana e nelle istituzioni, ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di
promozione dei diritti. Lavora in Gujarat, con Sewa (Self Employed Women’s
Association), l’unico sindacato autonomo di donne nel mondo che conta un milione di
iscritte, e in Tamil Nadu, dove ferve la ricostruzione dopo lo tsunami. Il suo è un diario
di vita, di ricerca, di lavoro. Attraverso incontri, sguardi di donne e uomini, vicende
pubbliche e dettagli della vita quotidiana, cerca di saggiare la temperatura del suo
legame con l’India e della sua comprensione di quel mondo. Non nega né la modernità,
né la speranza, ma le affida, più che alla borsa di Mumbai, al coraggio delle tante e dei
tanti che si battono per la loro dignità.
3
Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo
Indiana è la trasposizione in forma di racconto di un’esperienza di vita di Mariella
Gramaglia. L’autrice del libro riporta in forma scritta pensieri, suggestioni,
considerazioni ed insegnamenti che derivano da un anno di permanenza in India, e che
hanno determinato un mutamento del suo modo di vedere e percepire il mondo. Dopo
un lungo periodo di sentito impegno nel femminismo, nella politica italiana, nelle
istituzioni, la Gramaglia ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di promozione
dei diritti. Già dalle prime pagine del testo, è possibile comprendere quale sia l’obiettivo
dell’autrice: dipingere e diffondere un’immagine del contesto geografico indiano che sia
il più possibile oggettiva e comprensiva di tutte le caratteristiche che connotano questa
antica e complessa cultura, mediante il continuo riferimento alla fase della sua vita
dedita allo studio della società indiana. In quanto attenta e coscienziosa “osservatrice
partecipante”, la Gramaglia si lascia coinvolgere dal nuovo sistema culturale,
assimilandone il funzionamento, e condividendone pienamente gli assunti ideologici che
ne strutturano le fondamenta: “Ma io coltivo anche il mio giardino. Lascio che le
indiane e gli indiani mi cambino e mi facciano apprendere. Da quando la vista mi si è un
po’ appannata sono soprattutto alla ricerca di buoni occhiali. Per guardare meglio il mio
paese domani. Magari con gli occhi resi più precisi dalla lontananza con cui di solito
guardiamo solo i paesi degli altri”.
La prima sezione contiene alcuni riferimenti prettamente autobiografici, finalizzati
a fornire le prime notazioni circa le motivazioni sottostanti allo scritto. Nello specifico,
l’autrice lavora in Gujarat con Sewa (Self Employed Women’s Association), l’unico
grande sindacato autonomo di donne del mondo, con un milione di iscritte e
un’organizzazione figlia del femminismo, oltre che del movimento sindacale:
l’ambizioso programma di questo ente riguarda un progetto di alfabetizzazione e
formazione in un paese dove circa metà della popolazione femminile è ancora
analfabeta. Ed ancora, in Tamil Nadu, insieme agli altri sindacati confederali italiani,
alla Confindustria e al consorzio europeo Solidar, M. G. collabora alla ricostruzione di
un lembo di costa devastata dallo tsunami. Il suo è un diario di vita, di ricerca, di lavoro.
Per evidenziare l’incremento dell’importanza e della rilevanza della posizione che il
subcontinente indiano progressivamente sta occupando nel più ampio dibattito
mondiale, e per sottolineare la necessità di costruire e promuovere un’immagine
4
dell’India che rifletta in modo più pertinente la sua reale identità, l’autrice cita due
diverse opere che si caratterizzano per il presentare descrizioni dell’area indiana
totalmente opposte tra loro. La prima, India, il paradiso dei giovani, di Federico
Rampini, presenta un paese idillico, un “paradiso di speranze”, che si distingue per “la
vivacità del dibattito culturale, il gusto che permane della ricerca filosofica e spirituale,
la grazia e la mitezza delle persone, la struttura democratica dello Stato e delle
istituzioni, la mancanza di risentimenti anticoloniali, anzi il piacere della libertà, ma
anche dell’amicizia fra pari, nel confronto con gli occidentali”. La seconda, L’India
brucia, di Arundhati Roy, al contrario, dipinge un paese sull’orlo della guerra civile.
Nelle parole dell’autrice, nessuna delle due descrizioni risulta simile alla nazione nella
quale ha vissuto e nella quale sta tuttora vivendo. Per questo motivo, è necessario
presentare un quadro più oggettivo ed attinente rispetto alla reale situazione indiana.
A questo punto, l’autrice rivolge la sua attenzione a ciò che ha osservato, e che
osserva ancora nel momento in cui elabora lo scritto in analisi, in quanto esploratrice di
una terra a lei ignota: “i figli della folla”, definiti tali da Gandhi, nei loro contesti
abitativi e nei capannoni industriali; bambini di dieci anni che perdono la vista a causa
degli acidi presenti nelle ferriere in cui sono costretti a lavorare. L’India viene descritta
come “democrazia politica piena e universale”, come orientata verso un “neoliberismo
senza welfare”, strutturata solidamente in termini di coesione e compattezza dei sui
abitanti grazie al politeismo, ma, allo stesso tempo, turbata dalla lunga e tenace
tradizione d’odio e di intolleranza propria dello sciovinismo. Le precarie condizioni
economiche, i bassi livelli di sviluppo generale, i problemi legati all’esclusione sociale
ed alla sofferenza di alcune categorie, tuttavia, rendono necessario un intervento
tempestivo. Nelle parole dell’autrice, occorre operare nella direzione di un
miglioramento della situazione indiana e “lavorare per noi e per loro
contemporaneamente alla consapevolezza che la democrazia muore se non viene
nutrita”.
Inizia quindi il racconto concreto dell’esperienza di M. Gramaglia, a partire
dall’analisi del contesto geografico e delle criticità che lo caratterizzano. Nello
specifico, quello della scarsezza d’acqua è il grande dramma dell’India povera e
contadina, ma anche delle classi privilegiate: “l’acqua arriva per due ore al mattino,
dalle sette alle nove, e poi basta. Non è buona né per bere, né per cucinare”.
5
L’abitazione presso cui alloggia l’autrice è collocata ad Ahmedabad, una città di oltre
cinque milioni di abitanti. Fornite queste prime notazioni di carattere descrittivo,
finalizzate a far immedesimare il lettore nell’ambiente ideologico e contestuale
nell’ambito del quale si sviluppa la costruzione del racconto, prende avvio un’attenta
disamina del Sewa, il sindacato autonomo di donne per il quale la Gramaglia lavora su
incarico di Progetto Sviluppo, l’organizzazione non governativa per la cooperazione
internazionale che fa capo alla Cgil. Il Self Employed Women’s Association è un
sindacato “senza classe operaia ”, ma anche un movimento di massa di donne con
700.000 iscritte nel solo Gujarat, la regione di Ahmedabad è infatti il punto di forza di
Sewa, e altre 300.000 circa nel resto dell’India. L’autrice sottolinea che pur essendo
“una creatura tutta indiana”, il Sewa non è affatto provinciale, ma ha contatti e
riconoscimenti in tutto il mondo. Le donne iscritte al movimento rientrano in diverse
categorie lavorative: stampatrici di tessuti, operaie edili, fabbre ferraie, venditrici di
frutta, lavandaie. A causa dell’alto tasso di analfabetismo femminile (50% circa),
l’associazione è particolarmente attenta alla “pedagogia della dignità” ed alla
salvaguardia dei diritti delle lavoratrici.
Sewa si comporta come un sindacato classico cui appartengono lavoratrici molto
povere e con la necessità di non interrompere il lavoro: “sensibilizza le donne, le
mobilita, organizza manifestazioni, apre vertenze con i padroni e le convince a ritardare
la restituzione della merce trasformata fino a vertenza finita”. Esposte le finalità
principali del Sewa, viene delineata una breve ricostruzione storica delle vicende che
hanno concorso alla fondazione dell’ente, a partire dall’eredità spirituale ed ideologica
di Gandhi fino ai contributi ed agli sviluppi più recenti. In particolare, nel 1968, dopo
tredici anni di impegno nel Tla, emerge una leader di livello nazionale, Ela Bhatt, che
comincia a studiare le tipologie di iscritte al Sewa. Con la scoperta delle differenze di
genere, nell’ambito delle operazioni di credito, a causa dell’introduzione della
possibilità per i poveri di chiedere un prestito alla Bank of India, si assiste ad un
incremento delle attività degli usurai ai quali si rivolgono quelli che non riescono a
restituire autonomamente le cifre ricevute dalla banca. Pertanto, nel 1974 Sewa fonda la
sua banca per il risparmio e il microcredito alle donne povere. Una delle tragedie contro
cui Sewa si batte è la devastazione della vita dei poveri da parte dell’usura.
6
Nel 1990 nasce l’Academy, l’istituto di formazione di Sewa, che costituisce un
importante strumento di potenziamento del livello culturale generale della popolazione
femminile indiana: “dai corsi di alfabetizzazione a quelli di formazione politica, al
training per qualificare le levatrici di villaggio, all’educazione alla salute negli slum, al
recupero scolastico delle ragazzine costrette a restare a casa a badare ai fratelli più
piccoli, alla formazione informatica per le più giovani, a quella economica (per quanto
semplice) per le attiviste che si occupano della banca e delle assicurazioni”. Dopo aver
indicato le principali finalità del sindacato, l’autrice racconta il suo incontro con Ela
Bhatt, fondatrice di Sewa, che tuttavia dal 1994 non ricopre più l’incarico di segretaria
generale dell’associazione.
Ela Bhatt, leader per il movimento femminista e sindacale di tutto il mondo,
nonché membro del parlamento federale, è autrice della più importante inchiesta
parlamentare sulle donne dell’India indipendente. Vengono riportate le parole della
fondatrice di Sewa, la quale, in pieno accordo con l’autrice, espone il suo punto di vista
sul ruolo e sulle potenzialità delle donne indiane e sull’ideologia femminista:
“Femminismo per me significa credere nella profonda uguaglianza della differenza. Se
penso al mondo dal punto di vista dello sviluppo e della povertà, penso che le donne
sono le leader dello sviluppo. Sul piano delle relazioni internazionali concrete, per me è
stato decisivo il rapporto con i sindacati. Il nostro ruolo nel movimento sindacale oggi è
riconosciuto ovunque, a livello federale indiano come nelle assise internazionali. Siamo
state noi a porre in quelle sedi il problema del lavoro informale, del lavoro non tutelato.
Il 50 % della massa di questi lavoratori, i più poveri del mondo, è costituito da donne”.
A sostegno di questa ideologia, la Gramaglia pone una serie di drammatici racconti
finalizzati a descrivere le condizioni di povertà e degrado nelle quali le indiane degli
slum sono costrette a vivere, ed a mettere in evidenza le capacità di adattamento e la
forza interiore che le contraddistinguono. Nello specifico, viene esposta la missione di
Chanchalma, la levatrice del villaggio di Pasunj, impegnata nell’assistenza delle donne
incinte e delle puerpere. Sewa ha dato vita, insieme ad altre associazioni, ad un progetto
a sostegno delle dai (levatrici) al fine di renderle effettive operatrici sanitarie di base.
Queste sono costrette a lavorare negli slum in condizioni igieniche estremamente
precarie senza potersi servire di adeguate attrezzature mediche. In particolare, lo slum
ricalca la struttura del villaggio, imitandone i moduli in maniera impoverita: “abitazioni
7
a quadrilatero, area interna per gli animali e gli attrezzi per i lavori a domicilio di fabbri,
di tessitori, di tintori, cortili comuni per affiancare i charpoi (brande di legno) quando il
caldo nelle capanne anguste diventa insopportabile, pozzi e minuscoli templi, talvolta
poco più grandi del seggiolino di un bimbo, ma frequentemente ridipinti di fresco in
colori accesi e contrastanti con quelli delle case, quasi a sottolineare cromaticamente la
rilevanza simbolica del sacro”. Negli slum è possibile incontrare le sigaraie di bidi, la
sigaretta indiana dei poveri prodotte da donne e bambini, costretti in tal modo a
respirare continuamente polvere di tabacco con relativa esposizione al rischio
tubercolosi. In questo ambiente di lavoro, Sewa ha condotto lotte epiche, ottenendo che
il salario minimo venisse effettivamente applicato, divenendo l’autorità garante per il
rilascio e l’autenticità delle carte di lavoro, istituendo un centro medico per la
prevenzione e la cura delle malattie legate al lavoro. In India le donne si ammalano
molto facilmente, a causa di numerosi fattori legati all’ambiente ed alle condizioni di
degrado generale in cui esse sono costrette a vivere: “Qui la tubercolosi non conosce
distanze metaforiche. È presente, angosciosa, è la malattia più diffusa per la quale si
muore e, al momento, ha aggredito in maniera conclamata un numero imprecisato di
persone, di cui trecento (sembrano un’enormità, ma forse sono pochissime rispetto ai
malati che nessuno riesce a raggiungere) vengono curate dal centro specializzato gestito,
assieme ad altri nove in città, da Sewa”.
Il Rann del Kachchh, il “deserto di sale” del quale vengono descritte le
caratteristiche principali, funge da scenario per l’esposizione di una serie di interventi di
recupero di Balasar, piccolo borgo confinate con il deserto, strutturato dalla
cooperazione italiana dopo il terremoto del 26 gennaio 2001: Movimondo è appunto un
programma di agricoltura sostenibile per undici villaggi che si propone di far
condividere ai contadini banche di sementi, di sostenere l’agricoltura, di favorire i
gruppi di risparmio e microcredito bancario. Una breve sosta a Nilpar, dove è presente
una grande scuola gestita dal Gss (Associazione per l’autogoverno locale), consente
all’autrice di assistere alla Raksha Bandhan, la festa di fratello e sorella, nell’ambito
della quale maschi e femmine si scambiano un braccialetto di stoffa in segno di
reciproca protezione. In tal modo, la Gramaglia offre al lettore la possibilità di avere una
visione completa della cultura indiana, anche in termini di riti, simboli, usi e costumi.
8
Una sezione ricca di riferimenti storici, culturali, politici e sociali è altresì quella
dedicata alla figura di Gandhi, guida spirituale e punto di riferimento per l’intero popolo
dell’India antica e moderna. Tuttavia, i seguaci della destra induista, nelle parole
dell’autrice, hanno sempre, più o meno silenziosamente, detestato Gandhi ed il suo
ecumenismo etnico-spirituale. Invece, nell’India ricca e disinvolta egli rappresenta
“un’icona postmoderna, deterritorializzata: promuove l’orgoglio nazionale, ma
promuove anche il business”. Sonia Gandhi ha ottenuto che il 2 ottobre di ogni anno,
l’Onu festeggi l’anniversario della nascita del padre della non-violenza, avvenuta nel
1869, con una giornata mondiale dedicata alla pace. Nello stesso tempo, però, il
marchio “Gandhi” è in vendita sul mercato mondiale: “lo ha comprato l’agenzia
americana CMG Worldwide, che detiene i diritti anche su altre icone mondiali, e lo ha
già venduto a Telecom Italia, che ne ha addobbato per mesi la scalinata di Trinità dei
Monti a Roma, e alla Apple americana”. Quindi, si disegna a grandi linee la mappa della
destra indiana: il BJP (Bharatiya Janata Party: Partito del popolo indiano) è
l’espressione politica e istituzionale della destra indiana; il VHP (Vishwa Hindu
Parishad: Consiglio mondiale degli hindu) ne è l’anima religiosa; la RSS,
un’organizzazione parlamentare diffusa tra i giovani che amano la disciplina e gli
esercizi ginnici, che esprime il radicalismo politico diffuso del movimento.
A questo punto, la narrazione inizia a contestualizzarsi, in termini di cornice
cronologica, in epoche più recenti, focalizzandosi su problemi e tematiche dell’India
contemporanea. Dunque, un’analisi di tipo diacronico, finalizzata all’esposizione dei
tratti peculiari del subcontinente assunti nel tempo, ed allo stesso tempo un’indagine
esplorativa di tipo sincronico, atta a verificare l’eventuale risoluzione delle diverse
questioni affrontate, nonché l’emergere di ulteriori elementi di criticità.
Nello specifico, l’autrice fa riferimento alla tragedia dello tsunami che, in quel
tragico 26 dicembre del 2004, provocò la morte di decine di migliaia di persone, e la cui
minaccia tuttora incombe a Velanganni, nel distretto di Nagapattinam. Pur avendo
rappresentato un fenomeno dalle indescrivibili capacità distruttive, pur avendo segnato
indelebilmente i sopravvissuti nel corpo e nell’anima, tuttavia, il ricordo dello tsunami è
anche un punto di svolta che dà forza: molte donne hanno scoperto il valore della
solidarietà, hanno imparato a fare affidamento sulle proprie forze senza dover dipendere
dal marito, hanno raggiunto uno status di indipendenza ed emancipazione. Particolare
9
rilevanza è data alla sfera religiosa, attraverso descrizioni emotivamente coinvolgenti e
particolareggiate. Nell’area di Nagapattinam ed in tutto il Sud dell’India, regna
un’atmosfera di preghiera, di raccoglimento, di alta religiosità legata ai simboli dei riti e
della tradizione: “le religioni si intrecciano e si mescolano in una strana comune koinè,
fatta di devozione, talvolta di evidente superstizione, ma anche di apertura allo stupore
verso il mondo e di autentica spiritualità”. Ciò fa da sfondo alla descrizione del tempio
di Madurai ed alle attività ad esso connesse.
In India il rapporto che lega l’individuo alla preghiera è intimo, costante ed
imperituro, si connota per una coloritura panteistica che accompagna ogni singolo gesto.
Il fulcro della fede jain è la non violenza fino al limite estremo, la sconfinata
compassione per ogni essere vivente, il sentimento di connessione ad un prossimo senza
confini geografici o biologici. L’attenzione si sposta poi su Phoolan Devi, “regina dei
banditi”, una contadina analfabeta la cui determinazione ha costituto un esempio
emblematico del potenziale rivoluzionario delle donne, poiché, nelle parole dell’autrice,
“per due anni, dal 1981 al 1983, tenne in sacco con suoi uomini la polizia federale,
trattò la resa sua e della banda sotto la protezione del ritratto della dea Durga, di fronte a
una folla di settemila seguaci, e riuscì persino, dopo dieci anni di carcere, ad essere
eletta in parlamento prima di venire assassinata, probabilmente per vendetta, nel 2001”.
Alquanto complessa è la situazione delle donne indiane dal punto di vista politico e
socioculturale. Infatti, le quote di rappresentanza femminile non sono riuscite a vincere
l’arcaico maschilismo che connota tuttora il potere locale. I giudici delle corti statali e
federali spesso intervenire al fine di limitare gli abusi di potere dei sarpanch (presidenti
dei consigli locali) che, nelle zone più arretrate, vengono considerati capi tribù
autorizzati anche a comminare pene severe. M. Gramaglia nota come le donne si
caratterizzino per un’insita proprietà tipica del loro genere, ossia la non riducibilità in
gruppo e quindi a problema sociale, “a pura rappresentanza cangiante di interessi”.
Un altro cardine della cultura indiana, quello della comunicazione del corpo
attraverso simboli condivisi, viene preso in analisi dall’autrice in termini di aderenza
delle donne alle regole ed ai canoni di cura ed ornamento dei propri corpi, secondo
criteri socialmente determinati: “In India il corpo è una foresta di simboli. L’abito lo
orna, lo copre, lo disegna socialmente, ne codifica il pudore, ma non lo umilia”. Il sari,
l’abito delle donne indiane, la tikka, il tipico punto rosso posto sulla fronte che indica il
10
loro essere sposate, gli anelli e le cavigliere d’argento, segni di possesso che alludono al
dominio dell’uomo, rappresentano solo alcuni dei numerosi codici di comunicazione del
corpo nella cultura indiana.
AUGUSTO COCORULLO - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” -
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI - DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE
SOCIALI E STATISTICHE - XXIX CICLO
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Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo - Mariella Gramaglia

  • 1. Mariella Gramaglia Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo
  • 2. Titolo: Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo. Autore: Mariella Gramaglia Editore: Donzelli Pubblicazione: 2008 Pagine: 218 Biografia (Da Ordito e trama, il blog di Mariella Gramaglia) Mi chiamo Mariella Gramaglia, sono nata a Ivrea e mi sono laureata in filosofia nel 1972. Tra Palazzo Campana, Mirafiori, Vanchiglia e Palazzo Nuovo ho visto molte albe lungo i viali e sotto i portici, quando Torino era fiammeggiante di molte passioni, ma non ancora swinging. Poi Roma e il femminismo, la grande scoperta della mia vita: quando i cuori delle donne hanno cominciato a cantare solo quando ne avevano voglia loro. Insieme alla politica ho cominciato il lavoro giornalistico: al manifesto, alla Rai, al Lavoro, nelle riviste e infine a Noidonne, come direttrice nel 1985. Intanto nascevano due figli: Maddalena e Michele. Oggi due adulti, con dei bei sorrisi e due teste piene di idee. Nel 1987 sono stata eletta al Parlamento Italiano nella sinistra indipendente. Dai banchi della Camera ho visto qualche transatlantico della prima repubblica abbandonare gli ormeggi e qualcun altro restare saldamente alla fonda, ho visto cadere il muro di Berlino e spiegare al vento le bandiere bucate proprio là dove stavano gli odiati simboli del comunismo. Ho accompagnato convinta Occhetto nell’avventura della nascita del Pds. Dal 1994 mi sono misurata con il governo locale. Tredici anni al Comune di Roma, prima con Francesco Rutelli con compiti manageriali, poi con Walter Veltroni, di nuovo nella politica come assessore. Ho lavorato tanto, con quella fatica artigiana e quotidiana che difficilmente si pratica altrettanto in altri ruoli politici. L’elenco tecnico delle cose fatte per cercare di semplificare la vita dei cittadini, comunicare con loro e ascoltare il loro punto di vista, sarebbe lungo e noioso. Quello che conta è la sostanza: la consapevolezza vissuta che i diritti dei cittadini non si esercitano solo una volta ogni cinque anni per votare, ma sono il sale della democrazia ogni giorno. E che la loro dignità, la loro uscita dal ruolo di sudditi o di clientes, è uno straordinario valore per il quale impegnarsi. Oggi, maggio 2007, lasciato il mio incarico di assessore, comincia una nuova storia. Vado in India, ad Ahmedabad, Gujarat, a collaborare con Sewa, un importante sindacato autonomo di donne, su incarico di Progetto Sviluppo e della Cgil. 2
  • 3. Dico solo che non sto scappando né dall’impegno, né dalla politica, che non ho una personalità particolarmente eroica o spericolata e che mi sto facendo un bellissimo regalo di libertà. Abstract Un proverbio indiano recita: «qualunque cosa tu dica dell’India, è sempre vero anche il suo contrario». Schiacciati da tanta complessità, noi occidentali abbiamo spesso scelto di racchiudere un oceano sconfinato di differenze nelle piccole ampolle dei nostri stereotipi. La spiritualità esercitata fino allo sfinimento, il fatalismo arreso di fronte al dolore di vivere, il furore primitivo delle mille rivolte di comunità e gruppi religiosi, la povertà estrema sopportata dagli umili e inflitta dai potenti come un destino. Finché, con gli anni novanta, ecco farsi strada prepotentemente nell’immaginario occidentale l’ultimo dei clichés: l’India sfavillante, l’India che cresce, l’India del Pil da primato, la terra delle stelle di Bollywood, dei miliardari in dollari, dei supermanager dell’informatica neppure trentenni. Un’immensa minoranza, di oltre cento milioni di persone, fa tendenza nel mondo. Ma intanto, l’altra India, quella degli ottocento milioni di esseri umani che vivono con un dollaro al giorno, quella dell’analfabetismo femminile di poco inferiore al 50%, è rimasta uguale a se stessa? Mariella Gramaglia è vissuta un anno nel subcontinente. Dopo un lungo impegno nel femminismo, nella politica italiana e nelle istituzioni, ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di promozione dei diritti. Lavora in Gujarat, con Sewa (Self Employed Women’s Association), l’unico sindacato autonomo di donne nel mondo che conta un milione di iscritte, e in Tamil Nadu, dove ferve la ricostruzione dopo lo tsunami. Il suo è un diario di vita, di ricerca, di lavoro. Attraverso incontri, sguardi di donne e uomini, vicende pubbliche e dettagli della vita quotidiana, cerca di saggiare la temperatura del suo legame con l’India e della sua comprensione di quel mondo. Non nega né la modernità, né la speranza, ma le affida, più che alla borsa di Mumbai, al coraggio delle tante e dei tanti che si battono per la loro dignità. 3
  • 4. Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo Indiana è la trasposizione in forma di racconto di un’esperienza di vita di Mariella Gramaglia. L’autrice del libro riporta in forma scritta pensieri, suggestioni, considerazioni ed insegnamenti che derivano da un anno di permanenza in India, e che hanno determinato un mutamento del suo modo di vedere e percepire il mondo. Dopo un lungo periodo di sentito impegno nel femminismo, nella politica italiana, nelle istituzioni, la Gramaglia ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di promozione dei diritti. Già dalle prime pagine del testo, è possibile comprendere quale sia l’obiettivo dell’autrice: dipingere e diffondere un’immagine del contesto geografico indiano che sia il più possibile oggettiva e comprensiva di tutte le caratteristiche che connotano questa antica e complessa cultura, mediante il continuo riferimento alla fase della sua vita dedita allo studio della società indiana. In quanto attenta e coscienziosa “osservatrice partecipante”, la Gramaglia si lascia coinvolgere dal nuovo sistema culturale, assimilandone il funzionamento, e condividendone pienamente gli assunti ideologici che ne strutturano le fondamenta: “Ma io coltivo anche il mio giardino. Lascio che le indiane e gli indiani mi cambino e mi facciano apprendere. Da quando la vista mi si è un po’ appannata sono soprattutto alla ricerca di buoni occhiali. Per guardare meglio il mio paese domani. Magari con gli occhi resi più precisi dalla lontananza con cui di solito guardiamo solo i paesi degli altri”. La prima sezione contiene alcuni riferimenti prettamente autobiografici, finalizzati a fornire le prime notazioni circa le motivazioni sottostanti allo scritto. Nello specifico, l’autrice lavora in Gujarat con Sewa (Self Employed Women’s Association), l’unico grande sindacato autonomo di donne del mondo, con un milione di iscritte e un’organizzazione figlia del femminismo, oltre che del movimento sindacale: l’ambizioso programma di questo ente riguarda un progetto di alfabetizzazione e formazione in un paese dove circa metà della popolazione femminile è ancora analfabeta. Ed ancora, in Tamil Nadu, insieme agli altri sindacati confederali italiani, alla Confindustria e al consorzio europeo Solidar, M. G. collabora alla ricostruzione di un lembo di costa devastata dallo tsunami. Il suo è un diario di vita, di ricerca, di lavoro. Per evidenziare l’incremento dell’importanza e della rilevanza della posizione che il subcontinente indiano progressivamente sta occupando nel più ampio dibattito mondiale, e per sottolineare la necessità di costruire e promuovere un’immagine 4
  • 5. dell’India che rifletta in modo più pertinente la sua reale identità, l’autrice cita due diverse opere che si caratterizzano per il presentare descrizioni dell’area indiana totalmente opposte tra loro. La prima, India, il paradiso dei giovani, di Federico Rampini, presenta un paese idillico, un “paradiso di speranze”, che si distingue per “la vivacità del dibattito culturale, il gusto che permane della ricerca filosofica e spirituale, la grazia e la mitezza delle persone, la struttura democratica dello Stato e delle istituzioni, la mancanza di risentimenti anticoloniali, anzi il piacere della libertà, ma anche dell’amicizia fra pari, nel confronto con gli occidentali”. La seconda, L’India brucia, di Arundhati Roy, al contrario, dipinge un paese sull’orlo della guerra civile. Nelle parole dell’autrice, nessuna delle due descrizioni risulta simile alla nazione nella quale ha vissuto e nella quale sta tuttora vivendo. Per questo motivo, è necessario presentare un quadro più oggettivo ed attinente rispetto alla reale situazione indiana. A questo punto, l’autrice rivolge la sua attenzione a ciò che ha osservato, e che osserva ancora nel momento in cui elabora lo scritto in analisi, in quanto esploratrice di una terra a lei ignota: “i figli della folla”, definiti tali da Gandhi, nei loro contesti abitativi e nei capannoni industriali; bambini di dieci anni che perdono la vista a causa degli acidi presenti nelle ferriere in cui sono costretti a lavorare. L’India viene descritta come “democrazia politica piena e universale”, come orientata verso un “neoliberismo senza welfare”, strutturata solidamente in termini di coesione e compattezza dei sui abitanti grazie al politeismo, ma, allo stesso tempo, turbata dalla lunga e tenace tradizione d’odio e di intolleranza propria dello sciovinismo. Le precarie condizioni economiche, i bassi livelli di sviluppo generale, i problemi legati all’esclusione sociale ed alla sofferenza di alcune categorie, tuttavia, rendono necessario un intervento tempestivo. Nelle parole dell’autrice, occorre operare nella direzione di un miglioramento della situazione indiana e “lavorare per noi e per loro contemporaneamente alla consapevolezza che la democrazia muore se non viene nutrita”. Inizia quindi il racconto concreto dell’esperienza di M. Gramaglia, a partire dall’analisi del contesto geografico e delle criticità che lo caratterizzano. Nello specifico, quello della scarsezza d’acqua è il grande dramma dell’India povera e contadina, ma anche delle classi privilegiate: “l’acqua arriva per due ore al mattino, dalle sette alle nove, e poi basta. Non è buona né per bere, né per cucinare”. 5
  • 6. L’abitazione presso cui alloggia l’autrice è collocata ad Ahmedabad, una città di oltre cinque milioni di abitanti. Fornite queste prime notazioni di carattere descrittivo, finalizzate a far immedesimare il lettore nell’ambiente ideologico e contestuale nell’ambito del quale si sviluppa la costruzione del racconto, prende avvio un’attenta disamina del Sewa, il sindacato autonomo di donne per il quale la Gramaglia lavora su incarico di Progetto Sviluppo, l’organizzazione non governativa per la cooperazione internazionale che fa capo alla Cgil. Il Self Employed Women’s Association è un sindacato “senza classe operaia ”, ma anche un movimento di massa di donne con 700.000 iscritte nel solo Gujarat, la regione di Ahmedabad è infatti il punto di forza di Sewa, e altre 300.000 circa nel resto dell’India. L’autrice sottolinea che pur essendo “una creatura tutta indiana”, il Sewa non è affatto provinciale, ma ha contatti e riconoscimenti in tutto il mondo. Le donne iscritte al movimento rientrano in diverse categorie lavorative: stampatrici di tessuti, operaie edili, fabbre ferraie, venditrici di frutta, lavandaie. A causa dell’alto tasso di analfabetismo femminile (50% circa), l’associazione è particolarmente attenta alla “pedagogia della dignità” ed alla salvaguardia dei diritti delle lavoratrici. Sewa si comporta come un sindacato classico cui appartengono lavoratrici molto povere e con la necessità di non interrompere il lavoro: “sensibilizza le donne, le mobilita, organizza manifestazioni, apre vertenze con i padroni e le convince a ritardare la restituzione della merce trasformata fino a vertenza finita”. Esposte le finalità principali del Sewa, viene delineata una breve ricostruzione storica delle vicende che hanno concorso alla fondazione dell’ente, a partire dall’eredità spirituale ed ideologica di Gandhi fino ai contributi ed agli sviluppi più recenti. In particolare, nel 1968, dopo tredici anni di impegno nel Tla, emerge una leader di livello nazionale, Ela Bhatt, che comincia a studiare le tipologie di iscritte al Sewa. Con la scoperta delle differenze di genere, nell’ambito delle operazioni di credito, a causa dell’introduzione della possibilità per i poveri di chiedere un prestito alla Bank of India, si assiste ad un incremento delle attività degli usurai ai quali si rivolgono quelli che non riescono a restituire autonomamente le cifre ricevute dalla banca. Pertanto, nel 1974 Sewa fonda la sua banca per il risparmio e il microcredito alle donne povere. Una delle tragedie contro cui Sewa si batte è la devastazione della vita dei poveri da parte dell’usura. 6
  • 7. Nel 1990 nasce l’Academy, l’istituto di formazione di Sewa, che costituisce un importante strumento di potenziamento del livello culturale generale della popolazione femminile indiana: “dai corsi di alfabetizzazione a quelli di formazione politica, al training per qualificare le levatrici di villaggio, all’educazione alla salute negli slum, al recupero scolastico delle ragazzine costrette a restare a casa a badare ai fratelli più piccoli, alla formazione informatica per le più giovani, a quella economica (per quanto semplice) per le attiviste che si occupano della banca e delle assicurazioni”. Dopo aver indicato le principali finalità del sindacato, l’autrice racconta il suo incontro con Ela Bhatt, fondatrice di Sewa, che tuttavia dal 1994 non ricopre più l’incarico di segretaria generale dell’associazione. Ela Bhatt, leader per il movimento femminista e sindacale di tutto il mondo, nonché membro del parlamento federale, è autrice della più importante inchiesta parlamentare sulle donne dell’India indipendente. Vengono riportate le parole della fondatrice di Sewa, la quale, in pieno accordo con l’autrice, espone il suo punto di vista sul ruolo e sulle potenzialità delle donne indiane e sull’ideologia femminista: “Femminismo per me significa credere nella profonda uguaglianza della differenza. Se penso al mondo dal punto di vista dello sviluppo e della povertà, penso che le donne sono le leader dello sviluppo. Sul piano delle relazioni internazionali concrete, per me è stato decisivo il rapporto con i sindacati. Il nostro ruolo nel movimento sindacale oggi è riconosciuto ovunque, a livello federale indiano come nelle assise internazionali. Siamo state noi a porre in quelle sedi il problema del lavoro informale, del lavoro non tutelato. Il 50 % della massa di questi lavoratori, i più poveri del mondo, è costituito da donne”. A sostegno di questa ideologia, la Gramaglia pone una serie di drammatici racconti finalizzati a descrivere le condizioni di povertà e degrado nelle quali le indiane degli slum sono costrette a vivere, ed a mettere in evidenza le capacità di adattamento e la forza interiore che le contraddistinguono. Nello specifico, viene esposta la missione di Chanchalma, la levatrice del villaggio di Pasunj, impegnata nell’assistenza delle donne incinte e delle puerpere. Sewa ha dato vita, insieme ad altre associazioni, ad un progetto a sostegno delle dai (levatrici) al fine di renderle effettive operatrici sanitarie di base. Queste sono costrette a lavorare negli slum in condizioni igieniche estremamente precarie senza potersi servire di adeguate attrezzature mediche. In particolare, lo slum ricalca la struttura del villaggio, imitandone i moduli in maniera impoverita: “abitazioni 7
  • 8. a quadrilatero, area interna per gli animali e gli attrezzi per i lavori a domicilio di fabbri, di tessitori, di tintori, cortili comuni per affiancare i charpoi (brande di legno) quando il caldo nelle capanne anguste diventa insopportabile, pozzi e minuscoli templi, talvolta poco più grandi del seggiolino di un bimbo, ma frequentemente ridipinti di fresco in colori accesi e contrastanti con quelli delle case, quasi a sottolineare cromaticamente la rilevanza simbolica del sacro”. Negli slum è possibile incontrare le sigaraie di bidi, la sigaretta indiana dei poveri prodotte da donne e bambini, costretti in tal modo a respirare continuamente polvere di tabacco con relativa esposizione al rischio tubercolosi. In questo ambiente di lavoro, Sewa ha condotto lotte epiche, ottenendo che il salario minimo venisse effettivamente applicato, divenendo l’autorità garante per il rilascio e l’autenticità delle carte di lavoro, istituendo un centro medico per la prevenzione e la cura delle malattie legate al lavoro. In India le donne si ammalano molto facilmente, a causa di numerosi fattori legati all’ambiente ed alle condizioni di degrado generale in cui esse sono costrette a vivere: “Qui la tubercolosi non conosce distanze metaforiche. È presente, angosciosa, è la malattia più diffusa per la quale si muore e, al momento, ha aggredito in maniera conclamata un numero imprecisato di persone, di cui trecento (sembrano un’enormità, ma forse sono pochissime rispetto ai malati che nessuno riesce a raggiungere) vengono curate dal centro specializzato gestito, assieme ad altri nove in città, da Sewa”. Il Rann del Kachchh, il “deserto di sale” del quale vengono descritte le caratteristiche principali, funge da scenario per l’esposizione di una serie di interventi di recupero di Balasar, piccolo borgo confinate con il deserto, strutturato dalla cooperazione italiana dopo il terremoto del 26 gennaio 2001: Movimondo è appunto un programma di agricoltura sostenibile per undici villaggi che si propone di far condividere ai contadini banche di sementi, di sostenere l’agricoltura, di favorire i gruppi di risparmio e microcredito bancario. Una breve sosta a Nilpar, dove è presente una grande scuola gestita dal Gss (Associazione per l’autogoverno locale), consente all’autrice di assistere alla Raksha Bandhan, la festa di fratello e sorella, nell’ambito della quale maschi e femmine si scambiano un braccialetto di stoffa in segno di reciproca protezione. In tal modo, la Gramaglia offre al lettore la possibilità di avere una visione completa della cultura indiana, anche in termini di riti, simboli, usi e costumi. 8
  • 9. Una sezione ricca di riferimenti storici, culturali, politici e sociali è altresì quella dedicata alla figura di Gandhi, guida spirituale e punto di riferimento per l’intero popolo dell’India antica e moderna. Tuttavia, i seguaci della destra induista, nelle parole dell’autrice, hanno sempre, più o meno silenziosamente, detestato Gandhi ed il suo ecumenismo etnico-spirituale. Invece, nell’India ricca e disinvolta egli rappresenta “un’icona postmoderna, deterritorializzata: promuove l’orgoglio nazionale, ma promuove anche il business”. Sonia Gandhi ha ottenuto che il 2 ottobre di ogni anno, l’Onu festeggi l’anniversario della nascita del padre della non-violenza, avvenuta nel 1869, con una giornata mondiale dedicata alla pace. Nello stesso tempo, però, il marchio “Gandhi” è in vendita sul mercato mondiale: “lo ha comprato l’agenzia americana CMG Worldwide, che detiene i diritti anche su altre icone mondiali, e lo ha già venduto a Telecom Italia, che ne ha addobbato per mesi la scalinata di Trinità dei Monti a Roma, e alla Apple americana”. Quindi, si disegna a grandi linee la mappa della destra indiana: il BJP (Bharatiya Janata Party: Partito del popolo indiano) è l’espressione politica e istituzionale della destra indiana; il VHP (Vishwa Hindu Parishad: Consiglio mondiale degli hindu) ne è l’anima religiosa; la RSS, un’organizzazione parlamentare diffusa tra i giovani che amano la disciplina e gli esercizi ginnici, che esprime il radicalismo politico diffuso del movimento. A questo punto, la narrazione inizia a contestualizzarsi, in termini di cornice cronologica, in epoche più recenti, focalizzandosi su problemi e tematiche dell’India contemporanea. Dunque, un’analisi di tipo diacronico, finalizzata all’esposizione dei tratti peculiari del subcontinente assunti nel tempo, ed allo stesso tempo un’indagine esplorativa di tipo sincronico, atta a verificare l’eventuale risoluzione delle diverse questioni affrontate, nonché l’emergere di ulteriori elementi di criticità. Nello specifico, l’autrice fa riferimento alla tragedia dello tsunami che, in quel tragico 26 dicembre del 2004, provocò la morte di decine di migliaia di persone, e la cui minaccia tuttora incombe a Velanganni, nel distretto di Nagapattinam. Pur avendo rappresentato un fenomeno dalle indescrivibili capacità distruttive, pur avendo segnato indelebilmente i sopravvissuti nel corpo e nell’anima, tuttavia, il ricordo dello tsunami è anche un punto di svolta che dà forza: molte donne hanno scoperto il valore della solidarietà, hanno imparato a fare affidamento sulle proprie forze senza dover dipendere dal marito, hanno raggiunto uno status di indipendenza ed emancipazione. Particolare 9
  • 10. rilevanza è data alla sfera religiosa, attraverso descrizioni emotivamente coinvolgenti e particolareggiate. Nell’area di Nagapattinam ed in tutto il Sud dell’India, regna un’atmosfera di preghiera, di raccoglimento, di alta religiosità legata ai simboli dei riti e della tradizione: “le religioni si intrecciano e si mescolano in una strana comune koinè, fatta di devozione, talvolta di evidente superstizione, ma anche di apertura allo stupore verso il mondo e di autentica spiritualità”. Ciò fa da sfondo alla descrizione del tempio di Madurai ed alle attività ad esso connesse. In India il rapporto che lega l’individuo alla preghiera è intimo, costante ed imperituro, si connota per una coloritura panteistica che accompagna ogni singolo gesto. Il fulcro della fede jain è la non violenza fino al limite estremo, la sconfinata compassione per ogni essere vivente, il sentimento di connessione ad un prossimo senza confini geografici o biologici. L’attenzione si sposta poi su Phoolan Devi, “regina dei banditi”, una contadina analfabeta la cui determinazione ha costituto un esempio emblematico del potenziale rivoluzionario delle donne, poiché, nelle parole dell’autrice, “per due anni, dal 1981 al 1983, tenne in sacco con suoi uomini la polizia federale, trattò la resa sua e della banda sotto la protezione del ritratto della dea Durga, di fronte a una folla di settemila seguaci, e riuscì persino, dopo dieci anni di carcere, ad essere eletta in parlamento prima di venire assassinata, probabilmente per vendetta, nel 2001”. Alquanto complessa è la situazione delle donne indiane dal punto di vista politico e socioculturale. Infatti, le quote di rappresentanza femminile non sono riuscite a vincere l’arcaico maschilismo che connota tuttora il potere locale. I giudici delle corti statali e federali spesso intervenire al fine di limitare gli abusi di potere dei sarpanch (presidenti dei consigli locali) che, nelle zone più arretrate, vengono considerati capi tribù autorizzati anche a comminare pene severe. M. Gramaglia nota come le donne si caratterizzino per un’insita proprietà tipica del loro genere, ossia la non riducibilità in gruppo e quindi a problema sociale, “a pura rappresentanza cangiante di interessi”. Un altro cardine della cultura indiana, quello della comunicazione del corpo attraverso simboli condivisi, viene preso in analisi dall’autrice in termini di aderenza delle donne alle regole ed ai canoni di cura ed ornamento dei propri corpi, secondo criteri socialmente determinati: “In India il corpo è una foresta di simboli. L’abito lo orna, lo copre, lo disegna socialmente, ne codifica il pudore, ma non lo umilia”. Il sari, l’abito delle donne indiane, la tikka, il tipico punto rosso posto sulla fronte che indica il 10
  • 11. loro essere sposate, gli anelli e le cavigliere d’argento, segni di possesso che alludono al dominio dell’uomo, rappresentano solo alcuni dei numerosi codici di comunicazione del corpo nella cultura indiana. AUGUSTO COCORULLO - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” - DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI - DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE SOCIALI E STATISTICHE - XXIX CICLO 11