1. PROF. MOLINARI III LEZ. 20/11/2008
Il primo momento per far partire la coagulazione è che ci sia la rottura del
vaso, un’interruzione dell’endotelio.
Quando si apre l’endotelio le cose che stanno nel sangue tra cui le piastrine
riescono a vedere cosa c’è sotto l’endotelio che normalmente non è visibile.
Questo è il momento per cui le piastrine da solubili nel sangue possono
attaccarsi all’endotelio, cioè quando vedono il sottoendotelio e le componenti
del sottoendotelio tra cui la più importante è il collagene. Quindi perché le
piastrine da forma discoidale possano cominciare a fare l’aggregato
piastrinico è fondamentale che possano vedere il sottoendotelio ed
appiccicarsi.
Quindi la piastrina fa due cose: cambia di forma, da discoidale a ragno e
deve avere la possibilità di guardare il collagene che rappresenta il punto di
appiccicosità delle piastrine, questa è la prima fase.
Mentre comincia l’aggregato comincia anche la situazione di attivazione della
via estrinseca perché il tessuto è rovinato, quindi l’endotelio è alterato e parte
la via estrinseca, già si sta attivando la coagulazione. Queste fasi vanno
studiate nei laboratori specializzati.
La seconda fase è l’attivazione piastrinica, perché abbiamo detto che la prima
fase dell’esmostasi è la formazione del trombo bianco.
Perché le piastrine che normalmente si schifano tra di loro improvvisamente
si riconoscono, si appiccicano non solo al vaso ma anche tra di loro?
Perché cambiano completamente non solo di forma, ma anche perché sulla
loro superficie cominciano ad essere visibili una serie di molecole che hanno
tra le altre cose la specifica funzione di permettere questo riconoscimento.
Fino a quando le piastrine sono nel sangue a riposo, sulla loro superficie non
c’è nulla, sono assolutamente prive di molecole che possono permettere
l’aggancio. Quando la piastrina deve fare l’aggregato modifica la sua forma,
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2. qualcosa le dirà di modificarsi, tra cui il collagene e quindi cominciano a
comparire sulla superficie una serie dimoleole tra cui una molecola che è in
grado di riconoscere il fibrinogeno.
Sulla piastrina si espongono tante molecole, tanti recettori per il fibrinogeno
ed è proprio il fibrinogeno la molecola che permette l’aggregazione, perché il
fibrinogeno è fatto in una maniera molto particolare, è una delle proteine più
grosse presenti nel siero, ma ha una particolare caratteristica di
configurazione perché è una molecola allungata e le due estremità di essa
sono uguali. Da un lato e dall’altro dei due estremi una molecola di
fibrinogeno può riconoscere due recettori, uno per una piastrina e l’altro per
un’altra piastrina, quindi il fibrinogeno fa da ponte. Questo permette alle
piastrine, tramite il fibrinogeno di riconoscersi, quindi da un lato si legano al
collagene del sottoendotelio e mediante il fibrinogeno e il loro recettore
possono aggregarsi.
Esiste nell’ambito delle malattie piastriniche, forse l’unica importante che
riguardi le piastrine che è un difetto di aggregazione piastrinica dovuta proprio
alla mancanza di questo recettore.
Quindi pazienti che hanno mancanza, carenza di questo recettore, pur
avendo il fibrinogeno in concentrazione normale e tutti i fattori della
coagulazione normali, hanno deficitaria la prima parte della coagulazione,
non è che non possono, hanno difficoltà a formare l’aggregato delle piastrine.
La mancata aggregazione piastrinica compromette poi tutta la coagulazione.
La piastrina attivata non solo ha i recettori per il fibrinogeno, ma ha tante altre
cose. Le piastrine sono delle strutture ricche di granuli pieni di cose e tra le
altre cose sono depositi e per fibrinogeno e per fattori della coagulazione.
Quindi la piastrina diventa una riserva importante quando la coagulazione
deve partire perché butta fuori il contenuto di questi granuli e alcune di queste
cose vengono espresse sulla superficie ed altre vanno nel sangue.
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3. Il fibrinogeno verrà buttato fuori e reso disponibile a parte quello che già è nel
sangue per fare l’aggregato.
La cosa fondamentale è che sulla piastrina attivata, i fattori della
coagulazione che si stanno intanto attivando si vanno a legare. La cosa più
importante nella coagulazione è la localizzazione, cioè il processo si deve
fare là dove c’è la lesione, là dove c’è l’aggregato.
Chi localizza il processo?
Le piastrine perché permetteranno ai fattori della coagulazione di legarsi
sulla loro superficie. Quindi di fatto la formazione del coagulo cioè della
fibrina andrà a finire sopra queste piastrine aggregate.
Se viene compromessa l’aggregazione, il paziente che ha una piastrinopatia
cioè non una carenza delle piastrine, ma un deficit funzionale, piastrinico
come quelli che hanno un deficit di aggregazione non solo vediamo
compromessa la prima parte della coagulazione, ma ovviamente vediamo
compromessa anche la seconda parte, quindi tutta la coagulazione verrà
compromessa.
Questi sono pazienti che possono avere una condizione emorragica es. la
malattia di Clazmen, deficit di aggregazione piastrinica.
Le piastrinopenie e piastrinopatie generalmente non sono particolarmente
gravi, tranne qualche situazione non compromettono quasi mai la vita del
paziente, così come le malattie da deficit della coagulazione come l’emofilia;
ma sono abbastanza rare e complicate da riconoscere perché non molti
laboratori sono attrezzati per riconoscere e fare i test che andrebbero fatti per
definire questa condizione patologica.
TERZA FASE: attivate via estrinseca e intrinseca per formare la fibrina.
La fibrina viene formata da trombina il fattore due che digerisce il fibrinogeno
e la trasforma in fibrina.
L’aggregato della fibrina è tutto sulle piastrine (ecco perché il piatto di
profitterol perché tutto si concentra là dove c’è l’aggregato). Dopo di che c’è
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4. la fase della fibrinolisi, fatto molto importante perché compromessa questa
fase possiamo avere e una condizione emorragica e una condizione
trombotica.
Abbiamo formato il cioccolato, la fibrina si è formata si è polimerizzata, ha
fatto questa specie di rete che mantiene le piastrine, l’endotelio nel frattempo
si sta riformando quindi il coagulo deve essere eliminato.
Come viene eliminato? Nel sangue esiste un’altra proteina in forma inattiva
che è il PLASMINOGENO che si trasforma in PLASMINA, enzima cardine,
la cui azione viene mimata dall’urochinasi o dalla streptochinasi.
Quindi l’urochinasi o la streptochinasi fanno esattamente quello che fa la
plasmina, cioè digerire la fibrina e formare i FIBRINOPEPTIDI che vengono
richiesti al laboratorio PDF.
Perché il plasminogeno viene trasformato in pasmina?
Perché il plasminogeno come tutto quello che riguarda la coagulazione è nel
sangue in forma inattiva, improvvisamente quando richiesto si trasforma in
qualche cosa di attivo.
Chi trasforma il plasimogeno inattivo in plasmino attiva?
E’ qualcosa che viene prodotto dalla cellula endoteliale che rappresenta la
cellula fondamentale sia nel senso di promuovere che di inibire tutto.
Chi attiva il plasminogeno ? La cellula endoteliale quando sta bene o
quando non deve partire, non ci deve stare il coagulo produce continuamente
una cosa che si chiama TPA ossia attivatore del plasminogeno cioè una
molecola che agisce sul plasminogeno trasformandolo in plasminaa.
La cellula endoteliale, cellula bifunzionale, dal momento che serve che il
coagulo non venga tolto, produce una cosa esattamente all’opposto, molto
importante, perché da solo diventa per il laboratorio un marcatore di patologia
trombotica che è il PAI inibitore dell’attivatore del plasminogeno.
Il PAI blocca il TPA per cui non si forma la plasmina.
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5. Ritrovare il PAI da solo aumentato in circolo vuol dire che il paziente è a
rischio molto alto di fare trombosi.
Tutti i pazienti che hanno una trombosi in atto che hanno fatto un processo
trombotico, che sono ad alto rischio di fare trombosi, hanno certamente
questa molecola (non viene molto richiesta dal clinico e i laboratori non sono
necessariamente attrezzati a farlo) che da sola è così importante che diventa
un marcatore di patologia trombotica. Quindi andrebbe richiesto più di quello
che di fatto accade.
“Laboratorio”
Possiamo distinguerli fondamentalmente in due grossi gruppi.
Un primo gruppo che nel gergo comune vengono definiti esami di base o
anche di I livello.
Poi ci sono gli esami di II livello o di approfondimento.
Non è che gli uni siano meno importanti degli altri, ma vanno chiesti in
momenti separati perché hanno un significato e un ruolo differente.
E’ chiaro che gli esami di laboratorio dovrebbero essere effettuati e richiesti al
laboratorio dopo aver fatto un’accurata anamnesi, perché oggi si parla
piuttosto che di esami di laboratorio, di percorsi cosiddetti diagnostici, quindi
dovrebbero essere richiesti dal laboratorio indagini mirate.
La logica della routine è che solitamente il paziente soprattutto che arriva
come primo ingresso o in un day hospital, o in un reparto, o in urgenza gli si
chieda il cosiddetto profilo d’ingresso che sicuramente rientra tra gli esami di
base.
Per quanto riguarda l’emostasi e la coagulazione, vengono definiti di I livello,
nell’ambito della valutazione piastinica solitamente la conta delle piastrine
effettuata insieme all’esame emocromo citometrico. Anche se la conta
piastrinica ha forti limiti perché ci denota solo se il paziente ha una
piastrinopenia, non ci dice assolutamente nulla sulla funzione delle piastrine.
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6. Ci possono essere pazienti che hanno un numero assolutamente normale di
piastrine, ma che hanno un deficit funzionale, le piastrine di questi soggetti
non sono in grado di aderire al vaso, i cosiddetti difetti di adesione oppure
non sono in grado di aggregare allora si parlerà di difetti di aggregazione
molto ma molto più gravi di una piastrinopenia.
Viaggiamo con una vita assolutamente normale, pazienti piastrinopenici
anche con 20.000 piastrine per millimetro cubo che non hanno assolutamente
problemi, neppure sanguinamento
Questo per dire che la piastrina ha una potenzialità enorme di sopperire a
carenza midollare per esempio, non necessariamente dando sintomatologia
di tipo clinico.
Il sintomo tipico della carenza di piastrine è dato dalle petecchie, piccole
macchioline visibili sulla cute, ma che si formano anche su tutti gli organi.
Una piastrinopenia per definizione per quanto grave difficilmente dà un
grosso stravaso emorragico e comunque non è una perdita di sangue tanto
importante da compromettere la vita tranne qualche rarissima eccezione.
Fondamentalmente proprio perché non mettano in pericolo la vita del
paziente, vengono un po’ trascurate nei reparti non specializzati come
l’ematologia. Ma è pur vero che un paziente con 20.000 piastrine fa paura e
si chiede immediatamente la consulenza ematologia.
Gli esami diagnostici di base servono per inquadrare il paziente e quindi
questi esami devono essere alla portata di tutti i laboratori; non devono
essere in numero particolarmente elevato anche perché sono quasi tutti gli
stessi esami che si richiedono nel paziente in urgenza o in emergenza.
Quindi per questo motivo non possono essere né molto sofisticati perché
questi richiedono molto tempo; né devono essere particolarmente eccessivi di
numero perché il paziente in urgenza o emergenza per legge deve avere la
risposta entro 30-60 minuti; e la cosa più importante è che devono essere di
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7. facile esecuzione proprio perché richiesti in condizioni di urgenza devono
essere alla portata di tutti i laboratori compreso l’eventuale presidio estivo.
Quindi devono essere di rapida esecuzione, pochi, facili, alla portata di tutti.
Fatti gli esami d’ingresso di I livello, entra la seconda fase che è quella
dell’esame diagnostico di approfondimento che ci permette quindi di arrivare
alla decisione clinica cioè alla diagnosi definitiva perché in realtà i primi esami
dovrebbero giustificare un prospetto diagnostico e darci certezze o contestare
un’ipotesi diagnostica. Gli esami di approfondimento dovrebbero permettere
al medico di definire la diagnosi e quindi in quanto tale poi poter fare terapia.
L’esame di laboratorio in una fase successiva ovviamente per monitorare la
risposta terapeutica. L’esempio più semplice tra esame di I e II livello lo
possiamo fare banalmente con le anemie. Esame di I livello è sicuramente
l’emocromo citometrico tanto è vero che rientra tra gli esami che i pazienti
fanno all’ingresso.
L’esame emocromo citometrico ci definisce senz’altro, se guardo il valore
dell’emoglobina, se il paziente è anemico o no. Ho fatto diagnosi solo
guardando il livello di emoglobina.
Per definizione clinica medica viene definito anemico un paziente che ha una
ipossigenazione e che ha una ridotta concentrazione di emoglobina
circolante.
Piuttosto che guardare il numero di globuli rossi va guardata l’emoglobina,
quindi questo mi dice che il paziente è anemico. Che altro posso sapere
dall’esame emocromo itometrico? Una serie di altri parametri come il volume
globulare, la concentrazione dell’emoglobina etc.
Facciamo un esempio: l’emocromo, esame di I livello, di un paziente mi esce
con una diagnosi di anemia microcitica. Quindi ho guardato il volume
globulare che è al di sotto del valore normale quindi è microcitemica e il
valore dell’emoglobina.
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8. Più di tanto l’emocromo non mi può dire, in quanto non può dirmi di che tipo
di anemia si tratta, che tipo di anemia microcitica è, mi dice solo che è
microcitica e questo è il I livello. L’approfondimento diagnostico mi impone di
dover capire che tipo di anemia microcitica è.
Quindi faccio esami di II livello e cioè la Ferro priva e la Talassemia. Questi
sono esami di approfondimento che mi dicono se nell’ambito delle
microcitiche c’è carenza di ferro o difetto emoglobinico.
Quindi chiederò al laboratorio tutto il quadro marziale se sospetto che è
un’anemia da carenza di ferro.
Una ragazza giovane che sta a dieta, che si nutre male oppure un paziente
anziano che si nutre male quasi certamente può avere un’anemia microcitica
da carenza di ferro.
Se sospetto una talassemia chiedo al laboratorio le indagini specifiche
sull’analisi dell’emoglobina.
Il primo livello quindi mi dà conferma o meno del mio sospetto diagnostico, il
paziente poteva essere pallido ma non necessariamente anemico, quindi
l’emocromo mi dice se quel pallore o la tachicardia, la stanchezza è dovuta
ad una anemia. Definisco che tipo di anemia è, poi vado avanti con gli esami
di II livello. Questo serve per tutte le indagini di laboratorio, anche nell’ambito
della coagulazione.
Nello screening emocoagulativo di I livello: PT, PTT o aPTT, fibrinogeno. Il
PT indaga la via estrinseca, l’aPTT indaga la via intrinseca. Il fibrinogeno non
solo è importante perché è fondamentale per fare la fibrina, ma è importante
anche nella fase piastrinica perché permette ………….
Nell’esperienza sono molto più i casi di iperfibrinogenemia che casi di
ipofibrinogenemia (carenza di fibrinogeno).
Altre indagini che rientrano nel I livello sono quelle che riguardano gli
anticoagulanti: il dosaggio dell’antitrombina III, il dosaggio della proteina C, il
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9. dosaggio della proteina S che aiuta la C a funzionare meglio e quindi rientra
nei dosaggi.
La proteina C funziona perché degrada, distrugge il fattore V e il fattore VIII.
Ci sono delle condizioni genetiche da ricercare nei casi in cui c’è una forte
familiarità, nel paziente giovane arriva già con infarto, trombosi etc. in cui è
da ricercare oltre ai tre fattori (antitrombina III, proteina C ed S), bisogna
chiedere al laboratorio l’ATC resistents o fattore V di Leden.
La proteina C abbiamo detto degrada il fattore V e il fattore VIII, un paziente
può essere a rischio di fare trombosi o perché la proteina C è poca e funziona
male o perché, cosa che avviene con più frequenza, perché su base genetica
e trasmessa dal genitore al figlio, può avere un rischio di fare trombosi non
perché la proteina C non sia capace di funzionare perché ne sia poca, ma
perché il substrato di questa proteina cioè il fattore V è sbagliato ed oggi si sa
che i pazienti che fanno trombosi possono avere una mutazione del gene del
fattore V che nel laboratorio viene chiamato come fattore V di Leden o di
Leda (scopritore e paziente portatore).
La proteina C c’è, viene normalmente sintetizzata in quantità giusta, quando
deve attaccare il fattore V non lo riesce ad attaccare perché il fattore V è
sbagliato. Questo test si fa in laboratorio, oggi si può fare direttamente lo
studio della sequenza del fattore V e vedere che è mutato.
Ma poichè questo studio, sequenza del fattore V, non è alla portata di tutti i
laboratori, ma nella maggior parte dei laboratori è alla portata lo studio della
resistenza alla proteina C.
Difatti questo test, prende una proteina esogena che sicuramente funziona e
saggia questa proteina C con il fattore V del paziente. Se il fattore V del
paziente è normale verrà degradato, se il fattore V del paziente è mutato ci
sarà una resistenza all’azione della proteina C, per questo motivo si chiama
resistenza alla proteina C.
Un altro dosaggio molto importante è il dosaggio dell’OMOCISTEINA.
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10. Oggi l’omocisteina è diventata un marcatore molto, molto sensibile di rischio
cardiovascolare. L’omocisteina si forma del metabolismo intermedio quindi
dalle proteine.
Normalmente accade che l’omocisteina poiché è tossica (soprattutto per la
cellula endoteliale, la insulta) viene rapidamente trasformata in METIONINA
(epatoprotettore Samyr 100). Questo passaggio che sembra così semplice
richiede una serie di enzimi che introduciamo a livello epatico e che servono
per trasformare l’omocisteina in metionina.
Quando può aumentare l’omocisteina quindi?
L’omocisteina deriva dal prodotto del metabolismo intermedio e poiché la
sua trasformazione in metionina richiede che il paziente abbia una, assuma
una quantità giusta di vitamine come B12 e folati (la cui carenza dà anemia
perniciosa).
Quindi un paziente che ha anemia perniciosa è anche un paziente che può
avere l’omocisteina alta ad alto rischio di fare infarto perché l’omocisteina si è
visto che è un marcatore di rischio cardiovascolare. Quindi un paziente con
carenza di folati e B12 può avere l’omocisteina quindi carenze di tipo
alimentari.
Per un paziente che fa questo dosaggio, la prima cosa che bisognerebbe fare
ancora prima di dosare folati e B12 è darglieli tanto male non fanno B12 e
folati e poi rifare il dosaggio e vedere se l’aggiunta di B12 e folati con la
dieta ha reso normale la concentrazione di omocisteina.
E’ molto pericoloso il livello omocisteina, tant’è vero che piccole variazioni
mettono ad alto rischio il paziente di fare infarto. Oggi per prevenzione tutti i
pazienti che fanno omocisteina fanno comunque folati e B12.
Questa è una condizione secondaria cioè dovuta a carenza alimentare.
C’è una condizione molto più importante ed anche abbastanza comuni nella
popolazione che è invece una mutazione di uno di quegli enzimi coinvolti
nella trasformazione di omocisteina in metionina. Ci sono persone che
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11. possono essere portatori di una mutazione per fortuna non in forma grave per
cui hanno un rallentamento degli enzimi che riescono a metabolizzare
l’omocisteina in metionina,
Anche se l’errore è su base genetica, si eredita o dal padre o dalla madre; il
problema diventa serio se si eredita da tutti e due (omozigote) il paziente
diventa più attento da guardare.
Nelle forme eterozigote come nel 30% della popolazione perché è una
mutazione piuttosto frequente, non è molto grave perché non si è pazienti a
rischio anche se non farebbe male assumere B12 e folati per far funzionare
quel 50% di enzima che rimane, un po’meglio.
L’omocisteina è un po’ complicato da dosare in maniera giusta, è un po’
come la prolattina perché è una molecola che rapidamente si può alterare,
metabolizzare, quindi i laboratori dovrebbero essere attrezzati per trarlo in
maniera corretta.
Il paziente cardiovascolare una delle prime cose che gli si richiede è proprio il
dosaggio dell’omocisteina.
Pur essendo l’onocisteina dosaggio un indagine di I livello, è ovvio che non
va richiesta a tutti i pazienti che giungono in ospedale o in ambulatorio, ecco
perché ci vuole l’anamnesi. Questo tipo di dosaggio e soprattutto quello degli
anticoagulanti lo vado a fare nel paziente per cui ho il sospetto diagnostico
che possa avere una patologia di tipo trombotico, mentre invece PT, PTT e
fibrinogeno lo faccio a tutti.
Così pure il dosaggio dell’omocisteina se l’emocromo mi dice che è un
paziente sano che non ha neppure un’anemia macrocitica ed è giovane, è
difficile che faccio l’onocisteina . Sicuramente andrebbe fatto in un paziente
anziano che ha un volume globulare degli eritrociti più alto del normale,
mangia male perché si nutre male, quindi sicuramente va fatto.
La ricerca degli anti-lupus è una indagine di I livello in pazienti selezionati,
non va fatto in un paziente che arriva in day hospital.
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12. Si chiamano antilupus perché per la prima volta furono identificati in un
paziente portatore di lupus eritematoso sistemico, quindi si riteneva che solo
questi pazienti potessero produrre auto anticorpi (senza avere il Lupus) anti
lupus.
E’ rimasto il nome anche se la fascia di pazienti si è molto allargata.
Sono così importanti gli anticorpi anti lupus perché se guardo il loro
meccanismo di azione, perché sono dannosi dovrei pensare che questi
anticorpi anti Lupus vengono fatti ai pazienti a rischio emorragico.
La membrana delle piastrine permette l’aggancio dei fattori della
coagulazione e quindi permette di fatto la formazione del coagulo. Si è visto
in laboratorio che i pazienti che hanno gli auto anticorpi anti lupus non
riescono a coagulare bene perché questi anticorpi anti Lupus si vanno a
legare alla membrana delle piastrine ed impediscono ai fattori della
coagulazione di potersi attaccare sulle piastrine quindi come tale un paziente
che ha anticorpi anti Lupus dovrebbe essere un paziente a rischio
emorragico. Dico dovrebbe perché poi in realtà questi autoanticorpi vengono
richiesti fondamentalmente o almeno molto spesso dai reparti di ginecologia,
perché si è visto che possono essere coinvolti negli aborti ripetuti
(poliabortività). Anche se in queste donne si fanno anche tutti gli altri fattori e
soprattutto gli anticoagulanti.
Perché si richiedono gli anticorpi anti lupus?
Perché si è visto che gli anticorpi anti Lupus oltre a impedire la coagulazione,
la formazione del coagulo, hanno anche la capacità di legarsi agli
anticoagulanti e di bloccarne la funzione. Quindi un paziente che ha anticorpi
anti Lupus è un paziente a rischio di trombosi. Questo è tanto vero nella
donna in gravidanza con polabortività dove si è visto che gli anticorpi anti
Lupus bloccando gli anticoagulanti determinano poi di fatto la morte
intrauterina spesso per trombosi della placenta (piccole trombosi), poiché la
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13. placenta è l’organo di nutrimento per il feto questo muore per questo motivo,
perché la placenta non riesce più a nutrirlo in maniera sufficiente.
Quindi la ricerca di anticorpi anti Lupus viene fatta nelle donne in questa
condizione per escludere la possibilità, la presenza di infarti multipli a livello
placentare.
Ovviamente vengono anche richiesti in pazienti con patologie autoimmuni.
Fino a 5-6 anni fa non si sapeva l’esistenza della proteina S, poi si è visto che
la proteina S è imporatante.
I pazienti a rischio trombotico sono diversi, difatti i pazienti con infiammazioni
croniche (lupus, artite reumatoide o processi infiammatori cronici) sono ad
alto rischio di fare trombosi per una serie di condizioni perché producono
citochine, interleuchine infiammatorie,oppure perché hanno spesso un
endotelio attivato in senso protrombotico per l’azione delle interleuchine. In
particolare si è visto che nei processi infiammatori cronici il complemento
(frammenti C3,C4) è attivato, quindi i frammenti sono alti.
Che correlazione c’è tra la proteina S, l’infiammazione e quindi l’attivazione
del complemento?
Si è visto che alcune frazioni del complemento (C3B soprattutto) possono
essere legate alla proteina S.
Il complemento è importante nella risposta infiammatoria perché in qualche
modo coopera alla difesa.
Il C3B ad esempio può legare la proteina S e inattivarla.
Poiché la proteina S aiuta la proteina C, in un paziente che inattivata la
proteina S avrà una proteina C meno funzionate, quindi una condizione di
difesa verso la coagulazione ridotta e quindi è un paziente con maggiore
rischio di fare trombosi.
La proteina S quindi andrebbe dosata sicuramente ai pazienti con
infiammazione cronica, a cui andrebbe fatto non tanto il dosaggio quantitativo
della proteina C, ma piuttosto stabilire se la proteina C è in grado di
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14. funzionare e come funziona. Altrimenti il paziente va tenuto in osservazione e
messo in terapia se non proprio con anticoagulanti, almeno con l’aspirina che
in qualche modo rallenta l’attivazione di tutta la cascata coagulativa.
Fremo restando che tutti i fattori della coagulazione possono essere
singolarmente richiesti, quando è necessario al laboratorio e questo si fa
normalmente nel paziente che sanguina.
Il paziente che sanguina, dopo aver fatto PT, PTT, fibrinogeno, probabilmente
avrà il PT allungato, ma un fibrinogeno normale, a questo punto è d’obbligo
andare a capire perché
ha un PT allungato. Quindi probabilmente ha la via intrinseca compromessa e
dovrò cercare di capire perché sanguina (ha una carenza del XII, XI, IX, VIII).
Il laboratorio aiuta molto perché può singolarmente misurare la quantità di
fattore e dire se c’è una carenza ad esempio di fattore VIII non riconosciuta.
Si è portati a pensare che chi ha carenza dei fattore VIII abbia l’emofilia con
stravasi emorragici a livello articolare, nelle fasce muscolari, molto dolorosi e
profondi. Il ginocchio tumefatto che in un paziente piastrinopenico non c’è.
La storia clinica è importante, spesso l’emofilico è un bambino che alla prima
estrazione del dentino, alla prima caduta, al taglio ha uno stravaso
emorragico importante come quello articolare che è un emarto.
Ci sono però delle condizioni molto più subdole esempio un paziente adulto,
dove viene esclusa l’emofilia perché diagnosticata spesso in età pediatrica,
che ha un sanguinamento tale che fa pensare al paziente emofilico. Allora il
laboratorio ci aiuta perché ci sono delle condizioni particolari.
Il talassemico ad esempio per effetto delle politrasfusioni può cominciare a
produrre gli inibitori del fattore VIII, sostanze che bloccano l’attività del fattore
VIII, quindi la risultante qual è che chiedendo al laboratorio PT e PTT
sicuramente allungato, posso chiedere tutti i fattori e vedere se sono in
quantità sufficiente se non lo sono posso supplire perché possono essere dati
come medicamento.
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15. Ci sono delle condizioni molto più complicate che il laboratorio può scoprire,
dove il paziente sembra un emofilico, non è emofilico perché è un adulto,
vado a dosare il fattore VIII ed è normale posso fare qualche altra cosa.
Questi pazienti hanno emorragie importanti molto simili a quelle di un
emofilico, in cui la causa non è la carenza del fattore, ma la presenza di
inibitori.
Come si curano questi pazienti? Si devono scoprire e fare la plasmaferesi,
togliendo l’inibitore presente nel sangue. Solo il laboratorio può aiutare in
questo.
TEST DI II LIVELLO
Ci sono alcuni pazienti che fanno trombosi ripetute perché hanno inibitori
della plasmina (cioè di quell’enzima che deve eliminare il coagulo) il dosaggio
è l’ α 2 antiplasmina, TPA e PAI sono l’attivatore del plasminogeno e l’altro
l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno.
- Il fattore piastinico III è un fattore liberato dalle piastrine attivate quelle
impegnate nella coagulazione.
Le piastrine resping a riposo non lo producono, quindi trovarlo alto nel
sangue il fattore III significa che da qualche parte si sta facendo un
aggregato piastrinico. Potrebbe diventare importante saperlo se penso
che il paziente sta facendo un coagulo anomalo, una aggregazione
piastrina anomala posso somministrare quindi aspirinetta come
prevenzione.
- il tempo di trombina e tempo di respilase; abbiamo detto che le vie
della
coagulazione sono due, ad un certo punto si incrociano e nella fase
terminale né il PT né l’aPTT riescono a discriminare se ci sono dei
difetti, soprattutto né l’uno, né l’altro riescono a capire se ci sono difetti
nell’ultima fase, cioè nel momento in cui la trombina deve agire sul
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16. fibrinogeno. Allora ho la necessità, in alcuni casi di capire se la
trombina funziona bene, quindi in questo caso, essendo la trombina
l’ultimo enzima in grado di fare un coagulo accettabile, quindi nelle
condizioni in cui io, da un punto di vista clinico continuo a pensare che
il paziente possa avere un difetto della coagulazione, ma PT e PTT
non mi aiutano potrei chiedere al laboratorio il tempo di trombina.
Il tempo di trombina misura il tempo che la trombina impiega per
trasformare il fibrinogeno in fibrina.
Quindi quando posso avere il PT allungato? O se la trombina non funziona
bene o nelle condizioni di ipofibrinogenemia, ma in questo caso me l’ha già
detto il dosaggio di I livello o quando c’è la condizione molto più subdola che
è la disfibrinogenemia, cioè un’alterazione del fibrinogeno per cui la trombina
non riesce a funzionare.
Quando diventa ancora importante la trombina? Cioè il tempo di trombina?
In realtà insieme al tempo di trombina che misura il tempo di formazione del
coagulo dopo l’aggiunta di trombina che compero che funziona…………
Questo test non si può eseguire, non ha senso farlo sui pazienti che fanno
eparina perché l’eparina blocca la trombina per cui il test sarebbe invalidato
per l’azione dell’eparina che il paziente sta assumendo, sulla trombina che ho
aggiunto. Ma se ho la necessità di fare il test al paziente che sta facendo
eparina, allora posso utilizzare un altro test, il
- TEST DI RESPILASE che è identico al tempo di trombina perché la
respilase è un enzima come la trombina che agisce sul fibrinogeno
trasformandolo in fibrina, ciò che è diverso è che la respilase non è
inibita dall’eparina.
Nel paziente in trattamento eparinico, faccio PT che sicuramente uscirà
modificato per l’azione dell’eparina, però potrebbe uscire modificato
anche perché il paziente ha una disfibrinogenemia, quindi il fatto che
prende l’eparina non esclude che possa avere un’alterazione del
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17. fibrinogeno; in tutti e due i casi uscirebbe allungato. Per capire se
l’allungamento è dovuto solo all’eparina o anche ad una condizione di
disfibrinogenemia faccio anche l’altro test che non viene inibito
dall’eparina per cui dovrebbe uscire normale,.
Se ho il test di respilase normale e il PT allungato, chiedo al paziente
se assume eparina, non mi preoccupo più di tanto. E’ ovvio che se tutti
e due escono allungati vuol dire che il paziente va ulteriormente
studiato.Poiché la disfibrinogenemia compromette l’aggregazione
piastrinica e anche tutta la fase della coagulazione.
TROMBOCITOPENIA = petecchie emorragiche sulla cute visibili, ma presenti
anche su
tutti gli organi
GRAVE TROMBOCITOPENIA= ematoma importante, una piastrinopenia
così grave è
spesso accompagnata da piastrinopatia (poche
piastrine e
funzionano anche male).
EMOFILIA = cute preservata, localizzazione profonda ecco perché dolorosa,
perché fa
pressione ad esempio sull’articolazione del ginocchio,
ematoma
intrafascicolare.
PAZIENTE EPATOPATICO= emorragie importanti perché il fegato
compromette la sintesi
dei fattori della coagulazione e degli anticoagulanti.
FOTO: il paziente produce autoanticorpi contro il fattore VIII deve fare
plasmaferesi e sostituzione di fattore VIII.
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18. Nelle malattie autoimmuni una delle condizioni di terapia generalmente è la
plasmaferesi.
“CARTELLA INFORMATIZZATA “
“FIRMA DIGITALE”
Per legge le strutture devono essere informatizzate, nel senso che tutti i
reparti dovrebbero essere collegati in maniera tale che ci sia lo scambio del
dato del paziente.
Ovviamente ci sono le chiavi di accesso, ci sono vari livelli di accesso, non
tutti possono guardare tutto, ci sono dei dati visibili solo ad alcuni livelli.
Questo pone dei problemi, ricadrà addosso qualora dovesse partire perché il
comparto infermieristico in genere, ma anche i medici non vogliono che parta
perché per lo meno i primi anni sarà un doppio lavoro (occuparsi del
cartaceo e passare i dati al PC).
Il problema della firma digitale è ancora più serio perchè non si è ancora
chiarito se per caso la firma sulla radiografia deve essere passata, chi si
prende la responsabilità? Chi firma? Chi manda la radiografia? Chi la legge?
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