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Rosario Mangiameli
Mafia e storia. A proposito di legalità e cittadinanza
In Rappresentazioni e immagini della Sicilia tra storia e storiografia, a cura di F.
Benigno e C. Torrisi, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta – Roma, 2003, pp.
107 – 130.

(il testo può presentare qualche imperfezione dovuta al “trasloco” da un sistema di
scrittura all’altro oltre che di incompletezza in alcuni dettagli. Per la versione
corretta e definitiva rimando all’edizione indicata nel titolo)

1) La ormai secolare vicenda dalla mafia siciliana ha prodotto un'infinità di scritti, accompagnati
da significative opere teatrali e cinematografiche, tali da rispondere a una domanda di
informazione diffusa nella opinione pubblica nazionale e internazionale. Questo fenomeno
criminale h infatti tra le cose siciliane più note, genere localmente reperibile e nel contempo di
larga esportazione.
Per lo più è stata la letteratura d'inchiesta e quella giudiziaria a occuparsi del fenomeno. Intenti
repressivi e curiosità del pubblico sono andati insieme ogni volta che si è avuta una nuova
manifestazione di violenza mafiosa nella Sicilia post unitaria e di primo novecento. Si è trattato
appunto di una attenzione dall'andamento discontinuo provocata ogni volta dall'allarme sociale,
così come discontinuo – episodico, ebbe a dire Falcone - è stato l'impegno repressivo dello stato.
Gli storici si sono occupati di mafia soltanto a partire dagli anni cinquanta e anche il loro
impegno non è stato sempre costante. Questo è vero, ma non giustifica la convinzione piuttosto
diffusa che la storia sia arrivata ultima in questo settore di indagini. Non lo dico per patriottismo
disciplinare. Ma per sottolineare come l’oggetto mafia si presenta sfuggente a qualsiasi
disciplinamento (intendo dire anche dal punto di vista degli studi, non solo rispetto all’ossequio
alle leggi) per cui anche i cultori di altre discipline se ne sono occupati tardi. La mafia è uno di
quei tipici temi di confine in cui si sono meglio confrontati gli studiosi di diversa formazione e i
saperi si sono contaminati; e questa è certamente una circostanza da sottolineare in un paese in
cui gli steccati accademico disciplinari tendono a preservare gelosamente i distinti territori
d’influenza. Ciò detto, non sembri contraddittorio il tentativo di isolare il contributo degli storici,
lo si consideri come l’assunzione di un punto di vista che ci consente poi di allargare la visuale ai
contributi di altre discipline. E’ anche vero che la storia ha goduto di un privilegio che le ha fatto
assumere un ruolo centrale di stimolo nell’avvio di studi sulla mafia, e questo per un motivo che
ha che fare con la diffidenza, di matrice crociana e parimenti gramsciana, che gli intellettuali
italiani del dopoguerra nutrivano nei confronti delle scienze sociali.
Oggi possiamo distinguere tre fasi della storiografia sulla mafia.
La prima che si sviluppa intorno agli anni sessanta, nel periodo che culmina con l'attuazione
dell'Antimafia (1962).
La seconda che prende avvio negli anni ottanta con la grande emergenza criminale di quel
periodo.
La terza fase mi sembra possa considerarsi allo stato nascente e potrebbe essere definita della




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2
globalizzazione; é quella attuale che tenta di leggere l'intreccio internazionale dei fenomeni
criminali in relazione ai flussi migratori e più in generale ai fenomeni di mondializzazione.
In questa ultima fase il paradigma siciliano si presenta come uno degli strumenti di lettura delle
altre manifestazioni mafiose e siamo giunti a verificare l’esistenza di un paradosso: l’insorgenza
mafiosa siciliana che era considerata come uno degli aspetti della arretratezza della società
regionale, ora diventa il modello avanzato che indica, direbbe il vecchio filosofo, la via agli altri
paesi. Non è esattamente così, ma molte suggestioni vengono dalla Sicilia e alla Sicilia dallo
studio delle nuove mafie internazionali. Non ultima per es la lettura meno localizzata degli
sviluppi della mafia siciliana, che perde molto della primogenitura che la tradizione fin’ora le ha
assegnato e viene invece letta in più stretta relazione con la coeva manifestazione di criminalità
etnica negli Stati Uniti1.

2) Anche alla luce di queste suggestioni del presente torniamo a dialogare con il passato, e
precisamente torniamo a quella che mi sembra si possa indicare come la prima fase fondativa di
una storiografia sulla mafia, la quale si intreccia fortemente con il dibattito politico coevo.
Questo intreccio oggi si vede con maggiore chiarezza, per la distanza prospettica che ci separa da
quel tempo. E' certamente la fase su cui possiamo meglio condurre una analisi storica.
Le prime opere che abbiano tentato una ricostruzione storica del fenomeno mafioso siciliano si
collocano a cavallo tra gli anni 1950 – 1960. Si pone qui un problema tipico dell’approccio di
questa disciplina, quello che riguarda il gioco della contestualizzazione e della messa a fuoco
dell’oggetto di studio. In questo caso i contorni che appaiono ben netti ai protagonisti del
dibattito corrente stentano invece a precisarsi quando si passa alla osservazione disciplinata.
Inizialmente si hanno alcuni lavori che parlano della mafia come di uno degli attori operanti
nella più generale storia sociale e politica siciliana, e si tratta di lavori talvolta di grande
importanza come quello di Paolo Alatri sulla politica della Destra storica (1954) o come quello
di Salvatore Francesco Romano sui Fasci siciliani (1959), in mezzo si colloca la pubblicazione
dei tre volumi della laloggiana Storia della Sicilia post unificazione, scritti da Francesco
Brancato, Giovanni Raffiotta, e dallo stesso Salvatore F. Romano2.
Il tema della mafia non viene affrontato autonomamente, si riflette invece su due questioni di
cruciale importanza nel dibattito culturale di quel tempo: quella che riguarda la partecipazione
della Sicilia al Risorgimento e alla costruzione dello stato unitario e la questione agraria. Si tratta
di due aspetti fortemente correlati nella storiografia, ma ancor più nell'appassionata e talvolta
aspra polemica politica. E' anzi questo uno dei casi di uso pubblico della storia di grande
rilevanza. Il dibattito storiografico sulla costruzione dello stato unitario e sulla questione agraria
riflette il tenore del dibattito politico presente. La vicenda della autonomia regionale, il serrato
confronto tra forze politiche e sociali che si svolge nella Sicilia degli anni quaranta e cinquanta,
il riemergere del banditismo, il ruolo apertamente sostenuto della mafia nella emergenza
separatista; tutto ciò viene ricondotto a un immeditato paragone con il non lontano passato
risorgimentale. Tuttavia i protagonisti della stagione politica degli anni cinquanta sono nuovi,
bisognosi di identità e di memoria: i cattolici e le sinistre social comuniste che si contendono lo
spazio politico regionale e il controllo delle masse rurali. L'atteggiamento di questi due
schieramenti sarà profondamente diverso, e il tema della mafia sarà tra quelli che contribuiranno

1
  Cfr. S. Lupo, ….in “Meridiana” Mafie internazionali
2
  P. Alatri, Lotte politiche in Siciliaal tempo della Destra, Einaudi, Torino, 954; S. F. Romano, Storia dei Fasci
siciliani, Roma Bari, Laterza, 1959, ma si veda la rivista “Movimento operaio”, n. 6, 1954 dedicato ai Fasci, con i
contributi di G. Cerrito, L. Cortesi, S. Costanza, M. Ganci, I Nigrelli, F. Renda, S. F. Romano.




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3
a segnare lo spartiacque sia nella politica corrente, sia nella valutazione del passato recente.
Discorrere di mafia sarà per un certo periodo prerogativa quasi esclusiva della sinistra che ne
farà un uso polemico nei confronti dell’avversario cattolico. I cattolici intesi come democratici
cristiani e come chiesa siciliana, da parte loro non avrebbero opposto alle sinistre una loro
versione della presenza mafiosa nella società isolana, piuttosto avrebbero adottato un
atteggiamento minimalista o addirittura negazionista, quasi a conferma della tesi sostenuta dalla
sinistra di un loro coinvolgimento con la mafia. Si tratta certamente di una semplificazione che,
tuttavia ebbe grande successo nella definizione delle identità dei principali schieramenti politici
isolani3.
L’importanza che sto attribuendo al contesto politico non deve far pensare che la traduzione del
discorso politico in discorso storico e viceversa sia stata immediata e banale, tutt’altro: un libro a
cui possiamo attribuire una primogenitura nell’avvio della ricerca storica, Lotte politiche in
Sicilia al tempo della Destra di Paolo Alatri non è e non è mai stato considerato un libro di
polemica politica; è in effetti un severo e ponderoso libro di storia, ma anche per questo non è
stato mai fatto rientrare neanche lontanamente nel genere di libri sulla mafia –si sarebbe detto
mafiologico a partire dagli anni sessanta - che si presentavano normalmente legati a occasioni
più contingenti. E invece in esso si ricostruisce uno dei momenti cruciali della vicenda mafiosa
con fonti di prima mano, una impresa che gli altri storici avrebbero tentato molto tempo dopo.
La ricostruzione che Alatri fa delle relazioni tra il prefetto Albanese e il generale Medici, tutta la
vicenda Tajani, appaiono cruciali per la costruzione di una storia della mafia, che però non
acquista mai una fisionomia autonoma; nel libro il tenebroso sodalizio di cui ben si riconoscono i
contorni e la fisionomia resta parte di un gioco politico ben più grande. A conferma di questa
scelta di contestualizzazione e di caratura del fenomeno si può notare che Alatri resta del tutto
indifferente ai problemi definitori che tanto hanno appassionato gli studiosi di mafia.
Nell’articolazione del discorso di Alatri le riflessioni sull’autonomo sviluppo delle relazioni tra
forze dell’ordine e organizzazioni criminali che sta a fondamento del radicamento del fenomeno
mafioso appaiono marginali, mentre l’obiettivo è quello di sottolineare con chiarezza le
implicazioni illiberali della politica della destra, gli attacchi all’opposizione. La sensibilità di
Alatri rispetto al suo presente sembra segnata dalla minaccia centrista di messa fuori legge del
Partito comunista, dal dibattito sulla “legge truffa”, da aspetti politici più generali che nulla
lasciano agli idiomi locali. E questo, pensiamo, anche per un motivo che trae origine dalla ricerca
stessa oltre che dal dialogo col presente: e cioè dalla convinzione che la vicenda politica siciliana
del primo ventennio postunitario, avesse avuto un ruolo cruciale nella definizione degli equilibri
nazionali, con quel riemergere del fiume carsico della democrazia sebbene non più nella sua
originaria tensione rivoluzionaria, ma sotto le forme più moderate di un compromesso con le
istituzioni monarchiche. Ma questo appariva davvero lontano dalla definizione di un fenomeno
come quello mafioso, che per quanto grave e preoccupante, non sembrava ancora avere assunto
rilevanza al di là di un’area subregionale.

3) Avere isolato il lavoro di Alatri può fare apprezzare il modo in cui uno storico riesce a dare un
ordine alla incandescente materia politica isolana inscrivendola in uno schema di nation
building; questa può essere considerata una svolta rispetto alla tradizione comunista, alla quale lo
stesso Alatri si riferiva, rappresentata da due dirigenti del calibro di Ruggiero Grieco e di Emilio

3
 Si veda meglio ora com’è affrontato il problerma nei lavori di Francesco Michele Stabile, (per es. I consoli di Dio.
Vescovi e politica in Sicilia (1953 – 1963) Sciascia, Caltanissetta – Roma, 1999) o di Cataldo Naro (per es. La
chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, 3 voll. Sciascia, Caltanissetta – Roma, 1991).




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4
Sereni che negli anni trenta avevano studiato la mafia e rimesso in circolo classici come
Franchetti e Sonnino; anzi proprio loro avevano contribuito a consacrare queste opere come
classiche nella lettura del fenomeno mafioso e più in generale della società siciliana. L’approccio
dei due dirigenti presenta una visione di sintesi ben più ampia e certamente collocabile in un
contesto diverso, quello della progettazione della rivoluzione in Italia. Su questo linguaggio nel
dopoguerra verrà a sovrapporsi il linguaggio specificamente storiografico creando una
stratificazione di logiche diverse all’interno di una comune appartenenza alla sinistra (in
particolare comunista), con un riconosciuto primato della politica; e tuttavia anche questa
contaminazione sarà importante sia per la storia, sia per la politica. Le grandi campate
concettuali disegnate dai politici serviranno a sprovincializzare l’ambiente degli studi siciliani,
molto legato a un sicilianismo difensivo e poco incline a confrontarsi con le correnti più
importanti della cultura italiana. Per un altro verso la politica avrebbe ridimensionato i suoi
obiettivi, non più volti all’attesa della rivoluzione, ma alla costruzione di un movimento di massa
in un contesto democratico. Il grande progetto rivoluzionario, mai ufficialmente dismesso,
sarebbe rimasto patrimonio disponibile e vivificante4.
Nelle posizioni di Grieco e Sereni sulla mafia si sono scorti i segni di due differenti linee
politiche rispetto alla società meridionale: più schematica quella di Grieco, che vedeva nella
mafia “la difesa più solida del feudalesimo agrario siciliano”; ne derivava una linea di
opposizione classista rigida, detta “bracciantilista”, che auspicava una netta frattura tra gli strati
bassi che, secondo Grieco si erano opposti al fascismo, e gli srtati alti che invece erano stati
cooptati nel quadro del regime. Più attenta a cogliere sfumature e diversità la posizione di Sereni,
che sulla scia di Franchetti considerava la mafia una espressione della incompleta transizione dal
feudalesimo al capitalismo. “La lotta stessa di questa borghesia agraria in formazione contro la
grande proprietà terriera latifondistica semifeudale assume ancor oggi sovente, in Sicilia, la
forma semifeudale della mafia”. La linea cosiddetta “contadinista” di Sereni nasceva da una
valutazione della pressione che gli strati medi della mafia rurale, i gabellotti avevano esercitato
sulla grande proprietà nobiliare nel primo dopoguerra. “Nella quotizzazione di latifondi la mafia
ha avuto una parte di primo piano”, si era trattato nel contempo di una azione rivolta contro gli
strati superiori della società, e contro gli strati inferiori, “contro il contadino povero e contro il
proletariato agricolo”; in questo secondo caso con una violenza ancora più accanita: “qui i
dirigenti della mafia non esitano di fronte ai mezzi più radicali, come quello dell’assassinio dei
capi del proletariato agricolo e industriale siciliano”5. Non si potevano avere dubbi, quindi, circa
il carattere classista della mafia. Tuttavia il fascismo avrebbe cambiato le cose approfondendo la
contraddizione tra gli strati medi mafiosi e la grande proprietà. L’attacco di Mori era letto da
Sereni come il tentativo dei grandi proprietari di riconquistare per intero il controllo della società
regionale, attraverso l’illegalità assunta a sistema dallo stato fascista. Ma a radicalizzare ancor
più le posizioni sarebbe intervenuta la crisi del ’29, punto di svolta per un maggiore scollamento
tra ceti intermedi e grande proprietà6. In questo versante della elaborazione sereniana è
certamente prevalente il debito nei confronti di Sonnino, di quella forma di protomarxismo che

4
  R. Grieco, Introduzione alla riforma agraria, E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino, 1947 e
Id, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino, 1946.
5
  Sereni, La questione agraria, cit., p. 240.
6
  E’ un tema centrale del dibattito storiografico su mafia e fascismo ripreso dagli storici a partire dagli anni ottanta:
Cfr. S. Lupo, Blocco agrario e crisi in Sicilia tra le due guerre, Guida, Napoli, 1981; C. Duggan, La mafia durante
il fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1986; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, in AAVV, Storia della
Sicilia, Einaudi, Torino, 1987; G. Raffaele, L’ambigua tessitura. Mafia e fascismo nella Sicilia degli anni venti,
Franco Angeli, Milano, 1993.




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traspare dal realismo del grande studioso toscano, che Sereni, e qualche tempo dopo Rosario
Villari, ricolloca nel solco della nascente tradizione della lettura materialistica (gramsciana) della
storia d’Italia. Così l’elaborazione di Sereni avrebbe avuto notevole fortuna nel secondo
dopoguerra, dando luogo a molte diverse accentuazioni del dibattito sulla mafia.
Opinioni simili a quelle espresse da Sereni faranno da guida agli esponenti dei due principali
partiti di massa, seppure ancora allo stato nascente. Non si tratta qui di sottolineare un qualche
primato ideologico, ma di prendere atto del come nella realtà magmatica e totalmente priva di
punti di riferimento istituzionali del 1944 il democratico cristiano Bernardo Mattarella e il
comunista Girolamo Li Causi guardino alla mafia rurale dei gabellotti come a un potenziale
alleato nella lotta per aggregare gli strati intermedi della società dell’interno. Li Causi ripropone
lo schema della mafia antibaronale, che può cogliere l’occasione per riscattarsi e assumere il suo
posto nella lotta per la terra accanto ai contadini. Considerazioni di questo genere svolte
sull’organo ufficiale dei comunisti siciliani, il periodico “La Voce comunista”, lo porteranno a
Villalba a ingaggiare un confronto/scontro con Calogero Vizzini, il più noto dei capi mafia
“antifascisti” dell’interno, nonché tutore di cooperative di contadini cattolici. L’esito drammatico
è noto, ed è nota la reazione di Mattarella, pronto a rivendicare sulle pagine del “Popolo”
l’amicizia di Vizzini per il suo movimento. Certo anche per consuetudine, ma anche per quelle
prospettive di autonomia e di identità che il partito cattolico sente di potere offrire ai ceti medi a
maggior titolo che il Partito comunista. E’ davvero interessante in tutto il dibattito che si svolge
subito prima e dopo la strage di Villalba la tensione politica che nette in secondo piano
considerazioni sulla legalità, quasi elemento accessorio nel contesto “rivoluzionario” della Sicilia
del 1944. L’attenzione è alla costruzione di un insediamento sociale, di un radicamento che vede
già la Dc in concorrenza con il Pci.
Le cose cambieranno da quel momento in poi, i partiti di sinistra e i sindacati dei lavoratori
saranno presi di mira dagli attacchi terroristici dei mafiosi. Man mano che il quadro di una
“legalità repubblicana” andrà costituendosi, questo diventerà un criterio di valutazione della
mafia che prenderà il posto nel discorso pubblico sui criteri puramente politici. Come retaggio
del loro passato rivoluzionario mai apertamente ripudiato i comunisti tuttavia non rinunceranno
all’idea che all’interno delle formazioni mafiose ci sia da operare una spaccatura, sia da applicare
la lotta di classe per ottenere un maggiore radicamento nella società rurale. Sarà ancora Li Causi
a tentare il dialogo con Giuliano scrivendogli, puntando su quella distinzione che voleva il
bandito opposto al mafioso nel tentativo disperato di forzare dal basso i meccanismi di
promozione sociale. E ancora a Portella della Ginestra il dirigente comunista scarterà in un
primissimo momento l’ipotesi Giuliano pensando alla troppo intima vicinanza tra i banditi e i
contadini dei paesi colpiti. Per quanto riguarda l’area cattolica il tenore del discorso sulla mafia
sarà stabilito dalle dichiarazioni negazioniste di Scelba già nel dibattito parlamentare su Portella
della Ginestra, mentre dagli avversari provengono le accuse infamanti nei confronti di Scelba, di
Mattarella.

4) L’oggetto mafia in realtà è difficile da collocare e da definire. Resta un fatto frammentario a
cui gli intellettuali politici sanno dare una fisionomia solo assimilandolo talvolta a un partito,
talvolta a una formazione sociale, fino a formulare in epoca più vicina a noi la teoria di una
“borghesia mafiosa”.
Quella dei comunisti però non è l’unica lettura che proviene da sinistra nel corso degli anni
quaranta, il socialista Simone Gatto è il meno noto tra i protagonisti di questa stagione, ma non
per questo il meno significativo: è un medico trapanese, resistente vicino a Riccardo Lombardi,
anch’egli proveniente dal Pd’A, attento osservatore del fenomeno mafioso e promotore



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6
dell’istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia. La proposta sarà
portata avanti fin dal 1948 per diventare disegno di legge formulato insieme a Ferruccio Parri e
allo storico comunista Giuseppe Berti; non è casuale questa attenzione nella famiglia azionista,
con un chiaro richiamo ai temi del Risorgimento tradito.
Tra il 1948 e il 1950 Gatto dà una lettura originale del fenomeno Giuliano, fuori dagli schemi
arcaicizzanti adottati dai contemporanei7. Il bandito di Montelepre è descritto come lo strumento
adottato da una classe dominante agraria in declino per ricompattarsi e per impegnare una
vittoriosa contrattazione con lo stato, per porre così la sua forte ipoteca sul nuovo Ente regionale.
Diversamente dai comunisti Gatto non ripone molta fiducia nell’Autonomia che gli sembra
destinata a soggiacere al reticolo di interessi e di alleanze che si intrecciano intorno alla classe
dominante, per nominare i quali usa l’espressione “blocco agrario”. Ma grave gli appare la
capacità di condizionamento in senso conservatore della politica nazionale che promana dal
quadro politico siciliano. E’ un punto di vista condiviso da Lombardi e da molti altri in area
azionista e socialista, convinti che solo il contrappeso della dimensione politica nazionale possa
modificare gli equilibri regionali in senso democratico. Si pensi alla operazione tentata da
Lombardi nel 1947 con al fondazione di un Ente Siciliano di Elettricità, indipendente dall’Ente
regionale e promanante dal potere centrale, il primo esperimento di intervento pubblico atto a
ridimensionare il monopolio dell’industria elettrica. La riflessione che porta Gatto alla proposta
di una commissione antimafia obbedisce alla stessa logica, ed è significativa della profonda
sfiducia nella capacità di autoriforma della classe politica locale l’attenzione che anch’egli pone
alla Inchiesta in Sicilia di Sonnino e Franchetti; una originale rivalutazione questa, come egli
stesso sottolinea quando scrive che “l’importanza politica dell’Inchiesta viene posta su un piano
alquanto inferiore a quella ormai riconosciuta agli studi di G. Fortunato, per limitarsi al periodo
stesso in cui viene elaborata, o a quella dei meridionalisti a noi più vicini nel tempo”. E invece a
Gatto il lavoro dei due toscani “dà l’impressione di una inattesa scoperta,…induce a
considerazioni che investono tutta la classe dirigente italiana e la funzione da essa svolta in
questi tre quarti di secolo”. Ciò per lui è più vero nella parte franchettiana, considerata “di assai
più viva attualità” per la capacità di “individuare i limiti e i caratteri della classe dominante, le
sue tare ed insufficienze, le sue interne contraddizioni”, fino a potere analizzare il suo
coinvolgimento nella persistenza dei “due fenomeni più manifestamente patologici, quali la
mafia e il banditismo”.
Da ciò secondo Gatto bisognava trarre esempio ed ispirazione, e come non era sfuggita ai due
intellettuali toscani l’influenza che questa “tara d’origine” poteva esercitare sull’intero quadro
politico nazionale, allo stesso modo il movimento democratico aveva il dovere di assumere
l’impresa conoscitiva e politica per promuovere un radicale rinnovamento8. La forte impronta
giacobina data alla proposta di istituzione della commissione antimafia ne segna il fascino e il
limite. Tra le obiezioni, talvolta tendenziose (quelle del ministro Scelba, per es) e forse
interessate, sollevate dagli esponenti dei partiti di maggioranza e del governo va segnalata
l’argomentazione di De Gasperi in difesa del ruolo degli organi rappresentativi della Regione:
“Una inchiesta in una regione che ha 90 tra deputati e senatori e quindi un governo regionale,


7
  Mi riferisco a due articoli: Sicilia ’48: mafia e partiti di governo, in “Lo Spettatore italiano”, luglio 1948 e
Banditismo, mafia e blocco agrario, in Id, ottobre 1949, ora in S. Gatto, Lo Stato brigante, a cura di S. Costanza,
prefazione di R. Lombardi, Celebes editore, Trapani, 1978, pp. 51 – 63.
8
  S. Gatto, Stato Unitario e contadini Siciliani,, in “Belfagor”, 31 marzo 1950, ora in S. G., Lo Stato Brigante, cit., le
citazioni alle pp. 100 – 102.




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7
una inchiesta è veramente difficile giustificala e legittimarla”9.

5) Trova così dignità culturale quella che a buona ragione si può chiamare l'antimafia di sinistra,
ovvero il riconoscimento del legame che fin dal dopoguerra si era instaurato tra agitazione dei
temi sociali, o meglio del tema sociale per eccellenza, quello della terra, e la presenza mafiosa.
Mafia e latifondo diventano i termini di un binomio inscindibile nel discorso pubblico degli anni
del secondo dopoguerra, già al tempo delle vertenze sul riparto dei prodotti portate avanti in
forza dei decreti Gullo e poi nelle lotte per l'attuazione della Riforma agraria. Questo è un mondo
alla rovescia, rivoluzionato, appunto, in cui la legalità assume per la prima volta un segno
fortemente democratico e antipadronale, tale da trovare scarsa protezione nelle stesse forze
dell'ordine abituate a un più quieto e subordinato rapporto con le classi dominanti. La
mobilitazione contadina in difesa del riparto è un aspetto importante della mobilitazione contro
un nemico di classe che si pensa debba coincidere con il mafioso, ovvero il servo mafioso del
proprietario. La mafia ha trovato un nemico stabile che non è lo stato, ma una forza antagonista
dello stato che nella natura classista di esso individua una causa indiretta, ma profonda del
permanere della mafia. E' questo delle lotte contadine e dell'antimafia un aspetto non secondario
della rappresentazione del Mezzogiorno all'opposizione, come si ricorderà è anche il titolo di un
pamphlet di Sereni, dal tono più immediatamente politico e agitatorio, che considera lo
scardinamento degli equilibri sociali e meridionali come un passo necessario per la “rivoluzione”
in Italia10.
Una lettura classista della mafia, però, finisce per equiparare il fenomeno a una variante violenta
del notabilato riconoscibile attraverso i segni dell’onorabilità nel quadro delle società paesane. Il
quadro che ancora nel 1958 avrebbe tracciato Montanelli11 nelle celeberrime interviste a Vizzini
e Genco Russo può trovare riscontro in altri episodi che riguardano la pratica dei militanti di
sinistra impegnati nelle zone di maggiore inquinamento mafioso. Uno dei giovani dirigenti
comunisti allora attivi nell’area di Corleone, Nicola Cipolla, ricorda come Li Causi soleva
raccomandare che per proteggersi dal terrorismo mafioso bisognava fare immediatamente i nomi
dei mafiosi in un pubblico comizio, in modo che qualsiasi cosa accadesse se ne sarebbe
conosciuto il mandante e l’esecutore. Questa assicurazione sulla vita dei militanti non sempre si
dimostrò efficace, tuttavia era ritenuta anche da Pantaleone un metodo salvifico: “fare i nomi,
dire tutto quello che si sa”12. Questa però era una “mafia” localizzata, un power syndacate della
società rurale, che coincideva solo in parte con la diramazione più complessa della mafia
internazionale fin da allora presente, ma poco visibile alla percezione politica. Quando però
l’impatto con la mafia non rientrava più nelle categorie ricavabili dalla lotta di classe nelle
campagne siciliane, allora la questione diventava più complicata, meno decifrabile e soprattutto
pericolosa, poiché non più affrontabile con le categorie e gli strumenti della lotta politica.
Tra le carte Li Causi custodite presso l’Archivio dell’Istituto Gramsci Siciliano si trova una

9
  La citazione suona piuttosto imprecisa, cfr. in U. Santino, Storia del movimento antimafia, Roma, Editori Riuniti,
2000, p. 209, si riferisce al dibattito parlamentare del 1949. Per una ricostruzione della vicenda che porta alla
costituzione della commissione parlamentare antimafia si veda lo stesso lavoro di Santino alle pp. 203 e segg, e N.
Tranfaglia, Mafia, politica e affari (1943 – 2000), Roma – Bari, Laterza, 2001.
10
   E. Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione,
11
   I. Montanelli, Pantheon minore, Milano, 1958.
12
   La dichiarazione del senatore Nicola Cipolla è contenuta in una intervista da me raccolta a Palermo l’1 febbraio
2001. Anche la dichiarazione di Pantaleone è raccolta (ma purtroppo non registrata) da me durante una
conversazione a Palermo nel 1977 in occasione della registrazione di un programma televisivo sul dopoguerra
siciliano dal titolo Sicilia 1943 - ’47. Gli anni del rifiuto,RAI – Dipartimento scuola educazione, 1978.




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lettera del 23 dicembre 1952 di Nino Sorgi, uno degli avvocati più vicini al gruppo dirigente
comunista palermitano. E’ indirizzata a Francesco Renda, Marcello Cimino, Paolo Bufalini,
componenti del Comitato regionale13. Scriveva Sorgi:

“L’occasione di questa lettera mi viene fornita da un recente colloquio con l’on. Mario Ovazza,
nel corso del quale ci trovammo a concordare giudizi e preoccupazioni sull’attuale situazione del
banditismo in Sicilia e sulla attività preminente che il compagno Li Causi assume nella lotta
contro questo fenomeno.
Non v’è dubbio che la lotta al banditismo e alle varie forme di mafia […] costituiscono uno degli
aspetti fondamentali del programma del Pci in Sicilia, ed insieme la più valida piattaforma e il
più saldo e sentito vincolo nella politica di larghe alleanze cui diamo sempre il più notevole
incremento.
In questo senso dunque è certo che il compagno Li Causi riassume e guida la battaglia di una
larghissima parte di opinione pubblica siciliana […].
Tuttavia la natura stessa della lotta, le modalità e i contatti che essa impone, quegli aspetti
minuziosi di essa, che pure indispensabili ad una visione generale del problema , non sono tali da
prestarsi alla diffusione sia pure in ristretti ambienti politici, fanno sì che il compagno Li Causi
sia assolutamente solo nelle fasi più salienti e quindi più pericolose della lotta.
Non è sfuggito a tutti voi come seguendo un rigoroso filo conduttore,il compagno Li Causi vada
sempre più diffondendo in Parlamento e nelle Piazze [sic! maiuscolo] quelle notizie sulla mafia
che riguardano i rapporti col gangsterismo americano, e le reti di cointeressenza che legano
quelle due organizzazioni criminose nel commercio degli stupefacenti.
Ciò facendo il compagno Li Causi ha attaccato il settore più vivo, più attuale, più forte e
organizzato della delinquenza internazionale, quello insomma più deciso a difendersi con tutti i
mezzi.
Questo settore tuttavia è il meno noto, e pertanto l’attività del compagno Li Causi interessa un
settore sempre più ristretto seppure sempre più qualificato dell’opinione pubblica. Le
conseguenze si riassumono in questa proposizione: nella misura in cui si evolve il piano di lotta,
il compagno Li Causi rimane più isolato e più esposto al rischio di una vendetta.
Questa conseguenza a mio avviso dipende dalle seguenti premesse:
    a) nel passato la lotta infieriva contro forze parzialmente slegate, comunque controllate sia
        pure indirettamente, dagli uomini politici che vi erano compromessi e dalla stessa polizia.
        D’altra parte il dibattito su questi argomenti era al centro dell’attenzione del paese e Li
        Causi ne era l’esponente principale. Di conseguenza si poteva in linea di massima
        ritenere un gesto che avrebbe costrettole forze governative ad una immediata reazione.
    b) Oggi l’opinione pubblica è distratta da questo settore sia dalla stasi apparente del
        fenomeno delinquenziale, sia dall’urgere di altri argomenti (legge elettorale). Nello steso
        tempo il compagno Li Causi attacca il settore più qualificato e più sensibile della
        delinquenza italo – americana”.

A facilitare la vendetta in un momento così delicato e propizio si aggiungeva, secondo Sorgi, il
fatto che Li Causi rientrava spesso da solo “anche a tarda ora della sera”, o andava in giro per i
suoi comizi in provincia, “preannunciati alcuni giorni prima, percorrendo linee secondarie senza

13
   Archivio Fondazione Istituto Gramsci, Palermo, Fondo Li Causi, b. 21, f. 2, Avv. Nino Sorgi ai Compagni On.
Francesco Renda, Marcello Cimino, Paolo Bufalini, Comitato regionale del Pci, Palermo, 23 dicembre 1952. La
lettera è scritta su carta intestata dello studio legale Avv. Sorgi, Pomar, Cipolla e reca la dicitura “Riservata”.




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alcuna scorta armata”.
Si tratta di temi che sarebbero diventati di attualità in una successiva fase della attenzione alla
mafia, dalla fine degli anni settanta in poi, per il momento restavano al di fuori della capacità di
lettura di un partito di massa, della logica che coniuga i momenti di mobilitazione e consenso
intorno agli obiettivi politici plausibili e riconoscibili dalla base sociale.
Il corto circuito tra storia politica e storia sociale, direbbe Nino Recupero, dato dalla
sovrapposizione del linguaggio rivoluzionario si presenta in tutta evidenza nell’opera di un altro
storico, la Storia dei fasci siciliani di S F Romano (1959). Anche qui la trattazione
dell’argomento mafia non sembrerebbe “intenzionale”, diventa cruciale, però, quando la
presenza mafiosa va ad intersecare la nascente organizzazione socialista del movimento
contadino nelle zone del latifondo. E non solo perché antagonista a guardia del privilegio contro
cui i fasci dei contadini si battono, ma perché capace di penetrare nelle stesse organizzazioni
fascianti. I casi noti e “scandalosi” sono quelli di Vito Cascio Ferro, il mafioso destinato a grande
avvenire che diviene vice presidente del fascio di Bisacquino, e quello ancora più sconcertante
della iniziazione mafiosa di Bernardino Verro, dirigente socialista corleonese di notevole
spessore e futura vittima della mafia .
Però una storia sociale che riconduce al protagonismo dei partiti e che vede nei fasci
l’antecedente del movimento contadino del secondo dopoguerra e del partito comunista ha tutto
l’interesse a porre un distinguo molto marcato rispetto a quello che non può non essere il nemico
di classe. La soluzione si trova attribuendo l’etichetta di fasci spuri a quelli contaminati dalla
mafia, ma il problema si presenta molto più ampio per via della logica locale e localistica che
governa l’aggregazione fasciante nella spaventosa crisi degli anni 1890. Per cui i fasci sono
spesso veicoli di mobilitazione sociale e di consenso nei quali si affrontano i partiti rivali
indipendentemente dalla loro collocazione politica. Ma questo, appunto, non è un discorso di
facile formulazione nel clima politico degli anni 195014. Tuttavia Romano troverà qualche anno
dopo, nel 1963, il modo di ritornare indirettamente sul problema, scrivendo una interessantissima
prefazione autobiografica alla sua Storia della mafia. Lo studioso racconta dell’accoglienza che
gli riservano i parenti al paese nativo, Acquaviva Platani in provincia di Agrigento, quando vi
torna nel dopoguerra da militante comunista. I ricordi di una infanzia trascorsa in una famiglia di
ceto medio paesano (possidenti, professionisti, ma anche parenti poveri), si ricollocano alla luce
dell’esperienza presente e prendono forma alcune figure di mafiosi. Il che avrebbe potuto indurre
a considerazioni molto vicine fra l’altro alla elaborazione di Sereni sulla formazione della classe
dirigente dei paesi dell’interno e sulla proiezione nella dimensione provinciale e urbana. Romano
offre così una testimonianza concreta e autorevole, utile anche per la storia dei gruppi dirigenti
dei partiti di massa, ma a futura memoria.
Il punto focale è da cercare ancora nel tenore del discorso pubblico siciliano per cui è l’antimafia
di sinistra a stimolare la ricerca e la riflessione e a porre agli storici il problema. Nell’ottobre
1958 la confluenza tra cronaca mafiosa e cronaca politica rende incandescente la scena siciliana.
All’Assemblea regionale si svolge la prima parte del dramma che porta alla presidenza Milazzo:
il giorno 30 il nuovo presidente del governo regionale eletto con i voti della sinistra e della destra
scioglie ogni riserva relativa al veto posto dal suo partito, la Dc, e accetta di assumere la carica.
Pochi giorni prima, il 19 ottobre , alcune coraggiose inchieste costano un gravissimo attentato

14
  Non è un discorso facile neanche negli anni più vicini a noi, cfr. il mio Memoria e tradizione: i fasci siciliani negli
anni cinquanta, in AA.VV. Elites e potere in Sicilia dal medioevo a oggi, a cura di F. Benigno e C. Torrisi,
Meridiana libri, Roma, 1995, pp 151 – 166. La ricostruzione di un case study in G. Barone Terra e potere.
Caltavuturo dall’Unità al fascismo, Comune di Caltavuturo, 2001.




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alla redazione del giornale palermitano “l’Ora”. Non si vuole così suggerire un nesso tra i due
avvenimenti; ma siamo ad uno snodo importante della vita siciliana. In comune i due episodi
hanno certamente l’intreccio confuso di modernità e tradizione che evocano negli osservatori.
Così l’ampia letteratura che fin da allora riguarda “l’operazione Milazzo”, così l’inchiesta Tutto
sulla mafia iniziata il 15 ottobre. Gli autori (gli stessi che si occupano di leggere la vicenda
Milazzo) sono Felice Chilanti, Mario Farinella, Michele Pantaleone, Enzo Lucchi, Castrense
Dadò (Nino Sorgi), Enzo Perrone. La seconda puntata dell’inchiesta, il 16, è dedicata a Luciano
Leggio, il mafioso di Corleone che ha appena fatto strage (2 agosto) del suo padrino/rivale
Michele Navarra e dei suoi seguaci. La descrizione del nuovo capo nel sommario dell’articolo:
“33 anni, ricco, temuto e temibile, uomo da grande albergo con la pistola sotto la giacca e capace
di cavalcare nello stesso tempo con la doppietta mozza sotto l’impermeabile: un misto di vecchio
mafioso e di moderno gangster. Potrebbe diventare un nuovo Giuliano”15.
Tutto ciò indica come si sia strutturata l’attenzione al fenomeno mafioso anche attraverso la
gestione di organi di stampa; indica anche come la domanda di conoscenza abbia avuto supporti
consistenti nella capacità di usare la stampa con grande maestria, pari al coraggio e all’impegno
civile che va riconosciuto ai giornalisti dell’”Ora”. Questa domanda di conoscenza quando si
trasferiva sul versante degli studi finiva per rivolgersi agli storici, la sinistra era ancora troppo
sospettosa nei confronti delle scienze sociali.
D’altronde il riconoscimento di un ruolo degli storici in questo campo di studi non tarderà a
venire anche da fuori Italia con il contributo di studiosi noti. Per primo è Eric Hobsbawm, che
pubblica Primitive rebels nel 195916, è lo stesso anno del libro di Enzo D’Alessandro su
Brigantaggio e mafia, pionieristico per avere tentato di isolare questi due aspetti spesso descritti
in contrasto, ma il più delle volte in forte dialogo. Con Hobsbawm siamo ancora nel network
della sinistra marxista e della tradizione meridionalista comunista di cui è informato;
accentuando alcuni temi già presenti nella elaborazione di Sereni lo storico inglese dà una sua
versione: pone la mafia su una linea evolutiva che può trovare un orizzonte nella capacità
organizzativa e razionalizzatrice del conflitto che è propria del moderno movimento operaio. Mi
sembra questa una accentuazione del primitivismo che accompagna la lettura della società
siciliana, e la mafia ne diventa espressione e simbolo, che entrerà in un circuito di studi sociali a
confronto con altre realtà di paesi arretrati e che verrà riproposta sotto questa nuova forma negli
anni settanta negli studi sulla mafia, sul clientelismo, sulla arretratezza meridionale. Per ora è in
auge il brigantaggio e la Sicilia interna.

6) La svolta sostanziale nella percezione della mafia e nella stessa storiografia avviene proprio in
questo scorcio di fine decennio e nei primi anni del successivo ed ha una serie di concause che
animano la scena politica e culturale siciliana. La pubblicazione del Gattopardo è certamente
l’evento culturale più importante, ma tra il 58 e il 61 vedono al luce Gli zii di Sicilia e Il giorno
della civetta di Sciascia; comincia a prendere forma il paradigma che più tardi lo stesso scrittore
di Regalmuto nominerà “la linea della Palma” e che comporta la graduale sicilianizzazione della
società nazionale, una sorta di contaminazione di difetti supposti originari della Sicilia, come il
clientelismo, per esempio17.
15
   Si veda ora in V. Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’”Ora” di Palermo, vol.II, Sellerio, Palermo,
2001, pp. 93 – 109, la citazione a p. 106.
16
   L’edizione italiana è di Einaudi, 1966 come il successivo I banditi, che è del 1969 in ed. originale e del 1971 in
ed. italiana.
17
   Il testo di riferimento in questo caso è La Sicilia come metafora, intervista a Marcelle Padovani, Milano,
Mondadori, 1979.




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A promuovere una chiave di lettura che privilegia l’arretratezza è Michele Pantaleone18,
esponente di primo piano del mondo politico social comunista siciliano, collaboratore del
quotidiano palermitano “l’Ora”, deputato all’ARS, e commissario dell’ERAS (Ente di Riforma
Agraria Siciliano) nel periodo milazziano, ma anche compaesano di Calogero Vizzini, il
capomafia di Villalba che da posizioni separatiste si era reso responsabile dell’attentato contro Li
Causi nel settembre 1944. Pantaleone era presente e comprimario, di famiglia da sempre avversa
a quella del capomafia. Il suo fortunato libro, Mafia e Politica (Einaudi 1962) è la storia di
Calogero Vizzini e di Villaba, promossi l’uno a capo della mafia siciliana, secondo una
discutibile genealogia, e l’altra a capitale mondiale di Cosa nostra, scelta ancor più unilaterale, se
possibile.
Secondo uno schema che potrebbe richiamare quello enunciato dal grande storico antichista
Santo Mazarino nel Pensiero storico classico, gli ingredienti della lotta fazionaria paesana
vivificano lo scenario che però avrebbe rischiato di restare limitato agli orizzonti municipali
come tante altre storie drammatiche di sopraffazioni mafiose. Invece Pantaleone intercetta nel
momento giusto alcuni canali di comunicazione tra la piccola e la grande dimensione e offre
risposte che l’opinione pubblica nazionale attende non solo per via della recrudescenza del
fenomeno mafioso registratasi in quegli anni, ma per l’inusitata drammaticità che la lotta politica
regionale ha assunto nel biennio 1958 - ‘59 con la secessione milazziana.
Cos’era questa Sicilia in cui si poteva spaccare la Dc, in cui si poteva formare un governo
regionale che vedeva convergere destre e sinistre? Come si era svolta la lotta tra il vecchio
quadro democratico cristiano e i nuovi esponenti del fanfanismo? Quanto erano nuovi quei
dirigenti fanfaniani, Gioia, Lima e tanti altri, che ricorrevano alle alleanze con gli esponenti della
mafia paesana già separatista, già liberal qualunquista e monarchica? Quanto avrebbero pesato
questi eventi sul quadro politico nazionale? La battaglia si stava combattendo in gran parte nella
Sicilia dei paesi con la conquista capillare del potere locale, con la strumentalizzazione della
riforma agraria, dei consorzi per l’irrigazione. Momento di avvio di questa fase di lotta può
essere considerato l’assassinio di Pasquale Almerico (1957), democristiano di Camporale, tolto
di mezzo per fare spazio nella nuova configurazione fanfaniana del partito al mafioso già liberale
Vanni Sacco; seguono: la resa dei conti tra Leggio e Navarra (1958), l’assassinio di Carmelo
Battaglia (1966), socialista e organizzatore di cooperative sui Nebrodi”. Ma si tratta solo di
alcuni dei più importanti fatti criminali in una guerra che vide ben 168 omicidi impuniti nel
periodo che va dal 1956 al 1960. La democratizzazione della società siciliana aveva sprigionato
dinamiche nuove, non sempre prevedibili, il punto di massima frizione sembrava essere ancora
l’area interna della Sicilia, investita di una modernità che ancora non l’aveva spopolata con
l’emigrazione. Dalle aree interne, e non dalle città costiere, i partiti di massa avevano ottenuto i
maggiori suffragi e la più forte legittimazione, dall’interno veniva la parte più dinamica della
classe politica regionale. Allora guardare meglio nelle pieghe della società dell’interno,
ricostruire la storia della piccola dimensione, sembrò un compito prioritario per raccapezzarsi in
un mondo le cui sopravvivenze rischiavano di sopravanzare ogni tentativo di costruire il nuovo.
Uno storico come Giuseppe Giarrizzo inaugurò una nuova collana di “Monografie di storia
municipale” presso la Società di Storia patria di Catania; nella prefazione al suo Biancavilla, che
dava l’avvio all’iniziativa, scrisse: “Il senso, l’indirizzo etico - politico di una comunità, per
piccola che sia, non si mutano inserendola in un diverso organismo politico e ideale: occorre
mutare, eliminando o aggiungendo, taluni elementi della sua struttura, cambiare così certi

18
  Non ho ritenuto in queste pagine che parlano della fortuna di Mafia e politica di cambiare il giudizio già espresso
nella introduzione del mio La mafia tra stereotipo e storia, Sciascia, Caltanissetta – Roma, 2000.




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rapporti di forza, se si vuole che altre soluzioni prevalgano”.
         Accanto a Pantaleone c’era Carlo Levi, autorevole mediatore. L’autore di Cristo si è
fermato a Eboli aveva già sperimentato con Le parole sono pietre (1959) una cifra linguistica di
forte suggestione applicata alla Sicilia. Pubblicato presso Einaudi e con la prefazione di Levi,
Mafia e politica divenne il più importante libro sulla mafia, e gli vanno riconosciuti molti meriti,
non ultimo il coraggio. Sicuramente questo libro ha contribuito a porre il problema della
esistenza e pericolosità della mafia meglio di qualsiasi altro saggio di più austero impianto e
anche più degli stessi atti prodotti dalle Commissioni parlamentari che da lì a poco si sarebbero
susseguite nello scenario istituzionale italiano. Anzi ancora Pantaleone con il successivo
Antimafia: occasione mancata19 si sarebbe accreditato come l’esperto, “il mafiologo” in grado di
tallonare e spronare istituzioni e partiti politici. Questo grande successo si doveva anche alla
capacità di semplificazione che sorreggeva l’intera operazione d’immagine. Ma allora erano i
tempi in cui la mafia per molti magistrati e uomini politici non esisteva, per l’arcivescovo di
Palermo, cardinale Ruffini, si trattava invece di una invenzione dei comunisti. Affermare
l’esistenza della mafia, in qualsiasi modo, fu dunque un merito.
         Ma come conciliare questo mondo arcaico, che la fortunata semplificazione aveva
cristallizzato attorno a Vizzini, con le espressioni di nuova criminalità? Con l’esposizione
internazionale della mafia che già allora costituiva una importante evidenza? Il punto di
raccordo è la vicenda dello sbarco alleato in Sicilia, che secondo Pantaleone sarebbe stato
propiziato dall’aiuto fornito dalla mafia, anzi dallo stesso Calogero Vizzini.
         Il messaggio più importante che viene da questa che potremmo chiamare l’epopea della
liberazione mafiosa della Sicilia è una illimitata e metastorica potenza della mafia, riassunta in
un universo di gesti e simboli che vanno oltre le apparenze, per cui un possidente supposto
analfabeta di un piccolo centro della Sicilia diventa arbitro in una immane battaglia tra eserciti
moderni, riceve messaggi portati da distanze impensabili e da luogi impenetrabili ( le carceri
americane di massima sicurezza) dirama ordini che vengono ricevuti con una rapidità ignota ai
detentori delle più moderne tecnologie. Questo ritorno mitico della mafia sulla scena sociale e
politica siciliana, anzichè rischiare di indebolire con la sua inverosimiglianza l’argomentazione
di Pantaleone, l’ha rafforzata, anzi, l’ha resa resistente e inattaccabile. Ha conquistato un circuito
di fruizione che nessuna argomentazione contraria può intattaccare, per quanto possa essere
fondata su documentazione esaminata da storici di professione, di solito molto poco propensi a
credere al racconto di Pantaleone. Mi ha sorpreso trovare su un numero della rivista
“Micromega” (n.5, 1999) un articolo di Andrea Camilleri in cui viene ripreso il discorso
dell’aiuto mafioso allo sbarco alleato in Sicilia. Per di più il popolare scrittore si avvale di alcuni
documenti britannici e americani che alla sua lettura (mi perdoni il Maestro) profana e
superficiale proverebbero il mitico assunto, poco curandosi del fatto che gli studiosi (io stesso,
Francesco Renda e Salvatore Lupo) che hanno trovato, studiato e utilizzato questi documenti ne
hanno tratto conclusioni differenti.
         La fortuna dello stereotipo coniato da Pantaleone si misura anche dal fatto che ormai
pochi tra quanti lo riprendono si ricordano del suo autore, tanto il cinema, la televisione, le
inchieste di tutti i tipi lo hanno oggettivato in una circolarità del discorso pubblico che ha
bisogno di miti per suscitare attenzione. Camilleri, che pure scrive il suo articolo “ad uso degli
smemorati”, neanche si ricorda di citare Pantaleone che almeno lui avrà sicuramente conosciuto.

19
  Torino, Einaudi, 1969. Perquersto aspetto dell’atività della prima Commissiomne antimafia mi limito a segnalare
N. Tranfaglia, Mafia poltica affari, cit; S. Lupo Storia della magfa dalle origini a i nostri giorni, Donzelli, Roma,
1996, U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit.




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13
Il tema dell’aiuto mafioso allo sbarco era già stato ripreso con analoga attenzione alle fonti
nella relazione scritta da Violante in qualità di presidente della Commissione parlamentare
antimafia; fra l’altro bisogna osservare che nei casi citati il ricorso a questa mitica premessa non
aggiunge e non toglie nulla all’argomentazione che segue. Forse si ritiene che solo il continuo
ritorno su luoghi conosciuti possa rendere identificabile un discorso, possa avvalorarlo agli occhi
del pubblico. Sembra un mondo di incomunicabilità tra elaborazione storiografica ed
elaborazione politica dove stereotipi e pregiudizi restano immodificabili. E’ come se si
raschiasse continuamente nel fondo di un barile alla ricerca di un passato che non si riesce a
leggere con gli strumenti della storia e della cultura, condannati a un eterno presente e a una
coazione a ripetere.

7) Mafia e politica è il punto più alto del decennio 1960, dopo di che ha inizio la stagione della
Commissione parlamentare antimafia, caratterizzata da opere di buon successo editoriale, segno
di una nuova attenzione dell’opinione pubblica. Tuttavia oggi ci appaiono ripetitive, lontane
dalla ricerca storica come poi si è praticata. Per la cronaca: nel 1963 S.F. Romano scrive una
Storia della mafia, ma sono da segnalare i saggi di Virgilio Titone comparsi tra il 1962 e il 63 sui
"Quaderni reazionari". L'una e l'altra opera avranno riedizioni a poca distanza di tempo, in
volume nel 1964 i saggi di Titone, con il titolo di Storia, mafia e costume in Sicilia, e nella
diffusissima ed economica collana dei Record di Mondadori il libro di Romano (1966). Il clima
culturale della Palermo dell’epoca, culla del dibattito,oltre che delle gesta mafiose, è descritto da
Giuseppe Carlo Marino nella prefazione alla nuova edizione (1986) della sua L’opposizione
mafiosa20, un libro che nel 1964 affronta il rapporto mafia - classi dirigenti nell’Italia liberale.
        Il libro di Titone è uno dei pochi tentativi di proporre una lettura non di sinistra; si
potrebbe dire che è l’altra faccia del successo del Gattopardo, contrapposta a quella che Luchino
Visconti ha fatto passare come lettura compatibile con la cultura di sinistra. Lo storico
palermitano era stato amico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sulle orme del grande scrittore
guarda dall’interno la declinante aristocrazia siciliana e la scagiona dalla responsabilità di aver
tenuto a battesimo e protetto la mafia; non manca di buon senso quando fa osservare, per
esempio, che la relazione meccanica mafia - latifondo non ha senso poiché il latifondo si trova
anche dove non c’è la mafia. Su questa base Titone critica le teorie “materialistiche”21, ma non
riesce a fornire un quadro di riferimento concettuale plausibile per cui finisce per proporre una
spiegazione razziale che contrappone Sicilia Occidentale mafiosa e fenicia a Sicilia Orientale
“babba” (ovvero, onesta) e greca.
Se per Titone bisogna diffidare dalle letture che poi si chiameranno “totomafiose”, “dove tutto è
mafia nulla più è mafia”22, non così sembra per la Storia della Sicilia dello storico inglese Denis
Mack Smith, che adotta il criterio della mafiosità per leggere la storia secolare dell’isola;
Leonardo Sciascia ne rimane affascinato al punto da proporre l’opera per l’adozione nelle scuole
siciliane23. E’ questa l’apertura di una lunga fase che accompagna la lettura delle relazioni
dell’Antimafia e che vede però la politica e la storiografia tentare nuove strade. Di notevole


20
   G. C. Marino, L’opposizione mafiosa. Mafia, politica, stato liberale, Flaccovio, Palermo, 1964
21
   V. Titone, Storia, mafia e costume in Sicilia, pp. 285 – 88. Da destra, ma in questo caso più vicina agli ambienti
della cultura neofascista viene il lavoro di G. Falzone, Storia della mafia, Flaccovio , Palermo, 1984, la prima
edizione era uscita in lingua francese da Fayard, Paris, 1973.
22
   Titone, Storia, mafia, costume, cit., p. 288.
23
   Lo ricorda G. Giarrizzo, Sicilia oggi (1950 – 1986), in AA.VV. Storia della Sicilia, cit. p.643, che intervenne
contro nella polemica suscitata dalla proposta di Sciascia.




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14
     importanza la relazione di minoranza della Commissione antimafia, Mafia e potere politico24.
Certamente la politica di compromesso storico in Sicilia ha dei riflessi importanti, dovuti alla pratica
     attuata nell’ambito della Regione, di maggiore disponibilità alla ricerca di un accordo tra le
     principali forze politiche25. Si aprirà così un dibattito sulla categorie di borghesia mafiosa o di
     borghesia nazionale, sulla scorta delle considerazioni togliattiane della fine degli anni quaranta.
     Sono le forze di nuova sinistra a elaborare il concetto di borghesia mafiosa, in contrasto con le
     aperure del Partito comunista, e in particolare il leader più prestigioso, Mario Mineo, testimone e
     protagonista della prima stagione politica siciliana degli anni 194026. A rinnovare il tono del
     dibattito culturale contribuiscono in questi anni gli scienziati sociali, sia quelli che scelgono di
     studiare la Sicilia e la mafia come espressioni di una cultura mediterranea ancora primitiva, sia
     quelli che cominciano a introdurre il conceto di società complessa nello studio della società
     siciliana. Sono presenti Henner Hess, Anton Blok, Peter e Jane Schneider27. A partire agli anni
     settanta la nuova Facoltà di Scienze politiche di Catania diventa un punto di riferimento,
     vengono a insegnarvi o vi si formano politologi e sociologi che avranno un ruolo molto visibile
     nell’organizzazione degli studi su clientelismo e mafia, come Luigi Graziano, Franco Cazzola,
     Graziella Priulla, Raimondo Catanzaro. Si devono a quest’ultimo studioso alcune importanti
     ricerche sull’imprenditoria assistita nell’ambito dello spazio politico regionale28. Catanzaro sarà
     anche uno dei più disponibili al dialogo con gli storici, il suo lavoro più noto, Il delitto come
     impresa. Storia sociale della mafia29 reca fin dal titolo il segno di un superamento degli steccati
     disciplinari che avrebbe caratterizzato i nuovi studi.
              Il maggiore disorientamento viene dall’avere acquisito che l’avvenuta modernizzazione
     del Mezzogiorno e della Sicilia non ha fatto scomparire la mafia. Il nuovo dibattito si svolgerà
     proprio su sollecitazione di alcuni sociologi e politologi da Raimondo Catanzaro a Pino Arlacchi
     a Diego Gambetta30 ad Alfio Mastropaolo. Particolarmente utile si rivelerà nel dialogo con gli
     storici il concetto di ibridazione sociale usato da Catanzaro. Per la prima volta questa concetto
     contribuirà a dare spessore diacronico alla riflessione sociologica sul Mezzogiorno d’Italia31.
              L'esordio degli studi storici in questa fase può essere indicato nel convegno di Messina,
     Mafia e potere, 19 23 ottobre 1981 ( a cura di Saverio Di Bella, Rubbettino 1983). Siamo in
     piena guerra di mafia, e sembra importante dare un contributo culturale; tuttavia la maggior parte
     delle relazioni al convegno riproducono il vecchio sapere. Il già noto gode di una grande
     autorevolezza dovuta all’accreditamento che molti studiosi hanno anche su un piano civile e
     politico. Si vedano d'altronde i contributi che riguardano la mafia sulla monumentale Storia della
     Sicilia edita dalla Società editrice per la storia di Napoli (1978) e curata da Rosario Romeo.

     24
        Roma, Editori Riuniti, 1976.
     25
        Faccio riferimento al bel saggio di C. Riolo, Istituzioni e politica. Il consociativismo siciliano nella vicenda del
     Pci e del Pds,, in Far politica in Sicilia, a cura di M. Morisi, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 181 – 210.
     26
        Si veda Mario Mineo, Scritti sulla Sicilia (1944 – 1984), a cura di D. Castiglione e P. Violante, Faccovio,
     Palermo, 1995, in part.la sezione del volume intitolata appunto La borghesia mafiosa. Per l’elaborazione di questo
     concetto si veda U. Santino e G. La Fiura, La borghesia mafiosa, Palermo 1994.
     27
        H. Hess, Mafia, Laterza, Bari, 1970; A. Blok, La mafia di un villaggio siciliano, Einaudi, Torino, 1986; P. e J.
     Schneider, Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubbetino, Soveria Mannelli, 1989;
     28
        R. Catanzaro, L’imprenditore assistito, Il Mulino, Bologna, 1979.
     29
        La prima edizione Liviana, Padova, 1988, la seconda Rizzoli, Milano, 1991
     30
        I principali lavori di Pino Arlacchi in questa fase sono: Mafia contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Il
     mulino, Bologna, 1980 e il più celebre, La mafia imprenditrice, Il Mulino, Bologna, 1983; di Diego Gambetta, La
     mafia siciliana, Einaudi, Torino, 1992.
     31
        Si veda per es. il n. 156, 1984 di “Italia Contemporanea”, con i saggi di Catanzaro,La mafia come fenomeno di
     ibridazione sociale, di Lupo, Nei giardini della Conca d’oro, e mioGabellotti e notabili nella Sicilia dell’interno.




                                                                                                                           14
15
Francesco Brancato, Salvatore Massimo Gangi, Salvatore Francesco Romano, Roberto Ciuni,
sono presenti con sintesi dei loro lavori precedenti.
         Per gli studiosi della nuova generazione si tratterà di cominciare con il mettere a fuoco un
oggetto di studio e disegnargli attorno contesti credibili, si tratta per esempio di capire cos’è
criminalità mafiosa distinta da altre forme di criminalità, penso al lavoro pionieristico compiuto
da Ida Fazio, Daniele Pompeiano e Giovanni Raffaele sull’entroterra messinese32. La stessa
esigenza di isolare l’oggetto si pone per gli storici Christopher Duggan, Salvatore Lupo e
Giovanni Raffaele33che studiano l’operazione Mori e possono avanzare legittimi sospetti sulla
utilizzazione strumentale dell’accusa di mafiosità rivolta dal prefetto “fascistissimo” agli
avversari politici. Il problema del rapporto tra contesto e oggetto di studio si pone ora con
maggiore chiarezza concettuale anche per via dei rinnovati studi generali sul Mezzogiorno
condotti tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta da storici come Giuseppe
Giarrizzo, Pasquale Villani, Giuseppe Barone, Franco Barbagallo, Piero Bevilacqua. Si può
quindi ben distinguere una storia della mafia da una storia generale della Sicilia (o della camorra
e della Campania, per es.) e nel contempo tentare di condurre la ricerca con gli strumenti propri
della storiografia, come la ricerca d’archivio. Nel contempo il lavoro subisce uno stimolo
dall’attività dei giudici del pool antimafia di Palermo e dalla conoscenza delle dichiarazioni dei
pentiti, che consentono anche agli storici di guardare con una attenzione nuova al mondo della
criminalità organizzata.
         Non farò qui l’approfondita analisi che questa fase meriterebbe, mi limiterò ancora a
ricordare, insieme ai nomi di alcuni amici e colleghi, due aspetti fortemente caratterizzanti. Il
primo è che gli anni ottanta pongono il problema della espansione del fenomeno mafioso o della
rivitalizzazione di vecchie organizzazioni criminali come la camorra e la ‘ndrangheta. La portata
nazionale (e internazionale) della questione mafiosa ora è ben visibile, il che facilita i rapporti tra
studiosi di diversa provenienza geografica ormai consapevoli di affrontare un problema
storiografico di ampia portata. Penso per esempio all’impegno di Nicola Tranfalia. Tra i luoghi
“nuovi” dell’infezione mafiosa c’è Catania, la città siciliana considerata immune per la sua
pretesa modernità; l’assassinio del giornalista Pippo Fava (5 gennaio 1984) è da considerare una
data periodizzante nella presa di coscienza del profondo inquinamento mafioso che lo stesso
Fava denunciava. Questo serve da stimolo anche agli studiosi non solo catanesi, ma riuniti
intorno a Giuseppe Giarrizzo e Maurice Aymard nel progetto di scrittura di una storia della
Sicilia contemporanea per l’editore Einaudi. Si tratta di Giuseppe Barone, Salvatore Lupo, Paolo
Pezzino, Antonino Recupero, Alfio Signorelli, Enrico Iachello, Rosario Spampinato e chi scrive;
insieme ci sono studiosi della generazione precedente, come Francesco Renda, che nel frattempo
da alle stampe una sua ponderosa Storia della Sicilia in tre volumi per l’editore Sellerio: esce
nello stesso 1987, qualche mese prima di quella einaudiana. Lo stesso gruppo di studiosi insieme
a Marie - Anne Matard, a Giovanna Fiume34 e a colleghe che studiano realtà non siciliane come
Ada Becchi, Marcella Marmo e Gabriella Gribaudi costituiscono un punto di riferimento stabile
attorno all’Imes e alla rivista “Meridiana”, di cui segnalo il numero speciale 7 – 8 1990 dedicato
alla mafia. Gli anni novanta vedranno di nuovo opere di sintesi sulla mafia, parlo di quella


32
   Controllo sociale e criminalità. Un circondario rurale nella Sicilia dell’ottocento, Milano, Angeli, 1985.
33
   C. Duggan, La mafia durante il fascismo, cit.; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit; G. Raffaele,
L’ambigua tessitura, cit.
34
   Di Giovanna Fiume si segnala tra l’altro l’intervista a Giovanni Falcone su “Meridiana”, n.5, 1989; Marie- Anne
Matard – Bonucci è anche autrice di Histoire de la mafia, Edition Complexe, Bruxeles, 1994.




                                                                                                                 15
16
siciliana, prodotti del dibattito cui ho accennato. Accanto ai libri di Lupo e di Pezzino35,
vedranno la luce opere di studiosi già presenti nella fase precedente, come Giuseppe Carlo
Marino, Francesco Renda, Orazio Cancila.
        Più che una valutazione di questi lavori vorrei offrire qui una riflessione su un altro
aspetto che ritengo importante di questa fase, anche ai fini delle immagini della Sicilia che la
storiografia (e gli storici) offre. Si tratta del diverso rapporto con la politica. Saranno pochi gli
studiosi direttamente impegnati in questa fase, ma più importante la qualità dell’impegno meno
vincolante rispetto alle appartenenze partitiche. La stagione che si apre in seguito alla
congiuntura degli anni ottanta, muove anch’essa da un impegno civile, ma meno strutturato. E
anzi ritengo che il terreno di incontro tra storici e militanti, quando ci sarà un terreno d’incontro
nei comitati antimafia, nei luoghi così detti di “società civile” sarà in vista di una
destrutturazione del quadro politico preesistente, diversamente dagli intenti costruttivi (organici)
degli anni cinquanta e sessanta36. In questo gli studiosi di storia della mafia non sono diversi da
molti altri colleghi italiani e stranieri che dagli anni ottanta in poi guardano alla storia sociale
come a una occasione per rimettere in discussione non tanto l’impegno, quanto le sue modalità
rispetto alle agenzie politiche, alle istituzioni, ai partiti soprattutto. Il fatto che sia vero anche per
un tema di storia sociale ma a così forte tasso politico, com’è la storia della mafia, diventa
semmai un annuncio importante della crisi imminente del sistema politico italiano degli anni
1990




35
   Di S. Lupo oltre alla già citata Storia della mafia segnalo Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli, Roma
1996., compreso poi nella edizione ampilata della Storia della mafia, 1996. Tra le opere a carattere generale di Paolo
Pezzino segnalo il saggio Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso comparso sulla
einaudiana Storia della Sicilia e poi ripubblicato in Una certa reciprocità di favori, Milano Angeli 1990. Si veda
poi Mafia: industria della violenza, la Nuova Italia, Firenze 1995. Mi pare questo il momento e il luogo per
segnalare il mio Mafia tra stereotipo e storia, Sciascia, Caltanissetta – Roma , 2002.
36
   Segno di questo nuovo rapporto tra intellettuali e politica in merito allo studio della mafia è forse anche il
tentativo di alcuni studiosi di dare unicità tematica a una storia dell’antimafia considerata alla stregua di un
movimento politico.




                                                                                                                   16

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Mafia e storia. A proposito di legalità e cittadinanza

  • 1. 1 Rosario Mangiameli Mafia e storia. A proposito di legalità e cittadinanza In Rappresentazioni e immagini della Sicilia tra storia e storiografia, a cura di F. Benigno e C. Torrisi, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta – Roma, 2003, pp. 107 – 130. (il testo può presentare qualche imperfezione dovuta al “trasloco” da un sistema di scrittura all’altro oltre che di incompletezza in alcuni dettagli. Per la versione corretta e definitiva rimando all’edizione indicata nel titolo) 1) La ormai secolare vicenda dalla mafia siciliana ha prodotto un'infinità di scritti, accompagnati da significative opere teatrali e cinematografiche, tali da rispondere a una domanda di informazione diffusa nella opinione pubblica nazionale e internazionale. Questo fenomeno criminale h infatti tra le cose siciliane più note, genere localmente reperibile e nel contempo di larga esportazione. Per lo più è stata la letteratura d'inchiesta e quella giudiziaria a occuparsi del fenomeno. Intenti repressivi e curiosità del pubblico sono andati insieme ogni volta che si è avuta una nuova manifestazione di violenza mafiosa nella Sicilia post unitaria e di primo novecento. Si è trattato appunto di una attenzione dall'andamento discontinuo provocata ogni volta dall'allarme sociale, così come discontinuo – episodico, ebbe a dire Falcone - è stato l'impegno repressivo dello stato. Gli storici si sono occupati di mafia soltanto a partire dagli anni cinquanta e anche il loro impegno non è stato sempre costante. Questo è vero, ma non giustifica la convinzione piuttosto diffusa che la storia sia arrivata ultima in questo settore di indagini. Non lo dico per patriottismo disciplinare. Ma per sottolineare come l’oggetto mafia si presenta sfuggente a qualsiasi disciplinamento (intendo dire anche dal punto di vista degli studi, non solo rispetto all’ossequio alle leggi) per cui anche i cultori di altre discipline se ne sono occupati tardi. La mafia è uno di quei tipici temi di confine in cui si sono meglio confrontati gli studiosi di diversa formazione e i saperi si sono contaminati; e questa è certamente una circostanza da sottolineare in un paese in cui gli steccati accademico disciplinari tendono a preservare gelosamente i distinti territori d’influenza. Ciò detto, non sembri contraddittorio il tentativo di isolare il contributo degli storici, lo si consideri come l’assunzione di un punto di vista che ci consente poi di allargare la visuale ai contributi di altre discipline. E’ anche vero che la storia ha goduto di un privilegio che le ha fatto assumere un ruolo centrale di stimolo nell’avvio di studi sulla mafia, e questo per un motivo che ha che fare con la diffidenza, di matrice crociana e parimenti gramsciana, che gli intellettuali italiani del dopoguerra nutrivano nei confronti delle scienze sociali. Oggi possiamo distinguere tre fasi della storiografia sulla mafia. La prima che si sviluppa intorno agli anni sessanta, nel periodo che culmina con l'attuazione dell'Antimafia (1962). La seconda che prende avvio negli anni ottanta con la grande emergenza criminale di quel periodo. La terza fase mi sembra possa considerarsi allo stato nascente e potrebbe essere definita della 1
  • 2. 2 globalizzazione; é quella attuale che tenta di leggere l'intreccio internazionale dei fenomeni criminali in relazione ai flussi migratori e più in generale ai fenomeni di mondializzazione. In questa ultima fase il paradigma siciliano si presenta come uno degli strumenti di lettura delle altre manifestazioni mafiose e siamo giunti a verificare l’esistenza di un paradosso: l’insorgenza mafiosa siciliana che era considerata come uno degli aspetti della arretratezza della società regionale, ora diventa il modello avanzato che indica, direbbe il vecchio filosofo, la via agli altri paesi. Non è esattamente così, ma molte suggestioni vengono dalla Sicilia e alla Sicilia dallo studio delle nuove mafie internazionali. Non ultima per es la lettura meno localizzata degli sviluppi della mafia siciliana, che perde molto della primogenitura che la tradizione fin’ora le ha assegnato e viene invece letta in più stretta relazione con la coeva manifestazione di criminalità etnica negli Stati Uniti1. 2) Anche alla luce di queste suggestioni del presente torniamo a dialogare con il passato, e precisamente torniamo a quella che mi sembra si possa indicare come la prima fase fondativa di una storiografia sulla mafia, la quale si intreccia fortemente con il dibattito politico coevo. Questo intreccio oggi si vede con maggiore chiarezza, per la distanza prospettica che ci separa da quel tempo. E' certamente la fase su cui possiamo meglio condurre una analisi storica. Le prime opere che abbiano tentato una ricostruzione storica del fenomeno mafioso siciliano si collocano a cavallo tra gli anni 1950 – 1960. Si pone qui un problema tipico dell’approccio di questa disciplina, quello che riguarda il gioco della contestualizzazione e della messa a fuoco dell’oggetto di studio. In questo caso i contorni che appaiono ben netti ai protagonisti del dibattito corrente stentano invece a precisarsi quando si passa alla osservazione disciplinata. Inizialmente si hanno alcuni lavori che parlano della mafia come di uno degli attori operanti nella più generale storia sociale e politica siciliana, e si tratta di lavori talvolta di grande importanza come quello di Paolo Alatri sulla politica della Destra storica (1954) o come quello di Salvatore Francesco Romano sui Fasci siciliani (1959), in mezzo si colloca la pubblicazione dei tre volumi della laloggiana Storia della Sicilia post unificazione, scritti da Francesco Brancato, Giovanni Raffiotta, e dallo stesso Salvatore F. Romano2. Il tema della mafia non viene affrontato autonomamente, si riflette invece su due questioni di cruciale importanza nel dibattito culturale di quel tempo: quella che riguarda la partecipazione della Sicilia al Risorgimento e alla costruzione dello stato unitario e la questione agraria. Si tratta di due aspetti fortemente correlati nella storiografia, ma ancor più nell'appassionata e talvolta aspra polemica politica. E' anzi questo uno dei casi di uso pubblico della storia di grande rilevanza. Il dibattito storiografico sulla costruzione dello stato unitario e sulla questione agraria riflette il tenore del dibattito politico presente. La vicenda della autonomia regionale, il serrato confronto tra forze politiche e sociali che si svolge nella Sicilia degli anni quaranta e cinquanta, il riemergere del banditismo, il ruolo apertamente sostenuto della mafia nella emergenza separatista; tutto ciò viene ricondotto a un immeditato paragone con il non lontano passato risorgimentale. Tuttavia i protagonisti della stagione politica degli anni cinquanta sono nuovi, bisognosi di identità e di memoria: i cattolici e le sinistre social comuniste che si contendono lo spazio politico regionale e il controllo delle masse rurali. L'atteggiamento di questi due schieramenti sarà profondamente diverso, e il tema della mafia sarà tra quelli che contribuiranno 1 Cfr. S. Lupo, ….in “Meridiana” Mafie internazionali 2 P. Alatri, Lotte politiche in Siciliaal tempo della Destra, Einaudi, Torino, 954; S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, Roma Bari, Laterza, 1959, ma si veda la rivista “Movimento operaio”, n. 6, 1954 dedicato ai Fasci, con i contributi di G. Cerrito, L. Cortesi, S. Costanza, M. Ganci, I Nigrelli, F. Renda, S. F. Romano. 2
  • 3. 3 a segnare lo spartiacque sia nella politica corrente, sia nella valutazione del passato recente. Discorrere di mafia sarà per un certo periodo prerogativa quasi esclusiva della sinistra che ne farà un uso polemico nei confronti dell’avversario cattolico. I cattolici intesi come democratici cristiani e come chiesa siciliana, da parte loro non avrebbero opposto alle sinistre una loro versione della presenza mafiosa nella società isolana, piuttosto avrebbero adottato un atteggiamento minimalista o addirittura negazionista, quasi a conferma della tesi sostenuta dalla sinistra di un loro coinvolgimento con la mafia. Si tratta certamente di una semplificazione che, tuttavia ebbe grande successo nella definizione delle identità dei principali schieramenti politici isolani3. L’importanza che sto attribuendo al contesto politico non deve far pensare che la traduzione del discorso politico in discorso storico e viceversa sia stata immediata e banale, tutt’altro: un libro a cui possiamo attribuire una primogenitura nell’avvio della ricerca storica, Lotte politiche in Sicilia al tempo della Destra di Paolo Alatri non è e non è mai stato considerato un libro di polemica politica; è in effetti un severo e ponderoso libro di storia, ma anche per questo non è stato mai fatto rientrare neanche lontanamente nel genere di libri sulla mafia –si sarebbe detto mafiologico a partire dagli anni sessanta - che si presentavano normalmente legati a occasioni più contingenti. E invece in esso si ricostruisce uno dei momenti cruciali della vicenda mafiosa con fonti di prima mano, una impresa che gli altri storici avrebbero tentato molto tempo dopo. La ricostruzione che Alatri fa delle relazioni tra il prefetto Albanese e il generale Medici, tutta la vicenda Tajani, appaiono cruciali per la costruzione di una storia della mafia, che però non acquista mai una fisionomia autonoma; nel libro il tenebroso sodalizio di cui ben si riconoscono i contorni e la fisionomia resta parte di un gioco politico ben più grande. A conferma di questa scelta di contestualizzazione e di caratura del fenomeno si può notare che Alatri resta del tutto indifferente ai problemi definitori che tanto hanno appassionato gli studiosi di mafia. Nell’articolazione del discorso di Alatri le riflessioni sull’autonomo sviluppo delle relazioni tra forze dell’ordine e organizzazioni criminali che sta a fondamento del radicamento del fenomeno mafioso appaiono marginali, mentre l’obiettivo è quello di sottolineare con chiarezza le implicazioni illiberali della politica della destra, gli attacchi all’opposizione. La sensibilità di Alatri rispetto al suo presente sembra segnata dalla minaccia centrista di messa fuori legge del Partito comunista, dal dibattito sulla “legge truffa”, da aspetti politici più generali che nulla lasciano agli idiomi locali. E questo, pensiamo, anche per un motivo che trae origine dalla ricerca stessa oltre che dal dialogo col presente: e cioè dalla convinzione che la vicenda politica siciliana del primo ventennio postunitario, avesse avuto un ruolo cruciale nella definizione degli equilibri nazionali, con quel riemergere del fiume carsico della democrazia sebbene non più nella sua originaria tensione rivoluzionaria, ma sotto le forme più moderate di un compromesso con le istituzioni monarchiche. Ma questo appariva davvero lontano dalla definizione di un fenomeno come quello mafioso, che per quanto grave e preoccupante, non sembrava ancora avere assunto rilevanza al di là di un’area subregionale. 3) Avere isolato il lavoro di Alatri può fare apprezzare il modo in cui uno storico riesce a dare un ordine alla incandescente materia politica isolana inscrivendola in uno schema di nation building; questa può essere considerata una svolta rispetto alla tradizione comunista, alla quale lo stesso Alatri si riferiva, rappresentata da due dirigenti del calibro di Ruggiero Grieco e di Emilio 3 Si veda meglio ora com’è affrontato il problerma nei lavori di Francesco Michele Stabile, (per es. I consoli di Dio. Vescovi e politica in Sicilia (1953 – 1963) Sciascia, Caltanissetta – Roma, 1999) o di Cataldo Naro (per es. La chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, 3 voll. Sciascia, Caltanissetta – Roma, 1991). 3
  • 4. 4 Sereni che negli anni trenta avevano studiato la mafia e rimesso in circolo classici come Franchetti e Sonnino; anzi proprio loro avevano contribuito a consacrare queste opere come classiche nella lettura del fenomeno mafioso e più in generale della società siciliana. L’approccio dei due dirigenti presenta una visione di sintesi ben più ampia e certamente collocabile in un contesto diverso, quello della progettazione della rivoluzione in Italia. Su questo linguaggio nel dopoguerra verrà a sovrapporsi il linguaggio specificamente storiografico creando una stratificazione di logiche diverse all’interno di una comune appartenenza alla sinistra (in particolare comunista), con un riconosciuto primato della politica; e tuttavia anche questa contaminazione sarà importante sia per la storia, sia per la politica. Le grandi campate concettuali disegnate dai politici serviranno a sprovincializzare l’ambiente degli studi siciliani, molto legato a un sicilianismo difensivo e poco incline a confrontarsi con le correnti più importanti della cultura italiana. Per un altro verso la politica avrebbe ridimensionato i suoi obiettivi, non più volti all’attesa della rivoluzione, ma alla costruzione di un movimento di massa in un contesto democratico. Il grande progetto rivoluzionario, mai ufficialmente dismesso, sarebbe rimasto patrimonio disponibile e vivificante4. Nelle posizioni di Grieco e Sereni sulla mafia si sono scorti i segni di due differenti linee politiche rispetto alla società meridionale: più schematica quella di Grieco, che vedeva nella mafia “la difesa più solida del feudalesimo agrario siciliano”; ne derivava una linea di opposizione classista rigida, detta “bracciantilista”, che auspicava una netta frattura tra gli strati bassi che, secondo Grieco si erano opposti al fascismo, e gli srtati alti che invece erano stati cooptati nel quadro del regime. Più attenta a cogliere sfumature e diversità la posizione di Sereni, che sulla scia di Franchetti considerava la mafia una espressione della incompleta transizione dal feudalesimo al capitalismo. “La lotta stessa di questa borghesia agraria in formazione contro la grande proprietà terriera latifondistica semifeudale assume ancor oggi sovente, in Sicilia, la forma semifeudale della mafia”. La linea cosiddetta “contadinista” di Sereni nasceva da una valutazione della pressione che gli strati medi della mafia rurale, i gabellotti avevano esercitato sulla grande proprietà nobiliare nel primo dopoguerra. “Nella quotizzazione di latifondi la mafia ha avuto una parte di primo piano”, si era trattato nel contempo di una azione rivolta contro gli strati superiori della società, e contro gli strati inferiori, “contro il contadino povero e contro il proletariato agricolo”; in questo secondo caso con una violenza ancora più accanita: “qui i dirigenti della mafia non esitano di fronte ai mezzi più radicali, come quello dell’assassinio dei capi del proletariato agricolo e industriale siciliano”5. Non si potevano avere dubbi, quindi, circa il carattere classista della mafia. Tuttavia il fascismo avrebbe cambiato le cose approfondendo la contraddizione tra gli strati medi mafiosi e la grande proprietà. L’attacco di Mori era letto da Sereni come il tentativo dei grandi proprietari di riconquistare per intero il controllo della società regionale, attraverso l’illegalità assunta a sistema dallo stato fascista. Ma a radicalizzare ancor più le posizioni sarebbe intervenuta la crisi del ’29, punto di svolta per un maggiore scollamento tra ceti intermedi e grande proprietà6. In questo versante della elaborazione sereniana è certamente prevalente il debito nei confronti di Sonnino, di quella forma di protomarxismo che 4 R. Grieco, Introduzione alla riforma agraria, E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino, 1947 e Id, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino, 1946. 5 Sereni, La questione agraria, cit., p. 240. 6 E’ un tema centrale del dibattito storiografico su mafia e fascismo ripreso dagli storici a partire dagli anni ottanta: Cfr. S. Lupo, Blocco agrario e crisi in Sicilia tra le due guerre, Guida, Napoli, 1981; C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1986; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, in AAVV, Storia della Sicilia, Einaudi, Torino, 1987; G. Raffaele, L’ambigua tessitura. Mafia e fascismo nella Sicilia degli anni venti, Franco Angeli, Milano, 1993. 4
  • 5. 5 traspare dal realismo del grande studioso toscano, che Sereni, e qualche tempo dopo Rosario Villari, ricolloca nel solco della nascente tradizione della lettura materialistica (gramsciana) della storia d’Italia. Così l’elaborazione di Sereni avrebbe avuto notevole fortuna nel secondo dopoguerra, dando luogo a molte diverse accentuazioni del dibattito sulla mafia. Opinioni simili a quelle espresse da Sereni faranno da guida agli esponenti dei due principali partiti di massa, seppure ancora allo stato nascente. Non si tratta qui di sottolineare un qualche primato ideologico, ma di prendere atto del come nella realtà magmatica e totalmente priva di punti di riferimento istituzionali del 1944 il democratico cristiano Bernardo Mattarella e il comunista Girolamo Li Causi guardino alla mafia rurale dei gabellotti come a un potenziale alleato nella lotta per aggregare gli strati intermedi della società dell’interno. Li Causi ripropone lo schema della mafia antibaronale, che può cogliere l’occasione per riscattarsi e assumere il suo posto nella lotta per la terra accanto ai contadini. Considerazioni di questo genere svolte sull’organo ufficiale dei comunisti siciliani, il periodico “La Voce comunista”, lo porteranno a Villalba a ingaggiare un confronto/scontro con Calogero Vizzini, il più noto dei capi mafia “antifascisti” dell’interno, nonché tutore di cooperative di contadini cattolici. L’esito drammatico è noto, ed è nota la reazione di Mattarella, pronto a rivendicare sulle pagine del “Popolo” l’amicizia di Vizzini per il suo movimento. Certo anche per consuetudine, ma anche per quelle prospettive di autonomia e di identità che il partito cattolico sente di potere offrire ai ceti medi a maggior titolo che il Partito comunista. E’ davvero interessante in tutto il dibattito che si svolge subito prima e dopo la strage di Villalba la tensione politica che nette in secondo piano considerazioni sulla legalità, quasi elemento accessorio nel contesto “rivoluzionario” della Sicilia del 1944. L’attenzione è alla costruzione di un insediamento sociale, di un radicamento che vede già la Dc in concorrenza con il Pci. Le cose cambieranno da quel momento in poi, i partiti di sinistra e i sindacati dei lavoratori saranno presi di mira dagli attacchi terroristici dei mafiosi. Man mano che il quadro di una “legalità repubblicana” andrà costituendosi, questo diventerà un criterio di valutazione della mafia che prenderà il posto nel discorso pubblico sui criteri puramente politici. Come retaggio del loro passato rivoluzionario mai apertamente ripudiato i comunisti tuttavia non rinunceranno all’idea che all’interno delle formazioni mafiose ci sia da operare una spaccatura, sia da applicare la lotta di classe per ottenere un maggiore radicamento nella società rurale. Sarà ancora Li Causi a tentare il dialogo con Giuliano scrivendogli, puntando su quella distinzione che voleva il bandito opposto al mafioso nel tentativo disperato di forzare dal basso i meccanismi di promozione sociale. E ancora a Portella della Ginestra il dirigente comunista scarterà in un primissimo momento l’ipotesi Giuliano pensando alla troppo intima vicinanza tra i banditi e i contadini dei paesi colpiti. Per quanto riguarda l’area cattolica il tenore del discorso sulla mafia sarà stabilito dalle dichiarazioni negazioniste di Scelba già nel dibattito parlamentare su Portella della Ginestra, mentre dagli avversari provengono le accuse infamanti nei confronti di Scelba, di Mattarella. 4) L’oggetto mafia in realtà è difficile da collocare e da definire. Resta un fatto frammentario a cui gli intellettuali politici sanno dare una fisionomia solo assimilandolo talvolta a un partito, talvolta a una formazione sociale, fino a formulare in epoca più vicina a noi la teoria di una “borghesia mafiosa”. Quella dei comunisti però non è l’unica lettura che proviene da sinistra nel corso degli anni quaranta, il socialista Simone Gatto è il meno noto tra i protagonisti di questa stagione, ma non per questo il meno significativo: è un medico trapanese, resistente vicino a Riccardo Lombardi, anch’egli proveniente dal Pd’A, attento osservatore del fenomeno mafioso e promotore 5
  • 6. 6 dell’istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia. La proposta sarà portata avanti fin dal 1948 per diventare disegno di legge formulato insieme a Ferruccio Parri e allo storico comunista Giuseppe Berti; non è casuale questa attenzione nella famiglia azionista, con un chiaro richiamo ai temi del Risorgimento tradito. Tra il 1948 e il 1950 Gatto dà una lettura originale del fenomeno Giuliano, fuori dagli schemi arcaicizzanti adottati dai contemporanei7. Il bandito di Montelepre è descritto come lo strumento adottato da una classe dominante agraria in declino per ricompattarsi e per impegnare una vittoriosa contrattazione con lo stato, per porre così la sua forte ipoteca sul nuovo Ente regionale. Diversamente dai comunisti Gatto non ripone molta fiducia nell’Autonomia che gli sembra destinata a soggiacere al reticolo di interessi e di alleanze che si intrecciano intorno alla classe dominante, per nominare i quali usa l’espressione “blocco agrario”. Ma grave gli appare la capacità di condizionamento in senso conservatore della politica nazionale che promana dal quadro politico siciliano. E’ un punto di vista condiviso da Lombardi e da molti altri in area azionista e socialista, convinti che solo il contrappeso della dimensione politica nazionale possa modificare gli equilibri regionali in senso democratico. Si pensi alla operazione tentata da Lombardi nel 1947 con al fondazione di un Ente Siciliano di Elettricità, indipendente dall’Ente regionale e promanante dal potere centrale, il primo esperimento di intervento pubblico atto a ridimensionare il monopolio dell’industria elettrica. La riflessione che porta Gatto alla proposta di una commissione antimafia obbedisce alla stessa logica, ed è significativa della profonda sfiducia nella capacità di autoriforma della classe politica locale l’attenzione che anch’egli pone alla Inchiesta in Sicilia di Sonnino e Franchetti; una originale rivalutazione questa, come egli stesso sottolinea quando scrive che “l’importanza politica dell’Inchiesta viene posta su un piano alquanto inferiore a quella ormai riconosciuta agli studi di G. Fortunato, per limitarsi al periodo stesso in cui viene elaborata, o a quella dei meridionalisti a noi più vicini nel tempo”. E invece a Gatto il lavoro dei due toscani “dà l’impressione di una inattesa scoperta,…induce a considerazioni che investono tutta la classe dirigente italiana e la funzione da essa svolta in questi tre quarti di secolo”. Ciò per lui è più vero nella parte franchettiana, considerata “di assai più viva attualità” per la capacità di “individuare i limiti e i caratteri della classe dominante, le sue tare ed insufficienze, le sue interne contraddizioni”, fino a potere analizzare il suo coinvolgimento nella persistenza dei “due fenomeni più manifestamente patologici, quali la mafia e il banditismo”. Da ciò secondo Gatto bisognava trarre esempio ed ispirazione, e come non era sfuggita ai due intellettuali toscani l’influenza che questa “tara d’origine” poteva esercitare sull’intero quadro politico nazionale, allo stesso modo il movimento democratico aveva il dovere di assumere l’impresa conoscitiva e politica per promuovere un radicale rinnovamento8. La forte impronta giacobina data alla proposta di istituzione della commissione antimafia ne segna il fascino e il limite. Tra le obiezioni, talvolta tendenziose (quelle del ministro Scelba, per es) e forse interessate, sollevate dagli esponenti dei partiti di maggioranza e del governo va segnalata l’argomentazione di De Gasperi in difesa del ruolo degli organi rappresentativi della Regione: “Una inchiesta in una regione che ha 90 tra deputati e senatori e quindi un governo regionale, 7 Mi riferisco a due articoli: Sicilia ’48: mafia e partiti di governo, in “Lo Spettatore italiano”, luglio 1948 e Banditismo, mafia e blocco agrario, in Id, ottobre 1949, ora in S. Gatto, Lo Stato brigante, a cura di S. Costanza, prefazione di R. Lombardi, Celebes editore, Trapani, 1978, pp. 51 – 63. 8 S. Gatto, Stato Unitario e contadini Siciliani,, in “Belfagor”, 31 marzo 1950, ora in S. G., Lo Stato Brigante, cit., le citazioni alle pp. 100 – 102. 6
  • 7. 7 una inchiesta è veramente difficile giustificala e legittimarla”9. 5) Trova così dignità culturale quella che a buona ragione si può chiamare l'antimafia di sinistra, ovvero il riconoscimento del legame che fin dal dopoguerra si era instaurato tra agitazione dei temi sociali, o meglio del tema sociale per eccellenza, quello della terra, e la presenza mafiosa. Mafia e latifondo diventano i termini di un binomio inscindibile nel discorso pubblico degli anni del secondo dopoguerra, già al tempo delle vertenze sul riparto dei prodotti portate avanti in forza dei decreti Gullo e poi nelle lotte per l'attuazione della Riforma agraria. Questo è un mondo alla rovescia, rivoluzionato, appunto, in cui la legalità assume per la prima volta un segno fortemente democratico e antipadronale, tale da trovare scarsa protezione nelle stesse forze dell'ordine abituate a un più quieto e subordinato rapporto con le classi dominanti. La mobilitazione contadina in difesa del riparto è un aspetto importante della mobilitazione contro un nemico di classe che si pensa debba coincidere con il mafioso, ovvero il servo mafioso del proprietario. La mafia ha trovato un nemico stabile che non è lo stato, ma una forza antagonista dello stato che nella natura classista di esso individua una causa indiretta, ma profonda del permanere della mafia. E' questo delle lotte contadine e dell'antimafia un aspetto non secondario della rappresentazione del Mezzogiorno all'opposizione, come si ricorderà è anche il titolo di un pamphlet di Sereni, dal tono più immediatamente politico e agitatorio, che considera lo scardinamento degli equilibri sociali e meridionali come un passo necessario per la “rivoluzione” in Italia10. Una lettura classista della mafia, però, finisce per equiparare il fenomeno a una variante violenta del notabilato riconoscibile attraverso i segni dell’onorabilità nel quadro delle società paesane. Il quadro che ancora nel 1958 avrebbe tracciato Montanelli11 nelle celeberrime interviste a Vizzini e Genco Russo può trovare riscontro in altri episodi che riguardano la pratica dei militanti di sinistra impegnati nelle zone di maggiore inquinamento mafioso. Uno dei giovani dirigenti comunisti allora attivi nell’area di Corleone, Nicola Cipolla, ricorda come Li Causi soleva raccomandare che per proteggersi dal terrorismo mafioso bisognava fare immediatamente i nomi dei mafiosi in un pubblico comizio, in modo che qualsiasi cosa accadesse se ne sarebbe conosciuto il mandante e l’esecutore. Questa assicurazione sulla vita dei militanti non sempre si dimostrò efficace, tuttavia era ritenuta anche da Pantaleone un metodo salvifico: “fare i nomi, dire tutto quello che si sa”12. Questa però era una “mafia” localizzata, un power syndacate della società rurale, che coincideva solo in parte con la diramazione più complessa della mafia internazionale fin da allora presente, ma poco visibile alla percezione politica. Quando però l’impatto con la mafia non rientrava più nelle categorie ricavabili dalla lotta di classe nelle campagne siciliane, allora la questione diventava più complicata, meno decifrabile e soprattutto pericolosa, poiché non più affrontabile con le categorie e gli strumenti della lotta politica. Tra le carte Li Causi custodite presso l’Archivio dell’Istituto Gramsci Siciliano si trova una 9 La citazione suona piuttosto imprecisa, cfr. in U. Santino, Storia del movimento antimafia, Roma, Editori Riuniti, 2000, p. 209, si riferisce al dibattito parlamentare del 1949. Per una ricostruzione della vicenda che porta alla costituzione della commissione parlamentare antimafia si veda lo stesso lavoro di Santino alle pp. 203 e segg, e N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari (1943 – 2000), Roma – Bari, Laterza, 2001. 10 E. Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, 11 I. Montanelli, Pantheon minore, Milano, 1958. 12 La dichiarazione del senatore Nicola Cipolla è contenuta in una intervista da me raccolta a Palermo l’1 febbraio 2001. Anche la dichiarazione di Pantaleone è raccolta (ma purtroppo non registrata) da me durante una conversazione a Palermo nel 1977 in occasione della registrazione di un programma televisivo sul dopoguerra siciliano dal titolo Sicilia 1943 - ’47. Gli anni del rifiuto,RAI – Dipartimento scuola educazione, 1978. 7
  • 8. 8 lettera del 23 dicembre 1952 di Nino Sorgi, uno degli avvocati più vicini al gruppo dirigente comunista palermitano. E’ indirizzata a Francesco Renda, Marcello Cimino, Paolo Bufalini, componenti del Comitato regionale13. Scriveva Sorgi: “L’occasione di questa lettera mi viene fornita da un recente colloquio con l’on. Mario Ovazza, nel corso del quale ci trovammo a concordare giudizi e preoccupazioni sull’attuale situazione del banditismo in Sicilia e sulla attività preminente che il compagno Li Causi assume nella lotta contro questo fenomeno. Non v’è dubbio che la lotta al banditismo e alle varie forme di mafia […] costituiscono uno degli aspetti fondamentali del programma del Pci in Sicilia, ed insieme la più valida piattaforma e il più saldo e sentito vincolo nella politica di larghe alleanze cui diamo sempre il più notevole incremento. In questo senso dunque è certo che il compagno Li Causi riassume e guida la battaglia di una larghissima parte di opinione pubblica siciliana […]. Tuttavia la natura stessa della lotta, le modalità e i contatti che essa impone, quegli aspetti minuziosi di essa, che pure indispensabili ad una visione generale del problema , non sono tali da prestarsi alla diffusione sia pure in ristretti ambienti politici, fanno sì che il compagno Li Causi sia assolutamente solo nelle fasi più salienti e quindi più pericolose della lotta. Non è sfuggito a tutti voi come seguendo un rigoroso filo conduttore,il compagno Li Causi vada sempre più diffondendo in Parlamento e nelle Piazze [sic! maiuscolo] quelle notizie sulla mafia che riguardano i rapporti col gangsterismo americano, e le reti di cointeressenza che legano quelle due organizzazioni criminose nel commercio degli stupefacenti. Ciò facendo il compagno Li Causi ha attaccato il settore più vivo, più attuale, più forte e organizzato della delinquenza internazionale, quello insomma più deciso a difendersi con tutti i mezzi. Questo settore tuttavia è il meno noto, e pertanto l’attività del compagno Li Causi interessa un settore sempre più ristretto seppure sempre più qualificato dell’opinione pubblica. Le conseguenze si riassumono in questa proposizione: nella misura in cui si evolve il piano di lotta, il compagno Li Causi rimane più isolato e più esposto al rischio di una vendetta. Questa conseguenza a mio avviso dipende dalle seguenti premesse: a) nel passato la lotta infieriva contro forze parzialmente slegate, comunque controllate sia pure indirettamente, dagli uomini politici che vi erano compromessi e dalla stessa polizia. D’altra parte il dibattito su questi argomenti era al centro dell’attenzione del paese e Li Causi ne era l’esponente principale. Di conseguenza si poteva in linea di massima ritenere un gesto che avrebbe costrettole forze governative ad una immediata reazione. b) Oggi l’opinione pubblica è distratta da questo settore sia dalla stasi apparente del fenomeno delinquenziale, sia dall’urgere di altri argomenti (legge elettorale). Nello steso tempo il compagno Li Causi attacca il settore più qualificato e più sensibile della delinquenza italo – americana”. A facilitare la vendetta in un momento così delicato e propizio si aggiungeva, secondo Sorgi, il fatto che Li Causi rientrava spesso da solo “anche a tarda ora della sera”, o andava in giro per i suoi comizi in provincia, “preannunciati alcuni giorni prima, percorrendo linee secondarie senza 13 Archivio Fondazione Istituto Gramsci, Palermo, Fondo Li Causi, b. 21, f. 2, Avv. Nino Sorgi ai Compagni On. Francesco Renda, Marcello Cimino, Paolo Bufalini, Comitato regionale del Pci, Palermo, 23 dicembre 1952. La lettera è scritta su carta intestata dello studio legale Avv. Sorgi, Pomar, Cipolla e reca la dicitura “Riservata”. 8
  • 9. 9 alcuna scorta armata”. Si tratta di temi che sarebbero diventati di attualità in una successiva fase della attenzione alla mafia, dalla fine degli anni settanta in poi, per il momento restavano al di fuori della capacità di lettura di un partito di massa, della logica che coniuga i momenti di mobilitazione e consenso intorno agli obiettivi politici plausibili e riconoscibili dalla base sociale. Il corto circuito tra storia politica e storia sociale, direbbe Nino Recupero, dato dalla sovrapposizione del linguaggio rivoluzionario si presenta in tutta evidenza nell’opera di un altro storico, la Storia dei fasci siciliani di S F Romano (1959). Anche qui la trattazione dell’argomento mafia non sembrerebbe “intenzionale”, diventa cruciale, però, quando la presenza mafiosa va ad intersecare la nascente organizzazione socialista del movimento contadino nelle zone del latifondo. E non solo perché antagonista a guardia del privilegio contro cui i fasci dei contadini si battono, ma perché capace di penetrare nelle stesse organizzazioni fascianti. I casi noti e “scandalosi” sono quelli di Vito Cascio Ferro, il mafioso destinato a grande avvenire che diviene vice presidente del fascio di Bisacquino, e quello ancora più sconcertante della iniziazione mafiosa di Bernardino Verro, dirigente socialista corleonese di notevole spessore e futura vittima della mafia . Però una storia sociale che riconduce al protagonismo dei partiti e che vede nei fasci l’antecedente del movimento contadino del secondo dopoguerra e del partito comunista ha tutto l’interesse a porre un distinguo molto marcato rispetto a quello che non può non essere il nemico di classe. La soluzione si trova attribuendo l’etichetta di fasci spuri a quelli contaminati dalla mafia, ma il problema si presenta molto più ampio per via della logica locale e localistica che governa l’aggregazione fasciante nella spaventosa crisi degli anni 1890. Per cui i fasci sono spesso veicoli di mobilitazione sociale e di consenso nei quali si affrontano i partiti rivali indipendentemente dalla loro collocazione politica. Ma questo, appunto, non è un discorso di facile formulazione nel clima politico degli anni 195014. Tuttavia Romano troverà qualche anno dopo, nel 1963, il modo di ritornare indirettamente sul problema, scrivendo una interessantissima prefazione autobiografica alla sua Storia della mafia. Lo studioso racconta dell’accoglienza che gli riservano i parenti al paese nativo, Acquaviva Platani in provincia di Agrigento, quando vi torna nel dopoguerra da militante comunista. I ricordi di una infanzia trascorsa in una famiglia di ceto medio paesano (possidenti, professionisti, ma anche parenti poveri), si ricollocano alla luce dell’esperienza presente e prendono forma alcune figure di mafiosi. Il che avrebbe potuto indurre a considerazioni molto vicine fra l’altro alla elaborazione di Sereni sulla formazione della classe dirigente dei paesi dell’interno e sulla proiezione nella dimensione provinciale e urbana. Romano offre così una testimonianza concreta e autorevole, utile anche per la storia dei gruppi dirigenti dei partiti di massa, ma a futura memoria. Il punto focale è da cercare ancora nel tenore del discorso pubblico siciliano per cui è l’antimafia di sinistra a stimolare la ricerca e la riflessione e a porre agli storici il problema. Nell’ottobre 1958 la confluenza tra cronaca mafiosa e cronaca politica rende incandescente la scena siciliana. All’Assemblea regionale si svolge la prima parte del dramma che porta alla presidenza Milazzo: il giorno 30 il nuovo presidente del governo regionale eletto con i voti della sinistra e della destra scioglie ogni riserva relativa al veto posto dal suo partito, la Dc, e accetta di assumere la carica. Pochi giorni prima, il 19 ottobre , alcune coraggiose inchieste costano un gravissimo attentato 14 Non è un discorso facile neanche negli anni più vicini a noi, cfr. il mio Memoria e tradizione: i fasci siciliani negli anni cinquanta, in AA.VV. Elites e potere in Sicilia dal medioevo a oggi, a cura di F. Benigno e C. Torrisi, Meridiana libri, Roma, 1995, pp 151 – 166. La ricostruzione di un case study in G. Barone Terra e potere. Caltavuturo dall’Unità al fascismo, Comune di Caltavuturo, 2001. 9
  • 10. 10 alla redazione del giornale palermitano “l’Ora”. Non si vuole così suggerire un nesso tra i due avvenimenti; ma siamo ad uno snodo importante della vita siciliana. In comune i due episodi hanno certamente l’intreccio confuso di modernità e tradizione che evocano negli osservatori. Così l’ampia letteratura che fin da allora riguarda “l’operazione Milazzo”, così l’inchiesta Tutto sulla mafia iniziata il 15 ottobre. Gli autori (gli stessi che si occupano di leggere la vicenda Milazzo) sono Felice Chilanti, Mario Farinella, Michele Pantaleone, Enzo Lucchi, Castrense Dadò (Nino Sorgi), Enzo Perrone. La seconda puntata dell’inchiesta, il 16, è dedicata a Luciano Leggio, il mafioso di Corleone che ha appena fatto strage (2 agosto) del suo padrino/rivale Michele Navarra e dei suoi seguaci. La descrizione del nuovo capo nel sommario dell’articolo: “33 anni, ricco, temuto e temibile, uomo da grande albergo con la pistola sotto la giacca e capace di cavalcare nello stesso tempo con la doppietta mozza sotto l’impermeabile: un misto di vecchio mafioso e di moderno gangster. Potrebbe diventare un nuovo Giuliano”15. Tutto ciò indica come si sia strutturata l’attenzione al fenomeno mafioso anche attraverso la gestione di organi di stampa; indica anche come la domanda di conoscenza abbia avuto supporti consistenti nella capacità di usare la stampa con grande maestria, pari al coraggio e all’impegno civile che va riconosciuto ai giornalisti dell’”Ora”. Questa domanda di conoscenza quando si trasferiva sul versante degli studi finiva per rivolgersi agli storici, la sinistra era ancora troppo sospettosa nei confronti delle scienze sociali. D’altronde il riconoscimento di un ruolo degli storici in questo campo di studi non tarderà a venire anche da fuori Italia con il contributo di studiosi noti. Per primo è Eric Hobsbawm, che pubblica Primitive rebels nel 195916, è lo stesso anno del libro di Enzo D’Alessandro su Brigantaggio e mafia, pionieristico per avere tentato di isolare questi due aspetti spesso descritti in contrasto, ma il più delle volte in forte dialogo. Con Hobsbawm siamo ancora nel network della sinistra marxista e della tradizione meridionalista comunista di cui è informato; accentuando alcuni temi già presenti nella elaborazione di Sereni lo storico inglese dà una sua versione: pone la mafia su una linea evolutiva che può trovare un orizzonte nella capacità organizzativa e razionalizzatrice del conflitto che è propria del moderno movimento operaio. Mi sembra questa una accentuazione del primitivismo che accompagna la lettura della società siciliana, e la mafia ne diventa espressione e simbolo, che entrerà in un circuito di studi sociali a confronto con altre realtà di paesi arretrati e che verrà riproposta sotto questa nuova forma negli anni settanta negli studi sulla mafia, sul clientelismo, sulla arretratezza meridionale. Per ora è in auge il brigantaggio e la Sicilia interna. 6) La svolta sostanziale nella percezione della mafia e nella stessa storiografia avviene proprio in questo scorcio di fine decennio e nei primi anni del successivo ed ha una serie di concause che animano la scena politica e culturale siciliana. La pubblicazione del Gattopardo è certamente l’evento culturale più importante, ma tra il 58 e il 61 vedono al luce Gli zii di Sicilia e Il giorno della civetta di Sciascia; comincia a prendere forma il paradigma che più tardi lo stesso scrittore di Regalmuto nominerà “la linea della Palma” e che comporta la graduale sicilianizzazione della società nazionale, una sorta di contaminazione di difetti supposti originari della Sicilia, come il clientelismo, per esempio17. 15 Si veda ora in V. Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’”Ora” di Palermo, vol.II, Sellerio, Palermo, 2001, pp. 93 – 109, la citazione a p. 106. 16 L’edizione italiana è di Einaudi, 1966 come il successivo I banditi, che è del 1969 in ed. originale e del 1971 in ed. italiana. 17 Il testo di riferimento in questo caso è La Sicilia come metafora, intervista a Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979. 10
  • 11. 11 A promuovere una chiave di lettura che privilegia l’arretratezza è Michele Pantaleone18, esponente di primo piano del mondo politico social comunista siciliano, collaboratore del quotidiano palermitano “l’Ora”, deputato all’ARS, e commissario dell’ERAS (Ente di Riforma Agraria Siciliano) nel periodo milazziano, ma anche compaesano di Calogero Vizzini, il capomafia di Villalba che da posizioni separatiste si era reso responsabile dell’attentato contro Li Causi nel settembre 1944. Pantaleone era presente e comprimario, di famiglia da sempre avversa a quella del capomafia. Il suo fortunato libro, Mafia e Politica (Einaudi 1962) è la storia di Calogero Vizzini e di Villaba, promossi l’uno a capo della mafia siciliana, secondo una discutibile genealogia, e l’altra a capitale mondiale di Cosa nostra, scelta ancor più unilaterale, se possibile. Secondo uno schema che potrebbe richiamare quello enunciato dal grande storico antichista Santo Mazarino nel Pensiero storico classico, gli ingredienti della lotta fazionaria paesana vivificano lo scenario che però avrebbe rischiato di restare limitato agli orizzonti municipali come tante altre storie drammatiche di sopraffazioni mafiose. Invece Pantaleone intercetta nel momento giusto alcuni canali di comunicazione tra la piccola e la grande dimensione e offre risposte che l’opinione pubblica nazionale attende non solo per via della recrudescenza del fenomeno mafioso registratasi in quegli anni, ma per l’inusitata drammaticità che la lotta politica regionale ha assunto nel biennio 1958 - ‘59 con la secessione milazziana. Cos’era questa Sicilia in cui si poteva spaccare la Dc, in cui si poteva formare un governo regionale che vedeva convergere destre e sinistre? Come si era svolta la lotta tra il vecchio quadro democratico cristiano e i nuovi esponenti del fanfanismo? Quanto erano nuovi quei dirigenti fanfaniani, Gioia, Lima e tanti altri, che ricorrevano alle alleanze con gli esponenti della mafia paesana già separatista, già liberal qualunquista e monarchica? Quanto avrebbero pesato questi eventi sul quadro politico nazionale? La battaglia si stava combattendo in gran parte nella Sicilia dei paesi con la conquista capillare del potere locale, con la strumentalizzazione della riforma agraria, dei consorzi per l’irrigazione. Momento di avvio di questa fase di lotta può essere considerato l’assassinio di Pasquale Almerico (1957), democristiano di Camporale, tolto di mezzo per fare spazio nella nuova configurazione fanfaniana del partito al mafioso già liberale Vanni Sacco; seguono: la resa dei conti tra Leggio e Navarra (1958), l’assassinio di Carmelo Battaglia (1966), socialista e organizzatore di cooperative sui Nebrodi”. Ma si tratta solo di alcuni dei più importanti fatti criminali in una guerra che vide ben 168 omicidi impuniti nel periodo che va dal 1956 al 1960. La democratizzazione della società siciliana aveva sprigionato dinamiche nuove, non sempre prevedibili, il punto di massima frizione sembrava essere ancora l’area interna della Sicilia, investita di una modernità che ancora non l’aveva spopolata con l’emigrazione. Dalle aree interne, e non dalle città costiere, i partiti di massa avevano ottenuto i maggiori suffragi e la più forte legittimazione, dall’interno veniva la parte più dinamica della classe politica regionale. Allora guardare meglio nelle pieghe della società dell’interno, ricostruire la storia della piccola dimensione, sembrò un compito prioritario per raccapezzarsi in un mondo le cui sopravvivenze rischiavano di sopravanzare ogni tentativo di costruire il nuovo. Uno storico come Giuseppe Giarrizzo inaugurò una nuova collana di “Monografie di storia municipale” presso la Società di Storia patria di Catania; nella prefazione al suo Biancavilla, che dava l’avvio all’iniziativa, scrisse: “Il senso, l’indirizzo etico - politico di una comunità, per piccola che sia, non si mutano inserendola in un diverso organismo politico e ideale: occorre mutare, eliminando o aggiungendo, taluni elementi della sua struttura, cambiare così certi 18 Non ho ritenuto in queste pagine che parlano della fortuna di Mafia e politica di cambiare il giudizio già espresso nella introduzione del mio La mafia tra stereotipo e storia, Sciascia, Caltanissetta – Roma, 2000. 11
  • 12. 12 rapporti di forza, se si vuole che altre soluzioni prevalgano”. Accanto a Pantaleone c’era Carlo Levi, autorevole mediatore. L’autore di Cristo si è fermato a Eboli aveva già sperimentato con Le parole sono pietre (1959) una cifra linguistica di forte suggestione applicata alla Sicilia. Pubblicato presso Einaudi e con la prefazione di Levi, Mafia e politica divenne il più importante libro sulla mafia, e gli vanno riconosciuti molti meriti, non ultimo il coraggio. Sicuramente questo libro ha contribuito a porre il problema della esistenza e pericolosità della mafia meglio di qualsiasi altro saggio di più austero impianto e anche più degli stessi atti prodotti dalle Commissioni parlamentari che da lì a poco si sarebbero susseguite nello scenario istituzionale italiano. Anzi ancora Pantaleone con il successivo Antimafia: occasione mancata19 si sarebbe accreditato come l’esperto, “il mafiologo” in grado di tallonare e spronare istituzioni e partiti politici. Questo grande successo si doveva anche alla capacità di semplificazione che sorreggeva l’intera operazione d’immagine. Ma allora erano i tempi in cui la mafia per molti magistrati e uomini politici non esisteva, per l’arcivescovo di Palermo, cardinale Ruffini, si trattava invece di una invenzione dei comunisti. Affermare l’esistenza della mafia, in qualsiasi modo, fu dunque un merito. Ma come conciliare questo mondo arcaico, che la fortunata semplificazione aveva cristallizzato attorno a Vizzini, con le espressioni di nuova criminalità? Con l’esposizione internazionale della mafia che già allora costituiva una importante evidenza? Il punto di raccordo è la vicenda dello sbarco alleato in Sicilia, che secondo Pantaleone sarebbe stato propiziato dall’aiuto fornito dalla mafia, anzi dallo stesso Calogero Vizzini. Il messaggio più importante che viene da questa che potremmo chiamare l’epopea della liberazione mafiosa della Sicilia è una illimitata e metastorica potenza della mafia, riassunta in un universo di gesti e simboli che vanno oltre le apparenze, per cui un possidente supposto analfabeta di un piccolo centro della Sicilia diventa arbitro in una immane battaglia tra eserciti moderni, riceve messaggi portati da distanze impensabili e da luogi impenetrabili ( le carceri americane di massima sicurezza) dirama ordini che vengono ricevuti con una rapidità ignota ai detentori delle più moderne tecnologie. Questo ritorno mitico della mafia sulla scena sociale e politica siciliana, anzichè rischiare di indebolire con la sua inverosimiglianza l’argomentazione di Pantaleone, l’ha rafforzata, anzi, l’ha resa resistente e inattaccabile. Ha conquistato un circuito di fruizione che nessuna argomentazione contraria può intattaccare, per quanto possa essere fondata su documentazione esaminata da storici di professione, di solito molto poco propensi a credere al racconto di Pantaleone. Mi ha sorpreso trovare su un numero della rivista “Micromega” (n.5, 1999) un articolo di Andrea Camilleri in cui viene ripreso il discorso dell’aiuto mafioso allo sbarco alleato in Sicilia. Per di più il popolare scrittore si avvale di alcuni documenti britannici e americani che alla sua lettura (mi perdoni il Maestro) profana e superficiale proverebbero il mitico assunto, poco curandosi del fatto che gli studiosi (io stesso, Francesco Renda e Salvatore Lupo) che hanno trovato, studiato e utilizzato questi documenti ne hanno tratto conclusioni differenti. La fortuna dello stereotipo coniato da Pantaleone si misura anche dal fatto che ormai pochi tra quanti lo riprendono si ricordano del suo autore, tanto il cinema, la televisione, le inchieste di tutti i tipi lo hanno oggettivato in una circolarità del discorso pubblico che ha bisogno di miti per suscitare attenzione. Camilleri, che pure scrive il suo articolo “ad uso degli smemorati”, neanche si ricorda di citare Pantaleone che almeno lui avrà sicuramente conosciuto. 19 Torino, Einaudi, 1969. Perquersto aspetto dell’atività della prima Commissiomne antimafia mi limito a segnalare N. Tranfaglia, Mafia poltica affari, cit; S. Lupo Storia della magfa dalle origini a i nostri giorni, Donzelli, Roma, 1996, U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit. 12
  • 13. 13 Il tema dell’aiuto mafioso allo sbarco era già stato ripreso con analoga attenzione alle fonti nella relazione scritta da Violante in qualità di presidente della Commissione parlamentare antimafia; fra l’altro bisogna osservare che nei casi citati il ricorso a questa mitica premessa non aggiunge e non toglie nulla all’argomentazione che segue. Forse si ritiene che solo il continuo ritorno su luoghi conosciuti possa rendere identificabile un discorso, possa avvalorarlo agli occhi del pubblico. Sembra un mondo di incomunicabilità tra elaborazione storiografica ed elaborazione politica dove stereotipi e pregiudizi restano immodificabili. E’ come se si raschiasse continuamente nel fondo di un barile alla ricerca di un passato che non si riesce a leggere con gli strumenti della storia e della cultura, condannati a un eterno presente e a una coazione a ripetere. 7) Mafia e politica è il punto più alto del decennio 1960, dopo di che ha inizio la stagione della Commissione parlamentare antimafia, caratterizzata da opere di buon successo editoriale, segno di una nuova attenzione dell’opinione pubblica. Tuttavia oggi ci appaiono ripetitive, lontane dalla ricerca storica come poi si è praticata. Per la cronaca: nel 1963 S.F. Romano scrive una Storia della mafia, ma sono da segnalare i saggi di Virgilio Titone comparsi tra il 1962 e il 63 sui "Quaderni reazionari". L'una e l'altra opera avranno riedizioni a poca distanza di tempo, in volume nel 1964 i saggi di Titone, con il titolo di Storia, mafia e costume in Sicilia, e nella diffusissima ed economica collana dei Record di Mondadori il libro di Romano (1966). Il clima culturale della Palermo dell’epoca, culla del dibattito,oltre che delle gesta mafiose, è descritto da Giuseppe Carlo Marino nella prefazione alla nuova edizione (1986) della sua L’opposizione mafiosa20, un libro che nel 1964 affronta il rapporto mafia - classi dirigenti nell’Italia liberale. Il libro di Titone è uno dei pochi tentativi di proporre una lettura non di sinistra; si potrebbe dire che è l’altra faccia del successo del Gattopardo, contrapposta a quella che Luchino Visconti ha fatto passare come lettura compatibile con la cultura di sinistra. Lo storico palermitano era stato amico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sulle orme del grande scrittore guarda dall’interno la declinante aristocrazia siciliana e la scagiona dalla responsabilità di aver tenuto a battesimo e protetto la mafia; non manca di buon senso quando fa osservare, per esempio, che la relazione meccanica mafia - latifondo non ha senso poiché il latifondo si trova anche dove non c’è la mafia. Su questa base Titone critica le teorie “materialistiche”21, ma non riesce a fornire un quadro di riferimento concettuale plausibile per cui finisce per proporre una spiegazione razziale che contrappone Sicilia Occidentale mafiosa e fenicia a Sicilia Orientale “babba” (ovvero, onesta) e greca. Se per Titone bisogna diffidare dalle letture che poi si chiameranno “totomafiose”, “dove tutto è mafia nulla più è mafia”22, non così sembra per la Storia della Sicilia dello storico inglese Denis Mack Smith, che adotta il criterio della mafiosità per leggere la storia secolare dell’isola; Leonardo Sciascia ne rimane affascinato al punto da proporre l’opera per l’adozione nelle scuole siciliane23. E’ questa l’apertura di una lunga fase che accompagna la lettura delle relazioni dell’Antimafia e che vede però la politica e la storiografia tentare nuove strade. Di notevole 20 G. C. Marino, L’opposizione mafiosa. Mafia, politica, stato liberale, Flaccovio, Palermo, 1964 21 V. Titone, Storia, mafia e costume in Sicilia, pp. 285 – 88. Da destra, ma in questo caso più vicina agli ambienti della cultura neofascista viene il lavoro di G. Falzone, Storia della mafia, Flaccovio , Palermo, 1984, la prima edizione era uscita in lingua francese da Fayard, Paris, 1973. 22 Titone, Storia, mafia, costume, cit., p. 288. 23 Lo ricorda G. Giarrizzo, Sicilia oggi (1950 – 1986), in AA.VV. Storia della Sicilia, cit. p.643, che intervenne contro nella polemica suscitata dalla proposta di Sciascia. 13
  • 14. 14 importanza la relazione di minoranza della Commissione antimafia, Mafia e potere politico24. Certamente la politica di compromesso storico in Sicilia ha dei riflessi importanti, dovuti alla pratica attuata nell’ambito della Regione, di maggiore disponibilità alla ricerca di un accordo tra le principali forze politiche25. Si aprirà così un dibattito sulla categorie di borghesia mafiosa o di borghesia nazionale, sulla scorta delle considerazioni togliattiane della fine degli anni quaranta. Sono le forze di nuova sinistra a elaborare il concetto di borghesia mafiosa, in contrasto con le aperure del Partito comunista, e in particolare il leader più prestigioso, Mario Mineo, testimone e protagonista della prima stagione politica siciliana degli anni 194026. A rinnovare il tono del dibattito culturale contribuiscono in questi anni gli scienziati sociali, sia quelli che scelgono di studiare la Sicilia e la mafia come espressioni di una cultura mediterranea ancora primitiva, sia quelli che cominciano a introdurre il conceto di società complessa nello studio della società siciliana. Sono presenti Henner Hess, Anton Blok, Peter e Jane Schneider27. A partire agli anni settanta la nuova Facoltà di Scienze politiche di Catania diventa un punto di riferimento, vengono a insegnarvi o vi si formano politologi e sociologi che avranno un ruolo molto visibile nell’organizzazione degli studi su clientelismo e mafia, come Luigi Graziano, Franco Cazzola, Graziella Priulla, Raimondo Catanzaro. Si devono a quest’ultimo studioso alcune importanti ricerche sull’imprenditoria assistita nell’ambito dello spazio politico regionale28. Catanzaro sarà anche uno dei più disponibili al dialogo con gli storici, il suo lavoro più noto, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia29 reca fin dal titolo il segno di un superamento degli steccati disciplinari che avrebbe caratterizzato i nuovi studi. Il maggiore disorientamento viene dall’avere acquisito che l’avvenuta modernizzazione del Mezzogiorno e della Sicilia non ha fatto scomparire la mafia. Il nuovo dibattito si svolgerà proprio su sollecitazione di alcuni sociologi e politologi da Raimondo Catanzaro a Pino Arlacchi a Diego Gambetta30 ad Alfio Mastropaolo. Particolarmente utile si rivelerà nel dialogo con gli storici il concetto di ibridazione sociale usato da Catanzaro. Per la prima volta questa concetto contribuirà a dare spessore diacronico alla riflessione sociologica sul Mezzogiorno d’Italia31. L'esordio degli studi storici in questa fase può essere indicato nel convegno di Messina, Mafia e potere, 19 23 ottobre 1981 ( a cura di Saverio Di Bella, Rubbettino 1983). Siamo in piena guerra di mafia, e sembra importante dare un contributo culturale; tuttavia la maggior parte delle relazioni al convegno riproducono il vecchio sapere. Il già noto gode di una grande autorevolezza dovuta all’accreditamento che molti studiosi hanno anche su un piano civile e politico. Si vedano d'altronde i contributi che riguardano la mafia sulla monumentale Storia della Sicilia edita dalla Società editrice per la storia di Napoli (1978) e curata da Rosario Romeo. 24 Roma, Editori Riuniti, 1976. 25 Faccio riferimento al bel saggio di C. Riolo, Istituzioni e politica. Il consociativismo siciliano nella vicenda del Pci e del Pds,, in Far politica in Sicilia, a cura di M. Morisi, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 181 – 210. 26 Si veda Mario Mineo, Scritti sulla Sicilia (1944 – 1984), a cura di D. Castiglione e P. Violante, Faccovio, Palermo, 1995, in part.la sezione del volume intitolata appunto La borghesia mafiosa. Per l’elaborazione di questo concetto si veda U. Santino e G. La Fiura, La borghesia mafiosa, Palermo 1994. 27 H. Hess, Mafia, Laterza, Bari, 1970; A. Blok, La mafia di un villaggio siciliano, Einaudi, Torino, 1986; P. e J. Schneider, Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubbetino, Soveria Mannelli, 1989; 28 R. Catanzaro, L’imprenditore assistito, Il Mulino, Bologna, 1979. 29 La prima edizione Liviana, Padova, 1988, la seconda Rizzoli, Milano, 1991 30 I principali lavori di Pino Arlacchi in questa fase sono: Mafia contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Il mulino, Bologna, 1980 e il più celebre, La mafia imprenditrice, Il Mulino, Bologna, 1983; di Diego Gambetta, La mafia siciliana, Einaudi, Torino, 1992. 31 Si veda per es. il n. 156, 1984 di “Italia Contemporanea”, con i saggi di Catanzaro,La mafia come fenomeno di ibridazione sociale, di Lupo, Nei giardini della Conca d’oro, e mioGabellotti e notabili nella Sicilia dell’interno. 14
  • 15. 15 Francesco Brancato, Salvatore Massimo Gangi, Salvatore Francesco Romano, Roberto Ciuni, sono presenti con sintesi dei loro lavori precedenti. Per gli studiosi della nuova generazione si tratterà di cominciare con il mettere a fuoco un oggetto di studio e disegnargli attorno contesti credibili, si tratta per esempio di capire cos’è criminalità mafiosa distinta da altre forme di criminalità, penso al lavoro pionieristico compiuto da Ida Fazio, Daniele Pompeiano e Giovanni Raffaele sull’entroterra messinese32. La stessa esigenza di isolare l’oggetto si pone per gli storici Christopher Duggan, Salvatore Lupo e Giovanni Raffaele33che studiano l’operazione Mori e possono avanzare legittimi sospetti sulla utilizzazione strumentale dell’accusa di mafiosità rivolta dal prefetto “fascistissimo” agli avversari politici. Il problema del rapporto tra contesto e oggetto di studio si pone ora con maggiore chiarezza concettuale anche per via dei rinnovati studi generali sul Mezzogiorno condotti tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta da storici come Giuseppe Giarrizzo, Pasquale Villani, Giuseppe Barone, Franco Barbagallo, Piero Bevilacqua. Si può quindi ben distinguere una storia della mafia da una storia generale della Sicilia (o della camorra e della Campania, per es.) e nel contempo tentare di condurre la ricerca con gli strumenti propri della storiografia, come la ricerca d’archivio. Nel contempo il lavoro subisce uno stimolo dall’attività dei giudici del pool antimafia di Palermo e dalla conoscenza delle dichiarazioni dei pentiti, che consentono anche agli storici di guardare con una attenzione nuova al mondo della criminalità organizzata. Non farò qui l’approfondita analisi che questa fase meriterebbe, mi limiterò ancora a ricordare, insieme ai nomi di alcuni amici e colleghi, due aspetti fortemente caratterizzanti. Il primo è che gli anni ottanta pongono il problema della espansione del fenomeno mafioso o della rivitalizzazione di vecchie organizzazioni criminali come la camorra e la ‘ndrangheta. La portata nazionale (e internazionale) della questione mafiosa ora è ben visibile, il che facilita i rapporti tra studiosi di diversa provenienza geografica ormai consapevoli di affrontare un problema storiografico di ampia portata. Penso per esempio all’impegno di Nicola Tranfalia. Tra i luoghi “nuovi” dell’infezione mafiosa c’è Catania, la città siciliana considerata immune per la sua pretesa modernità; l’assassinio del giornalista Pippo Fava (5 gennaio 1984) è da considerare una data periodizzante nella presa di coscienza del profondo inquinamento mafioso che lo stesso Fava denunciava. Questo serve da stimolo anche agli studiosi non solo catanesi, ma riuniti intorno a Giuseppe Giarrizzo e Maurice Aymard nel progetto di scrittura di una storia della Sicilia contemporanea per l’editore Einaudi. Si tratta di Giuseppe Barone, Salvatore Lupo, Paolo Pezzino, Antonino Recupero, Alfio Signorelli, Enrico Iachello, Rosario Spampinato e chi scrive; insieme ci sono studiosi della generazione precedente, come Francesco Renda, che nel frattempo da alle stampe una sua ponderosa Storia della Sicilia in tre volumi per l’editore Sellerio: esce nello stesso 1987, qualche mese prima di quella einaudiana. Lo stesso gruppo di studiosi insieme a Marie - Anne Matard, a Giovanna Fiume34 e a colleghe che studiano realtà non siciliane come Ada Becchi, Marcella Marmo e Gabriella Gribaudi costituiscono un punto di riferimento stabile attorno all’Imes e alla rivista “Meridiana”, di cui segnalo il numero speciale 7 – 8 1990 dedicato alla mafia. Gli anni novanta vedranno di nuovo opere di sintesi sulla mafia, parlo di quella 32 Controllo sociale e criminalità. Un circondario rurale nella Sicilia dell’ottocento, Milano, Angeli, 1985. 33 C. Duggan, La mafia durante il fascismo, cit.; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit; G. Raffaele, L’ambigua tessitura, cit. 34 Di Giovanna Fiume si segnala tra l’altro l’intervista a Giovanni Falcone su “Meridiana”, n.5, 1989; Marie- Anne Matard – Bonucci è anche autrice di Histoire de la mafia, Edition Complexe, Bruxeles, 1994. 15
  • 16. 16 siciliana, prodotti del dibattito cui ho accennato. Accanto ai libri di Lupo e di Pezzino35, vedranno la luce opere di studiosi già presenti nella fase precedente, come Giuseppe Carlo Marino, Francesco Renda, Orazio Cancila. Più che una valutazione di questi lavori vorrei offrire qui una riflessione su un altro aspetto che ritengo importante di questa fase, anche ai fini delle immagini della Sicilia che la storiografia (e gli storici) offre. Si tratta del diverso rapporto con la politica. Saranno pochi gli studiosi direttamente impegnati in questa fase, ma più importante la qualità dell’impegno meno vincolante rispetto alle appartenenze partitiche. La stagione che si apre in seguito alla congiuntura degli anni ottanta, muove anch’essa da un impegno civile, ma meno strutturato. E anzi ritengo che il terreno di incontro tra storici e militanti, quando ci sarà un terreno d’incontro nei comitati antimafia, nei luoghi così detti di “società civile” sarà in vista di una destrutturazione del quadro politico preesistente, diversamente dagli intenti costruttivi (organici) degli anni cinquanta e sessanta36. In questo gli studiosi di storia della mafia non sono diversi da molti altri colleghi italiani e stranieri che dagli anni ottanta in poi guardano alla storia sociale come a una occasione per rimettere in discussione non tanto l’impegno, quanto le sue modalità rispetto alle agenzie politiche, alle istituzioni, ai partiti soprattutto. Il fatto che sia vero anche per un tema di storia sociale ma a così forte tasso politico, com’è la storia della mafia, diventa semmai un annuncio importante della crisi imminente del sistema politico italiano degli anni 1990 35 Di S. Lupo oltre alla già citata Storia della mafia segnalo Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli, Roma 1996., compreso poi nella edizione ampilata della Storia della mafia, 1996. Tra le opere a carattere generale di Paolo Pezzino segnalo il saggio Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso comparso sulla einaudiana Storia della Sicilia e poi ripubblicato in Una certa reciprocità di favori, Milano Angeli 1990. Si veda poi Mafia: industria della violenza, la Nuova Italia, Firenze 1995. Mi pare questo il momento e il luogo per segnalare il mio Mafia tra stereotipo e storia, Sciascia, Caltanissetta – Roma , 2002. 36 Segno di questo nuovo rapporto tra intellettuali e politica in merito allo studio della mafia è forse anche il tentativo di alcuni studiosi di dare unicità tematica a una storia dell’antimafia considerata alla stregua di un movimento politico. 16