Italia 110. Qui si fa l'Europa o si muore. Ilaria Maselli 3 febbr 2012
Qui o si fa l'Europa o si muore. L'ebook
1. Qui o si fa l'Europa o si muore
Democrazia, crescita, mobilità e circolazione
per far ripartire il progetto europeo
Bruxelles, 3 febbraio 2012
Dipartimento Università e Ricerca
1
2. L’ebook è stato coordinato da Alessandro Aresu e
Andrea Garnero de Lo Spazio della Politica, think-tank
di giovani italiani (www.lospaziodellapolitica.com) con la
collaborazione di Marco Laudonio e Ermanna Sarullo.
L'ebook è stato impaginato dal gruppo di ricerca dello IED
di Roma coordinato da Franco Zeri e Elisabetta Secchi.
Si ringraziano per la preziosa collaborazione alla riuscita
della conferenza la delegazione italiana del Partito
Democratico presso il gruppo dell'Alleanza Progressista dei
Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo e il Partito
Democratico di Bruxelles.
Contatti
Telefono: +39 06 67547260
Email: 110@partitodemocratico.it
www.partitodemocratico.it/universita
www.italia110.it
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3. Indice
Italia 110, il progetto 4
Saluti: Francesco Cerasani 5
Introduzione: Marco Meloni 7
Prima parte
Europa e crisi: tra indignados e impegnados, dov'è 11
la politica? Dove sono i progressisti?
Dibattito
Quattrogatti - Fadi Hassan 12
Daniel Gros 19
Alessia Mosca 21
Marco Simoni 23
Emilie Turunen 26
Matthieu Meaulle 28
Paolo Guerrieri 31
Seconda parte 35
Dalla fuga dei cervelli alla circolazione dei talenti
Marco Zatterin 36
Alessandro Rosina 38
Eleonora Voltolina 40
Luigi Berlinguer 41
Paolo Balduzzi 44
Paolo Falco – La Fonderia di Oxford 48
Massimo Gaudina 50
Riccardo Spezia 52
Luca Scarpiello 54
Ilaria Maselli 55
Nicola Dotti 57
Guglielmo Vaccaro 59
Appendice
Le proposte del PD sulla mobilità in entrata e in 61
uscita
Biografie 66
•
3
4. Italia110, il progetto
Le statistiche negative e l’esperienza quotidiana parlano
chiaro: l’Italia è in crisi.
Nel decennio 2000-2010 siamo penultimi al mondo per crescita
economica. Non è solo una questione di PIL, ma di capacità di
progettare il futuro.
I giovani sono sfiduciati, vivono un'adolescenza interminabile
che si spalanca su un'età adulta di incertezza e precarietà, e
spesso per realizzarsi non possono che andar via. Cambiare
aria.
Le ricette per ripartire non mancano, così come i “decaloghi di
idee” e i segnali di speranza, nella qualità dei nostri giovani e
nella vitalità delle nostre imprese.
Cosa manca, dunque, al nostro Paese, per invertire la rotta e
riprendere a crescere?
La via d’uscita non passa per una formula magica o per una
singola forza culturale e politica.
La ricetta per cambiare l'Italia però non può affidarsi a
un'indignazione sterile e non può fare a meno della politica.
Con Italia110 vogliamo dare un contributo per portare un'aria
nuova in Italia, costruendo un’alleanza del cambiamento,
tra tutti quelli che vogliono migliorare profondamente regole,
comportamenti, valori, per ricostruire l'interesse collettivo.
4
5. INTRODUZIONE Il progetto Italia 110 va avanti da diverso tempo, con l'obiettivo di raccogliere le ec-
cellenze italiane nel mondo dell'università - i famosi talenti - che in Italia certamente non
Francesco
mancano e che, come sappiamo, molto spesso trovano spazio e gratificazione solamente
Cerasani
fuori dai nostri confini.
Siamo particolarmente lieti che questa tappa estera del progetto Italia 110 si tenga pro-
prio a Bruxelles, una citta che crediamo possa offrire una prospettiva originale e interes-
• sante alle riflessioni che terremo oggi.
La scelta di Bruxelles non nasce evidentemente solo da ragioni logistiche e di comodità
Segretario del Partito geografica. È un simbolo in primo luogo per la presenza delle istituzioni europee, nonché
Democratico di per la sua natura di meta permanente di emigrazione per i giovani italiani. La primissima
Bruxelles emigrazione italiana in Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, scelse proprio Bruxel-
les come punto di arrivo privilegiato, in virtù dell'accordo braccia-carbone tra i governi bel-
ga e italiano, che dal '46 portò a lavorare nelle miniere e nelle industrie migliaia e migliaia di
nostri connazionali. E, negli anni, man mano che l'integrazione sociale e politica dei primi
arrivati progrediva e che le condizioni materiali del nostro Paese vedevano frenare i mo-
vimenti migratori, Bruxelles non cessava di essere un approdo per tantissimi altri, attratti
appunto dalle istituzioni comunitarie e dallo sviluppo di percorsi lavorativi nel mondo delle
professioni, della cultura e dell'università.
Proprio in virtù di questa caratteristica così particolare di Bruxelles, abbiamo scelto
come compito centrale della nostra attività politica, come sezione del Partito Democratico
in questa città, quella di fondere comunità: questa è la constituency, la missione che abbia-
mo nel nostro agire quotidiano. E proprio qui, oggi, proviamo appunto a mettere insieme
pezzi diversi di presenze italiane all'estero, per ricomporle in un mosaico e dare risposte
unitarie alle loro domande.
Oggi parliamo di talenti italiani all'estero. Abbiamo una comunità vasta di talenti espres-
si in diversa forma. Non c'è soltanto la ricerca universitaria: abbiamo persone che fanno
lavori normalissimi, ma che con il loro talento contribuiscono, appunto, a rafforzare e dare
qualità alla presenza italiana nel mondo. Un tratto comune, purtroppo, comincia a prende-
re piede tra tutte queste forme diverse di presenza a Bruxelles: il talento all'estero, ahinoi,
è sempre più precario, e con esso diventa sempre più difficile - perché disperso e meno
organizzato collettivamente - il compito di dargli rappresentanza politica.
In un ragionamento più complessivo sui talenti italiani all'estero credo, poi, non do-
vremmo dimenticare la folta presenza di una comunità di giovani italiani, pienamente in-
tegrati - spesso nati e cresciuti - nei paesi di accoglienza, e che non sempre trovano modo
di mantenere un rapporto proficuo e stretto con l'Italia, pur essendone ancora cittadini.
Gli italiani col trattino, come li chiamiamo nelle nostre riflessioni nel Dipartimento Italiani
nel Mondo del PD. Quasi 4 milioni in giro per il mondo, moltissimi di più se consideriamo
anche gli oriundi, coloro che sono naturalizzati e hanno perso la cittadinanza italiana ma
che continuano - professionalmente, culturalmente, identitariamente - a volere un forte
legame con il nostro Paese. Credo che anche questi siano ragionamenti da poter includere
in una politica coerente di sviluppo del Paese, che guardi in modo innovativo, superando i
vecchi schemi alla presenza di propri cittadini e di propri talenti in giro per l'Europa e per il
mondo. In Belgio il primo ministro è Elio Di Rupo, cittadino belga e non italiano, e sempre
qui il premio come migliore imprenditore dell'anno è stato vinto da una persona di origini
italiane. Credo siano considerazioni da tenere in mente nelle nostre riflessioni.
E allora, in questo senso andiamo a sviluppare il significato politico dell'iniziativa di
oggi: come i talenti all'estero contribuiscono allo sviluppo del Paese, allo sviluppo dell'inte-
ra Europa. Dell'Europa perché, in fondo, queste ultimissime generazioni di ricercatori, gio-
vani lavoratori e professionisti sono tutte caratterizzate da unalta mobilità e sono la prova
reale della costruzione, passo dopo passo, di una cittadinanza europea. L'Europa ha fatto
molto per lo sviluppo e l'incoraggiamento dei talenti in Europa, sebbene sia molto diverso,
da Paese a Paese, l'ordine di priorità assegnato a formazione, istruzione, innovazione e so-
stegno all'eccellenza. Dieci anni fa la pubblicazione dei dati PISA OCSE suscitò scandalo
in Germania, fu uno schock nazionale che impose il ripensamento e la riorganizzazione di
tutto il sistema di formazione. Un decennio dopo il ritardo tedesco in alcuni indicatori è
5
6. Francesco Cerasani stato colmato, frutto di una presa seria di coscienza del ruolo strategico dell'education - fin
dai primi anni scolastici - nello sviluppo del Paese e nel successo professionale futuro degli
studenti. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di altri Paesi europei, compreso il nostro,
per i quali continuano a esistere ostacoli, lacune, ritardi in quella "social capability", come
l'ha definita Mario Draghi in uno dei suoi ultimi discorsi da Governatore della Banca d'Ita-
lia, che vede appunto l'istruzione e l'investimento sui talenti del Paese in costante e struttu-
rale affanno. L'Europa, allora, deve essere davvero la nostra palestra e la nostra meta, non
un rifugio per uscire dai mali e dai ritardi italiani, ma il luogo dove esercitare concretamente
cittadinanza e dove sviluppare le proprie professionalità. Mi preme, in questo senso, poter
aggiungere un ulteriore ragionamento proprio in tema di cittadinanza europea. Qui a Bru-
xelles abbiamo una comunità fittissima di funzionari europei, molti dei quali giovani che,
come isole, abitano in una città in cui di fatto non vivono da cittadini e di cui non conosco-
no il tessuto sociale e culturale. C'è il rischio, lo sentiamo in modo molto tangibile, di una
separazione tra il mondo comunitario e la vita reale. In un pamphlet recentissimo Hans
Magnus Enzensberger racconta, in modo a tratti sarcastico, la distanza siderale - frutto di
un velato razzismo e snobberia - che esiste tra il tipico funzionario comunitario e la vita
normale degli abitanti della città capitale d'Europa. Questa distanza, questo vero muro di
reciproco disinteresse, è per lui simbolo dell'incomunicabilità tra l'Europa e i propri stessi
cittadini.
Ecco, credo che noi dovremmo contribuire a superare questo muro: il ragionamento
che sviluppiamo oggi serve anche a questo, a capire come i tanti talenti italiani possano
aiutare a promuovere lo sviluppo materiale e politico dell'Europa, comprendendo in primo
luogo la necessità di farsi attori di sintesi, di fusione di più comunità, e quindi di portatori
di cittadinanza europea.
6
7. INTRODUZIONE Fare l’Europa, fare gli Europei: i compiti dell’Italia e dei democratici
Marco Meloni
Anche a qualche mese di distanza, mi sembra importante, riprendendo il senso del-
• le considerazioni che introducevano i lavori e ne descrivevano gli obiettivi, rimarcare il
prezioso clima di cooperazione che il Partito Democratico di Bruxelles ha creato nella
Responsabile Riforma costruzione di questo incontro e ringraziare tutti i partecipanti per il loro impegno e i loro
dello Stato, Pubblica contributi.
Amministrazione,
Università e Ricerca del Il 2012 è un anno decisivo per l’Italia. Non siamo ancora certi di essere davvero usciti
Partito Democratico dall’incubo, dall’oscurità degli ultimi vent’anni, ma quantomeno stiamo riprendendo ad
analizzare cosa è stato il nostro Paese in questo non breve periodo; quali i suoi limiti e i
problemi strutturali che si sono incancreniti terribilmente. E soprattutto, ci interroghiamo
su cosa possiamo fare per riportarlo ad esercitare il ruolo che gli compete.
Ritrovarsi a Bruxelles per discutere di politica italiana ed europea ha una serie di signi-
ficati anche simbolici. Ne segnalo tre.
Il primo: l’Italia della seconda Repubblica si è chiusa nel suo guscio, ha dimenticato,
insieme al suo futuro, il suo ruolo e le sue relazioni col mondo. E ha costruito meccanismi
di interazione con i suoi talenti del tutto distorti, come viene da pensare guardando all’e-
sperienza di ciascuno di voi, all’evidente volontà di costruire meccanismi di cooperazione,
integrazione, partecipazione al progetto di ricostruzione e riscatto del nostro Paese. Ecco
dunque il primo significato: è giunto il tempo di ricostruire un clima di normalità e di co-
stante collegamento, continuità e interscambio tra le persone che esprimono il loro talento
operando, più o meno liberamente, una scelta tra le diverse opzioni di relazione con l’Italia:
viverci, studiare e lavorarci, stare all’estero mantenendo una connessione con la sua realtà
scientifica, sociale e politica.
Vi è un secondo aspetto da sottolineare: l’Europa non è “estero”. L’Europa è il nostro
cortile domestico, il nostro spazio politico: lo è da tempo, ma finora lo è stato quasi esclu-
sivamente per le élites politico-istituzionali che hanno retto le “politiche europee”, in realtà
incidendo enormemente sulle politiche nazionali, ma senza che ciò passasse per la con-
sapevolezza diffusa dei soggetti politici né tantomeno dei cittadini. Il necessario cambio
di marcia di cui ha bisogno l’Italia è anche portare, ciascuno nel proprio ambito politico
e istituzionale, nello spazio della discussione pubblica e delle scelte democratiche le deci-
sioni strategiche sulle politiche europee, la cui attuazione è poi intimamente connessa, per
la loro natura, con quelle interne. Lo ha fatto, ad esempio, il Parlamento italiano quando,
a gennaio, ha approvato un ordine del giorno sull’Europa, nel quale si sottolineavano gli
impegni del governo per il negoziato in sede europea e la successiva ratifica del Trattato
sul fiscal compact. Un fatto molto positivo, perché si tratta di un documento pieno di
sostanza, legato alle modalità con cui l’Europa può superare la crisi che sta attraversando
e contemperare al meglio l’esigenza della stabilità e quella della crescita economica e del
rilancio dell’occupazione. Questo processo ha portato a due impegni molto significativi,
approfonditi nei mesi successivi. Il primo è il vincolo del pareggio di bilancio, attraverso
cui si rappresenta plasticamente l’idea che tutte le principali parti politiche assumono l’im-
pegno a politiche di stabilità e di responsabilità verso le nuove generazioni. È un principio
che abbiamo violato molto spesso, come sappiamo. Il secondo punto è che il processo
europeo si può sviluppare solo se l’Europa completa il percorso verso l’unione politica:
un obiettivo ineludibile che però può essere raggiunto solo con il consenso dei cittadini
europei. Cosa significa sentirsi cittadini europei? Finora, abbiamo vissuto l’Europa come
vincolo esterno, come un dispensatore di ricette “salvifiche”, tutto sommato da sopportare
perché ci aiutano ad esentarci dai nostri peccati nazionali. Siamo stati in questa dimensio-
ne per tanti anni ed è giunto il momento di imprimere una svolta. Adesso, non tra dieci o
vent’anni. Adesso, nel 2012.
Ed è qui, nella costruzione della cittadinanza europea, il terzo significato di questo in-
contro. Tutto parte dalle scelte “di senso”, dalla necessaria riscoperta del disegno dell’Eu-
ropa unita come missione della nostra generazione, analogamente a ciò che la costruzione
dell’Europa dell’integrazione funzionale è stata per quelle del secondo dopoguerra, e la
realizzazione dell’Unione economica e monetaria per quella successiva, al governo negli
7
8. Marco Meloni anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Una svolta che deve dunque partire dai temi di
cui ci si deve occupare maggiormente a livello comunitario: accelerare i processi di integra-
zione economica, finanziaria e del mercato interno, e intensificare una cooperazione che
porti molte politiche di settore a essere governate a livello europeo. Quando parliamo di
welfare, istruzione, mercato del lavoro, difesa, dobbiamo comprendere che si deve arrivare
a governarli, pur nel rispetto del principio di sussidiarietà, in maniera condivisa a livello
europeo. E dobbiamo comprendere che il salto di qualità passa per un ingente incremento
delle risorse governate attraverso il bilancio comunitario e per l’esigenza inevitabile che le
scelte siano adottate secondo meccanismi effettivamente democratici. Perché ciò sia pos-
sibile concretamente è necessario poter affermare che esiste uno spazio pubblico europeo,
un’opinione pubblica formata da cittadini.
Di queste questioni – prospettive economiche, Europa politica, democrazia e quindi
cittadinanza – abbiamo discusso nella prima parte della conferenza. E proprio la cittadi-
nanza europea è una delle chiavi di lettura anche della seconda parte: parlare di istruzione
e di mobilità dei ricercatori significa infatti parlare del fatto che noi, insieme alle questioni
che si muovono con i tempi della politica, abbiamo il compito essenziale e non più rin-
viabile di costruire i cittadini europei. E i cittadini europei si costruiscono perché vivono
normalmente, nella loro esperienza di vita, la possibilità di studiare all’estero, di interagire
con ricercatori e con studenti che vengono in Italia: e noi italiani, su tutte queste cose, sia-
mo drammaticamente indietro.
I numeri di cui tenere conto sono tanti. Partiamo dal fatto che in Italia viene a frequen-
tare l’università, ma anche corsi di alta specializzazione e dottorato, una percentuale di
studenti estremamente bassa: un quinto della media europea. Le ragioni sono varie, sono
legate anche alla qualità del nostro sistema, ma anzitutto dipendono dalla lingua. C’è poi
il problema della mobilità in uscita: quanti tra i nostri ragazzi partecipano al programma
Erasmus? Noi parliamo spesso della “generazione Erasmus”, ma nel 2009-2010 in Italia
sono stati appena 21.000, uno su cento, gli studenti universitari che hanno preso parte al
programma. Inoltre, la frequenza è doppia al Nord rispetto al Mezzogiorno. Un nostro
obiettivo prioritario deve quindi essere moltiplicare questo numero, dare una scossa positi-
va alla mobilità studentesca, e rendere il nostro sistema di formazione superiore integrato
con quello europeo. Un sistema maggiormente aperto e capace di accogliere in maniera
semplice i ricercatori. Ci sono norme che lo impediscono e che devono essere superate;
dobbiamo adottare misure che abbiano l’obiettivo di portare tutti gli studenti italiani a fare,
dal liceo fino alla fine dell’università o del dottorato, almeno un periodo di esperienza e ri-
cerca all'estero; ci devono essere corsi universitari, in proporzione sempre maggiore, tenuti
in lingua inglese, perché è la cosa più semplice e più normale, non certo per una volontà di
abbandonare la lingua italiana.
Allo stesso tempo, è fondamentale modernizzare il mercato del lavoro e la pubbli-
ca amministrazione portandoli a livello “europeo” (aggettivo con cui ormai indichiamo
correntemente un livello di efficienza e di semplicità superiore a quello che abbiamo la
capacità di assicurare), per riaprire la porta d’ingresso anche alla professionalità dei giovani,
italiani e non. Dei giovani veri, per inciso. La sindrome per cui crediamo si possa essere
giovani fino ad oltre i 40 anni è frutto, più che di un concetto “troppo elastico” delle gene-
razioni, della nostra organizzazione sociale, che negli ultimi decenni ci ha spinto a spostare
troppo in avanti tutte le scelte professionali e di vita.
Su questi temi le norme giuridiche possono agire solo in parte: il contributo essenziale
deve venire soprattutto dalla cultura, dal clima generale del Paese, dalla capacità diffusa di
prendere sul serio i nostri problemi e di aggredirli sul piano sociale. La privazione di diritti
vissuta da intere generazioni riguarda da molto vicino i giovani ricercatori: basti pensare
che persino l’affermazione di un concetto che dovrebbe essere del tutto ovvio, ovvero che
il lavoro nella ricerca deve essere adeguatamente remunerato, in Italia non è per nulla scon-
tato, ma richiede un impegno, una vigilanza, una mobilitazione costanti.
Una svolta in questo senso è un bisogno del Paese e degli stessi attori politici, perché
se vogliamo costruire la democrazia europea e pensiamo che il nostro interesse sia cedere
sovranità per acquisire una sovranità più ampia, fondata su una visione comune e sulla
8
9. Marco Meloni corresponsabilità, abbiamo bisogno dell’appoggio dei cittadini e dell’opinione pubblica, in
un processo partecipativo e dialogico. Se vogliamo pensare all’Europa come attore politico
globale, dobbiamo essere consapevoli che il problema non si esaurisce affatto nel parlare
una sola lingua (al contrario, conciliare una “lingua franca” con il multilinguismo è una
delle peculiarità europee): è necessario che ci siano degli attori politici al livello delle sfide
odierne. Si tratta, per noi, di una questione fondamentale, anche perché il Partito Demo-
cratico ha una identità distintiva non integralmente risolta in quella del Partito Socialista
Europeo: perché questo non sia un freno, un limite, ma una ricchezza capace di portare
modernità e innovazione negli ideali, nelle proposte politiche e nelle forme organizzative
delle forze del riformismo democratico europeo, dobbiamo cimentarci sul terreno della
politica. Il compito cruciale è dunque adeguare l’organizzazione della nostra comunità po-
litica per riformare profondamente, rilanciandolo, un modello sociale nel quale vale ancora
la pena di scommettere.
Ecco la nostra sfida: costruire, in un mondo completamente cambiato, l’Europa che
abbiamo sognato vent’anni fa: il posto più bello dove vivere, uno spazio di crescita, compe-
titività e coesione, la casa comune del welfare, dell’istruzione e dello sviluppo. Ci siamo resi
conto che la dimensione dei nostri apparati pubblici, dei nostri Stati, se non viene adeguata
e aggiornata, rischia di rendere un’illusione nominalistica la presenza di un welfare efficien-
te e funzionante. Abbiamo davanti a noi, quindi, non l’inevitabilità di uno smantellamento,
ma la vera alternativa: crescere con un livello che ci consenta di mantenere questi sistemi.
Questo è “il” grande tema per il centrosinistra, per i democratici e per i socialisti, sul quale
dobbiamo disegnare il nostro percorso e elaborare le nostre proposte. La sterile contem-
plazione di un passato nel quale il nostro benessere si reggeva su equilibri globali del tutto
mutati non è una prospettiva per il futuro. A un certo punto, qualcuno si deve chiedere chi
paga: non è solo una questione di risorse, è anche una questione di equità, di opportunità,
di merito. La nostra società bloccata è esattamente ciò che impedisce, appunto, ai giovani di
pensare di poter valere per le loro capacità e impedisce di costruire un sistema di garanzie
di base che faccia sì che il lavoro sia allo stesso tempo occasione di sviluppo per la persona
e sia legato alle condizioni economiche attuali.
In questi due anni con il progetto Italia110, nel quale si inserisce la conferenza di Bru-
xelles, abbiamo realizzato numerosi appuntamenti: un tour delle università italiane, una
giornata a Roma che ha coinvolto centinaia di ragazzi per discutere dell’Italia da (ri)costru-
ire, seminari su mobilità e innovazione. L’idea di fondo da cui siamo partiti è che i luoghi di
elaborazione del sapere e di diffusione della cultura, di attivazione della ricerca sono anche
i luoghi decisivi in cui si pensa e si “fa” un’Italia lungimirante e coraggiosa. Un modo per
affermare la necessità per la politica di riconciliarsi con la società, con la cultura, con quella
competenza fondamentale per tessere un filo comune tra tecnica e politica. Solo la politica,
infatti, può trovare una strada per il futuro, disegnare uno scenario in cui le istituzioni siano
pienamente legittimate e capaci di affrontare i difficili tempi che ci attendono. Ma solo una
politica competente, fatta da persone con un livello di preparazione all’altezza delle sfide,
può assolvere a queste funzioni.
Veniamo da stagioni nelle quali le scelte compiute dagli attori politici non sono state
adeguate e la qualità delle proposte e del personale politico che esprimono non sempre è
all’altezza dei problemi. Bisogna tenere presente questo punto, anche in senso autocritico,
perché si tratta di uno dei punti centrali della crisi della nostra democrazia e della capacità
delle istituzioni di essere lette dai cittadini come spazio della rappresentanza, cioè come
luogo in cui essi esercitano i diritti democratici, affidando la responsabilità a soggetti che
prendono le decisioni migliori per la collettività.
A Bruxelles abbiamo cercato di mettere insieme studenti, ricercatori, centri di studio e
think-tank formati da persone che fanno politica in diverse città europee, che fanno poli-
tica nel Partito Democratico e nella “capitale” d’Europa. La dimensione politica europea
richiede un cambio di marcia nella vita dei partiti, così come nell’azione parlamentare.
Iniziative come questa, nelle quali si discute di temi e si elaborano proposte che poi ispira-
no interventi di natura legislativa e politica articolati nei diversi livelli di governo, devono
moltiplicarsi. Di più: devono diventare il modo ordinario di organizzare la nostra attività, la
9
10. “nuova normalità” della politica. È in quest’ottica che, dopo averle discusse nel corso della
conferenza di Bruxelles, abbiamo presentato le proposte del PD sulla circolazione degli
studenti e dei ricercatori (che riportiamo in questo volume, in appendice).
Dinanzi a questa crisi epocale, il compito della politica è costruire nelle idee e nei fatti
una nuova dimensione europea della democrazia. Confrontarci e discutere, proporre e
decidere, in una rete che comprende Roma, Bruxelles e le altre città europee, mobilitando
tutte le intelligenze che vogliono dare il loro contributo per lasciarci alle spalle gli ultimi
difficili anni della storia d’Italia e ripartire insieme, è il modo migliore per assolvere a que-
sto compito.
10
11. Prima parte
•
Europa e crisi: tra indignados e
impegnados, dov’è la politica? Dove sono
i progressisti?
La crisi ha messo in crisi il modello europeo e fatto
riemergere sentimenti nazionali. Cosa vuol dire essere
europeisti oggi? Qual è il valore aggiunto dell’Unione
Europea e quale ruolo potrà e dovrà giocare l’Italia dopo
la crisi? In particolare, quali lezioni emergono dalla crisi
economica e quali sono le sfide per l’Europa economica ma
anche e soprattutto, per l’Europa politica? E in questo
nuovo quadro quale ruolo dovranno avere i progressisti e il
PD?
11
12. 1° Parte 1) La crisi del debito: una prospettiva comunitaria
Quattrogatti.info,
L’Euro sta vivendo uno dei suoi momenti più critici della sua storia: l’Europa sta attraversando
Fadi Hassan
una crisi economica, una crisi finanziaria e una crisi del debito che mettono in pericolo la
•
sopravvivenza stessa dell’Euro. Queste tre dimensioni della crisi sono fortemente connesse
ma nel nostro contributo ci concentreremo soprattutto sulla crisi del debito.
Co-fondatore di Come sappiamo, la crisi del debito coinvolge principalmente: Grecia, Italia, Irlanda,
Quattrogatti.info Portogallo e Spagna, i cosiddetti Paesi GIIPS, che hanno un alto debito pubblico, un alto
fabbisogno finanziario e i mercati richiedono loro alti tassi di interesse per ripagare il debito
che acquistano; tutto questo genera il rischio che questi Stati non ripaghino il proprio
debito. Se questo avvenisse, ci sarebbero una crisi finanziaria e creditizia (credit crunch)
che generebbero una forte incertezza sulla tenuta dell’unione monetaria. Tutto questo poi
aggraverebbe la crisi economica alimenterebbe il circolo vizioso tra crisi del debito, crisi
finanziaria e crisi economica.
Come vediamo nel Grafico 1 il livello di debito pubblico nei Paesi GIIPS è effettivamente
più alto della media europea e ad esempio di quello degli Stati Uniti e dell' Inghilterra. Non
è così per la Spagna, ma la Spagna è coinvolta perché negli ultimi tre anni ha praticamente
raddoppiato il proprio livello di debito pubblico. Quello che vogliamo osservare però è
che, se noi prendiamo una prospettiva comunitaria, e paragoniamo il debito dei GIIPS
non rispetto al proprio PIL, ma al PIL dell’Eurozona (Grafico 2), il problema del debito
pubblico ha una dimensione completamente diversa. Ad esempio, la Grecia, che aveva
il 160% di debito rispetto al proprio PIL, in realtà ha un debito di solo il 4% del PIL
dell’Eurozona.
Nei Grafici 3 e 4 notiamo che, anche quando consideriamo il fabbisogno finanziario da una
prospettiva comunitaria, la dimensione del problema cambia radicalmente. Probabilmente
questo vale anche per i tassi di interesse: non abbiamo un Eurobond ma, se ci fosse, questi
Paesi potrebbero pagare tassi di interesse minori di quelli che stanno affrontando ora.
Parafrasando Neil Armstrong si può dire che risolvere la crisi del debito “è un piccolo passo
per un’unione monetaria, ma è un grande balzo per un singolo Stato”.
Il primo punto che abbiamo voluto sottolineare è che, se prendessimo un approccio
comunitario alla crisi, le cose probabilmente sarebbero più facili. L’altra punto che
vogliamo rimarcare, e che discurteremo più approfonditamente in seguito, è che la radice
profonda del problema è legata al fatto che l’euro è l’espressione di un’unione monetaria
imperfetta. Infine, sebbene non ne discuteremo in questa presentazione, bisogna sempre
tenere in conto che uno dei problemi di fondo della crisi dell’euro è la mancanza di crescita
economica degli ultimi anni; senza una decisa attenzione alla crescita non si può uscire
dalla crisi.
2) Una diagnosi sbagliata?
L’approccio che finora ha prevalso per risolvere la crisi del debito, sia a livello nazionale
che a livello comunitario, si può riassumere in una parola sola: “austerità”. Nel Grafico 5
vediamo la dimensione dei piani di austerità approvati nei vari Paesi (aggiornato a gennaio
2012). Austerità è stata la parola d’ordine anche a livello comunitario dove a fine gennaio
è stato approvato il Fiscal Compact. Secondo questo accordo i Paesi devono mirare ad un
budget pubblico in surplus o pareggio, fatta salva la possibilità di un deficit strutturale dello
0,5% del PIL. Il Fiscal Compact stabilisce anche che il principio del pareggio di bilancio
venga stabilito per legge, preferibilmente per via costituzionale. Emettere debito pubblico
potrà quindi diventare illegale, o addirittura incostituzionale!
La visione diffusa in Europa sui meccanismi che hanno portato alla crisi è la seguente:
nel momento in cui si è creata l’unione monetaria, i Paesi del Sud-Europa hanno goduto
12 di tassi di interesse molto bassi; questo ha incentivato un forte deficit fiscale, un aumento
13. Quattrogatti.info, della spesa pubblica e un'accumulazione di debito che ci ha portato alla crisi attuale.
Fadi Hassan
Ad esempio, nei mesi scorsi il Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha
dichiarato al Financial Times: “[…] it is an undisputable fact that excessive state spending has led
to unsustainable levels of debt and deficits that now threaten our economic welfare.” Sulla stessa linea il
Ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha dichiarato, sempre al Financial Times:
”Europe is facing its toughest test ever. The debt crisis brutally revealed all the cracks in the economic and
monetary union: the decade-long accumulation of public debt and the lack of competitiveness of some
national economies as well as shortcomings of the European treaties”.
Il punto è che, se andiamo a vedere i dati, non è proprio così. Nei Grafici 6-7 riportiamo
l’avanzo primario in percentuale del PIL negli anni pre e post-crisi: la linea nera spessa è
la media dell’Eurozona. Come vediamo Italia, Spagna, Irlanda, i Paesi ora caratterizzati
dalla crisi del debito, hanno avuto tutti un avanzo primario positivo e superiore alla media
dell’Eurozona; invece la Germania, che insiste molto sul punto del deficit fiscale è il
Paese che, negli anni pre-crisi, ha avuto principalmente un avanzo primario negativo ed
inferiore è alla media. E’ vero però che il Portogallo, e dal 2003 anche la Grecia, hanno
avuto un avanzo primario negativo. Le cose cambiano nel momento in cui analizziamo
il periodo intracrisi. Nel momento in cui scoppia la crisi finanziaria, l’avanzo primario
in tutti questi Paesi diminuisce fortemente. In questa situazione l’Italia si è comunque
comportata“virtuosamente”: fa tanto bene quanto la Germania, e nel 2010 anche meglio.
È da sottolineare che, negli altri Paesi, l’aumento di questo disavanzo primario non è
dovuto a spese irresponsabili da parte dei governi, ma la causa principale è da attribuire
agli ammortizzatori automatici, alla contrazione del PIL e, nel caso dell’Irlanda, al fatto che
si sono accollati i debiti delle banche.
C’è da sottolineare che il punto di partenza dei vari paesi è diverso: è normale che la
Germania, avendo un livello del debito più basso degli altri Paesi, possa concedersi un
avanzo primario minore. Ma il punto di fondo è che l’idea che i Paesi GIIPS siano stati
degli spendaccioni durante tutto il periodo dell’euro è un po’ un mito da sfatare: i deficit
fiscali sono dovuti sopratutto al debito accumulato negli anni pre-euro, non ad avanzi
primari negativi. La Germania e altri Paesi non ci devono dare lezioni morali su questo
punto.
Un altro mito da sfatare è che il debito pubblico sia alla radice del problema della crisi
del debito. È indubbiamente una componente importante ed è un problema nella misura
in cui i mercati ritengono che il debito pubblico sia un problema. Però non sappiamo
quale sia il livello assoluto di debito pubblico che conta. Gli Stati Uniti hanno il 100%
del debito pubblico, però non hanno una crisi del debito. Il Regno Unito ha un debito
pubblico dell’82% rispetto al PIL, però non ha una crisi del debito. Perché? Probabilmente
quello che bisogna andare ad attaccare sono gli elementi che rendono il debito pubblico la
variabile chiave della crisi e questi elementi si riconducono al fatto che l’euro è un'unione
monetaria imperfetta.
Il problema nasce innanzitutto dal cosiddetto “peccato originale”: il fatto che un Paese
emette debiti in una moneta di cui non ha controllo. Questa è una caratteristica specifica
dei paesi dell’area euro ma che in altre unioni monetarie, come gli Stati Uniti e il Regno
Unito, in realtà non succede. Questo è dovuto all’assenza di una fiscalità comunitaria, di un
budget fiscale comunitario e di un titolo unico comunitario (un Eurobond che sia come il
Treasury Bond per gli Stati Uniti).
Un altro aspetto importante che rende l’euro un’unione monetaria imperfetta è la scarsa
integrazione del mercato del lavoro su cui, per motivi di tempo, non ci soffermeremo.
Infine, l’altro punto chiave che analizziamo in questa presentazione riguarda la scarsa
attenzione agli squilibri macroeconomici non fiscali. Come abbiamo visto, prima si pensa
che l’unico squilibrio macroeconomico da affrontare in un'unione monetaria sia quello
fiscale, ma questo non è vero.
13
14. Quattrogatti.info,
Fadi Hassan 3) Non solo fisco!
Thomas Mayer, un banchiere della Deutsche Bank, sottolinea al Financial Times come
alla base della crisi del debito pubblico in Europa, in realtà c’è una crisi della bilancia dei
pagamenti e un problema di disallineamento dei tassi di cambio reali: “below the surface of the
euro area’s public debt and banking crisis lies a balance-of-payments crisis caused by a misalignment of
internal real exchange rates”. Adesso vediamo bene cosa voglia dire.
L’identità basica del PIL, che chi ha studiato economia la conosce benissimo, ci dice che se
noi sommiamo risparmio privato a risparmio pubblico e sottraiamo gli investimenti, questi
sono uguali alle esportazioni nette: (Y-C-T) + (T-G) - I = (X-M). Questa è un'identità che
è valida sempre a fine anno e ci dice che nel momento in cui ci sono delle esportazioni
nette positive, ci deve essere per forza o un risparmio pubblico positivo o un risparmio
privato positivo.
Se all’interno di un'unione monetaria, c’è un Paese, come ad esempio la Germania, che
continua ad avere delle esportazioni nette positive verso gli altri Paesi dell’Eurozona,
implica che la Germania avrà o un forte risparmio pubblico privato positivo o dei forti
investimenti; ma implica anche che gli altri Paesi dell’Eurozona, che stanno importando
questi prodotti dalla Germania, per forza di cose, a fine anno, dovranno avere o un
risparmio pubblico negativo o un risparmio privato negativo.
Come vediamo nel Grafico 7, da quando è stato creato l’euro, la Germania ha praticamente
triplicato la sua quota dell’export verso i Paesi dell’Eurozona, mentre i Paesi GIIPS in
difficoltà hanno continuato ad aumentare le importazioni dalla Germania e questo,
praticamente, fa sì che si verifichi la condizione discussa prima: una bilancia commerciale
positiva della Germania fa da controaltare ad una bilancia fiscale negativa dei Paesi GIIPS.
Nel Grafico 8 vediamo bene questo punto: i bilanci fiscali negativi dei Paesi GIIPS (le
colonne blu) altro non sono che l’altra faccia dei passivi con l’estero (colonna rossa).
Il problema è che, quando all’interno dell’unione monetaria si discute dei problemi di
disequilibrio macroeconomici, il focus è stato sempre, solo ed esclusivamente sulla colonna
blu, sui deficit fiscali; non si è mai praticamente affrontata fino in fondo l’altra faccia del
deficit fiscale che è il passivo con l’estero o il deficit privato.
Ma quindi da dove deriva questo deficit con l’estero? Da un punto di vista macroeconomico
la causa principale è il disequilibrio del tasso di cambio reale. Per chi non è un economista,
il tasso di cambio reale è come il tasso di cambio nominale (ad es. euro-dollaro) che però
tiene conto di quanto effettivamente si può comprare con un euro rispetto a un dollaro.
All’interno di una unione monetaria, il tasso di cambio reale è determinato dall’andamento
dei prezzi. Nel Grafico 9 vediamo come si sono evoluti i prezzi all’interno dei Paesi
dell’Eurozona. La linea nera è il target della Banca Centrale Europea, che ha come target il
2% di inflazione all’anno. Questo è l’andamento dei prezzi che dovrebbe esserci se i Paesi
rispettassero il target della BCE. Come vediamo, però, la Germania ha sempre avuto un
livello di inflazione inferiore al target BCE, mentre gli altri Paesi hanno avuto un livello
di inflazione superiore al target. Questo ha creato un disequilibrio tra i tassi di cambio
reale, che è quello che il banchiere della Deutsche Bank sottolineava, e sta alla base del
disequilibrio della bilancia dei pagamenti che abbiamo analizzato prima.
Da un punto di vista normativo l’implicazione è che non bisogna solo parlare di deficit
fiscale e fissare regole per un bilancio fiscale in parità. Bisogna fissare dei target a livello
nazionale anche per le altre variabili che possono creare squilibri macroeconomici all’interno
dell’unione monetaria, come ad esempio i tassi di inflazione. All’interno di un’unione
monetaria i tassi di cambio nominali non possono cambiare per riequilibrare i tassi di
cambio reali; il peso dell’aggiustamento grava tutto sull’andamento dei prezzi, bisogna
quindi ridurre la dispersione dei tassi d’inflazione all’interno dell’Unione. Ad esempio gli
Stati Uniti, che sono composti da 50 stati che vanno dall’Alaska alla Florida e dalle Hawaii
a New York, hanno una dispersione dell’andamento dei prezzi fra Stati che è la metà di
quella dei 15 Paesi dell’Eurozona.
14
15. Quattrogatti.info, Provocatoriamente si può pensare di prendere come riferimento il target del 2% della BCE
Fadi Hassan e stabilire che se un Paese ha un’inflazione del 2,5% venga “punito” tanto quanto un Paese
che fa l’1,5%, perché comunque non rispetta un target. Ovviamente il dibattito su questo
tipo di meccanismo dovrebbe essere più approfondito e ci sono tante sfaccettature da
tenere in conto; in questa occasione vogliamo solo lanciare un sasso nello stagno. Il fatto
è che considerazioni di questo tipo dovrebbero essere parte del dibattito corrente su come
risolvere i problemi dell’Eurozona.
Quindi il nostro punto di fondo è che non bisogna focalizzarsi solo sulla finanza pubblica
ma bisogna puntare a risolvere i problemi strutturali dell’architettura europea e dell’unione
monetaria, senza dimenticare di focalizzarsi sulla crescita economica nel medio e lungo
periodo. Da un punto di vista economico, più o meno, si sa qual è la strada da percorrere
per formare un’unione monetaria ottimale. Però la palla in questo momento è in mano
alla politica e quello che servirebbe, probabilmente, è una vera leadership europea e una
mentalità comunitaria come quella dei padri fondatori dell’Unione Europea.
Grafico 1: Debito pubblico in % del PIL nazionale (2011)
Dati: proiezioni Commisione Europea su dati EUROSTAT
Grafico 2: Debito pubblico in % del PIL europeo (2011)
120.0
100.0
80.0
60.0
40.0
20.0
0.0
Grecia Irlanda Italia Portogallo Spagna Germania Eurozona UK USA
15 Dati: proiezioni Commisione Europea su dati EUROSTAT
16. Grafico 3: Fabbisogno finanziario* e tassi d’interesse
* Non tiene conto dell’avanzo primario - Dati: Bloomberg ed EUROSTAT
Grafico 4: Fabbisogno finanziario* e tassi d’interesse, una prospettiva comunitaria
Grafico 5: Piani d’austerità in % del PIL (valori a regime)
Dati: Banca d’Italia, Financial Times 17-10-2011, Le Monde 27-08-2011, EUROSTAT
16
17. Grafico 6: Avanzo primario pre-crisi, % del PIL
8.0 Euro
area
Ger
6.0 mani
a
Irlan
da
4.0
Grec
ia
2.0 Spag
na
0.0
1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
-2.0
-4.0
Dati: EUROSTAT
Grafico 7: Avanzo primario intra-crisi, % del PIL
5.0 Euro
area
Ger
0.0 mani
2008 2009 2010 a
Irlan
-5.0 da
Grec
-10.0 ia
Spag
-15.0 na
-20.0
-25.0
-30.0
Dati: EUROSTAT
17
18. Grafico 8: Esportazioni nette verso Eurozona, % PIL EZ
Dati: EUROSTAT
Grafico 9: Bilancio finanziario settoriale, media 1999-2007
15.00
10.00
5.00 Bilancio Privato
(fam+imprese)
0.00 Bilancio Governo
Passivo con l'Estero
-5.00
-10.00
Germania Grecia Irlanda Italia Spagna Portogallo
-15.00
Dati: EUROSTAT
Grafico 10: Andamento dei prezzi, Gennaio 1999=100
Grecia
Spagna
Irlanda
Portogallo
Italia
BCE-Target
Germania
Dati: EUROSTAT
18
19. DIBATTITO Condivido molti dei punti dell'analisi presentata nella relazione dei Quattro Gatti. Ag-
giungerei solamente qualche osservazione.
Daniel Gros
Primo, quando si valuta l’evoluzione degli indicatori di competitività, e indirettamente
Commento alla
il costo del lavoro, che ne è la misura inversa, il calcolo parte sempre dall’avvio dell’unio-
relazione dei
ne monetaria, in genere il 2000. Ma così facendo si assume implicitamente che quello sia
Quattro Gatti
un punto di equilibrio in cui tutti i Paesi sono allo stesso livello. Ciò non corrisponde alla
realtà. Non c’è dubbio che allora la Germania si trovava in una situazione molto diffici-
• le, caratterizzata da salari troppo alti e un marco sopravvalutato. Adesso, al contrario, la
maggior parte degli osservatori ritengono che i salari tedeschi siano troppo bassi. Logica-
Direttore del Centre mente, l’equilibrio per la Germania sarà stato raggiunto solo in qualche momento durante
for European Policy il periodo tra il 2000 e oggi. Questo dà un’idea di quanto sia difficile individuare un livello
Studies (CEPS) di equilibrio comune e adeguato rispetto al quale misurare l’evoluzione della competitività
dei diversi Paesi.
Secondo, non sono d'accordo con la posizione, espressa anche da Trichet, secondo
cui se la BCE fissa l’inflazione per l’Eurozona al 2%, tutti i Paesi devono marciare al 2%.
In realtà, ci sarà sempre almeno un paese al di sopra e un altro al di sotto di quel tasso, e
questo spiega perché diversi Paesi possono mostrare sviluppi e evoluzioni che si muovono
in direzione opposta. In fin dei conti, le principali tendenze emerse nell’unione monetaria
fino al 2007/2008, possono essere viste come una sorta di lungo circolo iniziato negli
anni Novanta, quando uno shock idiosincratico ha generato una fondamentale asimmetria
nell'economia europea. Questo evento è stato la riunificazione tedesca. Allora, l'unificazio-
ne portò il boom economico, ma solo in Germania, e fu accompagnato da deficit esterno,
inflazione e alti tassi di interesse. A livello europeo, tali condizioni contribuirono alla rot-
tura dello SME, il sistema di cambi in vigore all'epoca. La lira si deprezzò del cento per
cento: mentre nel 1992 si pagavano 750 lire per un marco, nel 1995, all'apice della crisi, ce
ne volevano 1.500! Nello stesso periodo, i tassi di interesse sul debito pubblico erano a due
cifre e molti economisti davano l'Italia per spacciata. Adesso il governo italiano paga tra il
2 e il 6% e non vedo perché questo non dovrebbe essere accettabile, anche se è molto di
più di ciò che paga il governo tedesco. Piuttosto, trovo che non abbia senso dire "non è
giusto che l'Italia paghi di più", dato che il problema di fondo è che non ci sono abbastanza
risparmi in Italia per comprare tutti i Bot e Btp emessi dal governo italiano. Stando così le
cose, la responsabilità non può essere attribuita ai mercati internazionali.
Un commento rapido sulla politica fiscale e in particolare su avanzo/disavanzo prima-
rio. Il saldo primario è dato delle voci di spesa pubblica, esclusi gli interessi, al netto delle
entrate. Dato l’elevato debito pubblico italiano, per evitare che il deficit di bilancio sia enor-
me l'Italia dovrebbe sempre avere un avanzo primario tale da poter compensare la spesa
per interessi. Per cui non ha molto senso confrontare il disavanzo primario della Germania
(dove debito e spesa per interessi sono molto piu bassi) con l’avanzo primario italiano. Ed
è proprio questo debito pregresso ad essere cruciale per l'Italia in questo momento. Il defi-
cit italiano non è così importante (significativo), ad esempio, è più basso di quello francese,
e dovrebbe sparire entro quest'anno con la manovra. Ciò che è molto difficile è attaccare lo
stock di debito accumulato. Un debito pubblico pari al 120% del PIL, magari poteva essere
accettabile e facilmente finanziabile sui mercati internazionali quando il tasso di crescita
dell'Italia era considerato tutto sommato soddisfacente. All’inizio del nuovo millennio l’I-
talia appariva in una posizione non particolarmente forte ma accettabile, e molto simile a
quella tedesca. Invece adesso, dieci anni più tardi, le prospettive di crescita per l'Italia sono
molto più basse di quelle tedesche, e pochi di quelli che guardano al futuro vedono ragioni
di ottimismo. A questo proposito si parla molto del potenziale italiano; anche dalla mia
ricerca emerge che c'è un potenziale in Italia in termini sia di capitale umano che di capitale
fisico. Quello che è strano, e difficile da spiegare, è perché, nonostante l'Italia sia uno dei
pochi Paesi al mondo in cui si investe in educazione e in capitale fisico i risultati in termini
di crescita non si vedono. Negli ultimi dieci anni, il tasso di investimento in capitale fisico
in Italia è stato più alto che in Germania. In Italia il livello di istruzione della popolazione
è più basso di quello tedesco, ma è aumentato nel tempo e la differenza si è ridotta. Nono-
19
20. Daniel Gros state questo, i risultati non ci sono. Questo resta per me un mistero.
Inoltre, si parla molto di riforme strutturali e liberalizzazioni ma gli indicatori OCSE
relativi alla regolamentazione del mercato dei prodotti e del lavoro indicano che Italia e
Germania sono esattamente allo stesso livello. Partendo da questa osservazione è difficile
immaginare che le riforme e le liberalizzazioni possano sprigionare un grande potenziale
di crescita. C'è poi una serie di indicatori riguardo ai quali l'Italia non solamente fa male
ma è addirittura regredita negli ultimi dieci anni: quelli relativi alla qualità delle istituzioni e
in particolare gli indicatori di corruzione e di qualità dell'amministrazione. Sono indicatori
rilevati dalla Banca Mondiale e sono confrontabili per i diversi Paesi. Mentre dieci anni fa
l'Italia era sotto la media ma in un intervallo che statisticamente la metteva alla pari con gli
altri paesi dell'unione monetaria, adesso, insieme con la Grecia, è fuori dall’ intervallo di
due deviazioni standard, quindi molto lontana dalla situazione degli altri Paesi della zona
euro. Questo secondo me è il vero problema. C’è un bacino di giovani istruiti ma che nel
Paese non trovano lavoro perché il sistema non li sa valorizzare. Si tratta quindi di un pro-
blema che l'Europa non può risolvere, va risolto in Italia, da tutti gli italiani. L'Europa, al
massimo, può far sì che la crisi finanziaria (economica?) non travolga il sistema finanziario
italiano e che il peso del debito per il governo italiano rimanga accettabile. È inutile dire
che l'Italia potrebbe pagare quanto la Germania. Al livello a cui siamo oggi, se possiamo
mantenerlo, il costo per il servizio del debito non è più alto di quello passato. Qui c'è una
responsabilità per l'Europa, ma Draghi se ne sta occupando. Angela Merkel dice, secondo
me giustamente, che questo non è un suo problema in quanto Cancelliere tedesco, perche
non può pagare per l'Italia. Tutt'al più può contribuire alla creazione di qualche meccani-
smo che stabilizzi i mercati ma per il resto l'Italia deve farcela da sola.
Questo è il punto di vista del Cancelliere, e direi che nel lungo periodo è difficile dis-
sentire. E magari sono fasi come questa che possono contribuire a cambiare l'Italia, a
cambiarla nella direzione di cui accennvo prima. Mario Monti si occupa di politica alta, il
bilancio dello Stato e le riforme che l'Europa richiede. Ed é cosi che sia , ma questa é una
condizione necessaria, non sufficente. La condizione sufficiente per rendere l'Italia soste-
nibile e più dinamica è quel rinnovamento che deve venire dalla base, dall’interno, e questo
non è un compito della grande politica ma della società civile.
20
21. Alessia Mosca Quale ruolo deve avere la politica nella capacità di interpretare i suggerimenti degli eco-
nomisti e degli analisti, come quelli che hanno caratterizzato quest’incontro? Ci troviamo
•
in un momento delicato in cui se, da un lato, è necessario che ricopra un ruolo di assoluta
protagonista, dall’altro è innegabile che stia vivendo, soprattutto in Italia, uno dei momenti
di maggiore difficoltà. Questi due aspetti, perciò, devono in qualche modo intrecciarsi ri-
Deputato PD trovando la capacità di uscire dall’impasse nella quale ci siamo infilati.
Partiamo da un dato positivo: finalmente anche a Roma, cosa non frequente fino a
pochi mesi fa, l’Europa è un argomento centrale. Non più un dibattito confinato a luoghi
come questo, per addetti ai lavori, ma un tema di cui si discute nei giornali e di cui si parla in
molte occasioni, molto più numerose e diversificate rispetto al periodo scorso. Questa cen-
tralità dell'Europa deriva certamente soprattutto dalla crisi che stiamo attraversando. Cre-
do che la responsabilità della politica debba essere quella di trasmettere la convinzione che
in questa crisi economica e finanziaria del nostro Paese e dei vari Paesi che compongono
l’Unione Europea, la centralità dell'Europa sia parte ineludibile della soluzione della crisi.
L’Italia se la deve sbrigare un po’ da sola? Su questo sono parzialmente d'accordo, nel
senso che sono convinta, e lieta, che finalmente si stiano facendo i cosiddetti “compiti a
casa” e che Monti abbia imboccato questa strada, ma, al tempo stesso, penso anche che
la relazione tra Italia ed Europa debba essere una relazione biunivoca. Da una parte, l’I-
talia potrà farcela se agganciata all’Europa. In tanti momenti della sua storia è stato così e
credo che questo sia uno di questi casi: l’Italia può rialzarsi da questa drammatica crisi se
resta strettamente legata a una prospettiva europea. Dall’altra parte, l’Europa potrà farcela
se l’Italia sarà all’interno delle istituzioni europee e dei meccanismi decisionali in maniera
profonda, se sarà presente con tutti e due i piedi e con tutte le istituzioni che potranno
partecipare, in modo proattivo e con reale convinzione.
A questo proposito richiamo lo stimolo iniziale su un atto, che il 25 gennaio scorso il
Parlamento ha approvato all’unanimità, contenente le indicazioni rivolte al governo che
costituivano, riguardo alcune linee, una sorta di mandato per le trattative da compiere a
livello comunitario. Ritengo questo un passo fondamentale e molto positivo, perché que-
sto parlare di Europa ci aiuta anche a ragionare con categorie diverse rispetto a quelle a
cui siamo stati abituati fino adesso. Ci sono momenti in cui l'unità degli intenti è un’unità
fondamentale per permettere all’Europa e all'Italia di fare passi in avanti e l’approvazione
all’unanimità di questa mozione è stato proprio un segnale in questo senso. A maggior
ragione perché il contenuto di quella mozione era composto - guarda caso - in gran parte
dalle idee che sono nel DNA del Partito Democratico. Ne emerge, dunque, che, se vi è
qualcuno che ha cambiato le proprie posizioni, per certo non si tratta di noi. Nella mo-
zione era evidente una spinta molto forte per tutte le politiche di crescita ma vi era anche
una richiesta altrettanto significativa rispetto a elementi la cui unanime accettazione non
era scontata. Esempio ne è la tassazione sulle transazioni finanziarie, posizione tradizional-
mente sostenuta da noi ma non dalla nostra parte avversa. C'era una volontà di superare il
metodo intergovernativo, che sta ancora spadroneggiando, per arrivare, anche se non detto
in questi termini, agli Stati Uniti d'Europa, senza quella reticenza e quello scetticismo di chi
non lo ritiene un obiettivo realistico. Io penso, invece, che noi dobbiamo avere il coraggio
di continuare a battere su questa strada e che questo debba essere anche il modo in cui la
politica si riappropria del suo ruolo: fornire insieme una visione e una speranza, perché
l’Europa si fa non solo se si superano i problemi finanziari ma soprattutto se si va realmen-
te oltre la concezione che dell’Europa si aveva all'origine della costruzione comunitaria,
basata sulla necessità di evitare altre guerre. Un valore, purtroppo, sempre vero ma che
non può essere rappresentativo e motivante per le nuove generazioni. Allora io penso che
la politica solo se riesce a riprendere una visione, una speranza, una capacità di guardare
al futuro – e, in questo, una capacità di dare ai giovani questa visione per il futuro – riesce
davvero nel proprio intento.
Quando si parla di fare gli Stati Uniti d'Europa non si tratta un esercizio di retorica o la
21
22. Alessia Mosca ricerca di un’utopia: significa elaborare provvedimenti concreti che possono essere messi in
atto e che già in qualche modo stanno prendendo vita.
Io penso che si possa cominciare a parlare di “dimensione europea” in ogni politica
settoriale. Cito in modo particolare, per la sua importanza in questo convegno, l'investi-
mento sul capitale umano, la circolazione dei talenti, la capacità di investire in tutte queste
risorse, il capitale più importante che l'Europa possiede. Tutto questo può essere ricondot-
to all'interno di una dimensione europea e non è un caso che, proprio questa settimana, il
Presidente della Commissione Europea abbia proposto l’istituzione degli “Action team”:
squadre operanti negli otto Paesi che soffrono maggiormente di disoccupazione, con il
compito di aiutare la riduzione di quest’ultima adoperando, tra gli altri strumenti, i fondi
inutilizzati dell'Unione Europea per favorire la circolazione dei talenti – siano essi lavorato-
ri, ricercatori, e, più in generale, tutti coloro che vogliono approfittare degli strumenti che
l'Unione Europea da anni mette in campo.
Lo stesso discorso può essere applicato al tema del bilancio comunitario. Purtroppo
in Italia se ne parla troppo poco ma la discussione sul bilancio comunitario 2014/2020 è
un tema cruciale per il futuro dell'Italia e dell'Europa. All'interno del bilancio comunita-
rio 2014/2020 vi è un grande capitolo che riguarda la spinta alla ricerca e, all'interno del
capitolo sulla ricerca, si parla moltissimo di come fare in modo che venga potenziata la
circolazione dei ricercatori.
Allora, tutti questi temi forniscono l’idea di come gli Stati Uniti d'Europa siano la capa-
cità concreta di promuovere politiche, oggi ancora considerate di competenza dei singoli
Stati, a livello comunitario e dentro una dimensione autenticamente europea. Questo, pe-
raltro, è anche un modo per superare il grosso problema che sta vivendo l'Unione Europea
e non solo i singoli Stati: il sentimento per cui l'Unione Europea viene considerata troppo
poco democratica e la conseguente percezione che la democrazia sia considerata sotto at-
tacco. Si tratta di un tema su cui è necessario riflettere e agire con determinazione. Queste
politiche sono già un modo per avvicinare l'Unione Europea ai cittadini perché, fisicamente
e concretamente, è possibile avere esperienza tangibile del fatto che le istituzioni comuni-
tarie non corrispondono a un freddo burocrate che impone solo austerità ma progettano
e realizzano anche cose che poi incidono in maniera positiva sulla vita quotidiana di tutti i
cittadini e, soprattutto, dei giovani.
Chiaramente, si deve anche passare ad azioni che rendano la democraticità dell'Unione
Europea qualcosa di più visibile. Ci sono diverse proposte sul tavolo rispetto a questa ne-
cessità: il Partito Democratico sta sostenendo la possibilità di eleggere il Presidente della
Commissione Europea in modo diretto, affinché ci siano dei leader, autenticamente euro-
pei, che abbiano una presenza e una visibilità maggiore di quella odierna. Tutte queste sfide
sono grandi opportunità per la politica, che quest’ultima deve cogliere se vuole sopravvive-
re e rigenerarsi. Noi soprattutto, in Italia, ne abbiamo un grandissimo bisogno.
22
23. Marco Simoni Vorrei partire dal titolo della nostra discussione: “Dove sono i progressisti davanti a
questa crisi?” Va notato innanzitutto che, su ventisette Paesi, solo ventiquattro in questo
•
momento hanno un governo di centrosinistra, e i trend non sembrano particolarmente
positivi per il futuro. Qualche giorno fa, un episodio mi ha fatto riflettere, forse perché
questo tema si può affrontare in tanti modi, anche cercando di individuare qualche para-
dosso politico e politico-economico.
Economista e Ero in Italia, ipnotizzato da una di quelle trasmissioni televisive tipiche del nostro Paese,
politologo alla dove c’è uno studio con degli ospiti, intelligenti o importanti, e poi c’è un collegamento
London School of con “la piazza”. Un gruppo di ragazzi di Bologna, più o meno indignati che protestavano
Economics contro la situazione economica, si confrontavano con gli esperti in studio: quasi tutti poli-
tici o intellettuali di centrosinistra.
I ragazzi, fuori, dicevano delle cose molto sensate: il precariato non va bene, lamentava-
no il “furto” di futuro, e le sproporzioni e ingiustizie troppo evidenti. Suggerivano poi che
la soluzione a questo stato di cose era che l'Italia facesse default sul debito.
In studio, alcuni erano un po' esasperati e cercavano di spiegare che fare default sul
debito significava far cadere il fardello sulle spalle soprattutto della povera gente. Come
sempre è avvenuto in qualsiasi caso in cui lo Stato abbia fatto default - o in caso di guerre
o pestilenze - ogni volta che c'è un disastro epocale quelli che ne pagano di più le conse-
guenze sono sempre i più deboli.
In qualche misura, quella che si stava manifestando nella trasmissione era la distanza
tra la parte di giovani istruita, giovani universitari, e l'espressione politico-istituzionale del
progressismo. Questa distanza si è sempre vista in parte a riflettere quella tra radicali e ri-
formisti, dato che i giovani tendono ad essere radicali. Tuttavia, in questo caso, la distanza
è più grave perché non c’è un grande disaccordo sull’analisi. Infatti, rispetto al passato, la
distanza si è accorciata!
È abbastanza evidente una condivisione, sia nella parte sociale che nella parte politica
del progressismo mondiale, dell’idea che vi sia una responsabilità delle democrazie nell'a-
ver creato questa crisi a causa di una mancanza di regolamentazione seria di una parte
importante del capitalismo, il capitalismo finanziario.
Non c'è una divergenza di analisi sulle ragioni che hanno portato a una crisi econo-
mica europea in questo momento e non c'è neanche una grande differenza rispetto alle
proposte: nessuno di questi movimenti degli indignados propone la fine del capitalismo e
l'instaurazione di una nuova società di tipo utopistico. Sono generalmente molto pragmati-
ci, anche se a volte si lanciano in proposte come quella del default, e cercano di difendere
e rappresentare la situazione di profonda difficoltà delle persone meno anziane delle loro
società.
Allora la domanda diventa: perché c'è questa distanza e questa incapacità di dialogo se,
apparentemente, invece, le posizioni non sono così lontane? Una delle risposte standard
che si stanno dando in questo momento, non soltanto in Italia, ma anche in Francia, addi-
rittura forse in Inghilterra – ieri ne parlavano i Miliband – è di tipo organizzativo: i partiti
di centrosinistra organizzano le primarie, ossia fanno delle grandi manifestazioni in cui si
coinvolgono i militanti e i simpatizzanti per un breve, brevissimo, periodo di tempo. Que-
ste manifestazioni, secondo me, hanno l'effetto del doping su un atleta: per un momento
ci si sente forti, sembra che tutto sia risolto e poi dopo si sta peggio di prima.
Perché invece, secondo me, il problema è più profondo ed è strettamente politico, non
ha a che fare con tecniche organizzative – che possono anche essere utili per ristabilire dei
patti politici tra rappresentanti e rappresentati. Il problema ha a che fare con la sfida di sen-
so che si trova davanti sia la politica in senso stretto che la parte della società che hanno a
cuore le ragioni dell'uguaglianza e della libertà. Ed è una sfida di senso su cui, recentemen-
te, due persone sono intervenute, quasi contemporaneamente e con due articoli che mi fa
piacere citare perché mi hanno ispirato molte riflessioni. Uno l’ha scritto Adriano Sofri su
“la Repubblica” e l’altro David Miliband su “The New Statesman”, difficile pensare a due
esponenti del progressismo più diversi tra loro, a riprova del fatto che si tratta di un tema
diffuso e comune.
Entrambi si interrogano sul senso politico che deriva dalle politiche economiche che
23
24. Marco Simoni può portare avanti una parte progressista. Adriano Sofri lamenta la scomparsa del tema
dell'uguaglianza, dice, almeno così ho capito io: “nessuno parla più di disuguaglianza, ep-
pure è pieno di disuguaglianze, ci sono poveri e ricchi, come è più di prima”. Questo è,
da un punto di vista di uno studioso come me, anche uno straordinario enigma! Per quale
motivo, se tutti, da tutte le parti, in continuazione sentiamo dire che la disuguaglianza è au-
mentata tantissimo negli ultimi vent'anni, essa è scomparsa come tema dal valore politico
ed elettorale? Come è possibile?
Uno può aderire alla teoria del complotto: tutti i partiti di sinistra sono stati comprati
dal grande capitale. Questa è chiaramente una fesseria perché, anche se fosse vero, se quello
dell'uguaglianza fosse veramente un tema sociale sentito, arriverebbe una sorta di Bossi, un
“politico naturale” che si costruisce una carriera nell'interpretare un fenomeno che tutti
lasciano alla deriva.
Eppure, la disuguaglianza, nella percezione comune, viene vista come una cosa che è
aumentata, ma il punto che David Miliband (anche qui, è una mia interpretazione delle cose
che ha scritto) cerca di rimettere al centro della discussione è il fatto che la disuguaglianza
ha dinamiche e faglie diverse oggi rispetto alle categorie a cui eravamo abituati, rispetto ai
pensatori progressisti dell'800 e del '900. Non è più soltanto un tema di ricchi e poveri e
cambia a seconda dei Paesi, a seconda delle zone, a seconda delle città. Ci sono disugua-
glianze molteplici, di diversa natura, che hanno, di conseguenza, bisogno di formule politi-
che e di politiche economiche adeguate.
Qualche esempio sul caso italiano: c'è disuguaglianza in un contesto in cui i precari
sono esposti alla concorrenza – i lavoratori flessibili sono in un regime di estrema con-
correnza di mercato – e invece i datori di lavoro sono protetti dalla concorrenza. Ci sono
disuguaglianze quando, negli studi professionali o nelle redazioni dei giornali, una parte di
professionisti sono pagati in maniera estremamente sostanziosa e quasi priva di controlli,
causando direttamente la debolezza dei colleghi che ricevono compensi ridicoli. Non tanto
nelle fabbriche della FIAT ma soprattutto negli studi professionali e nei giornali il dualismo
genera disuguaglianza.
In Italia la dimensione di disuguaglianza forse più evidente è quella tra Nord e Sud, sulla
quale mi viene da aggiungere, sulla traccia dei suggerimenti di Miliband: qualcuno pensa
che il problema delle disuguaglianze tra Nord e Sud si possa risolvere aumentando i trasfe-
rimenti pubblici? La sinistra rassicurante, quella che richiama sempre le vecchie parole d'or-
dine (che ognuno poi può identificare con l'uomo politico o col sindacalista che preferisce,
è comunque una posizione abbondantemente presente nel dibattito) può davvero pensare
che il problema di quel tipo di disuguaglianza si risolva semplicemente con un aumento
dei trasferimenti alla Regione Sicilia? Oppure, in quel contesto, affrontare la disuguaglianza
significa puntare sulle responsabilità individuali e anche puntare a un asciugamento e a un
dimagrimento del comparto pubblico?
Allora il problema non è la scomparsa della disuguaglianza dal dibattito ma il fatto che
abbia assunto forme molto diverse che richiedono uno sforzo politico di comprensione,
elaborazione e proposta. Il punto è che il senso delle politiche che uno promuove non si
può trasmettere soltanto con un elenco di programmi. Il senso si comprende e si veicola
quando si comunica che quei programmi così diversi, così specifici e così sofisticati, sono
tutti guidati da un filo conduttore che riguarda comunque l'uguaglianza e la libertà, e in
questo si differenzia dall'idea di una destra che invece tradizionalmente si conferma, anche
in Inghilterra e anche in Germania, come sostanzialmente elitista e aristocratica.
Per concludere e per portare questo ragionamento a livello europeo, anche nell’approc-
cio all’Europa e alle sue difficoltà percepisco spesso lo stesso rischio che si corre quando
si prendono scorciatoie organizzative per affrontare i problemi politici. Bisogna essere
consapevoli del fatto che un’Europa che, come ha detto giustamente Daniel Gros, a un
certo punto risolverà i guai finanziari, lascerà giustamente ogni Stato a risolvere i suoi
temi endogeni legati alla crescita economica; pensare che l'Europa abbia in sé una luce
progressista è uno dei modi per cercare di non affrontare direttamente il tema delle diverse
disuguaglianze che esistono: l’Europa è un tassello fondamentale della nostra convivenza,
ma può assumere connotati dai diversi colori e dalle diverse ideologie.
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25. Marco Simoni Se, invece, si vuole pensare a un’evoluzione progressista dell'Unione Europea, e a come
pensare di esportare e di promuovere la parte più democratica della tradizione europea,
bisogna partire - secondo me - da un'analisi che tagli attraverso le nazioni, e sia capace di
essere specifica e rifiutare le scorciatoria, per comprendere e discutere le diverse dimensio-
ni della disuguaglianza, e come porvi rimedio.
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26. Emilie Turunen Vorrei spendere alcune parole sulla crisi, con particolare riguardo alla situazione dei
giovani in Europa. Siamo talmente concentrati sui leader, sui capi di Stato e di governo,
• così attenti ai budget pubblici che stiamo perdendo di vista l’economia nel suo insieme. Al
momento, in Europa, stiamo andando verso la recessione e quello che ci serve è promuo-
vere la nostra economia, determinare una crescita reale e anche investimenti che possano
creare posti di lavoro.
Eurodeputata dei La disoccupazione ha toccato livelli record e per i giovani la situazione si fa sempre peg-
Verdi giore. In Spagna, ad esempio, sfiora il 49%, mentre la media europea è 22% e penso che sia
giunto veramente il momento di aprire gli occhi e capire che non possiamo uscire da questa
crisi solo con l’austerità fiscale. Questo per me è limpido.
Quindi, l’accordo raggiunto a gennaio con il Fiscal Compact dai capi di Stato e di gover-
no risolve solo un problema, segnalando ai mercati che ci occuperemo delle nostre finanze
pubbliche. A questo punto, però, serve un passo ulteriore, da parte del movimento europeo
progressista, penso che dovremmo richiedere di più a livello europeo e alcune delle solu-
zioni che vorrei evidenziare farebbero davvero la differenza per l’economia, ma anche per
coloro che sono alla ricerca di un posto di lavoro.
Prima di tutto servono gli investimenti, pubblici e privati, per far ripartire l’economia,
per rimettere in moto l’Europa e creare nuova occupazione. Questa è la cosa più importan-
te. E spero che saremo in grado di mantenere gran parte degli impegni assunti dal punto di
vista degli investimenti. Ad esempio, potremmo utilizzare dei project bonds, obbligazioni
di scopo, per finanziare progetti infrastrutturali europei comuni, progetti legati all’energia,
investimenti per il futuro da cui, alla fine, trarremmo tutti vantaggio. Potremmo anche dare
una spinta alla Banca Europea di Investimento, che ha degli ottimi precedenti e solitamente
implementa progetti che si rivelano di grande successo. Se ogni Stato raddoppiasse la pro-
pria garanzia, avremmo nella BEI uno strumento veramente efficiente per rilanciare l’atti-
vità economica in Europa. Un terzo punto è costituito, ovviamente, dagli eurobond, visto
che nel contesto di questa crisi stiamo parlando di due cose: solidità ma anche solidarietà.
Per noi solidarietà vuol dire avere anche degli eurobond, in una situazione come la pre-
sente, in cui alcuni Paesi hanno tassi di cambio pressoché negativi e altri hanno raggiunto
tassi elevatissimi, dovremmo aiutarci l’un l’altro ad uscire da questa crisi. E io credo che il
solo modo per uscirne davvero sia avere dei bond europei comuni. Mi rendo conto che la
proposta viene da una danese, che non fa nemmeno parte della zona euro, eppure conti-
nuo a pensare che per la zona euro sarebbe un fatto molto positivo e spero che in qualche
modo, anche la Danimarca possa aiutare a risolvere la questione. Penso che sarebbe una
cosa davvero buona.
Un altro punto che mi pare importante menzionare è la tassazione, perché ci concen-
triamo tanto sulla spesa, ma chi si preoccupa dei redditi? Lo dico perché i nostri settori
pubblici hanno bisogno di redditi. Dobbiamo capire che in Europa resta il problema dell’e-
vasione fiscale, dei paradisi fiscali, dei miliardi di euro che lasciano i nostri Paesi ogni anno
e, se riusciamo ad adottare un approccio coordinato rispetto alla politica fiscale, credo che
potremmo raccogliere una grande quantità di entrate da destinare agli investimenti diretti
nell’economia reale e questo sarebbe un risultato molto positivo.
Questi sono dunque alcuni dei punti più significativi, visti da un punto di vista progres-
sista. Questo farebbe un’enorme differenza per la gente, per i giovani. Ma la cosa positiva
che posso dire è che per la prima volta la disoccupazione giovanile è oggetto di enorme
attenzione nei programmi dei capi di Stato e di governo. Per la prima volta abbiamo qual-
cosa di simile a una youth guarantee, presentata per la prima volta in Parlamento con il rap-
porto sulla disoccupazione giovanile da me redatto nel 2010. Il rapporto è stato in seguito
adottato dalla Commissione e, ieri, Barroso lo ha presentato ai capi di Stato e di governo e
questi lo hanno accettato. Così adesso abbiamo un testo che, in definitiva, afferma che ogni
Stato membro deve impegnarsi a promuovere l’iniziativa “youth on the move”, credo che
la chiamino così, anche se io preferisco l’espressione youth guarantee. Il fine dell’iniziativa
è garantire che, a distanza di pochi mesi dalla fine del percorso scolastico, il giovane si veda
offerto un posto di lavoro, uno stage di qualità o una possibilità di formazione superiore.
Questo vuol dire che nessuno deve essere lasciato indietro. Si tratta di un’affermazione
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27. Emilie Turunen importante da parte dei capi di Stato e di governo e la mia sola paura è che possa non
essere implementata adeguatamente. Ma almeno adesso ce l’abbiamo nero su bianco. Ora
dobbiamo impegnarci affinché diventi realtà e faccia davvero la differenza per i più gio-
vani. Questo è il mio augurio per il 2012, per un atteggiamento più progressista, per una
maggiore solidarietà e, auspicabilmente, l’uscita dalla crisi grazie all’adozione del nostro
modello sociale.
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28. Matthieu Meaulle La FEPS è la Fondazione per gli Studi Progressisti Europei. Si tratta di un think tank (o
serbatoio d’idee) del Partito dei Socialisti Europei. Uno strumento analogo è a disposizione
• dei principali partiti all’interno dell’Unione Europea ed è prevalentemente sovvenzionato
dal Parlamento Europeo. In secondo luogo, è importante sottolineare che abbiamo iniziato
a lavorare nel 2008, ma tornerò su questo punto in seguito, poiché abbiamo iniziato a lavo-
rare nel pieno senso della parola solo da quanto la crisi si è fatta davvero tangibile.
Senior Research
Vorrei cominciare il mio ragionamento da un punto relativo alla teoria economica. Io
Fellow FEPS
non sono del tutto convinto che in ogni momento ci si possa trovare ad un punto di
equilibrio. La questione centrale è costituita piuttosto dalla dinamica, e in particolare dalla
dinamica della retribuzione e in questo caso non ci interessa che si raggiunga un equilibrio
o meno, il che è un concetto puramente hayekiano o dell’economia austriaca in generale,
non nota per essere un’economia di sinistra, ma penso che questa idea di tendenza verso
l’equilibrio sia comunque un buon concetto che possiamo utilizzare.
E così giungo al ruolo della FEPS. Siamo partiti nel 2008. La crisi a quel punto era già
concreta e abbiamo voluto pensarla, come socialisti, come una finestra su una serie di op-
portunità.
Sfortunatamente, devo dire che negli ultimi tre anni possiamo dire di avere avuto forse
due mesi di opportunità e tre anni di misure di austerità in vigore. E quello che stiamo
vivendo adesso sono ancora misure di austerità. Le cose non stanno andando nella direzio-
ne che intendevamo e poi c'è da dire che non siamo più nel momento della sinistra o dei
Socialisti.
Innanzitutto abbiamo vissuto l'ascesa, negli ultimi trenta anni, del pensiero liberale.
Nell’accademia, gli anni Settanta e gli anni Ottanta sono stati definiti la rivincita di Hayek
su Keynes. Questo perché prima avevamo Keynes, mentre ora abbiamo Hayek. Abbiamo
avuto Margaret Thatcher, che è arrivata alla Camera dei Lord dicendo: “Adesso leggetevi
Legge, legislazione e libertà di Friedrich Von Hayek”. Poi Ronald Reagan, che è andato al
potere in America dicendo: “Qui c’è troppa burocrazia, qui bisogna far sparire un po’ lo
Stato”.
Dopo trent’anni di esperienza con la teoria liberale siamo arrivati alla crisi e possiamo
concludere in maniera quasi certa che in un sistema liberale non c'è tendenza verso l’equi-
librio. La tendenza verso l’equilibrio dobbiamo determinarla noi. Dobbiamo determinare
questa tendenza verso un equilibrio dinamico, visto che l’equilibrio vero e proprio, come
stavo appunto dicendo, non lo raggiungeremo mai.
Ritengo che dovremmo considerare seriamente il fatto che non si dovrebbe lasciare il
mercato in balia delle onde. I mercati dovrebbero seguire le regole che noi gli imponiamo,
il programma che noi vogliamo, la nostra visione della società.
Penso che la crisi derivi da tre principali squilibri. Uno che non viene menzionato è lo
squilibrio salariale che, a mio avviso, è il principale. In 24 Stati membri su 27, si ha una di-
minuzione della componente della retribuzione nel PIL, ed è molto forte. Poi, allo stesso
tempo, c'è un'ondata “filosofica” che dice che si deve deregolare il mercato, perché quando
si regola il mercato, si interviene nell’economia e si determina un movimento dei prezzi nel-
la direzione sbagliata, dando gli incentivi sbagliati. E si arriva alla crisi. Poi si dice che non
si dovrebbe intervenire, che si dovrebbe deregolare il mercato finanziario, ogni mercato, e
così, da un lato, il salario diminuisce, e in tal modo dovrebbe aumentare l’impiego, intanto
si ha però la deregolamentazione del mercato, che ci consente un ritorno del 50%.
La divisione Investment Banking della Société Générale ha avuto una redditività del
51% nel primo semestre del 2007. Normalmente, la redditività di un’azienda è del 3%,
quando va bene. Quindi, prendiamo in considerazione un qualsiasi imprenditore, le retri-
buzioni diminuiscono, il che è un bene ai fini della sua attività commerciale, così i profitti
possono aumentare, però i prodotti non vengono venduti ai dipendenti ma alla collettività
e, allora, l’imprenditore è consapevole che la filosofia imperante è quella di diminuire le
retribuzioni, e allora si domanda: “Mi conviene investire? Se i miei colleghi si comportano
come me, le retribuzioni diminuiscono”. E, allo stesso tempo, uno si ritrova a dirsi: “C’è
anche un altro modo di investire i soldi: metterli sul mercato finanziario, dove potrò avere
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