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                Diritti, cittadinanza, legalità nel labirinto della storia contemporanea

                                                di Francesco Soverina

Pubblicato sulla rivista MERIDIONE. Sud e nord nel mondo, n. 1 gennaio-marzo 2010, ESI, Napoli, pp. 131-147.

Ad onta di quanti tendono a darne una definizione rigida e astratta, il concetto di legalità è pregno di
storicità, essendo stato declinato in vari modi e significati, a seconda dei contesti e dei periodi, dei
rapporti tra le forze politiche e sociali di un dato momento storico1. Non si esaurisce, pertanto, nel
rispetto della legge - è l’accezione formalistica e riduttiva - nell’ossequio di procedure, giacché
quello di legalità si lega inscindibilmente ad altri due concetti-chiave, cittadinanza e democrazia,
connotati storicamente dalle dinamiche e dai processi della tarda modernità e dell’età
contemporanea.
Va detto subito, a chiarire quanto intendiamo allorché ci riferiamo al trinomio legalità-cittadinanza-
democrazia, che decisiva è la comparsa e l’affermazione, con la rivoluzione francese, del concetto
di cittadinanza in uno Stato che non si identifica più con un monarca assoluto2. Si tratta però - è
bene sottolinearlo immediatamente - di una cittadinanza monca, dimidiata, da cui a lungo
rimangono escluse le donne, il polo della soggettività femminile.

                                              Tre generazioni di diritti

Conviene ora mettere a fuoco il termine cittadinanza, che nell’uso moderno ha assunto due
significati distinti: uno più propriamente giuridico, l’altro teorico-politico. Nel primo caso ci si
riferisce all’appartenenza di un individuo a uno Stato, con i diritti e doveri che da ciò discendono;
nel secondo alla titolarità, da parte di una persona, di diritti civili e politici e, a partire dal ventesimo
secolo, sociali. Sulla base della tripartizione messa a punto da Thomas H. Marshall3, intorno alla
metà del Novecento, si può senz’altro sostenere che il tema della cittadinanza si incrocia con il
susseguirsi e intrecciarsi delle tre generazioni dei diritti: civili, politici e sociali.
Com’è noto, i diritti civili - la libertà personale, di espressione, di associazione - sono stati postulati
dal pensiero liberale, che attribuisce allo Stato la funzione precipua di eliminare gli ostacoli al
dispiegarsi della libertà individuale. Accanto ad essi, il pensiero democratico ha rivendicato i diritti
politici, cioè la possibilità per il cittadino di partecipare direttamente o indirettamente al governo
dello Stato, e ha chiamato, così, in causa il diritto elettorale, sia attivo (scegliere i propri
rappresentanti), sia passivo (essere eletti). A sua volta il pensiero socialista ha invocato il
riconoscimento dei diritti sociali, chiedendo allo Stato di farsi carico dei problemi dei lavoratori e
dei cittadini più svantaggiati, in modo da mettere tutti in un’effettiva condizione di uguaglianza.
L’estensione della cultura dei diritti, con l’allargamento dell’area dei soggetti individuati come
depositari e destinatari, è un processo in corso dalla fine del Settecento, ma l’ampliamento della
sfera dei diritti e dei suoi beneficiari non si è svolto secondo modalità e ritmi lineari, all’insegna
delle «magnifiche sorti e progressive»; esso è stato frutto, invece, di lotte spesso lunghe e sofferte,
di battaglie aspre e intense. Ciascuna fase d’espansione dei diritti - si è osservato - è stata
contrastata da una risposta conservatrice, da una mobilitazione reazionaria4. I diritti civili, retaggio
1
  Percorsi storici sul tema della legalità, arricchiti da riattraversamenti letterari e filosofici, si trovano in C. Bucciero,
Lezioni di Educazione alla legalità, Massa Editore, Napoli 2005.
2
  Si tengano presenti i quattro, corposi volumi di P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, pubblicati da
Laterza, nonché S. Veca, Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione, nuova edizione, Feltrinelli,
Milano 2008 e, soprattutto in chiave didattica, A. Cavalli - G. Deiana, Educare alla cittadinanza democratica. Etica
civile e giovani nella scuola dell’autonomia, Carocci, Roma 1999.
3
  T. H. Marshall, Citizenship and Social Class and other essays, Cambridge University Press, Cambridge 1950.
Marshall ritornerà sull’argomento in scritti successivi a questo che rimane il suo testo fondamentale.
4
  A. O. Hirschmann, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991; F.
De Giorgi, Le forme della politica tra diritto, economia ed etica in Idem (a cura di) Approfondire il Novecento. Temi e
problemi della storia contemporanea, Carocci, Roma 2001.
2

della Grande rivoluzione e propugnati dai liberali, sono stati cruentamente avversati dai movimenti
controrivoluzionari e sanfedisti, messi al bando nei regimi legittimisti della Restaurazione,
confutati da ideologi reazionari come De Bonald e Lamennais. I diritti politici democratici sono
stati messi in discussione, tra Otto e Novecento, dalle dottrine politiche elitiste (Pareto, Mosca),
vilipesi dalle destre autoritarie e antiparlamentari, conculcati dalle dittature e dai totalitarismi.
Infine, negli ultimi decenni del Novecento i diritti sociali sono stati ridimensionati e duramente
colpiti dall’offensiva neoliberista promossa, sulle due sponde dell’Atlantico, dai ceti e gruppi che si
riconoscevano nei leader conservatori Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

                                      Legalità illegittima e illegalità legittima

È opportuno adesso esplicitare che dentro il passaggio storico dalla condizione di sudditi a quella di
cittadini si situa il concetto di legalità quale «matrice culturale della civiltà del diritto». Un sistema
di regole condivise, oggettive e razionali «diventa [..] - nota Francesco Bilancia - la fonte della
legalità e della giustizia sottraendo al sovrano ogni possibile strumento di autoritarismo»5. La
legalità, quale concretamente viene prendendo corpo con l’adozione delle Costituzioni nel corso del
XIX secolo, si ispira ad un universalismo ristretto, incentrato sul “cittadino proprietario”. È la
legalità borghese: essa promana, discende da istituzioni statuali che riflettono - non
meccanicamente, è ovvio - quanto si dà e matura nella realtà materiale, che rispecchiano gli
equilibri, i rapporti tra classi, ceti e forze politiche.
In paesi come l’Italia le agitazioni, le spinte rivendicative suscitate dal ribollire della «questione
sociale» vengono considerate come un problema d’ordine pubblico, da risolvere manu militari. Il
diritto di sciopero sarà legalizzato con il nuovo codice penale del 1889, che peraltro abolisce la pena
di morte, successivamente reintrodotta dal fascismo. Ma negli ultimi anni dell’Ottocento, di fronte
alla crescita dei movimenti popolari, l’oligarchia liberale al potere si attesta su una linea di totale
chiusura, ricorrendo alle maniere forti in occasione della «crisi di fine secolo», esplosa nel 1898 con
una serie di manifestazioni e tumulti contro il carovita. A Milano il generale Bava Beccaris ordina
di sparare sulla folla: decine e decine i morti e feriti. Sul terreno politico-istituzionale Sidney
Sonnino, con il suo appello Torniamo allo Statuto (1897), Di Rudinì e Pelloux, con i loro progetti
liberticidi, cercano di risospingere indietro il movimento operaio e socialista attraverso
un’interpretazione restrittiva dello Statuto albertino. Tuttavia, il disegno degli ambienti conservatori
e reazionari viene battuto per la ferma opposizione di socialisti e radicali, a cui si aggiungono i
deputati liberali della sinistra costituzionale.
Nonostante siano poste, così, le premesse della svolta che avrà in Giovanni Giolitti il suo principale
artefice, continuano nel Mezzogiorno gli eccidi polizieschi di braccianti e lavoratori. In segno di
protesta per i fatti sanguinosi di Cerignola (Bari), Buggerru (Cagliari) e Castelluzzo (Trapani), dal
16 al 21 settembre 1904, in molte città del Centro-nord, nei maggiori centri del Sud e nelle
campagne dove è più avanzata l’organizzazione dei contadini, si svolge il primo sciopero generale
della storia italiana.
Se durante la «crisi di fine secolo» si sfiora «il colpo di Stato della borghesia» (U. Levra), «il
sovversivismo delle classi dirigenti» (A. Gramsci) riemerge, si riaffaccia prepotentemente nel primo
dopoguerra, trovando il suo strumento più efficace nel fascismo, che combina la violenza
squadristica con la presenza e l’azione in Parlamento e nelle istituzioni. Grazie all’uso spregiudicato
di metodi legali ed antilegali, la formazione politica capitanata da Benito Mussolini si insedia al
governo del Paese nell’ottobre 1922 per rimanervi sino al 25 luglio 1943. Nel 1925, alcuni mesi
dopo il delitto Matteotti, il fascismo instaura in Italia una vera e propria dittatura, ma non abroga lo
Statuto, anche se nella sostanza lo modifica fino a stravolgerlo. Con le leggi «fascistissime»,
emanate tra il 1925 e il 1926, riduce o azzera le libertà personali, scioglie i partiti di opposizione,
controlla la stampa con la censura, assegna un ruolo costituzionale ad un organo di partito come il
Gran Consiglio del Fascismo, proibisce gli scioperi e proclama il corporativismo. Le leggi
5
    F. Bilancia, Il valore della legalità nello Stato democratico rappresentativo in «Critica marxista», n. 5/2007.
3

«fascistissime» smantellano il vecchio edificio liberale, che tutelava i diritti civili, e modellano, con
i provvedimenti per la difesa dello Stato (dalla pena di morte all’istituzione del Tribunale speciale e
del confino), un regime di polizia senza precedenti nella storia dell’Italia unitaria.
Da ciò che sin qui si è detto risulta evidente come la tematica della legalità sia più complessa di
quanto apparentemente sembri. Correlata con la nozione di cittadinanza, la legalità chiama in causa
il concetto di legittimità, intendendo con esso ciò che è coerente con principi superiori, quali i valori
di libertà, solidarietà, pace, uguaglianza e giustizia sociale che sono alla base del patto
costituzionale italiano e che costituiscono gli imprescindibili punti di riferimento dei processi di
costruzione democratica. Riteniamo, perciò, feconda la distinzione tra una legalità illegittima, quale
si rinviene nelle dittature fasciste, e una illegalità legittima, quale è espressa dai movimenti di
Resistenza nell’Europa assoggettata al Terzo Reich.



                       Un caso esemplare di legalità illegittima: il regime nazista

Della prima coppia categoriale il regime nazista rappresenta un caso esemplare. Esso ridefinisce
l’idea di cittadinanza6 sulla base della presunta identità razziale della Volksgemeinschaft, del mito
fondativo del Volk, secondo il dispositivo dentro-fuori, secondo la contrapposizione noi-loro: da un
lato i membri della comunità di sangue e suolo, dall’altro gli estranei alla stirpe7. L’enfatizzazione
di questa dicotomia, codificata nelle Leggi di Norimberga del 1935, consente la creazione del
“confine interno”, della figura del nemico, individuato in chi non è Volksgenosse, nel diverso, in
colui che attenta all’integrità della stirpe, nel deviante. E la devianza «è lo stigma di una diversità
biologica, è l’espressione di quella “degenerazione” che ossessionava l’antropologia e la
criminologia tardo-ottocentesca»8.
Sin dalla fondazione del regime, il nazismo, che si ispira ad un’ideologia in cui confluiscono teorie
eugenetiche, dottrine razziali e stereotipi socialdarwiniani, attua una biopolitica coattiva9. Infatti, già
il 14 luglio 1933, è emanata la legge sulla sterilizzazione di individui affetti da malattie considerate
ereditarie (frenastenia, schizofrenia, epilessia, cecità e sordità genetiche, alcolismo), che è lo
sbocco, la traduzione legislativa del percorso dell’eugenetica europea. È la prima tappa della
legalizzazione dei crimini contro i diversi. Si arriva poi ad erigere il male a norma, ad arrogarsi il
diritto di vita e di morte, a sopprimere le «bocche inutili», le «vite indegne di essere vissute», a
perseguire l’obiettivo del genocidio di interi gruppi umani come gli ebrei, i sinti e rom.
La lotta contro tutti i «portatori di sangue straniero», la «rigenerazione fisica attraverso
l’eliminazione», il male industrializzato ex lege partoriscono il killer di Stato e il burocrate dello
sterminio, «lo scrivano della fine delle vite altrui, colui del quale lo Stato autoritario si serve per
dare una veste giuridico-organizzativa all’omicidio seriale dei propri oppositori o nemici»10. Il
Lager - incarnazione del progetto e delle finalità del totalitarismo nazista - è la materializzazione
della neutralizzazione del crimine, lo spazio in cui si opera la reificazione della vittima con la
numerazione dei deportati come Stücke (pezzi), con la loro riduzione a merce di «fabbriche della
morte», di campi d’annichilimento fisico e psicologico. Il contro-illuminismo politico e ideologico

6
   Nel Mein Kampf essa è concepita non in senso giuridico-formale, ma come un vincolo di razza e sangue che codifica
ed esalta le differenze.
7
   Si veda P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 4. L’età dei totalitarismi e della democrazia, Laterza,
Roma-Bari 2001, pp. 306-368, nonché Andrea Bienati, Dall’inchiostro al sangue. Quando il crimine è legalizzato,
Proedi, Milano 2003.
8
  P. Costa, cit., p. 349.
9
   A Michel Foucault si deve un’acuta riflessione sul concetto di biopolitica. Secondo il filosofo francese il potere
coercitivo-disciplinare incide sull’anima lavorando sul corpo.
10
    A. Bienati, cit., p. 78. È appena il caso di ricordare che il regime nazista premia il disumano zelo nel «compimento
delle proprie mansioni»: coloro che partecipano alla lotta contro il diverso fanno carriera, salendo i gradini della scala
sociale e burocratica.
4

del nazismo dà vita all’universo concentrazionario, che costituisce il ribaltamento, la negazione
estrema della cittadinanza quale era stata concepita dalla rivoluzione francese in poi.
Ogni atto, ogni provvedimento del regime nazista viene fondato sul Führerprinzip, formulato come
meglio non si potrebbe da Carl Schmitt. Nel giustificare la «notte dei lunghi coltelli» - il sanguinoso
regolamento di conti del 30 giugno 1934 - il giurista e politologo tedesco sostiene che qualunque
decisione del Führer ha valore di legge, in quanto il Führer è il sovrano e perciò la fonte stessa del
diritto, colui che ha «l’autorità di giudicare». Egli teorizza, così, la necessità di concentrare la
potestà di comando in un capo, che deve combattere i nemici del Volk e a cui si deve prestare un
giuramento di fedeltà, anziché alle norme astratte ed impersonali di una Costituzione.
Secondo Franz Neumann, esponente della Scuola di Francoforte, il Führerprinzip, cioè la facoltà di
arbitrio e di potere nelle mani di Adolf Hitler, dà luogo a un non-Stato, al regno dell’illegalità e
dell’anarchia, dove di fatto è completamente assente la legge. Uno Stato - come ha messo in rilievo
Jan Kershaw - dove dal febbraio del 1938 non si tengono più le riunioni collegiali del consiglio dei
ministri, uno Stato che così si avvia verso la decomposizione11. Cosa il nazismo intenda per legalità
lo chiarisce ancora una volta Carl Schmitt: «solo colui che esercita un potere statale [..] senza avere
dalla sua parte la maggioranza del 51% è illegale e quindi “tiranno”. Chi detiene questa
maggioranza non commetterà più non-diritto, anzi trasformerà in diritto e legalità tutto ciò che fa» 12.
Si tratta di una legalità basata sul consenso plebiscitario - non importa in qual modo ottenuto -, sulla
forza, sulla codificazione di qualsiasi atto di potere.
Tenendo conto di tutto ciò, Franz Neumann, nella sua penetrante analisi sul regime nazista apparsa
nel 1942 e intitolata con il nome del mostro biblico del caos, Behemot, individua «due nozioni di
legge, una politica, l’altra razionale. In un senso politico, la legge è qualsiasi misura di un potere
sovrano, indipendentemente dalla sua forma o dal suo contenuto. Dichiarazioni di guerra e di pace,
leggi fiscali e civili, misure di polizia e sequestri, sentenze e norme legali applicate nell’emetterle,
sono tutte manifestazioni della legge in quanto espressioni di sovranità. La legge è dunque volontà e
null’altro. Il concetto razionale di legge, invece, è determinato dalla sua forma e dal suo contenuto,
non dalla sua origine. Non ogni atto del sovrano è legge. In questo senso, la legge è una norma,
comprensibile razionalmente, aperta a un’interpretazione teorica e contenente un postulato etico,
principalmente quello dell’eguaglianza. La legge è ragione e volontà. Molti teorici giusnaturalisti
arrivano sino a distinguere completamente la legge dalla volontà del sovrano. Per costoro, la legge è
un sistema di norme valido anche se la legge positiva dello Stato la ignora»13.




                                         La stagione dei diritti sociali

Nel vivo di una guerra di proporzioni gigantesche, quale è stato il secondo conflitto mondiale, alla
legalità illegittima del nazifascismo, all’utopia negativa del Nuovo Ordine di Hitler e di Himmler si
opporrà l’illegalità legittima dei movimenti di Resistenza, che si battono per la libertà, la giustizia
sociale e coltivano un’idea di Europa non più rosa dal tarlo dei nazionalismi. I fascismi, capeggiati
dalla loro versione più radicale, non riescono ad imporre il razzismo e il nazionalismo quali
connotati di una sintesi comunitaria poggiante sull’esclusione e sullo sterminio dell’altro, del
diverso, del nemico. Vince, invece, la piattaforma politica dell’antifascismo, fondata sulla
«ricomposizione tra nazione e democrazia», ricomposizione che sussume quella «tra classe e


11
   J. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, Roma-Bari, pp. 168-178.
12
   Carl Schmitt, Legalità e legittimità [1932], parzialmente tradotto in Idem, Le categorie del «politico» , Il Mulino,
Bologna 1972, p. 234.
13
   F. Neumann, Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Introduzione di Enzo Collotti, Feltrinelli, Milano
1977, p. 394.
5

nazione» e che è il presupposto del successivo Welfare State. L’antifascismo rappresenta, dunque, il
«punto d’arrivo di un’esperienza che contribuisce a definire» il Novecento14.
In particolare, in Italia «la lotta di Liberazione - ha osservato Luciano Canfora - ebbe, nei principi
affermati nella prima parte della nostra Costituzione, il suo coronamento e la sua codificazione.
Principi positivi, affermazioni grandi e impegnative. È lì la prova che l’antifascismo non era solo
contro qualcosa, ma era soprattutto per qualcosa: per un ordine più uguale, più umano» 15. Alla base
del cammino democratico intrapreso all’indomani del 1945, non senza contraddizioni e battute
d’arresto, c’è quindi la Resistenza con il suo carico di lotte e di speranze. Il patrimonio ideale e
politico dell’antifascismo viene posto, nella Costituzione italiana, a fondamento di una nuova e più
avanzata idea di cittadinanza, in una situazione marcata dalle difficoltà della ricostruzione e
dall’incombere della guerra fredda». La Carta del 1948 fa parte delle Carte di «nuova generazione»,
che accolgono, accanto ai diritti civili e politici, i diritti economico-sociali. L’aspetto maggiormente
innovativo di queste Carte è l’inserimento a pieno titolo dei diritti sociali16, con l’attribuzione del
compito ai pubblici poteri di superare progressivamente sperequazioni e dislivelli. Nella fase
costituente del secondo dopoguerra il principio di uguaglianza, non soltanto formale, dei cittadini e
quello della partecipazione popolare, organizzata liberamente in partiti politici forti di un seguito
elettorale e sociale, innervano sistemi istituzionali imperniati sulla divisione dei poteri e sul criterio
della rappresentanza.
Va sottolineato che una cospicua produzione normativa caratterizza la stagione dei diritti sociali,
segnata dal diffondersi del Welfare State nell’Europa nord-occidentale, dall’acquisizione di uno
status di cittadinanza in una prospettiva tendenzialmente egualitaria. Si cerca di assicurare l’accesso
a beni essenziali attraverso la creazione o il potenziamento di una rete di protezioni e servizi a
carico della collettività: istruzione, formazione, casa, sanità, sostegno agli infanti, disabili e anziani,
pensioni, sussidi di disoccupazione. Quello della sicurezza e del benessere sociale e materiale dei
cittadini viene assunto dallo Stato, nelle sue articolazioni istituzionali e territoriali, come uno degli
obiettivi prioritari. Frutto della saldatura, nelle costituzioni postbelliche, degli aspetti democratico-
formali e di quelli democratico-sociali, risultato da un lato delle rivendicazioni dei lavoratori,
dall’altro dello sforzo dei ceti dirigenti di integrare le masse popolari nello Stato attenuando la
conflittualità politica e sociale, il Welfare State, o Stato sociale, si contraddistingue per una
rilevante presenza pubblica nella previdenza e assistenza sociale, nella sanità, nell'istruzione e
edilizia popolare. Questa linea politica si sposa generalmente a un indirizzo dirigistico nella vita
economica, sia a livello legislativo, sia attraverso la programmazione economica e la gestione di
imprese pubbliche.

                                              Da cittadini a sudditi?

Il Welfare State impronta di sé fortemente l’assetto interno dei paesi capitalistici più avanzati di tipo
democratico sino a quando si riesce a coniugare sviluppo economico, incremento dell’occupazione
e redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro dipendente. Questo circolo virtuoso vien meno
in seguito alla crisi energetica e monetaria degli anni Settanta, quando il finanziamento delle
istituzioni dello Stato sociale, a causa dei costi crescenti dovuti pure agli sprechi di gestioni
clientelari, porta ad una «crisi fiscale» dello Stato.
Contemporaneamente si avvia la ristrutturazione del capitalismo internazionale che prende il nome
di globalizzazione, all’insegna del neoliberismo e del tentativo di restituire alle imprese un dominio
pressoché incontrastato. La globalizzazione neoliberista, incentrata sulla liberalizzazione dei
mercati finanziari, sottrae quote significative alla sovranità fiscale degli Stati nazionali e restringe

14
   F. De Felice (a cura di) Antifascismi e Resistenze, «Annali della Fondazione Istituto Gramsci», VI, La Nuova Italia
Scientifica, 1977, pp. ..
15
   La citazione è tratta dall’intervista di Luciano Canfora apparsa su «Liberazione» del 23 aprile 1998.
16
   Occorre precisare che i diritti economico-sociali sono stati riconosciuti per la prima volta dalla Costituzione tedesca
di Weimar del 1919.
6

notevolmente l’area di contrattazione e compensazione degli interessi di ceti diversi, su cui il
riformismo tradizionale e la spinta rivendicativa dei sindacati avevano esercitato la loro pressione.
A partire dalla fine degli anni Settanta, le forze che inneggiano all’efficienza del privato e alla
centralità del mercato sferrano un pesante attacco al Welfare e ai diritti sociali, invocando la
privatizzazione di ampi settori (pensioni, sanità, trasporti pubblici) e più recentemente di un bene
pubblico per eccellenza come l’acqua17. La flessibilità che esse propongono come panacea delle
disfunzioni del sistema economico diventa sinonimo ben presto di precarietà, incertezza, rottura
verticale della coesione sociale, come attesta la proliferazione, tra la fine del XX e l’inizio del XXI
secolo, degli impieghi atipici, dei contratti a tempo determinato, del part-time, dei co.co.co e dei
co.co.pro18. Con il declino della programmazione di stampo socialdemocratico non ci sono più
modelli di integrazione sociale. Di fronte al dispiegarsi di una globalizzazione sospinta da un
capitalismo che non vuole essere più intralciato da «lacci» e «lacciuoli» non paiono esserci più
interessi costituiti del tutto garantiti, né ceti stabili. Tutti, o quasi, possono ritrovarsi fra gli
impoveriti, come insegna quanto è accaduto in Argentina nel 2001. Tutti, o quasi, sono angosciati
da una pervasiva sensazione di fragilità e vulnerabilità. È la «modernità liquida» di cui parla
Zygmunt Bauman, quella che produce «vite da scarto», i derelitti che popolano le periferie urbane
del nostro Paese: rom, immigrati regolari ma senza alloggio, clandestini, nuovi poveri.
Con il ridimensionamento del Welfare State e la considerevole riduzione dei diritti sociali viene
messa in discussione l’idea di cittadinanza quale era stata proposta e articolata da Thomas Marshall
alla metà del secolo scorso: credibilità e prospettive della democrazia risultano seriamente incrinate,
indebolite. C’è chi, come il filosofo della politica Danilo Zolo, non esita a sostenere che sia in atto
una vera e propria regressione politica, che si manifesta attraverso processi di
esclusione/inclusione19. A rischio è l’intero sistema dei diritti, sotto la pressione del capitalismo
finanziario globalizzato, che si ripromette di mettere in mora la natura egualitaria della democrazia.
Con la cancellazione delle conquiste fondamentali del Novecento, si vuole una sorta di ritorno
all’Ottocento, come se il secolo XX fosse stato un incidente di percorso: un grande, radicale balzo
all’indietro.
Dopo la fine del bipolarismo, nell’età della globalizzazione, caratterizzata dalla crescente
interdipendenza economica, dalla continua ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro,
dall’emergere di nuovi competitori come Cina e India, la cittadinanza - con inevitabili ricadute sulla
legalità - sta subendo una profonda ridefinizione nelle società occidentali, nel corso di un passaggio
storico che vede l’estendersi dei fenomeni di precarietà della manodopera, l’evaporazione dei partiti
di massa, la mortificazione dei meccanismi delle istituzioni parlamentari. In mano a ristrette
cerchie, i partiti sono diventati per lo più comitati elettorali, che si affidano, per la diffusione dei
propri messaggi, delle proprie politiche, ai canali delle tv pubbliche e private. È sempre più la
logica della pubblicità commerciale a permeare notevolmente la propaganda politica; e sempre più
l’idea di cittadinanza democratica viene ad essere svuotata dalla videocrazia e sondocrazia, dalla
spettacolarizzazione e personalizzazione della politica.
Con l’avanzare della concentrazione e accumulazione nel campo dei mass-media si assiste al totale
ribaltamento nel rapporto tra controllori e controllati, alla vanificazione della partecipazione
politica20. È ormai assodato che i centri di potere politico, con l’ausilio dei mezzi di comunicazione
di massa, sono in grado di esercitare una notevole influenza sulle inclinazioni politiche dei cittadini,

17
   Si è calcolato che il 60% delle risorse idriche mondiali è destinato ad essere privatizzato.
18
   Sui costi umani, sulle conseguenze sociali dirompenti del modello capitalistico imperniato sulla flessibilità-precarietà
si leggano, tra gli altri, R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale,
Feltrinelli, Milano 2001, B. Ehrenreich, Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del
mondo, Feltrinelli, Milano 2002, A. Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese, Einaudi,
Torino 2006. Si consulti pure il Rapporto sui diritti globali, Ediesse, Roma 2004.
19
   D. Zolo, Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Edizioni Punto Rosso/Carta, Milano 2007.
20
   Ha osservato Colin Crouch in Postdemocrazia (Laterza, Roma-Bari 2003) come nella curva discendente della
parabola democratica, nella fase dell’entropia della democrazia il dibattito elettorale sia essenzialmente uno spettacolo
guidato da esperti della comunicazione, con i cittadini ridotti ad interpretare un ruolo passivo.
7

che corrono il rischio di essere trasformati in «nuovi sudditi». Attraverso la grande emittenza
televisiva, pubblica e privata, che costituisce l’anello centrale del «potere invisibile», si diffondono
«l’abulia operativa, la docilità sociale, la passività consumistica, la venerazione del potere e della
ricchezza altrui, la dipendenza cognitiva e immaginativa…»21. È indispensabile, perciò, condurre
una lotta per l’autonomia cognitiva, per non ritrovarsi «servi inconsapevoli di una tirannia
subliminale»22.

                                       La dicotomia cittadino/straniero

Non si può non rilevare, a questo punto, un fenomeno paradossale della situazione odierna, il
chiudersi delle frontiere in un mondo in movimento, accompagnato dalla tendenza a frantumare
l’universalismo della cittadinanza. Mentre la globalizzazione ha impresso una vorticosa
accelerazione ai flussi delle merci e delle informazioni, si cerca di negare il diritto (o la possibilità)
di circolazione a uomini e donne. Gli Stati si sforzano di ripristinare il ruolo immunizzante dei
confini, la distinzione tra il dentro e il fuori, con l’individuazione o l’invenzione di nuovi nemici
(gli extracomunitari, i rom, i romeni). La qualifica di cittadino, dunque, da un lato è sottoposta a un
sostanziale svuotamento dalle dinamiche in atto nella politica e nelle società occidentali, dall’altro
viene giocata in opposizione a quella di straniero, con i processi di esclusione o di assimilazione
subalterna riguardanti gli immigrati.
L’arrivo in Europa e in Italia di un esercito di badanti, colf, muratori, pizzaioli, portinai, braccianti a
giornata e operai anelanti a un futuro migliore è avvenuto in un contesto contraddistinto
dall’offuscarsi del Welfare State e dall’affermazione della globalizzazione neoliberista. Nelle
società europee la diversità portata dai migranti è vissuta spesso come insidia, come sfida pericolosa
a paesi basati sul mito dell’omogeneità etnica e culturale, tipica dei nazionalismi. Dinanzi
all’irrompere delle diversità è emersa la spinta a rinserrarsi, a mettere l’accento sulla propria
identità culturale. Roland Henri, direttore del Centro di ricerca dell’Institut du Monde Arabe et
islamique, ha senza mezzi termini affermato: «Gli europei ci vogliono come loro, con loro, ma non
da loro». Bisogna superare, invece, sia la strategia fondata - per dirla con Levi-Strauss -
sull’antropofagia (l’assimilazione degli stranieri), sia la strategia del «rigetto vomico», che mette al
bando «gli inadatti ad essere come noi».
Con la loro diversità, i migranti chiedono di fatto la riformulazione dell’idea di cittadinanza, la
costruzione di una società nella quale le differenze siano lievito, fattori positivi della convivenza
civile e politica23. La presenza di individui non facenti parte delle comunità locali deve indurre a
rivedere alcuni principi fondamentali, in particolare la concezione della cittadinanza identificata
sulla base dell’appartenenza nazionale. Si deve passare dal buio della cittadinanza negata alla
cittadinanza come idea unificante e non come concetto che differenzia e divide le persone. Secondo
Stefano Rodotà - fine giurista, civilmente impegnato - i diritti di cittadinanza debbono
accompagnare il cittadino indipendentemente dalla relazione che intrattiene con un territorio o con
un gruppo. Occorre guardare in modo più aperto al tema, sempre controverso, dell’universalità dei
diritti. La nuova nozione di cittadinanza non può che muovere da una considerazione integrale della
persona, ponendo al centro di essa diritti sociali e politici universalmente garantiti.

                                             La legalità securitaria



21
   D. Zolo, op. cit., p. 7.
22
   Ivi.
23
    Sul nodo dell’accesso alla sfera dei diritti di cittadinanza, nel loro significato formale e sostanziale, si veda C.
Mantovan, Immigrazione e cittadinanza, Franco Angeli, Milano 2007. Sulla ridefinizione dei diritti alla luce dei
movimenti migratori e della multiculturalità si legga pure N. Ammaturo e M. Antonietta Selvaggio (a cura di),
Globalizzazione e cittadinanze, C.E.I.M. Editrice, Mercato S. Severino (Sa) 2006.
8

Ben altri, invece, sono gli orientamenti prevalenti nelle società europee, specialmente in Italia, dove
sta avvenendo la saldatura tra razzismo istituzionale e razzismo popolare24. Il controllo
sull’immigrazione, irregolare e regolare, sempre più dettato dall’imporsi di semantiche xenofobe, ha
finito con il partorire una legalità securitaria,
persecutoria, slittando sovente nell’incostituzionalità più evidente, come nei casi del rifiuto
d’ingresso, del trattenimento senza motivo legale, dell’espulsione ingiustificata e delle vessazioni
(sino alla tortura) ai danni di non pochi stranieri islamici. A ciò si sono aggiunte la proposta di
istituire classi “differenziali” per stranieri, la legalizzazione delle ronde di quartiere, l’istigazione
alla delazione contro i clandestini che ricorrono alle cure mediche. Infine, nel 2009 il governo di
centro-destra ha incluso nel «pacchetto sulla sicurezza» il reato d’immigrazione clandestina, per cui
si è puniti non sulla base di un comportamento delittuoso, ma a causa della condizione in cui ci si
trova25.
La violazione di principi e diritti basilari, a cui è stato dato il crisma della legalità e che è una
manifestazione dell’attacco alla democrazia costituzionale, relega i cosiddetti clandestini nella
condizione di non-persone26. I migranti, sia irregolari che regolari, pur costituendo il 10% della
forza-lavoro, non hanno rappresentanza politica27; nel loro complesso essi sono i nuovi «meteci»,
cioè lavoratori senza diritti di cittadinanza o con diritti limitati, in uno scenario in cui si va facendo
più difficile per loro l’accesso ai servizi sociali, alla sanità e all’istruzione28. Chi è incluso nei
circuiti dell’economia, ma non detiene diritti civili e politici, più facilmente può diventare il
bersaglio, il capro espiatorio di campagne securitarie, in cui recitano un ruolo non secondario i
mass-media29 e quanti tendono a ricondurre ogni atto degli immigrati all’operato di un racket, di un
clan o di organizzazioni terroristiche.
La cosa si aggrava e complica ulteriormente in presenza di una crisi economica, come quella
esplosa nel settembre 2008 per effetto della speculazione finanziaria sui sub-prime. Infatti, con il
dilagare della disoccupazione, con il diffondersi dell’incertezza generata dal malessere sociale, il
«razzismo dei piccoli bianchi» si esacerba, si incrudelisce la lotta tra “ultimi” (i nuovi arrivati) e
“penultimi”, coloro che individuano negli stranieri dei concorrenti, dei nemici, i responsabili
principali delle loro traversie economiche. Molti tra i “penultimi”, i vinti della globalizzazione,
premiano le forze di destra e d‘estrema destra, che invocano l’instaurazione di un potere forte e di
una società chiusa, che paventano i pericoli dell’invasione, della disintegrazione del sistema di
valori della civiltà occidentale, della perdita irrimediabile di un’identità plurisecolare.
In un clima avvelenato da una vera e propria deriva xenofoba si fanno più frequenti, più ricorrenti
gli episodi di violenza a sfondo razzistico30: dall’uccisione a Milano, il 14 settembre 2008, di Abdul
Salam Guibre, un ragazzo nero italiano, al massacro camorristico, di lì a qualche giorno, di sei
extracomunitari a Castel Volturno, a quanto è accaduto a Brescia, nell’agosto 2009. In questo
prospero e laborioso centro del Nord una donna marocchina di 54 anni, in compagnia della madre di
83, è stata multata per 100 euro per essersi seduta su un gradino di piazza della Loggia; il 21 agosto,
24
   A. Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, Bari 2009, p. 11.
25
   Il reato d’immigrazione clandestina, cioè «l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio dello Stato», viene punito
con ammenda da 5 a 10.000 euro, processo davanti al giudice di pace ed espulsione. Va segnalato che il reato
d’immigrazione clandestina e il prolungamento della detenzione nei Centri d’identificazione ed espulsione, gli ex Cpt,
sono già presenti nelle legislazioni di altri paesi europei.
26
   Riprendo questa definizione da A. Dal Lago, autore di un penetrante saggio, Non-persone. L’esclusione dei migranti
in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004.
27
   Secondo le stime della Caritas in Italia gli immigrati irregolari ammontano nel 2009 a 1 milione, di cui il 35% è
arrivato via mare.
28
   Il leader della Lega Umberto Bossi ha puntualizzato: «niente case per gli stranieri»; il ministro Sacconi ha proposto di
privilegiare la manodopera italiana persino per i lavori stagionali.
29
   Basti pensare, a tal proposito, al caso dello «stupro della Caffarella» (2009), con i «mostri» rumeni sbattuti in prima
pagina.
30
   Sono numerose ormai le vittime di raid e aggressioni razzistiche. Già il 7 ottobre del 1989 decine di migliaia di
persone sono scese in piazza a Roma per la prima grande manifestazione italiana contro il razzismo, testimoniando il
loro sdegno per l’assassinio a Villa Literno - il precedente 24 agosto - del rifugiato politico sudafricano, Jerry Essan
Masslo.
9

il trentottenne di origine algerina, Abdallah Lakhdara, è stato insultato e pestato da quattro vigili
urbani, poi è stato rinchiuso per ore in una piccolissima stanza maleodorante e infine processato. A
Brescia, inoltre, una norma vieta ai call-center di esporre avvisi in lingua straniera e circolari della
polizia locale legano il 70% dei premi di produttività al controllo degli extracomunitari31.
Sempre nell’agosto 2009 73 eritrei hanno perso la vita mentre cercavano di raggiungere le coste
dell’Italia. Avvistati da almeno dieci navi, i migranti alla deriva hanno subito l’omissione di
soccorso a catena. Si è trattato dell’ennesima morte collettiva, dell’ennesima ecatombe nelle acque
del Mediterraneo, che si va trasformando in un grande cimitero marino. I respingimenti da parte
italiana e l’inasprirsi dei pattugliamenti libici, in base al trattato del 30 agosto 2008 siglato dai due
capi di governo Berlusconi e Gheddafi, che viola palesemente il rispetto dei principi umanitari della
convenzione di Ginevra, hanno reso ancor più rischiosa la traversata fra l’Africa e Lampedusa.
Sorte peggiore tocca poi a coloro che cadono nelle mani della Libia, dove i migranti o richiedenti
asilo rinchiusi in carceri, in cui languono in condizioni disumane sino alla morte.

                        Un ultimo esempio: l’illegalità dell’industria del crimine

Tratta di immigrati clandestini, di donne e minori, gioco d’azzardo, estorsione, usura, contrabbando,
traffico di stupefacenti, di armi, di materiali nucleari, di organi umani, smaltimento dei rifiuti tossici
e non, sono le attività su cui l’industria del crimine fonda le sue fortune. Ad uno sguardo
superficiale l’illegalità di tipo mafioso e/o camorristico sembra di facile, immediata identificazione.
Le cose, invece, sono meno semplici di quanto appaiono. Come dimostra la letteratura
sull’argomento, la nuova fisionomia delle grandi organizzazioni criminali, tra cui quelle campane, è
data dalla loro capacità di agire in maniera efficace nella terra di confine tra legalità e illegalità 32. Il
loro nuovo volto si nasconde dietro l’anonimato delle operazioni finanziarie, dietro la penetrazione
negli investimenti legali, rendendo più difficile distinguere le reti dell’economia legale da quelle
dell’economia illegale. Dal colossale giro d’affari che esse alimentano dipendono imponenti flussi
finanziari e commerciali, nonché tantissimi posti di lavoro. Grazie all’enorme patrimonio,
all’ingente quantità di denaro liquido di cui dispongono, esse si incuneano mediante la corruzione
nelle istituzioni pubbliche, si insediano negli interstizi più vulnerabili degli organismi statali,
prosperano sulle zone grigie di illegalità e di scarso controllo, approfittando delle sacche di
emarginazione, di povertà e di sottosviluppo. Beninteso, la violazione e l’aggiramento della legge
costituiscono la regola e la sostanza della loro identità33.
Di pari passo con la mondializzazione dei circuiti economici e informatici legali, le multinazionali
dell’illecito hanno assunto dimensioni e proiezione globali. Si sono giovate della liberalizzazione
del sistema dei cambi e della possibilità di spostare somme gigantesche per via elettronica al fine di
occultare o riciclare danaro sporco. Danaro proveniente specialmente dal traffico degli stupefacenti
e dei rifiuti tossici, ma pure dalla gestione dei viaggi degli immigrati clandestini.
È da notare l’emergere piuttosto recente delle mafie slave, che sono cresciute all’ombra del caos
politico determinato dalla caduta dei regimi del «socialismo reale». In Russia, Ucraina, Bulgaria,
Albania, Kosovo, Serbia e Croazia i gruppi criminali si sono rapidamente arricchiti rifornendo di
droghe le piazze occidentali e obbligando giovani donne a prostituirsi e a vivere di fatto da schiave.
Tornando alle grandi reti criminali italiane, va detto che esse dimostrano d’avere acquisito - ormai
da tempo - propensione e attitudini imprenditoriali34. Associazioni basate su una cultura familistica
e privatistica, attraverso l’intimidazione e la violenza perseguono esclusivamente il proprio
31
  Brescia è considerata il feudo del sindaco Adriano Paroli, vicino ai cattolici di Comunione e Liberazione, ma di fatto
è amministrata dal vice Fabio Rolfi, che si è formato alla scuola dei leghisti Borghezio e Tosi.
32
   Tra i numerosi titoli recentemente apparsi in libreria si vedano I. Sales (con la collaborazione di M. Ravveduto), Le
strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, R.
Capacchione, L’oro della camorra, Bur Rizzoli, Milano 2008.
33
   È appena il caso di notare come, per lo più, sia assente la grande criminalità nelle opere storiche sull’Italia
contemporanea, quasi non avesse contribuito a segnarne, talvolta pesantemente, vicende e percorsi.
1

tornaconto e profitto. Fornitrici di beni e servizi illeciti, come di beni leciti, esse sono le artefici di
un sistema ramificato di illegalità diffusa, che depaupera e stravolge la democrazia per imporre una
cultura della sudditanza, imperniata sull’accettazione della differenza ineliminabile tra chi domina e
chi è dominato.
Se l’illegalità della mafia, che spesso si tinge dei colori grevi del sangue, ora indossa le vesti
all’apparenza «inodori» dell’accumulazione economica, se la ‘ndrangheta calabrese può contare su
una liquidità superiore a quella della consorella siciliana, la camorra tra XX e XXI secolo ha
assunto una fisionomia sempre più plurale, essendo un conglomerato di organizzazioni locali,
sovente in conflitto tra loro. Con una configurazione di tipo orizzontale, essa si prefigge il controllo
di tutte le attività illegali sul territorio, intrattenendo con esso svariate e complesse relazioni.
Alla fine degli anni Ottanta, l’Alleanza di Secondigliano - dopo il tramonto di Raffaele Cutolo -
mette in atto il secondo progetto di unificazione delle numerose bande urbane, almeno a Napoli e
tra la città e i comuni limitrofi a Nord. Essa riunisce cinque clan, senza che ciascuno perda la sua
specificità, con una cassa unica, ma i proventi ripartiti tra cinque35. Anche questo tentativo
abortisce, in seguito alla sanguinosa faida scatenata dagli “scissionisti”, che farà registrare più di
500 morti tra l’inizio del 2004 e il 2008. Proprio alla frammentazione in numerose articolazioni è
riconducibile la pericolosità della camorra, ma pure il suo forte radicamento, la capacità cioè di
aderire plasticamente alle varie forme di illegalità estesesi nella vita economica e sociale di Napoli e
del suo entroterra.
Imprenditori di illegalità, di violenza urbana, i camorristi di Napoli, costretti a interminabili periodi
di latitanza, sempre più sono affiancati dalle «matrone dell’illegalità», mogli e figlie, che esibiscono
doti decisionali e gestionali nella cura dei traffici illeciti.
Un discorso a parte merita - ma qui si può fare solo un cenno - il clan dei casalesi in provincia di
Caserta, più simile per impianto e caratteristiche alla mafia siciliana. I suoi boss si sono trasformati
in veri e propri manager, che controllano una miriade di attività (aziende agricole, alberghi, locali
notturni, supermercati), riuscendo a mettere le mani sugli appalti di grandi opere del nostro Paese,
tra cui l’Alta Velocità, inserendosi lucrosamente nella raccolta della spazzatura, con la complicità di
esponenti del ceto politico. Come documentano inchieste giornalistiche e giudiziarie, essi per
decenni hanno provveduto a versare in discariche abusive i rifiuti tossici prodotti dalle industrie
settentrionali, inquinando gravemente intere zone della Campania.

                                                         *****

Dalle osservazioni sin qui svolte, dagli esempi sinora proposti riteniamo che traspaia
sufficientemente come alla luce del trinomio diritti-cittadinanza-legalità possa essere riconsiderata
la storia dell’età contemporanea, nei suoi aspetti cruciali, nelle sue varie fasi e scansioni. Insieme
con gli altri strumenti dell’educazione democratica, tra cui la conoscenza della Costituzione, del
diritto e delle carte internazionali, la storia consente di tracciare itinerari didattici finalizzati alla
formazione di un cittadino consapevole, dotato di un orizzonte critico, in grado di confrontarsi con
le identità plurime dell’odierno mondo globalizzato. Il punto irrinunciabile, non mediabile è la
questione dei diritti, della globalizzazione dei diritti, dentro cui si situa, deve situarsi la
problematica della legalità. Difesa del diritto ad un’esistenza decorosa, sicurezza di godimento dei
fondamentali servizi collettivi (sanità, istruzione, ma pure infrastrutture di trasporto collettivo,
tutela, specialmente delle fasce più deboli, dagli assalti, truffe e insicurezza generate da una
criminalità comune ed economica), fruibilità dei beni pubblici, finanziati prioritariamente sulla base
della solidarietà fiscale



34
   R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale del crimine, Bur Rizzoli, Milano 1991. Di grande utilità è pure la
lettura di I. Sales, La camorra le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988.
35
   Cfr. I. Sales, Le strade della violenza, op. cit..
1

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Diritti, cittadinanza, legalità nel labirinto della storia contemporanea

  • 1. 1 Diritti, cittadinanza, legalità nel labirinto della storia contemporanea di Francesco Soverina Pubblicato sulla rivista MERIDIONE. Sud e nord nel mondo, n. 1 gennaio-marzo 2010, ESI, Napoli, pp. 131-147. Ad onta di quanti tendono a darne una definizione rigida e astratta, il concetto di legalità è pregno di storicità, essendo stato declinato in vari modi e significati, a seconda dei contesti e dei periodi, dei rapporti tra le forze politiche e sociali di un dato momento storico1. Non si esaurisce, pertanto, nel rispetto della legge - è l’accezione formalistica e riduttiva - nell’ossequio di procedure, giacché quello di legalità si lega inscindibilmente ad altri due concetti-chiave, cittadinanza e democrazia, connotati storicamente dalle dinamiche e dai processi della tarda modernità e dell’età contemporanea. Va detto subito, a chiarire quanto intendiamo allorché ci riferiamo al trinomio legalità-cittadinanza- democrazia, che decisiva è la comparsa e l’affermazione, con la rivoluzione francese, del concetto di cittadinanza in uno Stato che non si identifica più con un monarca assoluto2. Si tratta però - è bene sottolinearlo immediatamente - di una cittadinanza monca, dimidiata, da cui a lungo rimangono escluse le donne, il polo della soggettività femminile. Tre generazioni di diritti Conviene ora mettere a fuoco il termine cittadinanza, che nell’uso moderno ha assunto due significati distinti: uno più propriamente giuridico, l’altro teorico-politico. Nel primo caso ci si riferisce all’appartenenza di un individuo a uno Stato, con i diritti e doveri che da ciò discendono; nel secondo alla titolarità, da parte di una persona, di diritti civili e politici e, a partire dal ventesimo secolo, sociali. Sulla base della tripartizione messa a punto da Thomas H. Marshall3, intorno alla metà del Novecento, si può senz’altro sostenere che il tema della cittadinanza si incrocia con il susseguirsi e intrecciarsi delle tre generazioni dei diritti: civili, politici e sociali. Com’è noto, i diritti civili - la libertà personale, di espressione, di associazione - sono stati postulati dal pensiero liberale, che attribuisce allo Stato la funzione precipua di eliminare gli ostacoli al dispiegarsi della libertà individuale. Accanto ad essi, il pensiero democratico ha rivendicato i diritti politici, cioè la possibilità per il cittadino di partecipare direttamente o indirettamente al governo dello Stato, e ha chiamato, così, in causa il diritto elettorale, sia attivo (scegliere i propri rappresentanti), sia passivo (essere eletti). A sua volta il pensiero socialista ha invocato il riconoscimento dei diritti sociali, chiedendo allo Stato di farsi carico dei problemi dei lavoratori e dei cittadini più svantaggiati, in modo da mettere tutti in un’effettiva condizione di uguaglianza. L’estensione della cultura dei diritti, con l’allargamento dell’area dei soggetti individuati come depositari e destinatari, è un processo in corso dalla fine del Settecento, ma l’ampliamento della sfera dei diritti e dei suoi beneficiari non si è svolto secondo modalità e ritmi lineari, all’insegna delle «magnifiche sorti e progressive»; esso è stato frutto, invece, di lotte spesso lunghe e sofferte, di battaglie aspre e intense. Ciascuna fase d’espansione dei diritti - si è osservato - è stata contrastata da una risposta conservatrice, da una mobilitazione reazionaria4. I diritti civili, retaggio 1 Percorsi storici sul tema della legalità, arricchiti da riattraversamenti letterari e filosofici, si trovano in C. Bucciero, Lezioni di Educazione alla legalità, Massa Editore, Napoli 2005. 2 Si tengano presenti i quattro, corposi volumi di P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, pubblicati da Laterza, nonché S. Veca, Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione, nuova edizione, Feltrinelli, Milano 2008 e, soprattutto in chiave didattica, A. Cavalli - G. Deiana, Educare alla cittadinanza democratica. Etica civile e giovani nella scuola dell’autonomia, Carocci, Roma 1999. 3 T. H. Marshall, Citizenship and Social Class and other essays, Cambridge University Press, Cambridge 1950. Marshall ritornerà sull’argomento in scritti successivi a questo che rimane il suo testo fondamentale. 4 A. O. Hirschmann, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991; F. De Giorgi, Le forme della politica tra diritto, economia ed etica in Idem (a cura di) Approfondire il Novecento. Temi e problemi della storia contemporanea, Carocci, Roma 2001.
  • 2. 2 della Grande rivoluzione e propugnati dai liberali, sono stati cruentamente avversati dai movimenti controrivoluzionari e sanfedisti, messi al bando nei regimi legittimisti della Restaurazione, confutati da ideologi reazionari come De Bonald e Lamennais. I diritti politici democratici sono stati messi in discussione, tra Otto e Novecento, dalle dottrine politiche elitiste (Pareto, Mosca), vilipesi dalle destre autoritarie e antiparlamentari, conculcati dalle dittature e dai totalitarismi. Infine, negli ultimi decenni del Novecento i diritti sociali sono stati ridimensionati e duramente colpiti dall’offensiva neoliberista promossa, sulle due sponde dell’Atlantico, dai ceti e gruppi che si riconoscevano nei leader conservatori Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Legalità illegittima e illegalità legittima È opportuno adesso esplicitare che dentro il passaggio storico dalla condizione di sudditi a quella di cittadini si situa il concetto di legalità quale «matrice culturale della civiltà del diritto». Un sistema di regole condivise, oggettive e razionali «diventa [..] - nota Francesco Bilancia - la fonte della legalità e della giustizia sottraendo al sovrano ogni possibile strumento di autoritarismo»5. La legalità, quale concretamente viene prendendo corpo con l’adozione delle Costituzioni nel corso del XIX secolo, si ispira ad un universalismo ristretto, incentrato sul “cittadino proprietario”. È la legalità borghese: essa promana, discende da istituzioni statuali che riflettono - non meccanicamente, è ovvio - quanto si dà e matura nella realtà materiale, che rispecchiano gli equilibri, i rapporti tra classi, ceti e forze politiche. In paesi come l’Italia le agitazioni, le spinte rivendicative suscitate dal ribollire della «questione sociale» vengono considerate come un problema d’ordine pubblico, da risolvere manu militari. Il diritto di sciopero sarà legalizzato con il nuovo codice penale del 1889, che peraltro abolisce la pena di morte, successivamente reintrodotta dal fascismo. Ma negli ultimi anni dell’Ottocento, di fronte alla crescita dei movimenti popolari, l’oligarchia liberale al potere si attesta su una linea di totale chiusura, ricorrendo alle maniere forti in occasione della «crisi di fine secolo», esplosa nel 1898 con una serie di manifestazioni e tumulti contro il carovita. A Milano il generale Bava Beccaris ordina di sparare sulla folla: decine e decine i morti e feriti. Sul terreno politico-istituzionale Sidney Sonnino, con il suo appello Torniamo allo Statuto (1897), Di Rudinì e Pelloux, con i loro progetti liberticidi, cercano di risospingere indietro il movimento operaio e socialista attraverso un’interpretazione restrittiva dello Statuto albertino. Tuttavia, il disegno degli ambienti conservatori e reazionari viene battuto per la ferma opposizione di socialisti e radicali, a cui si aggiungono i deputati liberali della sinistra costituzionale. Nonostante siano poste, così, le premesse della svolta che avrà in Giovanni Giolitti il suo principale artefice, continuano nel Mezzogiorno gli eccidi polizieschi di braccianti e lavoratori. In segno di protesta per i fatti sanguinosi di Cerignola (Bari), Buggerru (Cagliari) e Castelluzzo (Trapani), dal 16 al 21 settembre 1904, in molte città del Centro-nord, nei maggiori centri del Sud e nelle campagne dove è più avanzata l’organizzazione dei contadini, si svolge il primo sciopero generale della storia italiana. Se durante la «crisi di fine secolo» si sfiora «il colpo di Stato della borghesia» (U. Levra), «il sovversivismo delle classi dirigenti» (A. Gramsci) riemerge, si riaffaccia prepotentemente nel primo dopoguerra, trovando il suo strumento più efficace nel fascismo, che combina la violenza squadristica con la presenza e l’azione in Parlamento e nelle istituzioni. Grazie all’uso spregiudicato di metodi legali ed antilegali, la formazione politica capitanata da Benito Mussolini si insedia al governo del Paese nell’ottobre 1922 per rimanervi sino al 25 luglio 1943. Nel 1925, alcuni mesi dopo il delitto Matteotti, il fascismo instaura in Italia una vera e propria dittatura, ma non abroga lo Statuto, anche se nella sostanza lo modifica fino a stravolgerlo. Con le leggi «fascistissime», emanate tra il 1925 e il 1926, riduce o azzera le libertà personali, scioglie i partiti di opposizione, controlla la stampa con la censura, assegna un ruolo costituzionale ad un organo di partito come il Gran Consiglio del Fascismo, proibisce gli scioperi e proclama il corporativismo. Le leggi 5 F. Bilancia, Il valore della legalità nello Stato democratico rappresentativo in «Critica marxista», n. 5/2007.
  • 3. 3 «fascistissime» smantellano il vecchio edificio liberale, che tutelava i diritti civili, e modellano, con i provvedimenti per la difesa dello Stato (dalla pena di morte all’istituzione del Tribunale speciale e del confino), un regime di polizia senza precedenti nella storia dell’Italia unitaria. Da ciò che sin qui si è detto risulta evidente come la tematica della legalità sia più complessa di quanto apparentemente sembri. Correlata con la nozione di cittadinanza, la legalità chiama in causa il concetto di legittimità, intendendo con esso ciò che è coerente con principi superiori, quali i valori di libertà, solidarietà, pace, uguaglianza e giustizia sociale che sono alla base del patto costituzionale italiano e che costituiscono gli imprescindibili punti di riferimento dei processi di costruzione democratica. Riteniamo, perciò, feconda la distinzione tra una legalità illegittima, quale si rinviene nelle dittature fasciste, e una illegalità legittima, quale è espressa dai movimenti di Resistenza nell’Europa assoggettata al Terzo Reich. Un caso esemplare di legalità illegittima: il regime nazista Della prima coppia categoriale il regime nazista rappresenta un caso esemplare. Esso ridefinisce l’idea di cittadinanza6 sulla base della presunta identità razziale della Volksgemeinschaft, del mito fondativo del Volk, secondo il dispositivo dentro-fuori, secondo la contrapposizione noi-loro: da un lato i membri della comunità di sangue e suolo, dall’altro gli estranei alla stirpe7. L’enfatizzazione di questa dicotomia, codificata nelle Leggi di Norimberga del 1935, consente la creazione del “confine interno”, della figura del nemico, individuato in chi non è Volksgenosse, nel diverso, in colui che attenta all’integrità della stirpe, nel deviante. E la devianza «è lo stigma di una diversità biologica, è l’espressione di quella “degenerazione” che ossessionava l’antropologia e la criminologia tardo-ottocentesca»8. Sin dalla fondazione del regime, il nazismo, che si ispira ad un’ideologia in cui confluiscono teorie eugenetiche, dottrine razziali e stereotipi socialdarwiniani, attua una biopolitica coattiva9. Infatti, già il 14 luglio 1933, è emanata la legge sulla sterilizzazione di individui affetti da malattie considerate ereditarie (frenastenia, schizofrenia, epilessia, cecità e sordità genetiche, alcolismo), che è lo sbocco, la traduzione legislativa del percorso dell’eugenetica europea. È la prima tappa della legalizzazione dei crimini contro i diversi. Si arriva poi ad erigere il male a norma, ad arrogarsi il diritto di vita e di morte, a sopprimere le «bocche inutili», le «vite indegne di essere vissute», a perseguire l’obiettivo del genocidio di interi gruppi umani come gli ebrei, i sinti e rom. La lotta contro tutti i «portatori di sangue straniero», la «rigenerazione fisica attraverso l’eliminazione», il male industrializzato ex lege partoriscono il killer di Stato e il burocrate dello sterminio, «lo scrivano della fine delle vite altrui, colui del quale lo Stato autoritario si serve per dare una veste giuridico-organizzativa all’omicidio seriale dei propri oppositori o nemici»10. Il Lager - incarnazione del progetto e delle finalità del totalitarismo nazista - è la materializzazione della neutralizzazione del crimine, lo spazio in cui si opera la reificazione della vittima con la numerazione dei deportati come Stücke (pezzi), con la loro riduzione a merce di «fabbriche della morte», di campi d’annichilimento fisico e psicologico. Il contro-illuminismo politico e ideologico 6 Nel Mein Kampf essa è concepita non in senso giuridico-formale, ma come un vincolo di razza e sangue che codifica ed esalta le differenze. 7 Si veda P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 4. L’età dei totalitarismi e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 306-368, nonché Andrea Bienati, Dall’inchiostro al sangue. Quando il crimine è legalizzato, Proedi, Milano 2003. 8 P. Costa, cit., p. 349. 9 A Michel Foucault si deve un’acuta riflessione sul concetto di biopolitica. Secondo il filosofo francese il potere coercitivo-disciplinare incide sull’anima lavorando sul corpo. 10 A. Bienati, cit., p. 78. È appena il caso di ricordare che il regime nazista premia il disumano zelo nel «compimento delle proprie mansioni»: coloro che partecipano alla lotta contro il diverso fanno carriera, salendo i gradini della scala sociale e burocratica.
  • 4. 4 del nazismo dà vita all’universo concentrazionario, che costituisce il ribaltamento, la negazione estrema della cittadinanza quale era stata concepita dalla rivoluzione francese in poi. Ogni atto, ogni provvedimento del regime nazista viene fondato sul Führerprinzip, formulato come meglio non si potrebbe da Carl Schmitt. Nel giustificare la «notte dei lunghi coltelli» - il sanguinoso regolamento di conti del 30 giugno 1934 - il giurista e politologo tedesco sostiene che qualunque decisione del Führer ha valore di legge, in quanto il Führer è il sovrano e perciò la fonte stessa del diritto, colui che ha «l’autorità di giudicare». Egli teorizza, così, la necessità di concentrare la potestà di comando in un capo, che deve combattere i nemici del Volk e a cui si deve prestare un giuramento di fedeltà, anziché alle norme astratte ed impersonali di una Costituzione. Secondo Franz Neumann, esponente della Scuola di Francoforte, il Führerprinzip, cioè la facoltà di arbitrio e di potere nelle mani di Adolf Hitler, dà luogo a un non-Stato, al regno dell’illegalità e dell’anarchia, dove di fatto è completamente assente la legge. Uno Stato - come ha messo in rilievo Jan Kershaw - dove dal febbraio del 1938 non si tengono più le riunioni collegiali del consiglio dei ministri, uno Stato che così si avvia verso la decomposizione11. Cosa il nazismo intenda per legalità lo chiarisce ancora una volta Carl Schmitt: «solo colui che esercita un potere statale [..] senza avere dalla sua parte la maggioranza del 51% è illegale e quindi “tiranno”. Chi detiene questa maggioranza non commetterà più non-diritto, anzi trasformerà in diritto e legalità tutto ciò che fa» 12. Si tratta di una legalità basata sul consenso plebiscitario - non importa in qual modo ottenuto -, sulla forza, sulla codificazione di qualsiasi atto di potere. Tenendo conto di tutto ciò, Franz Neumann, nella sua penetrante analisi sul regime nazista apparsa nel 1942 e intitolata con il nome del mostro biblico del caos, Behemot, individua «due nozioni di legge, una politica, l’altra razionale. In un senso politico, la legge è qualsiasi misura di un potere sovrano, indipendentemente dalla sua forma o dal suo contenuto. Dichiarazioni di guerra e di pace, leggi fiscali e civili, misure di polizia e sequestri, sentenze e norme legali applicate nell’emetterle, sono tutte manifestazioni della legge in quanto espressioni di sovranità. La legge è dunque volontà e null’altro. Il concetto razionale di legge, invece, è determinato dalla sua forma e dal suo contenuto, non dalla sua origine. Non ogni atto del sovrano è legge. In questo senso, la legge è una norma, comprensibile razionalmente, aperta a un’interpretazione teorica e contenente un postulato etico, principalmente quello dell’eguaglianza. La legge è ragione e volontà. Molti teorici giusnaturalisti arrivano sino a distinguere completamente la legge dalla volontà del sovrano. Per costoro, la legge è un sistema di norme valido anche se la legge positiva dello Stato la ignora»13. La stagione dei diritti sociali Nel vivo di una guerra di proporzioni gigantesche, quale è stato il secondo conflitto mondiale, alla legalità illegittima del nazifascismo, all’utopia negativa del Nuovo Ordine di Hitler e di Himmler si opporrà l’illegalità legittima dei movimenti di Resistenza, che si battono per la libertà, la giustizia sociale e coltivano un’idea di Europa non più rosa dal tarlo dei nazionalismi. I fascismi, capeggiati dalla loro versione più radicale, non riescono ad imporre il razzismo e il nazionalismo quali connotati di una sintesi comunitaria poggiante sull’esclusione e sullo sterminio dell’altro, del diverso, del nemico. Vince, invece, la piattaforma politica dell’antifascismo, fondata sulla «ricomposizione tra nazione e democrazia», ricomposizione che sussume quella «tra classe e 11 J. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, Roma-Bari, pp. 168-178. 12 Carl Schmitt, Legalità e legittimità [1932], parzialmente tradotto in Idem, Le categorie del «politico» , Il Mulino, Bologna 1972, p. 234. 13 F. Neumann, Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Introduzione di Enzo Collotti, Feltrinelli, Milano 1977, p. 394.
  • 5. 5 nazione» e che è il presupposto del successivo Welfare State. L’antifascismo rappresenta, dunque, il «punto d’arrivo di un’esperienza che contribuisce a definire» il Novecento14. In particolare, in Italia «la lotta di Liberazione - ha osservato Luciano Canfora - ebbe, nei principi affermati nella prima parte della nostra Costituzione, il suo coronamento e la sua codificazione. Principi positivi, affermazioni grandi e impegnative. È lì la prova che l’antifascismo non era solo contro qualcosa, ma era soprattutto per qualcosa: per un ordine più uguale, più umano» 15. Alla base del cammino democratico intrapreso all’indomani del 1945, non senza contraddizioni e battute d’arresto, c’è quindi la Resistenza con il suo carico di lotte e di speranze. Il patrimonio ideale e politico dell’antifascismo viene posto, nella Costituzione italiana, a fondamento di una nuova e più avanzata idea di cittadinanza, in una situazione marcata dalle difficoltà della ricostruzione e dall’incombere della guerra fredda». La Carta del 1948 fa parte delle Carte di «nuova generazione», che accolgono, accanto ai diritti civili e politici, i diritti economico-sociali. L’aspetto maggiormente innovativo di queste Carte è l’inserimento a pieno titolo dei diritti sociali16, con l’attribuzione del compito ai pubblici poteri di superare progressivamente sperequazioni e dislivelli. Nella fase costituente del secondo dopoguerra il principio di uguaglianza, non soltanto formale, dei cittadini e quello della partecipazione popolare, organizzata liberamente in partiti politici forti di un seguito elettorale e sociale, innervano sistemi istituzionali imperniati sulla divisione dei poteri e sul criterio della rappresentanza. Va sottolineato che una cospicua produzione normativa caratterizza la stagione dei diritti sociali, segnata dal diffondersi del Welfare State nell’Europa nord-occidentale, dall’acquisizione di uno status di cittadinanza in una prospettiva tendenzialmente egualitaria. Si cerca di assicurare l’accesso a beni essenziali attraverso la creazione o il potenziamento di una rete di protezioni e servizi a carico della collettività: istruzione, formazione, casa, sanità, sostegno agli infanti, disabili e anziani, pensioni, sussidi di disoccupazione. Quello della sicurezza e del benessere sociale e materiale dei cittadini viene assunto dallo Stato, nelle sue articolazioni istituzionali e territoriali, come uno degli obiettivi prioritari. Frutto della saldatura, nelle costituzioni postbelliche, degli aspetti democratico- formali e di quelli democratico-sociali, risultato da un lato delle rivendicazioni dei lavoratori, dall’altro dello sforzo dei ceti dirigenti di integrare le masse popolari nello Stato attenuando la conflittualità politica e sociale, il Welfare State, o Stato sociale, si contraddistingue per una rilevante presenza pubblica nella previdenza e assistenza sociale, nella sanità, nell'istruzione e edilizia popolare. Questa linea politica si sposa generalmente a un indirizzo dirigistico nella vita economica, sia a livello legislativo, sia attraverso la programmazione economica e la gestione di imprese pubbliche. Da cittadini a sudditi? Il Welfare State impronta di sé fortemente l’assetto interno dei paesi capitalistici più avanzati di tipo democratico sino a quando si riesce a coniugare sviluppo economico, incremento dell’occupazione e redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro dipendente. Questo circolo virtuoso vien meno in seguito alla crisi energetica e monetaria degli anni Settanta, quando il finanziamento delle istituzioni dello Stato sociale, a causa dei costi crescenti dovuti pure agli sprechi di gestioni clientelari, porta ad una «crisi fiscale» dello Stato. Contemporaneamente si avvia la ristrutturazione del capitalismo internazionale che prende il nome di globalizzazione, all’insegna del neoliberismo e del tentativo di restituire alle imprese un dominio pressoché incontrastato. La globalizzazione neoliberista, incentrata sulla liberalizzazione dei mercati finanziari, sottrae quote significative alla sovranità fiscale degli Stati nazionali e restringe 14 F. De Felice (a cura di) Antifascismi e Resistenze, «Annali della Fondazione Istituto Gramsci», VI, La Nuova Italia Scientifica, 1977, pp. .. 15 La citazione è tratta dall’intervista di Luciano Canfora apparsa su «Liberazione» del 23 aprile 1998. 16 Occorre precisare che i diritti economico-sociali sono stati riconosciuti per la prima volta dalla Costituzione tedesca di Weimar del 1919.
  • 6. 6 notevolmente l’area di contrattazione e compensazione degli interessi di ceti diversi, su cui il riformismo tradizionale e la spinta rivendicativa dei sindacati avevano esercitato la loro pressione. A partire dalla fine degli anni Settanta, le forze che inneggiano all’efficienza del privato e alla centralità del mercato sferrano un pesante attacco al Welfare e ai diritti sociali, invocando la privatizzazione di ampi settori (pensioni, sanità, trasporti pubblici) e più recentemente di un bene pubblico per eccellenza come l’acqua17. La flessibilità che esse propongono come panacea delle disfunzioni del sistema economico diventa sinonimo ben presto di precarietà, incertezza, rottura verticale della coesione sociale, come attesta la proliferazione, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, degli impieghi atipici, dei contratti a tempo determinato, del part-time, dei co.co.co e dei co.co.pro18. Con il declino della programmazione di stampo socialdemocratico non ci sono più modelli di integrazione sociale. Di fronte al dispiegarsi di una globalizzazione sospinta da un capitalismo che non vuole essere più intralciato da «lacci» e «lacciuoli» non paiono esserci più interessi costituiti del tutto garantiti, né ceti stabili. Tutti, o quasi, possono ritrovarsi fra gli impoveriti, come insegna quanto è accaduto in Argentina nel 2001. Tutti, o quasi, sono angosciati da una pervasiva sensazione di fragilità e vulnerabilità. È la «modernità liquida» di cui parla Zygmunt Bauman, quella che produce «vite da scarto», i derelitti che popolano le periferie urbane del nostro Paese: rom, immigrati regolari ma senza alloggio, clandestini, nuovi poveri. Con il ridimensionamento del Welfare State e la considerevole riduzione dei diritti sociali viene messa in discussione l’idea di cittadinanza quale era stata proposta e articolata da Thomas Marshall alla metà del secolo scorso: credibilità e prospettive della democrazia risultano seriamente incrinate, indebolite. C’è chi, come il filosofo della politica Danilo Zolo, non esita a sostenere che sia in atto una vera e propria regressione politica, che si manifesta attraverso processi di esclusione/inclusione19. A rischio è l’intero sistema dei diritti, sotto la pressione del capitalismo finanziario globalizzato, che si ripromette di mettere in mora la natura egualitaria della democrazia. Con la cancellazione delle conquiste fondamentali del Novecento, si vuole una sorta di ritorno all’Ottocento, come se il secolo XX fosse stato un incidente di percorso: un grande, radicale balzo all’indietro. Dopo la fine del bipolarismo, nell’età della globalizzazione, caratterizzata dalla crescente interdipendenza economica, dalla continua ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro, dall’emergere di nuovi competitori come Cina e India, la cittadinanza - con inevitabili ricadute sulla legalità - sta subendo una profonda ridefinizione nelle società occidentali, nel corso di un passaggio storico che vede l’estendersi dei fenomeni di precarietà della manodopera, l’evaporazione dei partiti di massa, la mortificazione dei meccanismi delle istituzioni parlamentari. In mano a ristrette cerchie, i partiti sono diventati per lo più comitati elettorali, che si affidano, per la diffusione dei propri messaggi, delle proprie politiche, ai canali delle tv pubbliche e private. È sempre più la logica della pubblicità commerciale a permeare notevolmente la propaganda politica; e sempre più l’idea di cittadinanza democratica viene ad essere svuotata dalla videocrazia e sondocrazia, dalla spettacolarizzazione e personalizzazione della politica. Con l’avanzare della concentrazione e accumulazione nel campo dei mass-media si assiste al totale ribaltamento nel rapporto tra controllori e controllati, alla vanificazione della partecipazione politica20. È ormai assodato che i centri di potere politico, con l’ausilio dei mezzi di comunicazione di massa, sono in grado di esercitare una notevole influenza sulle inclinazioni politiche dei cittadini, 17 Si è calcolato che il 60% delle risorse idriche mondiali è destinato ad essere privatizzato. 18 Sui costi umani, sulle conseguenze sociali dirompenti del modello capitalistico imperniato sulla flessibilità-precarietà si leggano, tra gli altri, R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2001, B. Ehrenreich, Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo, Feltrinelli, Milano 2002, A. Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese, Einaudi, Torino 2006. Si consulti pure il Rapporto sui diritti globali, Ediesse, Roma 2004. 19 D. Zolo, Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Edizioni Punto Rosso/Carta, Milano 2007. 20 Ha osservato Colin Crouch in Postdemocrazia (Laterza, Roma-Bari 2003) come nella curva discendente della parabola democratica, nella fase dell’entropia della democrazia il dibattito elettorale sia essenzialmente uno spettacolo guidato da esperti della comunicazione, con i cittadini ridotti ad interpretare un ruolo passivo.
  • 7. 7 che corrono il rischio di essere trasformati in «nuovi sudditi». Attraverso la grande emittenza televisiva, pubblica e privata, che costituisce l’anello centrale del «potere invisibile», si diffondono «l’abulia operativa, la docilità sociale, la passività consumistica, la venerazione del potere e della ricchezza altrui, la dipendenza cognitiva e immaginativa…»21. È indispensabile, perciò, condurre una lotta per l’autonomia cognitiva, per non ritrovarsi «servi inconsapevoli di una tirannia subliminale»22. La dicotomia cittadino/straniero Non si può non rilevare, a questo punto, un fenomeno paradossale della situazione odierna, il chiudersi delle frontiere in un mondo in movimento, accompagnato dalla tendenza a frantumare l’universalismo della cittadinanza. Mentre la globalizzazione ha impresso una vorticosa accelerazione ai flussi delle merci e delle informazioni, si cerca di negare il diritto (o la possibilità) di circolazione a uomini e donne. Gli Stati si sforzano di ripristinare il ruolo immunizzante dei confini, la distinzione tra il dentro e il fuori, con l’individuazione o l’invenzione di nuovi nemici (gli extracomunitari, i rom, i romeni). La qualifica di cittadino, dunque, da un lato è sottoposta a un sostanziale svuotamento dalle dinamiche in atto nella politica e nelle società occidentali, dall’altro viene giocata in opposizione a quella di straniero, con i processi di esclusione o di assimilazione subalterna riguardanti gli immigrati. L’arrivo in Europa e in Italia di un esercito di badanti, colf, muratori, pizzaioli, portinai, braccianti a giornata e operai anelanti a un futuro migliore è avvenuto in un contesto contraddistinto dall’offuscarsi del Welfare State e dall’affermazione della globalizzazione neoliberista. Nelle società europee la diversità portata dai migranti è vissuta spesso come insidia, come sfida pericolosa a paesi basati sul mito dell’omogeneità etnica e culturale, tipica dei nazionalismi. Dinanzi all’irrompere delle diversità è emersa la spinta a rinserrarsi, a mettere l’accento sulla propria identità culturale. Roland Henri, direttore del Centro di ricerca dell’Institut du Monde Arabe et islamique, ha senza mezzi termini affermato: «Gli europei ci vogliono come loro, con loro, ma non da loro». Bisogna superare, invece, sia la strategia fondata - per dirla con Levi-Strauss - sull’antropofagia (l’assimilazione degli stranieri), sia la strategia del «rigetto vomico», che mette al bando «gli inadatti ad essere come noi». Con la loro diversità, i migranti chiedono di fatto la riformulazione dell’idea di cittadinanza, la costruzione di una società nella quale le differenze siano lievito, fattori positivi della convivenza civile e politica23. La presenza di individui non facenti parte delle comunità locali deve indurre a rivedere alcuni principi fondamentali, in particolare la concezione della cittadinanza identificata sulla base dell’appartenenza nazionale. Si deve passare dal buio della cittadinanza negata alla cittadinanza come idea unificante e non come concetto che differenzia e divide le persone. Secondo Stefano Rodotà - fine giurista, civilmente impegnato - i diritti di cittadinanza debbono accompagnare il cittadino indipendentemente dalla relazione che intrattiene con un territorio o con un gruppo. Occorre guardare in modo più aperto al tema, sempre controverso, dell’universalità dei diritti. La nuova nozione di cittadinanza non può che muovere da una considerazione integrale della persona, ponendo al centro di essa diritti sociali e politici universalmente garantiti. La legalità securitaria 21 D. Zolo, op. cit., p. 7. 22 Ivi. 23 Sul nodo dell’accesso alla sfera dei diritti di cittadinanza, nel loro significato formale e sostanziale, si veda C. Mantovan, Immigrazione e cittadinanza, Franco Angeli, Milano 2007. Sulla ridefinizione dei diritti alla luce dei movimenti migratori e della multiculturalità si legga pure N. Ammaturo e M. Antonietta Selvaggio (a cura di), Globalizzazione e cittadinanze, C.E.I.M. Editrice, Mercato S. Severino (Sa) 2006.
  • 8. 8 Ben altri, invece, sono gli orientamenti prevalenti nelle società europee, specialmente in Italia, dove sta avvenendo la saldatura tra razzismo istituzionale e razzismo popolare24. Il controllo sull’immigrazione, irregolare e regolare, sempre più dettato dall’imporsi di semantiche xenofobe, ha finito con il partorire una legalità securitaria, persecutoria, slittando sovente nell’incostituzionalità più evidente, come nei casi del rifiuto d’ingresso, del trattenimento senza motivo legale, dell’espulsione ingiustificata e delle vessazioni (sino alla tortura) ai danni di non pochi stranieri islamici. A ciò si sono aggiunte la proposta di istituire classi “differenziali” per stranieri, la legalizzazione delle ronde di quartiere, l’istigazione alla delazione contro i clandestini che ricorrono alle cure mediche. Infine, nel 2009 il governo di centro-destra ha incluso nel «pacchetto sulla sicurezza» il reato d’immigrazione clandestina, per cui si è puniti non sulla base di un comportamento delittuoso, ma a causa della condizione in cui ci si trova25. La violazione di principi e diritti basilari, a cui è stato dato il crisma della legalità e che è una manifestazione dell’attacco alla democrazia costituzionale, relega i cosiddetti clandestini nella condizione di non-persone26. I migranti, sia irregolari che regolari, pur costituendo il 10% della forza-lavoro, non hanno rappresentanza politica27; nel loro complesso essi sono i nuovi «meteci», cioè lavoratori senza diritti di cittadinanza o con diritti limitati, in uno scenario in cui si va facendo più difficile per loro l’accesso ai servizi sociali, alla sanità e all’istruzione28. Chi è incluso nei circuiti dell’economia, ma non detiene diritti civili e politici, più facilmente può diventare il bersaglio, il capro espiatorio di campagne securitarie, in cui recitano un ruolo non secondario i mass-media29 e quanti tendono a ricondurre ogni atto degli immigrati all’operato di un racket, di un clan o di organizzazioni terroristiche. La cosa si aggrava e complica ulteriormente in presenza di una crisi economica, come quella esplosa nel settembre 2008 per effetto della speculazione finanziaria sui sub-prime. Infatti, con il dilagare della disoccupazione, con il diffondersi dell’incertezza generata dal malessere sociale, il «razzismo dei piccoli bianchi» si esacerba, si incrudelisce la lotta tra “ultimi” (i nuovi arrivati) e “penultimi”, coloro che individuano negli stranieri dei concorrenti, dei nemici, i responsabili principali delle loro traversie economiche. Molti tra i “penultimi”, i vinti della globalizzazione, premiano le forze di destra e d‘estrema destra, che invocano l’instaurazione di un potere forte e di una società chiusa, che paventano i pericoli dell’invasione, della disintegrazione del sistema di valori della civiltà occidentale, della perdita irrimediabile di un’identità plurisecolare. In un clima avvelenato da una vera e propria deriva xenofoba si fanno più frequenti, più ricorrenti gli episodi di violenza a sfondo razzistico30: dall’uccisione a Milano, il 14 settembre 2008, di Abdul Salam Guibre, un ragazzo nero italiano, al massacro camorristico, di lì a qualche giorno, di sei extracomunitari a Castel Volturno, a quanto è accaduto a Brescia, nell’agosto 2009. In questo prospero e laborioso centro del Nord una donna marocchina di 54 anni, in compagnia della madre di 83, è stata multata per 100 euro per essersi seduta su un gradino di piazza della Loggia; il 21 agosto, 24 A. Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, Bari 2009, p. 11. 25 Il reato d’immigrazione clandestina, cioè «l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio dello Stato», viene punito con ammenda da 5 a 10.000 euro, processo davanti al giudice di pace ed espulsione. Va segnalato che il reato d’immigrazione clandestina e il prolungamento della detenzione nei Centri d’identificazione ed espulsione, gli ex Cpt, sono già presenti nelle legislazioni di altri paesi europei. 26 Riprendo questa definizione da A. Dal Lago, autore di un penetrante saggio, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004. 27 Secondo le stime della Caritas in Italia gli immigrati irregolari ammontano nel 2009 a 1 milione, di cui il 35% è arrivato via mare. 28 Il leader della Lega Umberto Bossi ha puntualizzato: «niente case per gli stranieri»; il ministro Sacconi ha proposto di privilegiare la manodopera italiana persino per i lavori stagionali. 29 Basti pensare, a tal proposito, al caso dello «stupro della Caffarella» (2009), con i «mostri» rumeni sbattuti in prima pagina. 30 Sono numerose ormai le vittime di raid e aggressioni razzistiche. Già il 7 ottobre del 1989 decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Roma per la prima grande manifestazione italiana contro il razzismo, testimoniando il loro sdegno per l’assassinio a Villa Literno - il precedente 24 agosto - del rifugiato politico sudafricano, Jerry Essan Masslo.
  • 9. 9 il trentottenne di origine algerina, Abdallah Lakhdara, è stato insultato e pestato da quattro vigili urbani, poi è stato rinchiuso per ore in una piccolissima stanza maleodorante e infine processato. A Brescia, inoltre, una norma vieta ai call-center di esporre avvisi in lingua straniera e circolari della polizia locale legano il 70% dei premi di produttività al controllo degli extracomunitari31. Sempre nell’agosto 2009 73 eritrei hanno perso la vita mentre cercavano di raggiungere le coste dell’Italia. Avvistati da almeno dieci navi, i migranti alla deriva hanno subito l’omissione di soccorso a catena. Si è trattato dell’ennesima morte collettiva, dell’ennesima ecatombe nelle acque del Mediterraneo, che si va trasformando in un grande cimitero marino. I respingimenti da parte italiana e l’inasprirsi dei pattugliamenti libici, in base al trattato del 30 agosto 2008 siglato dai due capi di governo Berlusconi e Gheddafi, che viola palesemente il rispetto dei principi umanitari della convenzione di Ginevra, hanno reso ancor più rischiosa la traversata fra l’Africa e Lampedusa. Sorte peggiore tocca poi a coloro che cadono nelle mani della Libia, dove i migranti o richiedenti asilo rinchiusi in carceri, in cui languono in condizioni disumane sino alla morte. Un ultimo esempio: l’illegalità dell’industria del crimine Tratta di immigrati clandestini, di donne e minori, gioco d’azzardo, estorsione, usura, contrabbando, traffico di stupefacenti, di armi, di materiali nucleari, di organi umani, smaltimento dei rifiuti tossici e non, sono le attività su cui l’industria del crimine fonda le sue fortune. Ad uno sguardo superficiale l’illegalità di tipo mafioso e/o camorristico sembra di facile, immediata identificazione. Le cose, invece, sono meno semplici di quanto appaiono. Come dimostra la letteratura sull’argomento, la nuova fisionomia delle grandi organizzazioni criminali, tra cui quelle campane, è data dalla loro capacità di agire in maniera efficace nella terra di confine tra legalità e illegalità 32. Il loro nuovo volto si nasconde dietro l’anonimato delle operazioni finanziarie, dietro la penetrazione negli investimenti legali, rendendo più difficile distinguere le reti dell’economia legale da quelle dell’economia illegale. Dal colossale giro d’affari che esse alimentano dipendono imponenti flussi finanziari e commerciali, nonché tantissimi posti di lavoro. Grazie all’enorme patrimonio, all’ingente quantità di denaro liquido di cui dispongono, esse si incuneano mediante la corruzione nelle istituzioni pubbliche, si insediano negli interstizi più vulnerabili degli organismi statali, prosperano sulle zone grigie di illegalità e di scarso controllo, approfittando delle sacche di emarginazione, di povertà e di sottosviluppo. Beninteso, la violazione e l’aggiramento della legge costituiscono la regola e la sostanza della loro identità33. Di pari passo con la mondializzazione dei circuiti economici e informatici legali, le multinazionali dell’illecito hanno assunto dimensioni e proiezione globali. Si sono giovate della liberalizzazione del sistema dei cambi e della possibilità di spostare somme gigantesche per via elettronica al fine di occultare o riciclare danaro sporco. Danaro proveniente specialmente dal traffico degli stupefacenti e dei rifiuti tossici, ma pure dalla gestione dei viaggi degli immigrati clandestini. È da notare l’emergere piuttosto recente delle mafie slave, che sono cresciute all’ombra del caos politico determinato dalla caduta dei regimi del «socialismo reale». In Russia, Ucraina, Bulgaria, Albania, Kosovo, Serbia e Croazia i gruppi criminali si sono rapidamente arricchiti rifornendo di droghe le piazze occidentali e obbligando giovani donne a prostituirsi e a vivere di fatto da schiave. Tornando alle grandi reti criminali italiane, va detto che esse dimostrano d’avere acquisito - ormai da tempo - propensione e attitudini imprenditoriali34. Associazioni basate su una cultura familistica e privatistica, attraverso l’intimidazione e la violenza perseguono esclusivamente il proprio 31 Brescia è considerata il feudo del sindaco Adriano Paroli, vicino ai cattolici di Comunione e Liberazione, ma di fatto è amministrata dal vice Fabio Rolfi, che si è formato alla scuola dei leghisti Borghezio e Tosi. 32 Tra i numerosi titoli recentemente apparsi in libreria si vedano I. Sales (con la collaborazione di M. Ravveduto), Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, R. Capacchione, L’oro della camorra, Bur Rizzoli, Milano 2008. 33 È appena il caso di notare come, per lo più, sia assente la grande criminalità nelle opere storiche sull’Italia contemporanea, quasi non avesse contribuito a segnarne, talvolta pesantemente, vicende e percorsi.
  • 10. 1 tornaconto e profitto. Fornitrici di beni e servizi illeciti, come di beni leciti, esse sono le artefici di un sistema ramificato di illegalità diffusa, che depaupera e stravolge la democrazia per imporre una cultura della sudditanza, imperniata sull’accettazione della differenza ineliminabile tra chi domina e chi è dominato. Se l’illegalità della mafia, che spesso si tinge dei colori grevi del sangue, ora indossa le vesti all’apparenza «inodori» dell’accumulazione economica, se la ‘ndrangheta calabrese può contare su una liquidità superiore a quella della consorella siciliana, la camorra tra XX e XXI secolo ha assunto una fisionomia sempre più plurale, essendo un conglomerato di organizzazioni locali, sovente in conflitto tra loro. Con una configurazione di tipo orizzontale, essa si prefigge il controllo di tutte le attività illegali sul territorio, intrattenendo con esso svariate e complesse relazioni. Alla fine degli anni Ottanta, l’Alleanza di Secondigliano - dopo il tramonto di Raffaele Cutolo - mette in atto il secondo progetto di unificazione delle numerose bande urbane, almeno a Napoli e tra la città e i comuni limitrofi a Nord. Essa riunisce cinque clan, senza che ciascuno perda la sua specificità, con una cassa unica, ma i proventi ripartiti tra cinque35. Anche questo tentativo abortisce, in seguito alla sanguinosa faida scatenata dagli “scissionisti”, che farà registrare più di 500 morti tra l’inizio del 2004 e il 2008. Proprio alla frammentazione in numerose articolazioni è riconducibile la pericolosità della camorra, ma pure il suo forte radicamento, la capacità cioè di aderire plasticamente alle varie forme di illegalità estesesi nella vita economica e sociale di Napoli e del suo entroterra. Imprenditori di illegalità, di violenza urbana, i camorristi di Napoli, costretti a interminabili periodi di latitanza, sempre più sono affiancati dalle «matrone dell’illegalità», mogli e figlie, che esibiscono doti decisionali e gestionali nella cura dei traffici illeciti. Un discorso a parte merita - ma qui si può fare solo un cenno - il clan dei casalesi in provincia di Caserta, più simile per impianto e caratteristiche alla mafia siciliana. I suoi boss si sono trasformati in veri e propri manager, che controllano una miriade di attività (aziende agricole, alberghi, locali notturni, supermercati), riuscendo a mettere le mani sugli appalti di grandi opere del nostro Paese, tra cui l’Alta Velocità, inserendosi lucrosamente nella raccolta della spazzatura, con la complicità di esponenti del ceto politico. Come documentano inchieste giornalistiche e giudiziarie, essi per decenni hanno provveduto a versare in discariche abusive i rifiuti tossici prodotti dalle industrie settentrionali, inquinando gravemente intere zone della Campania. ***** Dalle osservazioni sin qui svolte, dagli esempi sinora proposti riteniamo che traspaia sufficientemente come alla luce del trinomio diritti-cittadinanza-legalità possa essere riconsiderata la storia dell’età contemporanea, nei suoi aspetti cruciali, nelle sue varie fasi e scansioni. Insieme con gli altri strumenti dell’educazione democratica, tra cui la conoscenza della Costituzione, del diritto e delle carte internazionali, la storia consente di tracciare itinerari didattici finalizzati alla formazione di un cittadino consapevole, dotato di un orizzonte critico, in grado di confrontarsi con le identità plurime dell’odierno mondo globalizzato. Il punto irrinunciabile, non mediabile è la questione dei diritti, della globalizzazione dei diritti, dentro cui si situa, deve situarsi la problematica della legalità. Difesa del diritto ad un’esistenza decorosa, sicurezza di godimento dei fondamentali servizi collettivi (sanità, istruzione, ma pure infrastrutture di trasporto collettivo, tutela, specialmente delle fasce più deboli, dagli assalti, truffe e insicurezza generate da una criminalità comune ed economica), fruibilità dei beni pubblici, finanziati prioritariamente sulla base della solidarietà fiscale 34 R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale del crimine, Bur Rizzoli, Milano 1991. Di grande utilità è pure la lettura di I. Sales, La camorra le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988. 35 Cfr. I. Sales, Le strade della violenza, op. cit..
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