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Parere
Oggetto: “Testo Unico sulla Rappresentanza”, convenuto da
Confindustria – Cgil, Cisl e Uil il 10 gennaio 2014 -

1. Premessa Mi si chiede di rilevare, ed illustrare, gli eventuali problemi di non
conformità alla Costituzione dell’accordo in oggetto, stipulato il 10
gennaio 2014, in attuazione ed a completamento dell’accordo
interconfederale sulle regole della contrattazione del 28 giugno 2011
e

del

protocollo

d’intesa

“in

materia

di

rappresentanza

e

rappresentatività” del 31 maggio 2013.
Il problema deve essere affrontato, anzitutto, con riferimento alla
legittimità dell’ intervento delle pattuizioni interconfederali sulla
materia in esse disciplinata, in relazione a quanto demandato al
legislatore dall’art. 39 Cost.
Dopo di che ci si soffermerà altresì su specifici aspetti disciplinati
dalle pattuizioni interconfederali medesime, sui quali sono stati
sollevati da taluni interrogativi di costituzionalità, e segnatamente:
sulla rappresentanza in azienda, anche alla luce della l. n. 300 del
1970; sulla soglia di rappresentatività per essere ammessi alle
trattative contrattuali; sulle clausole di raffreddamento o di tregua
sindacale, anche per rapporto al diritto di sciopero; e, infine, sulle
procedure arbitrali in attesa della disciplina dei contratti collettivi
nazionali nonché sulla Commissione Interconfederale permanente.

Via Chiossetto, 14 – 20122 Milano
tel + 39 02. 76317842 – fax +39 02796409 – E-mail info@studioangiolini.it
2. Sulla disciplina della libertà sindacale e della contrattazione
collettiva per accordo interconfederale, anziché per legge Da più parti, sebbene dubitativamente, si è sollevata la questione
che le pattuizioni del 10 gennaio 2014, le quali per la verità si
limitano come accennato ad attuare e completare gli accordi
interconfederali del 2011 e del 2013, avrebbero indebitamente invaso
spazi, se non riservati, demandati alla legge dall’art. 39 Cost.
In proposito, bisogna essere netti.
La giurisprudenza costituzionale, notoriamente, non ha mai ravvisato
nel principio di libertà del comma 1 dell’art. 39 Cost. un principio che
riservi inderogabilmente agli accordi tra le parti sociali determinate
materie, almeno in difetto di attuazione concreta dei comma 2, 3 e 4
dell’art. 39 Cost. stesso. La Corte costituzionale ha quindi, e
conseguentemente,

ammesso

come

legittimo

l’intervento

del

legislatore, anche al di fuori della stretta attuazione dei comma 2, 3 e
4 dell’art. 39 Cost., per la normativa “di sostegno” all’attività
sindacale, ancorché interferente con l’autonomia e la contrattazione
collettiva e purché, naturalmente, rispettosa in sé delle regole e dei
principi costituzionali.
Ma, nel contempo e per converso, la giurisprudenza non ha mai
censurato, in alcun modo, neppure la possibilità che le procedure ed
i contenuti della contrattazione collettiva, senza contraddire le
previsioni di legge ed in osservanza delle stesse, possano, come
possono, essere disciplinate da fonti pattizie e, in specie, da accordi
interconfederali.

2
E questo esito, del resto, è coerente con il criterio di lettura dell’art.
39

Cost.

che

ha

sempre

mantenuto,

nel

complesso,

la

giurisprudenza costituzionale.
Infatti, sino dagli anni cinquanta, la Corte ha reputato, da un lato, che
solo l’attuazione per via legislativa dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39
Cost. potesse e possa permettere una contrattazione collettiva “con
efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali
il contratto si riferisce” (cfr. già le sentt. n. 10 e 55 del 1957, n. 106
del 1962 e 106 del 1963), recingendo, in tal guisa, la possibilità che
la contrattazione medesima possa vedersi conferita efficacia ultra
partes dalla stessa legislazione “di sostegno” a poche fattispecie
delineate in via di eccezione (cfr. sent. n. 60 del 1968), inerenti ad
“integrazione” o “procedimentalizzazione” mediante accordi dello
stesso disposto legislativo (cfr. sent. sent. n. 99 del 1970 e sent. n.
344 del 1996) ovvero dei poteri organizzativi del datore di lavoro
(sent. n. 268 del 1994).
Mentre, d’altro lato e proprio per il fatto di aver assunto come
necessaria l’attuazione dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. per la
compiuta efficacia erga omnes, la stessa Corte costituzionale,
affinché il comma 1 sulla libertà sindacale non restasse lettera morta,
ha

dovuto,

contestualmente,

ammettere

che

comunque

sia

esplicazione immediata, ed ineludibile, di detto principio di libertà
sindacale la capacità di contrattare collettivamente secondo il diritto
comune, e cioè secondo le regole ed i principi delle ordinarie
contrattazioni tra soggetti privati.
L’aver vincolato l’ efficacia ultra partes all’attuazione legislativa dei
comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. ha portato la giurisprudenza, de

3
plano, a considerare come costituzionalmente dovuta la libertà
contrattuale delle parti sociali, anche in assenza di legge attuativa;
come logico corollario della necessità che il mancato assolvimento
dell’ onere rimesso al legislatore di attuare i comma 2, 3 e 4 non
possa andare ad inibire l’esercizio effettivo della libertà sindacale di
cui al comma 1 dell’art. 39 Cost. mediante la contrattazione collettiva.
Che quello alla contrattazione collettiva di diritto privato sia un vero e
proprio diritto costituzionale, protetto direttamente dall’art. 39, comma
1 Cost. e non rimesso alla disponibilità né alla discrezionalità
incontrollata del legislatore, è stato ex professo confermato, a più
riprese

ed

ove

occorresse,

dalla

stessa

giurisprudenza

costituzionale.
In particolare, nella sent. n. 68 del 1969, la Corte costituzionale ha
dichiarato

che

ai

“lavoratori

domestici”

come

“categoria

professionale” non può negarsi “pur nell'attuale mancanza di
associazioni sindacali tipicamente portatrici degli interessi della
contrapposta

categoria”

il

diritto

al

“ricorso

all'autodisciplina

collettiva”; e questo anche per impedire “un trattamento della
categoria dei lavoratori domestici, differenziato nei confronti degli altri
lavoratori subordinati e privo di una razionale e adeguata
giustificazione” (v. anche la sent. 101 del 1968, per cui il lavoro
domestico, pur se disciplinato da norme di legge da intendersi come
“dispositive” o “suppletive", è “tendenzialmente portato a costituire
anche oggetto dell'autonomia collettiva", con “connessa possibilità,
per le associazioni sindacali, di porre, entro i limiti consentiti, regole
impegnative per i propri iscritti” ).

4
Mentre, nella sent. n. 330 del 1988, la Corte ha dichiarato
incostituzionale la sottoposizione a nulla-osta dell’autorità di vigilanza
della “regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro dei dipendenti
delle Casse di Risparmio”, in quanto consentiva “all'autorità
amministrativa (oggi, alla Banca d'Italia) di condizionare il libero
esplicarsi della volontà negoziale delle parti sindacali, senza essere
finalizzata alla tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti”,
ponendosi “in stridente contrasto con la garanzia dell'autonomia
contrattuale collettiva e della più generale libertà sindacale, garantite
dall'art. 39 Cost.” .
Sicché, non pare lecito il benché minimo dubbio sul fatto che, anche
in

assenza

di

attuazione

legislativa

dell’art.

39

Cost.,

le

organizzazioni sindacali dei lavoratori, nonché i datori di lavoro e le
loro organizzazioni, abbiano libertà di contrattazione collettiva, alla
sola condizione di stare all’osservanza di regole e principi di diritto
privato e non pretendere l’ “efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Ed è chiaro che, una volta ammessa come costituzionalmente
dovuta la libertà della contrattazione collettiva di diritto privato, ne
viene, come conseguenza parimenti dovuta, la libertà dei sindacati
dei lavoratori, dei datori e delle organizzazione datoriali di
determinare, accordandosi in via generale e preventiva, le modalità,
le metodiche e gli effetti, in termini di obblighi e diritti reciproci, della
contrattazione stessa.
Un qualche dubbio potrebbe sorgere, al più, solo quando le
organizzazioni sindacali stipulanti intendessero, per avventura,
imprimere alle regole ed ai principi contrattuali appunto un’ efficacia

5
ultra partes, pretendendo così di disporre dei diritti di lavoratori,
datori od organizzazioni sindacali estranei alla stipulazione. Ma una
simile evenienza, come si tornerà a spiegare per singoli punti
controversi, non si dà mai nel caso nostro: tanto nelle pattuizioni del
10 gennaio 2014 quanto negli accordi interconfederali del 2011 e del
2013, a cui esse danno svolgimento, è detto, per esplicito, che gli
effetti e l’ “esigibilità” delle contrattazioni sono circoscritti alle
organizzazioni stipulanti.
Che le parti sociali si accordino, anche a livello confederale, sulle
regole della contrattazione collettiva e sulle modalità di esercizio dei
diritti sindacali, in conformità alla legge ed anche ad integrazione
della stessa, è del resto già accaduto in passato: basti ricordare
l’accordo interconfederale del 1993. Ciò che cambia nel caso nostro,
ammesso e non concesso che cambi, è l’ampiezza della disciplina
che viene pattuita con gli accordi interconfederali del 2011, 2013 e
2014. Ma su questo, se è legittimo discutere in termini di opportunità
politico-sindacale, non sembra si possa dibattere in termini di
incostituzionalità delle scelte fatte.

3. Su singoli aspetti delle pattuizioni interconfederali del 2014 Su questa base, vanno affrontati i quesiti relativi al rispetto della
costituzione, e per riflesso della legge e quindi anche della l. n. 300
del 1970 (“statuto dei lavoratori”), per singoli aspetti delle pattuizioni
stipulate il 10 gennaio 2014, in attuazione ed a completamento di
quelle del 2011 e del 2013.

6
a) Come già era avvenuto nel 1993, ed in continuità con gli accordi
del 2011 e del 2013, le pattuizioni interconfederali del 10 gennaio
2014 (nella “parte seconda”, che segue a quella sulla disciplina della
misurazione e certificazione della rappresentatività) contengono una
precisa disciplina per la formazione di rappresentanze unitarie dei
lavoratori in azienda (r.s.u.), aggiuntiva e quanto ad applicazione
alternativa, a quella contenuta nell’art. 19 e più ampiamente nel titolo
III della l. n. 300 del 1970.
Di nuovo, c’è qui non tanto o solo il carattere aggiuntivo e la
preferenza che viene accordata alle rappresentanze unitarie (r.s.u.),
formate attraverso l’elezione diretta da parte dei lavoratori, poiché ciò
risultava già ampiamente dagli accordi del 2011 e del 2013, sulle
orme di quello del 1993.
Di nuovo c’è piuttosto, almeno per la risolutezza con cui viene posta,
la regola dell’alternatività, volta a limitare la compresenza di
rappresentanze elettive (r.s.u.) e di quelle costituite nelle forme
dell’art. 19 della l. n. 300 del 1970 (r.s.a.), espressa nel senso che:
“le parti contraenti del presente accordo concordano che in ogni
singola unità produttiva con più di quindici dipendenti dovrà essere
adottata una sola forma di rappresentanza”.
Peraltro, siccome tale regola di alternatività, anche e proprio come
posta nelle pattuizioni del 2014, vincola solo “le parti contraenti”, altre
e diverse organizzazioni sindacali, nonché i lavoratori ad esse
aderenti, anche nel frangente in cui i firmatari delle intese
interconfederali in commento promuovessero rappresentanze elettive
(r.s.u.), potranno comunque continuare, a promuovere e costituire
rappresentanze in azienda (r.s.a.) in virtù dell’art. 19 della l. n. 300

7
del 1970 (come integrato dal pronunciamento additivo della Corte
costituzionale di cui alla sent. n. 231 del 2013 della Corte
costituzionale).
Sicché, non potrebbero sussistere motivi di incostituzionalità,
neanche in rapporto ai principi di pluralismo e democraticità del
sistema di contrattazione sindacale, complessivamente ricavabili
dall’art. 39 Cost.
b) Quanto alla disciplina pattizia del 2014 su “titolarità ed efficacia
della contrattazione collettiva” (“parte terza”), sono state sollevate
perplessità circa la soglia di “rappresentatività non inferiore al 5 %” in
essa prevista, e peraltro già prevista dagli accordi interconfederali del
2011 e del 2013, per l’ammissione alle contrattazioni, sia in quanto si
tratterebbe di un vincolo non previsto per legge sia in quanto
potrebbe essere penalizzante per talune organizzazioni sindacali,
quali quelle aderenti alle “Unità sindacali di base” che non solo
sarebbero in difficoltà nel raggiungere tale soglia ma che, non
essendo firmatarie di contratti nazionali, potrebbero non riuscire ad
accedere alla certificazione di rappresentatività (come congegnata
dalla “parte prima” dell’accordo stesso del 2014: cfr. S. Mattone,
L’accordo sindacale sulla rappresentanza tra aperture democratiche
e velleità normative, in Questionegiustizia on line, 21 giugno 2013, p.
2).
In primo luogo, è però da notare che, come sopra sottolineato, gli
accordi interconfederali ben possono, anche nel silenzio della legge
e non pregiudicando i diritti dei terzi, disciplinare le procedure di
contrattazione collettiva, incluse le modalità di accesso alle trattative.

8
E’ vero che, nella sent. n. 231 del 2013, allorché parla “di un obbligo
a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una
determinata soglia di sbarramento”, la Corte costituzionale si riferisce
ad uno “sbarramento” che “compete al legislatore”. Ma, in carenza di
una legge al riguardo, è ovvio che un tale “sbarramento”, dalla Corte
stessa all’evidenza ritenuto non in contrasto con la Costituzione per
la sostanza, possa essere introdotto in via pattizia dalle parti sociali,
in forza dell’autonomia collettiva loro riconosciuta, da esercitarsi alla
stregua della mera liceità, e cioè come abilitata a fare tutto quel che
non vietato per esplicito dal legislatore, come ogni autonomia
contrattuale di diritto privato.
In secondo luogo, ed in connessione con questo, va inoltre osservato
come sia fondata su di un equivoco l’idea per cui la soglia di
“rappresentatività non inferiore al 5 %” potrebbe, indebitamente,
mettere in difficoltà organizzazioni sindacali meno forti e radicate,
ovvero non certificate.
La disciplina pattizia del 10 gennaio 2014 è univoca, come d’altronde
lo sono stati gli accordi interconfederali, nel disporre che la soglia di
“rappresentatività non inferiore al 5 %”, al pari di altre regole di
contrattazione

stabilite

dalla

medesima

disciplina

pattizia

interconfederale, concerne solo le “organizzazioni firmatarie” e le loro
articolazioni associative.
Pertanto, le altre e differenti organizzazioni sindacali, non firmatarie
degli accordi interconfederali e che non vogliano o non possano
certificare la rappresentatività, non sono affatto escluse dal circuito
contrattuale, ma restano libere di contrattare secondo il criterio
tradizionale, ossia con il solo requisito dell’accreditamento alla

9
trattativa della parte datoriale. L’esclusione dall’applicazione delle
regole degli accordi interconfederali, comprendenti la soglia di
rappresentatività per l’accesso alle contrattazioni, è del resto, per
sindacati non firmatari, il prodotto di una libera scelta, nell’ambito di
una dinamica delle contrattazioni essa stessa improntata a libertà.
Non c’è quindi, anche in proposito, alcuna lesione di regole o principi
costituzionali.
c) In relazione alla “parte quarta” della disciplina pattizia del 10
gennaio 2014, è stato anche adombrato che le “clausole di
raffreddamento” o “di tregua”, prefigurate per assicurare “l’esigibilità
degli impegni assunti” come corredate di “clausole sanzionatorie”,
possano avere riflessi lesivi del diritto di azione collettiva, e
specialmente di sciopero, dei lavoratori.
Ciò in ossequio all’orientamento, maggioritario anche in dottrina e
condivisibile, per cui l’art. 40 Cost. garantisce lo sciopero come diritto
individuale dei lavoratori, sia pure da esercitarsi collettivamente,
indipendentemente dall’adesione dei lavoratori stessi al sindacato
(cfr. P. Calamandrei, Significato costituzionale del diritto di sciopero,
CEDAM, Padova, 1952, p. 10 ss.).
La disciplina pattizia del 2014, come gli accordi interconfederali del
2011 e del 2013, sembrano tuttavia accogliere proprio questa
interpretazione, che è la più rigorosa, dell’art. 40 Cost.
Infatti, la disciplina pattizia del 2014 ha cura di precisare che
“clausole sanzionatorie” degli obblighi di “raffreddamento” o “tregua”,
i quali potranno essere assunti nella contrattazione nazionale o
aziendale, per “l’esigibilità degli impegni”, potranno avere come

10
scopo solo il “rispetto delle regole concordate” a livello confederale e
dovranno:
- sul piano della contrattazione nazionale, riguardare solo “i
comportamenti di tutte le parti contraenti”, ossia delle organizzazioni
sindacali e datoriali stipulanti, prevedendosi ipoteticamente sul
terreno sanzionatorio, oltre che “effetti pecuniari”, di poter giungere
alla “temporanea sospensione di diritti sindacali”, ma solo se “di fonte
contrattuale”, e dunque non di legge;
- sul piano della contrattazione aziendale, essere vincolanti “oltre che
per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei
lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle
confederazioni firmatarie” dell’accordo interconfederale del 2014 “o
per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e
non per i singoli lavoratori” (sottolineatura nostra).
E’ quindi assicurato che il diritto di sciopero non abbia menomazioni
e non sia limitato, come diritto esercitato collettivamente dai singoli
lavoratori; poiché sino da ora, e dunque prima ancora che qualunque
clausola “di raffreddamento” o “di tregua” sia stipulata, si è in anticipo
assicurato che ogni effetto sanzionatorio possa concernere ed
incidere solo le associazioni o le rappresentanze sindacali ed i loro
comportamenti, lasciando immuni da sanzione i singoli lavoratori.
d) Sulla “procedura arbitrale”, inserita nella “parte quarta” della
disciplina pattizia del 10 gennaio 2014, c’è solo da sottolineare che
essa - oltre ad essere qualificata come “transitoria” in vista del
definire le clausole di “raffreddamento” o di “tregua” nei “rinnovi dei
contratti nazionali” - pare configurarsi come circoscritta al giudizio su

11
violazioni contrattuali dalle parti stipulanti, come conferma anche
l’ulteriore potere, deferito agli arbitri, di determinare “le misure da
applicarsi nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei datori di
lavoro in caso di inadempimento degli obblighi assunti con il presente
accordo”.
Si tratta, dunque, di arbitrato secondo diritto, che coinvolge i reciproci
diritti ed obblighi contrattuali delle organizzazioni sindacali e dei
datori di lavoro e che, perciò, non pare porre nessun particolare
problema, anche per l’osservanza dei principi sull’effettività della
tutela giurisdizionale degli artt. 24 e 111 Cost.
Mentre istituto diverso è quello della “Commissione Interconfederale
permanente”, avente come finalità di “favorire” e “monitorare
l’attuazione” dell’accordo del 10 gennaio 2014, anche per “garantirne
l’esigibilità”. La natura ed i compiti di questa Commissione non
sembrano distanti, né radicalmente diversi, da quelli di altri consimili
organismi paritetici non di rado previsti nella contrattazione collettiva
per assicurare un eguale e continuo apporto delle parti contraenti
all’interpretazione di quanto concordato.
Solo come compito a sé stante, accessorio ed ove occorra da
attivare specificamente, la Commissione sembra infatti poter essere
investita del “definire ogni controversia anche attraverso lo
svolgimento di un giudizio arbitrale”.
4. Conclusione –
In sintesi, e per quel che esposto, non mi pare che la disciplina
pattizia del 10 gennaio 2014, in attuazione ed a completamento degli

12
accordi interconfederali del 2011 e del 2013, possa suscitare rilievi di
contrarietà a costituzione.
Resto comunque a disposizione per l’esame e l’approfondimento
delle questioni qua affrontate, o di altre che possano apparire
importanti.

Con osservanza
Milano, 27 gennaio 2014
(prof. avv. Vittorio Angiolini)

13

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Parere rappresentanza sindacale_10.01.2014(1)

  • 1. Parere Oggetto: “Testo Unico sulla Rappresentanza”, convenuto da Confindustria – Cgil, Cisl e Uil il 10 gennaio 2014 - 1. Premessa Mi si chiede di rilevare, ed illustrare, gli eventuali problemi di non conformità alla Costituzione dell’accordo in oggetto, stipulato il 10 gennaio 2014, in attuazione ed a completamento dell’accordo interconfederale sulle regole della contrattazione del 28 giugno 2011 e del protocollo d’intesa “in materia di rappresentanza e rappresentatività” del 31 maggio 2013. Il problema deve essere affrontato, anzitutto, con riferimento alla legittimità dell’ intervento delle pattuizioni interconfederali sulla materia in esse disciplinata, in relazione a quanto demandato al legislatore dall’art. 39 Cost. Dopo di che ci si soffermerà altresì su specifici aspetti disciplinati dalle pattuizioni interconfederali medesime, sui quali sono stati sollevati da taluni interrogativi di costituzionalità, e segnatamente: sulla rappresentanza in azienda, anche alla luce della l. n. 300 del 1970; sulla soglia di rappresentatività per essere ammessi alle trattative contrattuali; sulle clausole di raffreddamento o di tregua sindacale, anche per rapporto al diritto di sciopero; e, infine, sulle procedure arbitrali in attesa della disciplina dei contratti collettivi nazionali nonché sulla Commissione Interconfederale permanente. Via Chiossetto, 14 – 20122 Milano tel + 39 02. 76317842 – fax +39 02796409 – E-mail info@studioangiolini.it
  • 2. 2. Sulla disciplina della libertà sindacale e della contrattazione collettiva per accordo interconfederale, anziché per legge Da più parti, sebbene dubitativamente, si è sollevata la questione che le pattuizioni del 10 gennaio 2014, le quali per la verità si limitano come accennato ad attuare e completare gli accordi interconfederali del 2011 e del 2013, avrebbero indebitamente invaso spazi, se non riservati, demandati alla legge dall’art. 39 Cost. In proposito, bisogna essere netti. La giurisprudenza costituzionale, notoriamente, non ha mai ravvisato nel principio di libertà del comma 1 dell’art. 39 Cost. un principio che riservi inderogabilmente agli accordi tra le parti sociali determinate materie, almeno in difetto di attuazione concreta dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. stesso. La Corte costituzionale ha quindi, e conseguentemente, ammesso come legittimo l’intervento del legislatore, anche al di fuori della stretta attuazione dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost., per la normativa “di sostegno” all’attività sindacale, ancorché interferente con l’autonomia e la contrattazione collettiva e purché, naturalmente, rispettosa in sé delle regole e dei principi costituzionali. Ma, nel contempo e per converso, la giurisprudenza non ha mai censurato, in alcun modo, neppure la possibilità che le procedure ed i contenuti della contrattazione collettiva, senza contraddire le previsioni di legge ed in osservanza delle stesse, possano, come possono, essere disciplinate da fonti pattizie e, in specie, da accordi interconfederali. 2
  • 3. E questo esito, del resto, è coerente con il criterio di lettura dell’art. 39 Cost. che ha sempre mantenuto, nel complesso, la giurisprudenza costituzionale. Infatti, sino dagli anni cinquanta, la Corte ha reputato, da un lato, che solo l’attuazione per via legislativa dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. potesse e possa permettere una contrattazione collettiva “con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce” (cfr. già le sentt. n. 10 e 55 del 1957, n. 106 del 1962 e 106 del 1963), recingendo, in tal guisa, la possibilità che la contrattazione medesima possa vedersi conferita efficacia ultra partes dalla stessa legislazione “di sostegno” a poche fattispecie delineate in via di eccezione (cfr. sent. n. 60 del 1968), inerenti ad “integrazione” o “procedimentalizzazione” mediante accordi dello stesso disposto legislativo (cfr. sent. sent. n. 99 del 1970 e sent. n. 344 del 1996) ovvero dei poteri organizzativi del datore di lavoro (sent. n. 268 del 1994). Mentre, d’altro lato e proprio per il fatto di aver assunto come necessaria l’attuazione dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. per la compiuta efficacia erga omnes, la stessa Corte costituzionale, affinché il comma 1 sulla libertà sindacale non restasse lettera morta, ha dovuto, contestualmente, ammettere che comunque sia esplicazione immediata, ed ineludibile, di detto principio di libertà sindacale la capacità di contrattare collettivamente secondo il diritto comune, e cioè secondo le regole ed i principi delle ordinarie contrattazioni tra soggetti privati. L’aver vincolato l’ efficacia ultra partes all’attuazione legislativa dei comma 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. ha portato la giurisprudenza, de 3
  • 4. plano, a considerare come costituzionalmente dovuta la libertà contrattuale delle parti sociali, anche in assenza di legge attuativa; come logico corollario della necessità che il mancato assolvimento dell’ onere rimesso al legislatore di attuare i comma 2, 3 e 4 non possa andare ad inibire l’esercizio effettivo della libertà sindacale di cui al comma 1 dell’art. 39 Cost. mediante la contrattazione collettiva. Che quello alla contrattazione collettiva di diritto privato sia un vero e proprio diritto costituzionale, protetto direttamente dall’art. 39, comma 1 Cost. e non rimesso alla disponibilità né alla discrezionalità incontrollata del legislatore, è stato ex professo confermato, a più riprese ed ove occorresse, dalla stessa giurisprudenza costituzionale. In particolare, nella sent. n. 68 del 1969, la Corte costituzionale ha dichiarato che ai “lavoratori domestici” come “categoria professionale” non può negarsi “pur nell'attuale mancanza di associazioni sindacali tipicamente portatrici degli interessi della contrapposta categoria” il diritto al “ricorso all'autodisciplina collettiva”; e questo anche per impedire “un trattamento della categoria dei lavoratori domestici, differenziato nei confronti degli altri lavoratori subordinati e privo di una razionale e adeguata giustificazione” (v. anche la sent. 101 del 1968, per cui il lavoro domestico, pur se disciplinato da norme di legge da intendersi come “dispositive” o “suppletive", è “tendenzialmente portato a costituire anche oggetto dell'autonomia collettiva", con “connessa possibilità, per le associazioni sindacali, di porre, entro i limiti consentiti, regole impegnative per i propri iscritti” ). 4
  • 5. Mentre, nella sent. n. 330 del 1988, la Corte ha dichiarato incostituzionale la sottoposizione a nulla-osta dell’autorità di vigilanza della “regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle Casse di Risparmio”, in quanto consentiva “all'autorità amministrativa (oggi, alla Banca d'Italia) di condizionare il libero esplicarsi della volontà negoziale delle parti sindacali, senza essere finalizzata alla tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti”, ponendosi “in stridente contrasto con la garanzia dell'autonomia contrattuale collettiva e della più generale libertà sindacale, garantite dall'art. 39 Cost.” . Sicché, non pare lecito il benché minimo dubbio sul fatto che, anche in assenza di attuazione legislativa dell’art. 39 Cost., le organizzazioni sindacali dei lavoratori, nonché i datori di lavoro e le loro organizzazioni, abbiano libertà di contrattazione collettiva, alla sola condizione di stare all’osservanza di regole e principi di diritto privato e non pretendere l’ “efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Ed è chiaro che, una volta ammessa come costituzionalmente dovuta la libertà della contrattazione collettiva di diritto privato, ne viene, come conseguenza parimenti dovuta, la libertà dei sindacati dei lavoratori, dei datori e delle organizzazione datoriali di determinare, accordandosi in via generale e preventiva, le modalità, le metodiche e gli effetti, in termini di obblighi e diritti reciproci, della contrattazione stessa. Un qualche dubbio potrebbe sorgere, al più, solo quando le organizzazioni sindacali stipulanti intendessero, per avventura, imprimere alle regole ed ai principi contrattuali appunto un’ efficacia 5
  • 6. ultra partes, pretendendo così di disporre dei diritti di lavoratori, datori od organizzazioni sindacali estranei alla stipulazione. Ma una simile evenienza, come si tornerà a spiegare per singoli punti controversi, non si dà mai nel caso nostro: tanto nelle pattuizioni del 10 gennaio 2014 quanto negli accordi interconfederali del 2011 e del 2013, a cui esse danno svolgimento, è detto, per esplicito, che gli effetti e l’ “esigibilità” delle contrattazioni sono circoscritti alle organizzazioni stipulanti. Che le parti sociali si accordino, anche a livello confederale, sulle regole della contrattazione collettiva e sulle modalità di esercizio dei diritti sindacali, in conformità alla legge ed anche ad integrazione della stessa, è del resto già accaduto in passato: basti ricordare l’accordo interconfederale del 1993. Ciò che cambia nel caso nostro, ammesso e non concesso che cambi, è l’ampiezza della disciplina che viene pattuita con gli accordi interconfederali del 2011, 2013 e 2014. Ma su questo, se è legittimo discutere in termini di opportunità politico-sindacale, non sembra si possa dibattere in termini di incostituzionalità delle scelte fatte. 3. Su singoli aspetti delle pattuizioni interconfederali del 2014 Su questa base, vanno affrontati i quesiti relativi al rispetto della costituzione, e per riflesso della legge e quindi anche della l. n. 300 del 1970 (“statuto dei lavoratori”), per singoli aspetti delle pattuizioni stipulate il 10 gennaio 2014, in attuazione ed a completamento di quelle del 2011 e del 2013. 6
  • 7. a) Come già era avvenuto nel 1993, ed in continuità con gli accordi del 2011 e del 2013, le pattuizioni interconfederali del 10 gennaio 2014 (nella “parte seconda”, che segue a quella sulla disciplina della misurazione e certificazione della rappresentatività) contengono una precisa disciplina per la formazione di rappresentanze unitarie dei lavoratori in azienda (r.s.u.), aggiuntiva e quanto ad applicazione alternativa, a quella contenuta nell’art. 19 e più ampiamente nel titolo III della l. n. 300 del 1970. Di nuovo, c’è qui non tanto o solo il carattere aggiuntivo e la preferenza che viene accordata alle rappresentanze unitarie (r.s.u.), formate attraverso l’elezione diretta da parte dei lavoratori, poiché ciò risultava già ampiamente dagli accordi del 2011 e del 2013, sulle orme di quello del 1993. Di nuovo c’è piuttosto, almeno per la risolutezza con cui viene posta, la regola dell’alternatività, volta a limitare la compresenza di rappresentanze elettive (r.s.u.) e di quelle costituite nelle forme dell’art. 19 della l. n. 300 del 1970 (r.s.a.), espressa nel senso che: “le parti contraenti del presente accordo concordano che in ogni singola unità produttiva con più di quindici dipendenti dovrà essere adottata una sola forma di rappresentanza”. Peraltro, siccome tale regola di alternatività, anche e proprio come posta nelle pattuizioni del 2014, vincola solo “le parti contraenti”, altre e diverse organizzazioni sindacali, nonché i lavoratori ad esse aderenti, anche nel frangente in cui i firmatari delle intese interconfederali in commento promuovessero rappresentanze elettive (r.s.u.), potranno comunque continuare, a promuovere e costituire rappresentanze in azienda (r.s.a.) in virtù dell’art. 19 della l. n. 300 7
  • 8. del 1970 (come integrato dal pronunciamento additivo della Corte costituzionale di cui alla sent. n. 231 del 2013 della Corte costituzionale). Sicché, non potrebbero sussistere motivi di incostituzionalità, neanche in rapporto ai principi di pluralismo e democraticità del sistema di contrattazione sindacale, complessivamente ricavabili dall’art. 39 Cost. b) Quanto alla disciplina pattizia del 2014 su “titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva” (“parte terza”), sono state sollevate perplessità circa la soglia di “rappresentatività non inferiore al 5 %” in essa prevista, e peraltro già prevista dagli accordi interconfederali del 2011 e del 2013, per l’ammissione alle contrattazioni, sia in quanto si tratterebbe di un vincolo non previsto per legge sia in quanto potrebbe essere penalizzante per talune organizzazioni sindacali, quali quelle aderenti alle “Unità sindacali di base” che non solo sarebbero in difficoltà nel raggiungere tale soglia ma che, non essendo firmatarie di contratti nazionali, potrebbero non riuscire ad accedere alla certificazione di rappresentatività (come congegnata dalla “parte prima” dell’accordo stesso del 2014: cfr. S. Mattone, L’accordo sindacale sulla rappresentanza tra aperture democratiche e velleità normative, in Questionegiustizia on line, 21 giugno 2013, p. 2). In primo luogo, è però da notare che, come sopra sottolineato, gli accordi interconfederali ben possono, anche nel silenzio della legge e non pregiudicando i diritti dei terzi, disciplinare le procedure di contrattazione collettiva, incluse le modalità di accesso alle trattative. 8
  • 9. E’ vero che, nella sent. n. 231 del 2013, allorché parla “di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento”, la Corte costituzionale si riferisce ad uno “sbarramento” che “compete al legislatore”. Ma, in carenza di una legge al riguardo, è ovvio che un tale “sbarramento”, dalla Corte stessa all’evidenza ritenuto non in contrasto con la Costituzione per la sostanza, possa essere introdotto in via pattizia dalle parti sociali, in forza dell’autonomia collettiva loro riconosciuta, da esercitarsi alla stregua della mera liceità, e cioè come abilitata a fare tutto quel che non vietato per esplicito dal legislatore, come ogni autonomia contrattuale di diritto privato. In secondo luogo, ed in connessione con questo, va inoltre osservato come sia fondata su di un equivoco l’idea per cui la soglia di “rappresentatività non inferiore al 5 %” potrebbe, indebitamente, mettere in difficoltà organizzazioni sindacali meno forti e radicate, ovvero non certificate. La disciplina pattizia del 10 gennaio 2014 è univoca, come d’altronde lo sono stati gli accordi interconfederali, nel disporre che la soglia di “rappresentatività non inferiore al 5 %”, al pari di altre regole di contrattazione stabilite dalla medesima disciplina pattizia interconfederale, concerne solo le “organizzazioni firmatarie” e le loro articolazioni associative. Pertanto, le altre e differenti organizzazioni sindacali, non firmatarie degli accordi interconfederali e che non vogliano o non possano certificare la rappresentatività, non sono affatto escluse dal circuito contrattuale, ma restano libere di contrattare secondo il criterio tradizionale, ossia con il solo requisito dell’accreditamento alla 9
  • 10. trattativa della parte datoriale. L’esclusione dall’applicazione delle regole degli accordi interconfederali, comprendenti la soglia di rappresentatività per l’accesso alle contrattazioni, è del resto, per sindacati non firmatari, il prodotto di una libera scelta, nell’ambito di una dinamica delle contrattazioni essa stessa improntata a libertà. Non c’è quindi, anche in proposito, alcuna lesione di regole o principi costituzionali. c) In relazione alla “parte quarta” della disciplina pattizia del 10 gennaio 2014, è stato anche adombrato che le “clausole di raffreddamento” o “di tregua”, prefigurate per assicurare “l’esigibilità degli impegni assunti” come corredate di “clausole sanzionatorie”, possano avere riflessi lesivi del diritto di azione collettiva, e specialmente di sciopero, dei lavoratori. Ciò in ossequio all’orientamento, maggioritario anche in dottrina e condivisibile, per cui l’art. 40 Cost. garantisce lo sciopero come diritto individuale dei lavoratori, sia pure da esercitarsi collettivamente, indipendentemente dall’adesione dei lavoratori stessi al sindacato (cfr. P. Calamandrei, Significato costituzionale del diritto di sciopero, CEDAM, Padova, 1952, p. 10 ss.). La disciplina pattizia del 2014, come gli accordi interconfederali del 2011 e del 2013, sembrano tuttavia accogliere proprio questa interpretazione, che è la più rigorosa, dell’art. 40 Cost. Infatti, la disciplina pattizia del 2014 ha cura di precisare che “clausole sanzionatorie” degli obblighi di “raffreddamento” o “tregua”, i quali potranno essere assunti nella contrattazione nazionale o aziendale, per “l’esigibilità degli impegni”, potranno avere come 10
  • 11. scopo solo il “rispetto delle regole concordate” a livello confederale e dovranno: - sul piano della contrattazione nazionale, riguardare solo “i comportamenti di tutte le parti contraenti”, ossia delle organizzazioni sindacali e datoriali stipulanti, prevedendosi ipoteticamente sul terreno sanzionatorio, oltre che “effetti pecuniari”, di poter giungere alla “temporanea sospensione di diritti sindacali”, ma solo se “di fonte contrattuale”, e dunque non di legge; - sul piano della contrattazione aziendale, essere vincolanti “oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni firmatarie” dell’accordo interconfederale del 2014 “o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori” (sottolineatura nostra). E’ quindi assicurato che il diritto di sciopero non abbia menomazioni e non sia limitato, come diritto esercitato collettivamente dai singoli lavoratori; poiché sino da ora, e dunque prima ancora che qualunque clausola “di raffreddamento” o “di tregua” sia stipulata, si è in anticipo assicurato che ogni effetto sanzionatorio possa concernere ed incidere solo le associazioni o le rappresentanze sindacali ed i loro comportamenti, lasciando immuni da sanzione i singoli lavoratori. d) Sulla “procedura arbitrale”, inserita nella “parte quarta” della disciplina pattizia del 10 gennaio 2014, c’è solo da sottolineare che essa - oltre ad essere qualificata come “transitoria” in vista del definire le clausole di “raffreddamento” o di “tregua” nei “rinnovi dei contratti nazionali” - pare configurarsi come circoscritta al giudizio su 11
  • 12. violazioni contrattuali dalle parti stipulanti, come conferma anche l’ulteriore potere, deferito agli arbitri, di determinare “le misure da applicarsi nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro in caso di inadempimento degli obblighi assunti con il presente accordo”. Si tratta, dunque, di arbitrato secondo diritto, che coinvolge i reciproci diritti ed obblighi contrattuali delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro e che, perciò, non pare porre nessun particolare problema, anche per l’osservanza dei principi sull’effettività della tutela giurisdizionale degli artt. 24 e 111 Cost. Mentre istituto diverso è quello della “Commissione Interconfederale permanente”, avente come finalità di “favorire” e “monitorare l’attuazione” dell’accordo del 10 gennaio 2014, anche per “garantirne l’esigibilità”. La natura ed i compiti di questa Commissione non sembrano distanti, né radicalmente diversi, da quelli di altri consimili organismi paritetici non di rado previsti nella contrattazione collettiva per assicurare un eguale e continuo apporto delle parti contraenti all’interpretazione di quanto concordato. Solo come compito a sé stante, accessorio ed ove occorra da attivare specificamente, la Commissione sembra infatti poter essere investita del “definire ogni controversia anche attraverso lo svolgimento di un giudizio arbitrale”. 4. Conclusione – In sintesi, e per quel che esposto, non mi pare che la disciplina pattizia del 10 gennaio 2014, in attuazione ed a completamento degli 12
  • 13. accordi interconfederali del 2011 e del 2013, possa suscitare rilievi di contrarietà a costituzione. Resto comunque a disposizione per l’esame e l’approfondimento delle questioni qua affrontate, o di altre che possano apparire importanti. Con osservanza Milano, 27 gennaio 2014 (prof. avv. Vittorio Angiolini) 13