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BOZZA




   IL PIANETA VIOLATO




   Uno strumento di comprensione dei meccanismi di danno
ambientale
   Per una visione responsabile del comune futuro




   (A cura di Alberto Castagnola)

                                                       1
Roma, giugno 2011


INDICE

Presentazione


1.    La grande nube
2.    Aumento della temperatura causata da smog e consumo petrolio e gas
3.    Scioglimento dei ghiacci
4.    Aumento livello del mare
5.    Perturbazioni climatiche sempre più catastrofiche
6.    Aria cattiva nei centri urbani
7.    Ampliamento del buco nell’ozono
8.    Prosciugamento dei fiumi e dei laghi
9.    Scarsità idrica e abbassamento falde acquifere
10.    Desertificazione (siccità, guerre per il controllo delle fonti)
11.   Acidificazione e inquinamento degli oceani
12.   Il declino delle risorse ittiche
13.   La distruzione delle barriere coralline
14.    La riduzione delle foreste
15.    Le piogge acide
16.    Il degrado dei pascoli
17.    L’erosione del suolo
18.   L’inquinamento dell’acqua
19.   L’inquinamento da pesticidi, fertilizzanti e altri prodotti chimici
20.   L’estinzione delle specie animali e vegetali
21.   La scomparsa di una specie interrompe le catene alimentari
22.   L’aumento della omogeneità genetica
23.   La diffusione di organismi geneticamente modificati
24.    La cementificazione di fiumi, coste e aree urbane
25.   L’aumento dei rifiuti

                                                                            2
26.   L’aumento dei rifiuti tossici e industriali
27.   L’accumulazione delle scorie nucleari
28.   L’inquinamento da inceneritori e gassifica tori
29.   Consumo eccessivo di materie prime industriali
30.   Consumo eccessivo di materie prime agricole per scopi industriali
31.   L’aumento di metalli pesanti nel sangue
32.   Aumento delle malattie causate da danni ambientali
33.   Diffusione malattie da virus ancora non curabili
34.   Aumento obesità e relative malattie
35.   Ambiente poco da “macho”
36.   Aumento rottami spaziali
37.   Aumento polveri sottili nell’aria
38.   Aumento delle due “isole” di plastica nel Pacifico
39.   L’aumento dei rifiuti elettronici
40.   L’inquinamento da radon
41.    Inquinamento acustico
42.    Inquinamento urbano
43.    Inquinamento da amianto
44.    Inquinamento da “coltan”
45.    Rischi connessi alle nanotecnologie
46.    I danni della produzione di agro carburanti
47.    La morte delle api
48.    Inquinamento elettromagnetico
49.    Inquinamento luminoso
50.    L’imbottigliamento delle acque da permafrost
51.    Le conseguenze per l’ambiente dei rifiuti alimentari


Danni emergenti
52.    Sfruttamento dei giacimenti di litio
53.    Mercurio da lampadine
54.    Il controllo strategico sulle terre rare
55.    Il metano idrato sotto il permafrost

                                                                          3
56.     Batteri mutanti resistenti agli antibiotici
57.     Quanto inquina Internet
58.     I parabeni, conservanti rischiosi



Indicazioni bibliografiche
Strumenti audio visuali
Sitologia




                                                      4
PRESENTAZIONE


      Quanto state per iniziare a leggere nasce come semplicissimo strumento per la formazione,
cioè come una lista dei principali meccanismi di danno arrecati al pianeta da distribuire ai
partecipanti dei corsi, utile per poter seguire il docente e come promemoria personale; quindi un
indice meno che sommario per poter leggere una situazione globale sempre più grave e complessa.
      Nei mesi successivi al primo corso in cui è stato utilizzato, l’elenco dei meccanismi si è più
che raddoppiato ed è emersa la distinzione tra danni già da tempo in atto, e per i quali spesso nulla
si è ancora fatto, e danni potenziali che le scelte economiche e tecnologiche in corso di adozione o
di elaborazione lasciano già intravedere.
      In ogni occasione formativa, inoltre, venivano raccolti e spesso distribuiti, testi
particolarmente significativi che analizzavano i meccanismi di danno nelle loro cause e
conseguenze ed è nata l’idea di raccoglierli come documentazione sistematica all’interno della lista
generale; il tutto naturalmente concepito come lavoro da aggiornare continuamente e da integrare
man mano che le analisi elaborate da esperti e scienziati diventano più approfondite e attendibili.
      I testi utilizzati, per una scelta precisa, sono quasi tutti apparsi sulla stampa quotidiana e su
alcuni settimanali, quindi non sono fonti scientifiche o particolarmente qualificate, ma solo dei testi
pieni di dati e di informazioni, riportati da giornalisti capaci di realizzare una divulgazione accurata
e attendibile, alla portata di lettori raramente in possesso di conoscenze specializzate. Non vi è
quindi alcun rapporto tra il numero e le dimensioni dei testi raccolti e l’incidenza dei relativi
meccanismi di danno sulla biosfera e sulle sofferenze umane prodotte; inoltre la selezione e la
datazione dei testi risente moltissimo delle priorità attribuite dai giornalisti ai temi legati alla
cronaca e alle “mode” e non è quindi raro il caso di meccanismi essenziali che vengono trascurati
per anni o sui quali si concentra l’attenzione solo per qualche giorno per poi ricadere nel
dimenticatoio.
      Si tratta quindi in pratica di una rassegna stampa selettiva, che permette, con uno sforzo
minimo, di acquisire una visione realistica, concreta e complessiva dei drammi che il nostro pianeta
sta sopportando e delle gravi preoccupazioni che oscurano le prospettive degli umani che abitano
l’unica Terra che abbiamo a disposizione.
     L’obiettivo è quindi, molto semplicemente, quello di far avere ad un numero rapidamente
crescente di persone “comuni” una visione completa e non superficiale dei meccanismi di danno
che ogni giorno deteriorano il nostro ambiente, cercando di sottrarle ai tanti tentativi di mistificare o
nascondere le conseguenze di ognuno di questi meccanismi, realizzati negli ultimi anni da molti
governi e da quasi tutte le organizzazioni internazionali.
      I motivi di questa scelta sono circoscritti ma hanno una rilevanza strategica non da poco.
Negli ultimi anni le notizie si sono moltiplicate e apparentemente esiste un livello informativo
diffuso piuttosto alto. In realtà la grande maggioranza delle popolazioni, anche nei paesi ritenuti più
avanzati, non accede a questo livello e viene alimentata dai notiziari ben più scarni ed elusivi delle
televisioni e delle radio. I flussi informativi, inoltre, sono ampiamente utilizzati da multinazionali e
grandi imprese di servizi per proteggersi in anticipo da accuse e contestazioni e per imporre ulteriori
modelli di consumo ancora non certo rispettosi per l’ambiente. Durante il 2010, infatti, è iniziata la
presentazione pubblicitaria della “economia verde” che nella stragrande maggioranza dei casi,
rappresenta solo il tentativo di prolungare nel tempo e sotto mentite spoglie i meccanismi di danno
ambientale che hanno finora garantito i maggiori profitti e vantaggi alle strutture produttive.
      Chi sono quindi i destinatari desiderati di questo strumento di una conoscenza ne superficiale,
ne ad alto livello scientifico e di specializzazione? In primo luogo i partecipanti a ogni corso che
intenda affrontare i problemi delle società contemporanee nell’ottica delle analisi economiche e

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sociali e che quindi non può assolutamente trascurare la componente ambientale, specie per la sua
importanza cruciale per i futuri assetti delle società civili di tutti i paesi.
      Sarebbe poi auspicabile che proprio i limiti dello strumento stesso fossero considerati utili da
organizzazioni (istituzionali e di movimento) di una certa dimensione, per dotare i loro aderenti di
una conoscenza di base, non specialistica ma organica; ciò vale al momento e nel contesto italiano,
per i maggiori organismi che operano nella cooperazione allo sviluppo come per le organizzazioni
di massa e per quelle sindacali. Siamo convinti infatti che molte delle riconversioni, dei recuperi e
delle scelte tecnologiche non dannose per l’ambiente non saranno adottate dal sistema dominante
finché le esigenze fondamentali e più urgenti non saranno avanzate e sostenute da basi sociali
molto diffuse e attive.
      Molti sono convinti che presentare un quadro ampio, articolato e piuttosto completo
dell’insieme dei danni che stiamo infliggendo al pianeta Terra possa scoraggiare anche le persone di
buona volontà e che la lettura sortisca in ultima analisi un effetto negativo di spinta verso
l’indifferenza e di rimozione dei rischi che corriamo ogni momento delle nostre giornate; siamo
sicuri che questo risultato assolutamente negativo si otterrà in molti casi e le persone che si
sottraggono alle loro responsabilità andranno perse, forse per sempre.
      In realtà restiamo convinti che tutte le persone minimamente curiose e potenzialmente pronte
ad affrontare meccanismi di cambiamento radicale, potrebbero trovare, in una visione complessiva
della attuale situazione del pianeta e della specie umana, la spinta a prendere finalmente atto dei
meccanismi che ci stanno travolgendo e a darsi carico di una analisi cosciente e della necessità di
cominciare a muoversi in modo responsabile verso forme di mobilitazione continuative. Solo una
conoscenza articolata e innegabile della situazione e delle prospettive reali dei popoli della Terra
può far uscire dall’indifferenza profonda che ci pervade.
     Infine, è importante che questo lavoro sia rivisto, integrato, saccheggiato e aggiornato da
chiunque voglia usarlo, sia cioè considerato non la proprietà intellettuale di qualcuno, ma solo come
un oggetto collettivo utile, che può trovare usi e riusi diversi. Sarà interessante vedere se le nuove
forme di volta involta assunte saranno a loro volta ridiffuse e riutilizzate con le stesse modalità,
perché altri ne possano usufruire, condividendo atteggiamenti di responsabilità collettiva.


                                     (A. C. e quanti altri si riconoscono in questo tentativo…..)




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Quadro generale dei principali danni ambientali
(di A. Castagnola, lavoro in corso, da integrare)


1. La grande nube
Effetto buio, ultima sfida al pianeta Terra
Un’impalpabile coperta di smog sovrasta i cieli. Dal deserto del Sahel alle vette dell’ Himalaya
       L’hanno scoperta otto anni fa,una grande nuvola marrone che sovrastava un’ampia area
dell’Asia meridionale. Densa di fuliggine, composti chimici e particelle di carbonio generate dal
traffico, dall’inquinamento industriale e dalla combustione di carbone e biomasse. Veerabhadran
Ramanathan, scienziato indiano di stanza alla Scripps Institution of Oceanography dell’Università
della California, a San Diego, ha svelato col tempo che altre coltri oscurano i nostri cieli,
spostandosi per migliaia di chilometri, oltre oceani e frontiere. Una coperta di smog, impedendo alla
luce solare di raggiungere la superficie terrestre, ha portato negli ultimi 30 anni a una diminuzione
pari al 10% della luminosità sul pianeta con punte del 37% in 50 anni a Hong Kong e a un lento
raffreddamento della superficie terrestre che ha in parte “mascherato”, limitandone i danni, il
surriscaldamento provocato dai gas serra. E le tenebre avanzano con una media del 2-3% all’anno.
      Non è tutto. La caligine riduce anche la luce solare che si riversa sugli oceani, facendo
diminuire l’evaporazione oceanica e perciò le precipitazioni. E l’ultima scoperta di Ramanathan è
che gli stessi corpi nuvolosi d’inquinamento che raffreddano il suolo e innescano l’effetto buio e
l’effetto inaridimento, nei bassi strati dell’atmosfera dove essi vagano causano invece un forte
surriscaldamento, dovuto alle particelle di carbonio che assorbono le radiazioni e diffondono calore
tutto intorno. Un calore, che secondo le pionieristiche ricerche del climatologo, sarebbe tra i
principali responsabili dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya.” Per il pianeta è una
minaccia altrettanto letale dei gas serra”, avverte il professore. (…) Le nuvole marroni si
concentrano in alcuni punti caldi (hot spot) a livello regionale o di megalopoli. Combinando le
osservazioni via satellite con modelli algoritmici e una capillare raccolta di dati al suolo, l’equipe di
Ramanathan è riuscita ad identificare cinque “punti caldi” regionali: 1) Asia orientale: Cina
orientale, Thailandia, Vietnam e Cambogia; 2) le pianure indo gangetiche dell’Asia meridionale: dal
Pakistan orientale attraverso l’India fino al Bangladesh e Myanmar; 3) Indonesia; 4) Africa
meridionale dalle zone sub sahariane allo Zambia e allo Zimbabwe; 5)
      Il bacino amazzonico in Sudamerica. A queste aree si aggiungono 13 mega hot spot,
corrispondenti ad altrettante megalopoli: Bangkok, Pechino, Il Cairo, Dhaka, Karachi, Kolkata,
lagos, Mumbay, Ne Delhi, Seul, Shanghai, Shenzen e Teheran. (…)
      Le nubi sono formate da aerosol di varia natura, in particolare solfati e nitrati, che agiscono
come dei parasole sopra la Terra, riflettendo e disperdendo la luce solare nello spazio, e fuliggine
(cioè aerosol di carbonio e idrocarburi incombusti) che invece assorbe la luce solare e rilascia calore
nell’aria circostante. Di fatto, un cocktail di sostanze raffreddanti e riscaldanti, che si muove in
continuazione, spinto dalle correnti aeree e dai venti.
      “La ricerca ha rivelato l’esistenza di pennacchi di nuvole marroni in atmosfera che si spostano
attraverso e sopra gli oceani. L’inquinamento della costa orientale degli Stati Uniti in quattro o
cinque giorni può arrivare in Europa e in una settimana dall’Europa va in Asia meridionale. Da
problema locale, diventa un problema regionale e globale; ogni paese diventa il cortile dei rifiuti di
qualcun altro”, spiega il climatologo. Un circolo vizioso senza fine. Che non si ferma al termometro
di casa.



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La combinazione dell’abbassamento delle temperature sulla superficie terrestre, del
riscaldamento dell’aria e dell’alterazione delle precipitazioni regionali avrebbe effetti devastanti.
Per esempio, minori precipitazioni sui continenti, fenomeni di siccità in Asia e Africa e gravi danni
alle coltivazioni, come hanno dimostrato i recenti dati sul raccolto di riso in India (la produzione
degli ultimi venti anni è diminuita di circa il 15%) o le strane mutazioni nell’alternarsi dei monsoni
indiani. “I modelli climatici attribuiscono proprio alle nuvole marroni, le atmospheric brown clouds,
la causa principale della siccità nel Sahel e della desertificazione dei tropici negli ultimi 50 anni.
       L’ultimo stadio della ricerca di Ramanathan riguarda l’effetto riscaldamento in atmosfera.
Utilizzando degli aeroplanini computerizzati e telecomandati per raccogliere i dati, la sua equipe ha
studiato cosa avveniva intorno e all’interno di una nuvola marrone sospesa sull’Oceano Indiano,
all’altezza delle Maldive, spessa ben tre chilometri: la concentrazione di particelle inquinanti e
fuliggine, la quantità di radiazione solare e quanta luce solare veniva intrappolata in atmosfera, il
vapore acqueo…Dopo una ventina di missioni aeree, ha confermato che le particelle di carbonio
contribuivano almeno per il 50% al riscaldamento della bassa atmosfera, il resto essendo dovuto ai
gas serra. In base ad elaborati calcoli matematici, complessivamente l’effetto warming sarebbe pari
a 0,25° ogni decennio, sufficiente per spiegare ad esempio il drammatico “ritiro” dei ghiacciai
himalayani. La fuliggine, a queste altitudini, tra l’altro un doppio effetto: da un lato il già citato
riscaldamento atmosferico provocato dalla nube che tocca le vette, dall’altro il fatto che le particelle
di carbonio si condensano e depositano sulle nevi e sul ghiaccio, aumentando la quantità di luce
solare assorbita.
      In questo quadro a tinte fosche, si intravede però una luce. A differenza dei gas serra, che
restano in atmosfera per centinaia di anni, la sopravvivenza della fuliggine è di poche settimane.
“Se riusciamo a tagliare le emissioni, ne vedremo subito i benefici”, conclude Ramanathan. (…)
     (il testo completo in Corriere della Sera Magazine del 12 aprile 2008 con foto).
     Più verdi, più al verde
      Bangkok Ossidi di azoto, benzene, etanolo, tricloroetano, benzina, trementina. Sono i
principali componenti delle nuvole di smog fotochimico che nelle giornate con poco vento
ridipingono il cielo sopra Bangkok, la capitale della Thailandia, una delle città più inquinate del
mondo. (…)
     (il testo completo in Corriere della Sera Magazine del 12 aprile 2008, con foto)<


2. Aumento della temperatura causata da smog e consumo di petrolio e gas
     Il ciclo del carbonio sconvolto dal cambiamento climatico
      L’equilibrio dinamico che per molte centinaia di milioni di anni ha accompagnato il clima
della Terra era legato a un ciclo del carbonio relativamente regolare. Come se un giocoliere lo
facesse passare dallo stato solido a quello gassoso, dalla biosfera e dagli oceani all’atmosfera.
Questo processo è stato destabilizzato dalla rivoluzione industriale, basata sulla combustione dei
composti di carbonio quali il petrolio, il carbone e il gas detto naturale. Decine di miliardi di
tonnellate sepolte sotto la terra e gli oceani sono state così rilasciate nell’atmosfera modificando le
quantità coinvolte nel ciclo del carbonio. Ci sono voluti milioni di millenni per farlo fossilizzare,
ma solo poche diecine di anni per disperderlo nell’atmosfera.
      Per fortuna, il giocoliere ha degli assi nella manica che compensano un poco lo squilibrio:
biosfera e oceano costituiscono infatti un immenso serbatoio di carbonio. Lo assorbono
dall’atmosfera e lo integrano al suolo o lo precipitano sotto forma di carbonati (gli oceani). Hanno
così già assorbito quasi la metà dei rifiuti antropici. E’ il motivo per il quale li si definisce “pozzi di
carbonio”. Ma c’è un problema: la quantità di carbonio trattenuta nell’oceano diminuisce per….il

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riscaldamento climatico! Può essere infatti che l’aumento delle temperature dell’oceano riduca la
capacità di sedimentazione, rallentando, se non, a certe latitudini, sopprimendo le correnti oceaniche
responsabili ( a livello della Groenlandia e nel Pacifico) del deposito dei sedimenti.
      D’altra parte, la deforestazione delle foreste tropicali e il cambiamento d’uso delle terre
(sfruttamento agricolo o urbanizzazione) riducono ulteriormente il ruolo compensatorio della
biosfera. E la desertificazione, accentuata dal riscaldamento in particolare nell’Africa subsahariana,
non fa che aggravare il fenomeno. La biosfera (vegetazione, suolo e oceano) consente un margine di
manovra nella gestione delle nostre emissioni di CO2, ma limitato.
     Si calcola che possa riciclare in modo naturale 3,2 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di
carbonio all’anno. Una quantità soggetta a evoluzione, a causa dell’alterazione del ciclo del
carbonio e del nostro sfruttamento della biosfera.
     Inutile, perciò, contare sui pozzi di carbonio per riassorbire il problema climatico. La sola
soluzione è ridurre le emissioni di gas a effetto serra all’origine (“mitigazione”).
      Per evitare di raggiungere una soglia di riscaldamento pericolosa, è necessario fissare un
obiettivo di stabilizzazione della concentrazione di questi gas. E’ quindi imperativo stabilire con
precisione il margine di manovra che ci concede l’atmosfera (3,5 gigatonnellate).
      La valutazione che ne consegue è che in cinquanta anni bisognerebbe dividere per quattro le
emissioni complessive di gas a effetto serra. Si pone così la questione della ripartizione. Ridurre a
un quarto in ogni paese? Fissare una quantità di carbonio annua per abitante (si parla di 0,5
tonnellate di carbonio, cioè 1,8 tonnellate di CO2)? Comunque, anche se gli abitanti dei paesi
sviluppati dovessero assumersi le proprie responsabilità, questo non eviterà che anche i paesi
emergenti (Asia, Sudamerica) partecipino allo sforzo generale.
     In conclusione, bisogna riconoscere che l’essere umano fa parte integrante del ciclo del
carbonio (sia per quanto incide che per quanto subisce), ma che non sembra averne ancora preso
pienamente coscienza.
     Scienziati in allarme “la politica nasconde la verità sul clima”
     “Due gradi in più? Le cose stanno peggio
      “sarebbe bello, ci metterei dieci firme, non una. Peccato sia irrealistico: i due gradi sono un
traguardo che non è più alla nostra portata. Dirlo è un atto di onestà. Così come è un atto di onestà
aggiungere che se non ci muoviamo subito, se non chiudiamo nel giro di pochissimi anni il
rubinetto dei gas serra, non riusciremo neppure a fermarci a 3 gradi”. Rank Raes, capo dell’Unità
cambiamenti climatici del Centro di ricerca della Commissione Europea, esprime ad alta voce
quello che i migliori climatologi del mondo – da Stephen Schneide della Stanford University a
Jasan Lowe del Met Office – stanno raccontando a Copenhagen nelle riunioni parallele al negoziato
dei governi.
      Nella bozza di accordo finale resa pubblica ieri, l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale
a due gradi in più viene sventolato come una bandiera. E’ il vessillo che dovrebbe indurre i Paesi a
tagli nelle emissioni di gas serra che vanno dal 50 al 90% entro il 2050. Ma per gli scienziati non
c’è rapporto tra i tempi della politica e i tempi della biosfera: con gli obiettivi oggi sul tappeto i due
gradi restano un miraggio.
     Ecco il ragionamento dei climatologi:
     Primo punto: calcolando solo l’effetto dei gas serra già in atmosfera, si deve mettere in conto
un aumento di temperatura di circa mezzo grado nei prossimi decenni.
     Secondo punto: Attivare l’economia virtuosa significa ripulire il cielo dallo smog. Il che farà
benissimo ai nostri polmoni, ma eliminerà “l’effetto schermo”delle radiazioni solari, che oggi
maschera il reale aumento di temperatura : è un altro grado che va aggiunto.
                                                                                                        9
Terzo punto: calcolando che c’è già stato un aumento di più di 0,8 gradi rispetto all’era
preindustriale, ( i due gradi hanno come punto di riferimento quel periodo) e che un aumento
intorno a 1,5 per le ragioni precedenti è inevitabile, la barriera dei 2 gradi risulta già sfondata.
      Ma è ragionevole l’ipotesi di attestarsi appena sopra i due gradi? “ e’ tecnicamente fattibile,
ma richiederebbe una volontà politica di cui oggi non si scorge traccia: dovremmo tagliare in
maniera draconiana tutte le emissioni di gas serra e azzerare la deforestazione”, continua Raes,
“Uno scenario già considerato buono invece è un tagli robusto delle emissioni dei paesi
industrializzati e una crescita ridotta delle emissioni dei paesi in via di sviluppo. Ma anche così i
gas serra continueranno a crescere ed è molto difficile che si fermeranno prima che si raggiunga un
aumento medio di 3 gradi. Poi, dopo qualche decennio, quando il motore della nuova economia avrà
ingranato, le emissioni scenderanno”.
      Peccato che la natura non risponda con la stessa velocità della Borsa. “Andiamo incontro a
perdite di ghiaccio molto importanti, in particolare in aree come la Groenlandia “, ha ricordato
      Jasan Lowe del Met Office. “E’ un cambiamento profondo che rafforzerà il processo di
riscaldamento e innalzerà il livello del mare. Non possiamo pensare che dopo aver superato il picco
delle emissioni, quando finalmente riusciremo a riportare la concentrazione di CO2 in atmosfera a
valori accettabili, tutto tornerà come prima: ci vorranno secoli e secoli”.
     Ma che significa in pratica un aumento medio di 3 gradi? In alcune aree e in alcuni periodi la
temperatura salirà in maniera molto più consistente. Nelle aree artiche si prevede una crescita
almeno doppia e soffriranno vaste zone come l’Africa e il Mediterraneo. Vuol dire che episodi
come le ondate di caldo dell’estate del 2003 (70.000 morti aggiuntivi stimati dall’OMS in Europa)
diventeranno frequenti.
      “Eppure ridurre in tempi brevi le emissioni è possibile”, osserva Stefano Caserini il docente al
Politecnico di Milano che ha appena pubblicato Guida alle leggende sul clima che cambia. “ma se
reagiremo con troppa lentezza non potremo più limitarci a non inquinare. Dovremo immaginare
anche il ricorso a misure che oggi appaiono fantascientifiche. Potremmo far crescere le piante,
bruciarle per produrre energie e poi seppellire la CO2. Cioè riportare il carbonio in profondità, dove
è restato per milioni di anni sotto forma di petrolio”.


     L’allarme viene dal cielo
      Cosa succederebbe se la temperatura del pianeta aumentasse di tre gradi? Uno studio recente
dell’Università di Durham e della Royal Society for the Protection of Birds, condotto in
collaborazione con BirdLife International, (la rete di associazioni che difendono gli uccelli, come la
LIPU), racchiuso nell’Atlante climatico degli uccelli nidificanti in Europa, ha annunciato
l’estinzione per ben 120 specie entro la fine del ventunesimo secolo. I ricercatori hanno disegnato
una mappa dei futuri “areali riproduttivi” (ossia l’area geografica in cui vive una specie) di molte
specie tra il 2070 e il 2090, in cui presumibilmente dovrebbe aumentare la temperatura del pianeta.
LO scenario che se ne ricava è terrificante. In Europa, il 25% delle specie si estinguerà. L’aumento
delle temperature costringerà molte specie a spostarsi verso nord-est, in nuove aree più limitate. A
farne le spese saranno soprattutto le specie artiche, sub-artiche e iberiche, ma anche quelle a
distribuzione limitata o molto limitata (endemiche), ad esempio : il canapino asiatico, il Verzellino
fronte rossa, il Picchio Muratore corso e il Gallo cedrone del Caspio. In Italia, 15 specie sulle 262
esaminate rischieranno l’estinzione. I nostri pronipoti rischieranno di non vedere l’Airone Bianco,
oppure il Gabbiano Corso o la Pernice Sarda. Li sostituiranno altre specie provenienti da Spagna e
Grecia. E per la prima volta nel nostro paese potrebbe nidificare il Nibbio bianco, l’Usignolo
d’Africa e la Gazza Azzurra.



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“Lo spostamento medio delle varie specie sarà di circa 500 chilometri verso nord-est, - spiega
Marco Gustin, responsabile Specie e Ricerca di Lipu-BirdLife, i paesi del mediterraneo subiranno
una diminuzione di specie di uccelli, mentre nei paesi del centro, ma soprattutto del nord Europa,
aumenteranno. Se una specie come la Pernice Sarda, si trova bene a nidificare in un ambiente non ci
sarà più qui perché le condizioni del clima saranno cambiate, quindi non saranno più ideali. Molte
specie non avranno più zone idonee per riprodursi. Per questo diminuiranno, perché dovranno
convivere in un’area più ristretta. (…)
     (E. Formisani, il testo completo su Carta del 15-21 febbraio 2008)


     Gas serra
     Nel 2010 sono state prodotte 30,6 miliardi di tonnellate equivalenti di Co2, pari ad un
aumento del 5% delle emissioni rispetto al 2009. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia,
l’anno scorso le emissioni di anidride carbonica sono state “le più alte della storia”.
     (tratto da “Internazionale” del 2 giugno 2011)


     E il clima continua a scaldarsi
      Brutte notizie hanno accolto i delegati dei circa 180 paesi firmatari della Convenzione
dell’Onu sul clima, che ieri hanno cominciato due settimane di colloqui a Bonn, in Germania. E la
prima delle brutte notizie è che le emissioni di anidride carbonica, il principale dei gas di serra che
alterano il clima terrestre hanno toccato un nuovo record nel 2010. Così certifica l’ultimo rapporto
diffuso dagli economisti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie). In altre parole, vent’anni
di negoziati internazionali su come tagliare le emissioni provocate dall’uso di combustibili fossili
(petrolio, carbone, gas) per ora hanno dato risultati molto scarsi, per non dire nulli: la quantità di gas
“di serra” spediti nell’atmosfera terrestre non rallenta neppure la sua crescita.
      I dati sono allarmanti. L’anno scorso 30,6 gigatonnellate (Gt, ovvero miliardi di tonnellate) di
anidride carbonica sono finite in aria, in gran parte prodotte dalla combustione di fossili: è un
aumento di 1,6 Gt rispetto al 2009, anno in cui le emissioni erano scese (nel 2008 erano 29,3 Gt).
Ovvero la crisi finanziaria e la recessione mondiale ha segnato solo una lieve flessione, poi le
emissioni hanno ricominciato a crescere, e molto più in fretta di quanto chiunque si aspettasse, ha
detto un allarmato Fatih Birol, capo degli economisti dell’Aie e considerato uno dei massimi esperti
mondiali di energia, al quotidiano The Guardian, ( che la settimana scorsa aveva anticipato le
conclusioni del rapporto). Gran parte dell’aumento delle emissioni registrato nell’anno scorso, circa
tre quarti, è da attribuire a paesi “emergenti” (dove le economie crescono più che nel vecchio
mondo industrializzato). E lo studio dell’Aie fa notare anche che l’8’% delle centrali termiche che
saranno attive nel 2020 sono già costruite o in costruzione, e quasi tutte usano combustibili fossili.
Ovvero, il corso delle emissioni di anidride carbonica è già segnato.
     E questa è l’altra cattiva notizia: i dati diffusi dall’Aie indicano che le emissioni sono
pressoché tornate al ritmo di crescita pre-crisi, fa notare il professor Nicholas Stern della London
Scool of Economics (è l’autore del noto “Stern Report” sui costi del cambiamento del clima).
      Ma se la crescita delle emissioni di gas di serra continua a questo ritmo “significa che
abbiamo il 50% di possibilità che la temperatura media aumenti di oltre 4 gradi centigradi al 2100”,
ha detto Stern (sempre al Guardian). E questo sarebbe semplicemente una catastrofe: il Panel
intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc) considera la soglia dei 2 gradi di aumento della
temperatura media come il limite oltre a cui i cambiamenti climatici diverranno irreversibili.
Mantenere l’aumento della temperatura entro i 2° è quindi l’obiettivo formalmente adottato dai
paesi firmatari della Convenzione Onu sul clima, durante l’ultima Conferenza sul clima a Cancun.

                                                                                                       11
Ma con le emissioni che crescono a questo ritmo, dice un allarmatissimo Birol, quei 2° sono solo
“una bella utopia”.
      E dire che secondo molti scienziati già solo 2° di aumento medio della temperatura avranno
un impatto devastante sul pianeta – molte isole e zone costiere sommerse, una grave crisi
dell’agricoltura mondiale. La signora Christiana Figueres, segretaria esecutiva della Covenzione
Onu sul clima, giorni fa ha rilanciato: “Il mondo deve darsi come obiettivo stare entro gli 1,5 gradi”.
      Con queste premesse, difficile aspettarsi molto dalla Conferenza incominciata a Bonn, uno dei
passaggi preparatori in vista del prossimo vertice mondiale sul clima, a Durbans in dicembre, che
dovrebbe mettere a punto una nuova politica mondiale sul clima: decidere il destino del protocollo
di Kyoto dopo la sua scadenza nel 2012, delineare un nuovo sistema di obiettivi per ridurre le
emissioni di gas di serra, indicare come raccogliere 100 miliardi di dollari per finanziare il “fondo
per il clima”, lanciato dal vertice precedente per aiutare i paesi ad affrontare le conseguenze del
cambiamento del clima.


3. Scioglimento dei ghiacci


     Il ghiacciaio Tasman in Nuova Zelanda
      Il terremoto di magnitudo 6,3 che il 22 febbraio 2011 ha colpito Christchurch, in Nuova
Zeland, ha provocato anche il distacco di un pezzo di ghiaccio di 30 milioni di tonnellate dal
Ghiacciaio Tasman. Dopo essere caduto nel lago Tasman, il blocco di ghiaccio si è frantumato in
tanti iceberg più piccoli. Quando il radiometro Aster, a bordo del satellite Terra della Nasa, ha
scattato questa foto, gran parte degli iceberg si erano spostati verso il lato opposto del lago. (…)
      Situato a circa duecento chilometri a ovest di Christchurch, il ghiacciaio di Tasman è il più
largo e il più lungo della Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha cominciato a ritirarsi, soprattutto
perdendo ghiaccio dal suo termine, cioè al confine tra il ghiacciaio e il suolo. Il terremoto ha solo
accelerato un processo che si sarebbe verificato comunque. Alla fine del 2007 l’istituto
neozelandese per l’acqua e le ricerca atmosferica (NIWA) ha annunciato che il ghiacciaio Tasman è
arretrato di cinque chilometri dal 1976. L’accumulo di sedimenti, le morene, rivelano l’estensione
precedente del ghiacciaio e circondano il lago. I ghiacciai delle Alpi meridionali neozelandesi
hanno perso l’11% del loro volume tra il 1976 e il 2007. Da allora sono rimasti stabili o sono
ulteriormente arretrati. (Tratto da Internazionale n. 888 dell’11 marzo 2011, con foto)


4. Aumento livello del mare


     Collasso dei poli, un primo atto è in Groenlandia
      Il livello medio del mare è salito di circa 17 centimetri dall’inizio del XX secolo e il fenomeno
va accelerandosi da una quindicina di anni. L’innalzamento è dovuto agli effetti congiunti dello
scioglimento dei ghiacci, compreso quello delle calotte, e dell’espansione dell’acqua provocata dal
riscaldamento della superficie degli oceani. Il volume del ghiaccio diminuisce attualmente su tutti i
continenti, a eccezione dell’Antartico.
      La banchisa artica, la calotta della Groenlandia e il permafrost (suolo gelato in permanenza),
si trovano nelle altre latitudini dell’emisfero boreale., dove nel secolo scorso il riscaldamento del
pianeta è stato dell’ordine del doppio della media mondiale.



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Durante l’estate la banchisa artica si ritira ogni anno di più, al ritmo del 7,4 % ogni decennio
da trent’anni. Il che fa prevedere la sua possibile scomparsa estiva alla fine del xxi secolo. Il
permafrost, che è ripartito sui continenti circumpolari (attorno al bacino artico), con una profondità
crescente verso il nord, ha perso il 15% della sua superficie primaverile dal 1900.
     Questa è resa spesso fluida o fangosa a causa del gelo che persiste al di sotto.
      Le alte terre della Groenlandia sono ricoperte da una calotta glaciale (inlandsis) che arriva a
4020 metri. A una altitudine simile, il riscaldamento provoca un aumento della capacità igrometrica
dell’aria e quindi delle precipitazioni sotto forma di neve. Così il ghiaccio tenderebbe a ispessirsi
sulla maggior parte del paese. Sulle coste, scende per gravità in ghiacciai che si prolungano fino al
mare, dove si disperdono sotto forma di iceberg. Il problema del futuro della calotta della
Groenlandia sta nella velocità di quest’ultimo fenomeno. Quando il mare si riscalda, come succede
dal XX secolo, il distacco si accelera e aumenta la velocità di discesa del ghiaccio proveniente
dall’alto.
      L’incognita attuale dipende dalla differenza tra apporti di neve e scioglimento del ghiaccio. Il
risultato influenzerà l’altezza del livello marino, la quantità di acqua dolce liberata nell’oceano
Atlantico e, associato alla variazione del tasso di salinità dell’acqua, si ripercuoterà sulla corrente
marina di superficie, la Corrente del Golfo, che a sua volta influenza il clima dell’Europa e la
circolazione oceanica.
      Alla fine del XX secolo, l’acqua di scioglimento della Groenlandia ha contribuito
all’innalzamento del livello marino. Secondo recenti ricerche, il disgelo di alcuni ghiacciai è più
rapido di quanto gli esperti non pensassero. Una tale liquefazione accelerata della Groenlandia, che
comporta una diminuzione di volume della calotta, ha stimolato l’ipotesi di scenari catastrofici.
Contribuirebbe fortemente all’innalzamento del livello marino medio: fino a 7 metri in caso di
scomparsa totale della calotta della Groenlandia, prevista nell’eventualità che l’innalzamento della
temperatura media superasse i 2° C rispetto alla fine del XIX secolo.
     Segnale d’allarme.
      Il disastro potrebbe , inoltre, indurre una modifica della temperatura , e soprattutto della
salinità dell’acqua, all’origine di un rallentamento della circolazione della Corrente del Golfo, il che
comporterebbe due conseguenze: - da una parte, i climi dell’Europa occidentale, attualmente
addolciti da una circolazione atmosferica proveniente da ovest, e che passa sopra la Corrente del
Golfo, diventerebbero, con inverni più freddi ed estati più calde di ora, più continentali e più simili
a quelli della costa est del Canada e del nord degli Stati Uniti;
     - d’altra parte, la circolazione oceanica, legata alla corrente di superficie indissociabile,
dovrebbe reagire in una maniera ancora non chiara.
      Questi scenari estremi sono per ora in attesa della convalida delle loro fondamenta
scientifiche. Tuttavia, rappresentano un segnale d’allarme rispetto all’idea di un cambiamento
climatico a evoluzione graduale.
      Al di la di certe soglie, potrebbero verificarsi mutazioni repentine. Gli scienziati attualmente
cercano tracce di eventi improvvisi e rapidi nei ghiacci e nei sedimenti che segnalino evoluzioni
non lineari tali da ipotizzare l’applicazione della teoria del caos all’evoluzione del clima.
    (Tratto da “L’Atlante per l’Ambiente” di Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con
mappe e dati)




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5. Perturbazioni climatiche sempre più catastrofiche
     America Tra le macerie dell’Alabama: 321 i morti, migliaia i feriti
     Obama: devastazione mai vista e ora si teme il Mississippi
     Il Presidente nella zona dei 137 tornado. Prevista un’alluvione
     “Non ho mai visto una devastazione simile. Spezza il cuore” Parlando tra le macerie di
Tuscaloosa, la città dell’Alabama più duramente colpita dai 137 tornado che mercoledì hanno
devastato dei Stati del Sud degli Stati Uniti, uccidendo 321 persone e ferendone gravemente
migliaia, il presidente americano Barak Obama e la first lady Michelle ieri hanno cercato di ridate
speranza ad una America che a sei anni di distanza torna a rivivere il dramma di Katrina.
     (…) Sono stati i tornado più violenti nell’area dal 1974, quando 148 cicloni colpirono 13 Stati,
      uccidendo 315 persone. Il maltempo che ha colpito mercoledì e giovedì ha anche lasciato un
milione di utenti senza elettricità, chiudendo intere fabbriche e rendendo impraticabili strade e
autostrade. Gli Stati più colpiti dovranno anche fare i conti con lo spettro delle inondazioni dalla
portata storica, che secondo gli esperti potrebbero subissare la famigerata alluvione del Mississippi
del 1927, la più grave nella storia degli Stati Uniti, che uccise 246 persone in ben 7 Stati,
provocando danni per oltre 13 miliardi di dollari, una enormità per quei tempi. (…) (il testo
completo sul Corriere della Sera del 30 aprile 2011, con mappa e foto)


     Mississippi, la piena vista dal satellite
       In Louisiana la grande alluvione è cominciata. In Mississippi è attesa a ore. A causa delle
intense piogge e dello scioglimento delle nevi il Mississippi si è ingrossato inondando ampie zone
in Illinois, Missouri, Kentucky, Tennessee, Arkansas, Mississippi e Louisiana. Le autorità della
Louisiana hanno aperto altre chiuse per far decrescere il livello dell’acqua, causando l’allagamento
di 12.000 chilometri quadrati nell’area della Morganza.
     (Corriere della Sera del 16 maggio 2011, con foto e immagini da satellite).


6. Aria cattiva nei centri urbani
     Smog
          L’inquinamento atmosferico, e soprattutto le polveri sottili inferiori a 2,5 micrometri,
riduce la speranza di vita degli abitanti delle grandi città. Abbassando la concentrazione di queste
polveri, in Europa si potrebbero evitare 19.000 decessi all’anno, afferma lo studio Aphekom,
condotto in 25 città europee. L’impatto delle polveri sottili: Mesi di speranza di vita guadagnati, per
chi ha più di 30 anni, se la soglia dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità fosse rispettata:
Bucarest (22,5), Budapest (19,3), Barcellona (13,7), Atene (12,8), Roma (12,1), Siviglia (10,2), ecc.
     (Tratto da Internazionale n.888, dell’11 marzo 2011, con tabella)
     Inquinamento Per il nono mese consecutivo a Roma polveri oltre i limiti
     L’OMS: L’aria cattiva delle città? Vivremo tutti nove mesi di meno
      Per il nono giorno consecutivo, i livelli di polveri sottili (PM10) nell’aria di Roma sono oltre
i limiti. C’è inquinamento anche nei parchi. Il Campidoglio ordina per oggi un nuovo blocco
parziale della circolazione per i veicoli più inquinanti. In attesa che il meteo cambi, Roberto
Bertollini, direttore scientifico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Europa, avverte: “Di
inquinamento muoiono 8 mila persone l’anno, e uno studio dice che a causa dell’aria cattiva ogni
persona vive 8,6 mesi in meno”. (cfr articoli sul Corriere della Sera del 15 febbraio 2011)

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A settanta all’ora sulle tangenziali per ridurre le polveri
       Manca un piano nazionale dell’aria. Quello che permetterebbe a Milano e alle altre città
affogate dallo smog di mettere in atto iniziative concertate contro le polveri sottili. A Milano si vive
il trentaseiesimo giorno di sforamento dei limiti del Pm10 e il governatore della Lombardia chiama
in causa il governo e il ministro dell’ambiente. (…) Una mancanza che oltre a non garantire una
procedura comune a livello nazionale contro lo smog, ha provocato la decisione dell’Unione
Europea di non concedere più deroghe all’Italia in fatto di inquinamento. Il paese continua a
respirare veleni.(cfr. articoli sul Corriere della Sera del 9 e10 febbraio 2011)


7. Ampliamento del buco nell’ozono


     Una ricostituzione lenta dello strato di ozono
      Lo strato di ozono, naturalmente presente nell’alta atmosfera, è vitale. Senza questa protezione
i raggi ultravioletti del sole ucciderebbero qualsiasi tipo di vita sulle terre emerse. La sua scomparsa
costringerebbe l’umanità a vivere rintanata nei rifugi, per poi scomparire. La Terra ritornerebbe
nelle condizioni di tre miliardi e mezzo di anni fa. Lo strato di ozono consente un delicato
equilibrio, in quanto agli umani occorre una piccola quantità di raggi ultravioletti B, che agiscono
come catalizzatori della vitamina D, mentre una dose eccessiva favorisce varie forme di cancro
della pelle. Negli Stati Uniti, più di 9000 persone muoiono ogni anno a causa di questi tumori, e il
loro numero è raddoppiato dal 1980 al 2000. Nel 2006, è stato battuto un record: la superficie del
buco d’ozono, misurata in ottobre alla fine dell’inverno australe, si è estesa da circa 3 a 4 milioni di
km. Quadrati. Al centro dell’Antartico, sono state misurate concentrazioni quasi nulle di ozono.
Questa distruzione pressoché totale è dovuta principalmente alle condizioni climatiche della
regione, la cui temperatura , a fine settembre 2006, è stata inferiore di circa 5° centigradi alle medie
stagionali. Con un meccanismo fisico ben noto, il riscaldamento della bassa atmosfera prodotto
dalla concentrazione dei gas a effetto serra, causa un raffreddamento degli strati alti dell’atmosfera.
Questo raffreddamento accentua a sua volta l’impoverimento dello strato di ozono.
      Utilizzati come gas propulsori negli aerosol, ma anche nei frigoriferi e nei climatizzatori, nelle
schiume isolanti e nei prodotti usati per combattere gli incendi, i clorofluorocarburi (Cfc) sono
all’origine dell’impoverimento dello strato di ozono stratosferico. Queste molecole di sintesi,
emesse da milioni di fonti nel mondo, si ritrovano nella stratosfera, tra i 15 e i 40 chilometri al di
sopra del livello del mare. Sottoposto all’azione del sole, il cloro dei Cfc si libera e distrugge le
molecole d’ozono. Il bromuro di metile, un pesticida utilizzato nei paesi del Sud, ha un effetto
ancora più devastante.
      Grazie al protocollo di Montreal per le sostanze che impoveriscono lo strato di ozono, (Ods),
adottato nel 1989 sotto l’egida delle Nazioni Unite, è stato proibito l’uso dei Cfc e di altre sostanze
che degradano questa part dell’atmosfera. E, in effetti, ovunque nel mondo si osserva una
diminuzione nell’utilizzo di queste sostanze, ma l’effetto di distruzione dell’ozono stratosferico
persisterà per alcune diecine di anni , tanto più che in seguito all’entrata in vigore del protocollo di
Montreal, il commercio illecito di Ods si è sviluppato tanto al Sud quanto al Nord.
     Non prima del 2065
      L’ultimo rapporto 2006 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) conferma la
correlazione tra la riduzione delle emissioni di Ods e la parziale ricostituzione dello strato di ozono.
Tuttavia, le emissioni dei sistemi di refrigerazione e delle schiume isolanti, permangono negli
apparecchi per periodi tra i 15 e gli 80 anni. Una dinamica di emissione così lenta modifica le
previsioni sui tempi di ritorno all’iniziale equilibrio dell’ozono stratosferico: non prima del 2065,
secondo gli scienziati.
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Ma il tempo di vita delle molecole clorate, così come le loro proprietà di assorbimento
dell’irradiazione solare hanno un’altra conseguenza. I gas frigorigeni riscaldano: i Cfc
     contribuiscono in modo significativo all’accrescimento dell’effetto serra di origine antropica.
      Il blocco progressivo della produzione dei Cfc ha prodotto una netta diminuzione del
contributo all’effetto serra da parte dell’insieme delle sostanze presenti nel protocollo di Montreal.
Di fatto, le molecole fluorate (idrofluorocarburi, dette Hfc) hanno, in media, un potere di
riscaldamento globale otto volte inferiore a quello dei Cfc, che sostituiscono. Gli
idroclorofluorocarburi, (Hcfc, utilizzati nei sistemi di climatizzazione), sono fluidi di sostituzione
fluorati che non presentano diminuzioni altrettanto significative dell’effetto riscaldante, anzi, per
alcuni, è vero esattamente il contrario. La messa a punto di sostanze di sostituzione degli Hcfc, che
rispondano sia a criteri di uso (sicurezza e prestazioni), che di neutralità ambientale, è in corso e
dovrebbe portare a fluidi che non distruggono lo strato di ozono e non contribuiscono, o molto
poco, a rafforzare l’effetto serra. Il testo completo, con immagini e schemi di flusso, ne “L’atlante
per l’ambiente” di Le Monde Diplomatique/ Il manifesto)
     Il gas da fermare
     Stati Uniti.
      Nel 1987 la firma del protocollo di Montreal ha fermato la produzione di clorofluorocarburi, i
gas che provocano il buco dell’ozono. Grazie a questa misura, il buco sopra l’Antartide ha
cominciato a ridursi. Ci sono però altri gas che distruggono l’ozonosfera, lo strato protettivo nella
parte alta dell’atmosfera terrestre. Secondo una ricerca pubblicata in anteprima sul sito di Scienze,
il peggiore è il protossido di azoto, che è anche un gas serra, ed è quindi responsabile dell’aumento
delle temperature del pianeta.
      Proprio per questa sua doppia azione negativa, sarebbe importante controllare le emissioni
nell’atmosfera del protossido.
     A parte le fonti naturali, i principali produttori sono alcuni settori industriali, che usano
     combustibili fossili, ma anche biomasse e biocarburanti, considerati dei combustibili
ecologici. Anche l’uso di fertilizzanti in agricoltura ha un ruolo importante. Se non ci sarà un forte
cambiamento nei processi produttivi, il monossido di azoto è destinato a rimanere il gas anti ozono
per eccellenza. Il settimanale Science auspica almeno una riduzione delle emissioni del gas, per
accelerare la riparazione del buco antartico e limitare l’effetto sui cambiamenti climatici.
     (Tratto da “Internazionale” del 4 settembre 2009)
     Strato di ozono ridotto del 40%
     A causa del vento e del freddo lo strato di ozono ha registrato un assottigliamento sopra il
Polo Nord del 40% tra il marzo 2010 e il marzo 2011. L’ozono è lo strato di gas che avvolge il
pianeta e ci protegge dai raggi “uv” (ultravioletti) del sole (Corriere della Sera del 6 aprile 2011,
con immagini da satellite a colori)


8. Prosciugamento dei fiumi e dei laghi
     Il mare interno dell’Africa ha i giorni contati
     Dal 1960 la superficie del lago Ciad si è ridotta del 90%. Mentre i governi studiano progetti
faraonici per salvare la distesa d’acqua, le popolazioni si sono adattate ai cambiamenti.
      Sulle rive del lago Ciad, nel villaggio di Guitè, alcune piroghe scaricano le loro merci, legali e
illegali. Sulla terraferma i prezzi si contrattano in franchi Cfa e in naira, la moneta nigeriana. La
distesa d’acqua che unisce Ciad, Niger, Nigeria e Camerun è una zona di intensi commerci

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transfrontalieri. La nostra imbarcazione diretta all’isola di Kinasserom, un villaggio di pescatori,
passa tra le canne e le piante di papiro. La vegetazione è ricca, si vedono molti uccelli e l’acqua si
estende a perdita d’occhio: è difficile pensare che il lago e il suo ecosistema hanno i giorni contati.
Alcuni scienziati avvertono che il “mare interno dell’Africa” potrebbe scomparire nei prossimi venti
anni. E secondo i dati delle autorità ciadiane, basate sulle osservazioni della Nasa, la superficie del
lago si è ridotta dai 25.000 chilometri quadrati del 1960 ai 2500. di oggi.
      Quest’anno le forti piogge sembrano scongiurare le previsioni più pessimiste. Alimentato
dagli affluenti Chari e Logone, il bacino meridionale del lago ha riversato parte delle sue acque nel
bacino settentrionale, il più colpito dalla siccità. Il lago non è più diviso in due parti ma è un’unica,
profonda distesa di acqua. I pescatori, però, non sono contenti. Issaka Abacar, proprietario di una
piccola imbarcazione, sostiene che “la pesca non è più abbondante come prima. Con le acque più
alte, gli esemplari per la riproduzione si disperdono in mezzo alle piante”. Ma si lamenta anche
dell’abbassamento delle acque del lago. “Vivo qui da più di venticinque anni. La quantità d’acqua
diminuisce e i pesci anche”. Arrachid Ahmat Ibrahim, referente locale di un progetto di sviluppo,
spiega che è anche colpa dei metodi di pesca “non regolamentari”: sbarramenti o reti a maglie
troppo strette impediscono il passaggio ai pesci per la riproduzione. Secondo Ibrahim, in questa
regione di undici milioni di abitanti, 300 mila persone traggono il loro sostentamento dalla pesca.
La popolazione è in rapida crescita e le risorse diventano scarse. “nel 1984 a Kinasserom vivevano
duecento persone, ora siamo seimila”, osserva Adam Seid, il capo villaggio.
     Per assicurare la rinascita del lago, il governo ciadiano punta su un progetto faraonico: far
confluire parte delle acque del fiume Oubangui, che scorre tra la Repubblica Centrafricana e
      la Repubblica Democratica del Congo, nel Chari, il principale affluente del lago. Seid è
reticente sull’argomento, ma non lo è Mahamat, un giovane abitante del villaggio: “Se l’acqua
aumenta, dovremo lasciare le nostre case. Il governo ci ha interpellati, ma gli affari si concludono
tra stato e stato. Noi comunque non siamo d’accordo”. I pescatori difendono i loro interessi
immediati, ribatte Brahim Hamdane, un funzionario del ministero per l’ambiente. “La priorità è
salvare il lago”. (…) ( tratto da Internazionale n. 874, 26 novembre 2010, con foto e mappa)
     Il lago di Aral
     Prima del 1960 il lago di Aral era il quarto lago del mondo. Da allora ha perso l’88% della
superficie e il 92% del volume di acqua.
      Da tempo le dimensioni del lago di Aral, al confine tra Uzbekistan e Kazachistan, dipendono
dal fiume Amu Darya, che nasce sui monti del Pamir e sfocia nel lago dopo aver attraversato il
deserto. Anche il Syr Darya alimenta il bacino, ma l’Amu Darya è più grande e più incostante.
Negli anni sessanta l’acqua del fiume cominciò a essere deviata per favorire lo sviluppo agricolo e il
lago cominciò a restringersi. L’immagine scattata il 26 agosto 2010 dal satellite Terra della Nasa
mostra lo stretto rapporto tra il lago di Aral e l’Amu Darya. E’ la foto più recente di una sequenza di
dieci anni pubblicata sul sito World of Change dell’Earth Observatory.
       Tra il 2000 e il 2009 il lago si è ridotto a un ritmo costante. Nel 2006 una grave una grave
siccità si è abbattuta sul bacino dell’Amu Darya. Nel 2007 l’acqua che ha raggiunto il lago è stata
pochissima e nei due anni seguenti non ne è arrivata affatto. Senza l’acqua dell’Amu Darya il lago
si è rapidamente rimpicciolito e nel 2009 il lobo orientale è scomparso.
     Nel 2010 però la situazione è un po’ migliorata : sul Pamir ha nevicato normalmente e l’Amu
Darya ha raggiunto il lago. L’acqua fangosa si è depositata nel lobo orientale, facendolo apparire
molto più grande di quanto non fosse nel 2009. (tratto da Internazionale n.874, 26 novembre 2010,
con foto da satellite)




                                                                                                      17
Così hanno ucciso un Lago greco
      Era largo 45 km quadrati (quasi come quello di Lugano) e profondo 5 metri. Oggi si può
attraversare camminando. Koronia, nel nord del paese, è stato prosciugato e la sua fauna distrutta.
Nemmeno i soldi dell’Unione Europea sono serviti a salvarlo. Ma ora Atene è chiamata a
rispondere del disastro.
      La Commissione Europea ha avviato una procedura giudiziaria alla Corte di Strasburgo contro
l’inazione del governo greco. Una serie di pali indica i vecchi confini del lago Koronia, a parecchie
decine di metri dalla riva attuale. Situato presso Salonicco (nella Macedonia greca) il quarto lago
del paese si estendeva su 45 chilometri quadrati. In trenta anni la sua superfice è diminuita di un
terzo e la sua profondità è scesa da cinque a un metro e in certi punti anche a meno di un metro.
Nell’estate del 2009, il lago, quasi prosciugato, si poteva attraversare a piedi. Nel cuore
dell’Europa, Koronia sta scomparendo.
      Davanti a uno dei palisi trova una discarica, con vecchi televisori, mobili rotti, sacchi di
plastica. Eppure, il sito fa parte di Natura 2000, la rete europea delle zone naturali protette.E’ anche
sotto la protezione della Convenzione Internazionale di ramsar per la tutela delle zone umide.
“organizziamo regolarmente campagne di risanamento, ma i rifiuti ritornano”, spiega fatalista,
Marios Asteriou, del centro che gestisce Koronia e il vicino lago Volvi, più grande, più profondo e
in migliori condizioni.
     Atene sotto l’accusa dell’UE
      Persa la pazienza, la Commissione europea ha deciso, il 27 gennaio scorso, di portare la
Grecia davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver protetto il lago. Accusando
inoltre il governo di mancato rispetto delle direttive europee sugli uccelli e l’habitat, e anche sul
trattamento delle acque urbane. Nel 2004, la Commissione aveva avallato un piano risanamento del
lago, ed era pronta a finanziarlo al 75%, per l’importo di 20 milioni di euro. Sette anni dopo, solo
un quarto del progetto è stato realizzato. Perché tale inerzia? “E’ difficile da capire, per chi non è
greco”, riconosce Vasso Tsiaousi, del Centro zone umide della Grecia. Il progetto dipende da
quattro ministeri e dalla prefettura regionale di Salonicco, il che non facilita il suo avanzamento,
vista l’inefficienza dell’amministrazione. Certe gare d’appalto per la realizzazione dei lavori sono
state contestate davanti alla giustizia, per il sospetto di favoritismi nell’attribuzione dei mercati. I
ricorsi sono ancora in sospeso. La Commissione Europea oggi minaccia di rimettere in questione il
proprio finanziamento.
     I motivi di un disastro
      Le cause del disastro ecologico sono note da molto tempo. Situato in una regione agricola, il
lago ha sofferto negli anni ’80 del potenziamento dell’agricoltura intensiva, ma anche
dell’industrializzazione. Le industrie, specialmente quelle tessili, molto inquinanti a causa
dell’utilizzazione di bagni coloranti, smaltivano le acque residue gettandole nel lago.
      Una parte di queste attività è stata poi delocalizzata in Bulgaria. Anche le acque residue della
vicina città di Lagada vengono scaricate nel lago. La stazione di depurazione, costruita nel 2001 con
l’appoggio finanziario dell’UE, non è ancora stata raccordata alla città.
      Alla fine degli anni ’70, gli agricoltori passarono dall’orticultura del mais, più avida d’acqua,
con la benedizione, all’epoca, di Bruxelles. E continuarono, come i loro genitori, ad attingere acqua
dal suolo, ma con pozzi elettrici – spesso illegali – che arrivarono fino a 50 metri di profondità. E’
così che le acque del lago si sono abbassate e, alla fine degli anni ’90, tutti i pesci sono morti. Nel
2004 si è tentato di ripopolarlo, ma invano. Del piano di risanamento è stata rispettata soltanto una
parte, quella della creazione di un bacino che consente di dirottare il corso di due fiumi nel lago.
     All’inizio di febbraio, il bacino era vuoto, per mancanza di precipitazione atmosferiche.
Tuttavia, da un anno, il bacino ha consentito di mantenere il livello del lago a circa un metro.

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“Questo non serve a niente. Bisogna finire la pulizia e la depurazione del lago prima di aggiungere
acqua. Altrimenti, c’è il rischio di conseguenze disastrose per il lago Volvi”, spiega il deputato
europeo, ecologo, Michail Tremopoulos.
      Oggi, Koronia assomiglia a un lago, una vasta distesa di acqua, circondata da canneti, dove
passano numerosi uccelli. Ma “non è più un lago”, spiega Maria Moustaka, biologa presso
l’università della città di Salonicco. Secondo lei, si tratta piuttosto di un ambiente che favorisce la
proliferazione di alghe e microbi resistenti alle materie tossiche.
     Negli anni 1997, 2004 e 2007, migliaia di uccelli sono morti. Il lago protegge specie
minacciate come l’aquila dalla coda bianca, il cormorano pigmeo o l’airone cenerino. In questo
momento, l’acqua non sembra tossica per gli uccelli, “ma tutto può cambiare con molta rapidità”,
aggiunge ancora Maria Moustaka, che procede regolarmente a prelievi. Talvolta, il lago è talmente
sporco che c’è un livello di batteri alto quanto quello di un bacino di depurazione”. (…) (il testo
completo è nel Magazine del Corriere della Sera del 17 marzo 2011, con foto e cartine))


9. Scarsità idrica e abbassamento falde acquifere


     L’acqua, dalla scarsità alla penuria
      Quasi 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,4 miliardi sono prive di
depuratori; 1,8 milioni di bambini muoiono ogni anno di infezioni trasmesse da acque infette.
Milioni di donne sprecano ore ogni giorno per andare a cercare l’acqua. Milioni di abitanti delle
bidonvilles (baraccopoli), la pagano da cinque a dieci volte più cara che i residenti delle zone
correttamente urbanizzate. Quasi 450 milioni di giorni di scuola vengono persi annualmente per
questo motivo. L’Africa spreca ogni anno il 5% del suo prodotto interno lordo (PIL) a causa di
queste carenze.
      Nel 2000, l’Onu si era impegnata a dimezzare, entro il 2015, il numero di persone prive di
questi servizi vitali. Gli obiettivi del millennio per lo sviluppo (MDG) non saranno raggiunti.
L’acqua non è prioritaria nelle spese pubbliche: gli Stati le dedicano meno dell’1% del loro Pil. Il
budget militare del Pakistan è quasi 50 volte quello dell’acqua e della depurazione. Ma un migliore
accesso all’acqua proteggerebbe in modo efficace gli 850 milioni di abitanti di zone rurali che
soffrono di malnutrizione e sono minacciati dal riscaldamento climatico. L’UNDP ha chiesto agli
Stati di mettere acqua e depurazione in testa alle loro priorità, nonché di raddoppiare l’aiuto
internazionale, cioè 4 miliardi di dollari in più ogni anno.


     Supersfruttamento delle risorse
      L’agricoltura è la prima consumatrice di acqua, con l’80% dell’utilizzazione mondiale della
risorsa, contro il 12% per l’industria e l’8% del consumo pubblico. Lo sfruttamento intensivo delle
risorse, con l’aumento delle superfici agricole irrigate, provoca l’abbassamento delle falde freatiche
e il prosciugamento dei fiumi, esaurendo le risorse indispensabili ai 6,5 miliardi di abitanti del
pianeta, che diventeranno 8 miliardi nel 2030.
      Produrre un chilo di grano richiede 1500 litri di acqua, un chilo di carne industriale quasi
10.000 litri… I comportamenti e le pratiche devono essere radicalmente modificati,anche nei paesi
ricchi, anch’essi minacciati dalla penuria. I cambiamenti climatici, le scomparsa delle zone umide,
l’inquinamento crescente e una cattiva allocazione delle risorse contribuiscono all’insorgere di
squilibri preoccupanti. L’urbanizzazione galoppante e la cementificazione massiccia rendono i suoli
impermeabili, provocando a valle piene e inondazioni.


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Le acque sotterranee, il cui ritmo di rinnovamento può esigere diecine di migliaia di anni,
sono letteralmente prese d’assalto, a scapito dei bisogni delle generazioni future. Ne dipende un
americano su due, mentre la metà delle falde acquifere nordamericane è già in situazione di stress
idrico. Inoltre, ovunque nel mondo le reti di distribuzione pubblica accusano tassi di perdita dal 30
al 50%.
      Diventa pertanto indispensabile aumentare la produttività dell’acqua, soprattutto nei paesi che
non dispongono dei mezzi tecnici e finanziari atti a captare una risorsa mobilizzabile. Occorre
sfruttare ogni goccia per trarne più derrate agricole, più carne, pesce o latte. Come migliorare la
produttività agricola? Ricorrendo all’acqua piovane, promuovendo varietà di cereali adatte alle
scarse quantità di acqua disponibile, o sviluppando tecniche di irrigazione economiche o piccole
dighe.


     Preservare gli ambienti umidi
      E questo vale anche per i paesi ricchi: invece di investire in tecnologie curative sempre più
dispendiose, è tempo di preoccuparsi di preservare gli ambienti umidi e di evitare di ostacolare il
ciclo naturale dell’acqua. I paesi nordeuropei hanno ridotto con successo l’utilizzazione di prodotti
fitosanitari. La Germania è al primo posto nel riciclo di acque piovane. Le riforme devono essere
drastiche.
      Il riscaldamento climatico modifica anche le caratteristiche idrogeologiche dei corsi d’acqua,
a causa dell’aumento delle precipitazioni invernali e della loro diminuzione estiva. Ne consegue una
riduzione dell’accumulo invernale di neve e un disgelo molto più precoce in primavera, il che
provoca profonde modificazioni nei regimi idrogeologici dei bacini. Si potrebbe essere costretti al
blocco forzato delle centrali nucleari, in mancanza di acqua con cui raffreddarle.
      Le pratiche agricole dovranno essere riviste per adattare la produzione a condizioni
idrogeologiche degradate e a una evaporazione-traspirazione più intensa in estate. Il che rischia
anche di far aumentare i tassi di concentrazione dei Sali minerali nell’acqua e dunque
l’inquinamento.
      (Tratto da “L’Atlante per l’Ambiente” di Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, 2008, con
grafici e tabelle)
     Più riso per l’Iraq
      Finalmente una buona notizia dall’Iraq: sulle rive dell’Eufrate si vedono campi di riso
rigoglioso e in questi giorni, nel pieno del raccolto annuale, il ministero dell’agricoltura fa
previsioni ottimiste: il governo si prepara ad acquistare dai suoi agricoltori tra 150.000 e 175.000
tonnellate del buon riso aromatico di prima qualità tipico di queste terre, un bel balzo dalle 119.000
tonnellate raccolte l’anno scorso. Spiegano le autorità che la resa per ettaro è aumentata dell’11%
rispetto all’anno scorso e del 18% rispetto a due anni fa, e questo grazie alla maggiore disponibilità
di acqua, elettricità per far funzionare le pompe e irrigare i campi, fertilizzanti .
     Una buona notizia parziale, perché il consumo annuo di riso in Iraq ammonta a 1,2 milioni di
tonnellate: il paese resta un importatore netto di riso e lo stesso vale per il grano. Anzi, quella che
una volta era nota come la “mezzaluna fertile” è oggi uno dei dieci maggiori importatori di riso e
grano al mondo.
       Il problema di fondo resta la penuria di acqua, che ha conseguenze a cascata. La terra
coltivabile è sempre stata in Iraq quella compresa tra il Tigri e l’Eufrate – “la terra tra i due fiumi”,
Mesopotamia, - mentre il resto, (il 78% del territorio iracheno) non è adatto agli usi agricoli, al
massimo è pascolo. Ma Tigri ed Eufrate portano sempre meno acqua: in giugno l’Eufrate arrivava
alla frontiera con la Siria con una portata di 250 metri cubi al secondo, un record negativo. Anche il

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Tigri ha una portata dimezzata rispetto a prima del 2003, da 1680 a 836 metri cubi al secondo. Di
conseguenza sono bassi i reservoir alimentati dall’Eufrate (quello di Haditha, la diga di Mosul e il
lago Habaniyah). Gli ultimi tre anni di siccità hanno peggiorato la situazione. La mancanza di acqua
ha fatto aumentare la salinità dei terreni e questo ha costretto il governo l’anno scorso a dimezzare
la superficie coltivata a riso, irrigata totalmente dall’acqua dell’Eufrate. E la scarsità di acqua da il
colpo di grazia a una situazione già vulnerabile: l’agricoltura è stata paralizzata da decenni di
insicurezza, guerra, mancanza di investimenti, pressione umana. La somma di tutto questo ha
costretto nei tre anni passati a quasi dimezzare la superficie coltivata a riso. Se questo raccolto è
andato bene è perché, in primo luogo, si è allentata la siccità: il ministero dell’agricoltura ha
promosso opere per catturare piogge e nevi dell’inverno scorso nei reservoir, così quest’estate la
disponibilità di acqua è stata maggiore. Allo stesso tempo, la fornitura di elettricità è leggermente
migliorata, permettendo agli agricoltori di far funzionale le pompe per irrigare i loro campi (“il
problema è sempre che quando c’è acqua non c’è corrente elettrica e viceversa”, dice all’agenzia
Reuter un agricoltore della zona di Meshkhab, a sud di Bagdad). Aver diminuito la superficie negli
anni passati ha permesso di concentrare gli input di acqua e fertilizzanti e aumentare il raccolto,
dicono i responsabili del ministero dell’agricoltura: così la produzione si è consolidata nelle
province centrali di Najaf, Diwaniya e Wassit. Ora molti pensano a espandere le coltivazioni: un
buon incentivo sta nel fatto che il governo – l’ente nazionale per i cereali, acquirente istituzionale
dei raccolti iracheni – paga agli agricoltori 583 dollari per tonnellata di riso, ben più dei 420-430
dollari pagati per tonnellata di riso importato dai mercati internazionali.
     Un buon auspicio, il raccolto di riso. Anche se resta un futuro incerto, per molte ragioni, non
ultime le dighe in costruzione sul Tigri in Turchia.
     (M. Forti, su “Il manifesto” del 22 dicembre 2010)
     Energia
     Nucleare a secco
      Per funzionare le centrali nucleari hanno bisogno d’acqua. La siccità che ha colpito la Francia
potrebbe costringere 44 dei 58 reattori situati vicino ad un corso d’acqua a sospendere l’attività,
sostiene l’Osservatorio sul nucleare. Le norme dovrebbero garantire la sicurezza, ma in caso di
arresto degli impianti potrebbe mancare l’elettricità. E se le autorità dovessero concedere, come nel
2003 e nel 2006, una deroga sulla temperatura massima delle acque di scarico, che non devono
superare i 28 gradi, sarebbe un problema per la flora e la fauna.
     (Tratto da Internazionale del 20 maggio 2011)


10.Desertificazioni (siccità, guerre per il controllo delle fonti)


     La via della sete
     Mongolia
      Di qui passava la Via della Seta. Ma quando Marco Polo la percorse, ottocento anni fa, non
s’imbatté certo in un panorama così desolato. Questa regione, a metà strada tra Cina e Mongolia,
diecimila chilometri quadrati di territorio ormai desertificato dalla siccità, porta ancora il nome di
lago Juyan. Anche se di quel lago immenso che irrigò la pianure più rigogliose dell’impero
mongolo, non è rimasta neppure una goccia d’acqua: le ultime, residue pozzanghere si sono
prosciugate alla fine degli anni Novanta. Il lago Juyan si è trasformato così in una delle lande più
aride del pianeta. Un eco disastro, perché oggi questo enorme serbatoio alimenta a sua volta
tempeste di sabbia sempre più devastanti, che si abbattono sulle fertili pianure della Cina del Nord.

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Trasformandole in deserto. E. Lucchini (testo tratto da “Io donna”, supplemento del Corriere della
Sera del 12 gennaio 2008, con foto)
     Grande sete, nuove guerre
      Quando le sollevazioni politiche del Medio oriente si saranno placate, continueranno per un
bel pezzo a farsi sentire in molte sfide latenti che oggi non appaiono sulle pagine dei giornali.
     Tra queste primeggiano il rapido aumento della popolazione, la carenza sempre più diffusa di
acqua e una crescente insicurezza alimentare.
      In alcuni paesi, la produzione di cereali si sta riducendo mano a mano che esauriscono le falde
acquifere, zone rocciose di acqua sotterranea. Dopo l’embargo petrolifero dei paesi arabi negli anno
‘70, i sauditi si resero conto che, a causa della loro enorme dipendenza dall’importazione di cereali,
erano vulnerabili ad un contro embargo cerealicolo. Utilizzando la tecnologia della perforazione
petrolifera, trovarono una falda acquifera piuttosto profonda nel deserto con cui produrre grano per
irrigazione. In pochi anni, l’Arabia Saudita diventò autosufficiente per quanto riguarda il suo
regime alimentare di base.
      Tuttavia, dopo più di venti anni di autosufficienza di grano, i sauditi annunciarono nel gennaio
del 2008 che questo deposito acquifero era quasi completamente esaurito e che la produzione di
grano sarebbe stata gradualmente abbandonata. Fra il 2007 e il 2010 la produzione di quasi tre
milioni di tonnellate si ridusse a meno di un milione. Al ritmo attuale, i sauditi potrebbero realizzare
il loro ultimo raccolto di grano nel 2012 e passare a dipendere dall’importazione del cereale per
alimentare una popolazione di quasi 30 milioni di persone.
      L’abbandono insolitamente rapido della coltivazione di grano in Arabia Saudita si deve a due
fattori. In primo luogo, in questo paese arido esiste poca agricoltura che non sia di irrigazione. In
secondo luogo, l’irrigazione dipende quasi esclusivamente da una falda acquifera fossile che, a
differenza della maggioranza delle altre, non si ricarica in modo naturale, grazie all’apporto delle
piogge. Inoltre, l’acqua marina desalinizzata, che si utilizza nel paese per rifornire le città, è troppo
costosa perfino per i sauditi per usarla in irrigazioni.
      La recente insicurezza alimentare dell’Arabia Saudita l’ha portata a comprare e affittare terre
in vari paesi, fra cui due dei più colpiti dalla fame, : l’Etiopia e il Sudan. In effetti, i sauditi stanno
programmando di produrre i loro alimenti con le risorse della terra e dell’acqua di altri paesi, per
incrementare delle importazioni che aumentano sempre più rapidamente.
       Nel vicino Yemen, le falde che possono rialimentarsi vengono sfruttate al di sopra del loro
tasso di riproduzione e gli acquiferi fossili più profondi si stanno esaurendo rapidamente. Gli indici
idrici dello Yemen stanno calando di circa due metri all’anno. Nella capitale Sana’a, che ospita due
milioni di abitanti, si distribuisce acqua corrente solo una volta ogni quattro giorni. A Taiz, una città
più piccola nel sud del paese, l’erogazione avviene ogni venti giorni.
      Lo Yemen, con una delle popolazioni che cresce più velocemente nel mondo, sta diventando
un caso disperato, idrologicamente parlando. Con la caduta degli indici idrici, la produzione di
cereali si è ridotta ad un terzo negli ultimi quaranta anni, mentre la domanda ha continuato ad
aumentare in maniera costante. Il risultato è che gli yemeniti importano più dell’80 % del cereale.
Mentre calano le sue magre esportazioni di petrolio, senza nessuna industria che meriti questo nome
e con quasi il 60% della popolazione infantile fisicamente atrofizzata e con malnutrizione cronica,
questo paese, che è il più povero dei paesi arabi, si trova di fronte a un futuro tetro e potenzialmente
turbolento.
     Il probabile risultato dell’esaurimento degli acquiferi nello Yemen, che porterà ad una
maggiore contrazione dei raccolti ed estenderà la fame e la sete, è il collasso sociale. Essendo già
uno stato fallito, può ridiventare un insieme di feudi tribali che si fanno la guerra per le scarse


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risorse idriche rimanenti. I conflitti interni dello Yemen potrebbero travalicare la sua estesa
frontiera con l’Arabia Saudita, senza alcuna vigilanza.
      La Siria e l’Iraq, - gli altri due paesi popolosi della regione -, hanno anch’essi problemi con
l’acqua. Alcuni provengono dalla portata ridotta dei fiumi Eufrate e Tigri, da cui dipendono per
l’acqua destinata all’irrigazione. La Turchia, che controlla le sorgenti dei due fiumi, è impegnata in
un importante programma di costruzione di bacini che provoca una riduzione dei flussi a valle.
Sebbene i tre paesi hanno un programma comune per condividere l’acqua, i piani della Turchia di
aumentare la generazione di energia idroelettrica e le sue zone irrigate si realizzano a spese dei suoi
due vicini a valle. Visto l’incerto futuro degli approvvigionamenti idrici fluviali, gli agricoltori
siriani e iracheni stanno scavando più pozzi per l’irrigazione e questo sta provocando un eccesso di
estrazione nei due paesi. La produzione cerealicola della Siria è calata di un quinto, dopo aver
raggiunto un culmine di circa 7 milioni di tonnellate nel 2001. In Iraq, il raccolto di cereali è
diminuito di un quarto, dopo aver raggiunto un massimo di 4,5 milioni di tonnellate nel 2002.
      La Giordania, con sei milioni di abitanti, sta al limite in termini di agricoltura. Quaranta anni
fa, più o meno, produceva più di trecentomila tonnellate di cereali all’anno. Oggi produce solo
sessantamila tonnellate e deve importare quindi più del 90% del suo grano. Solo il Libano è riuscito
ad evitare un calo della sua produzione cerealicola.
     Cosicchè, nel Medio Oriente arabo, una regione in cui la popolazione cresce rapidamente, il
mondo sta assistendo alla prima collisione fra crescita demografica e rifornimento d’acqua su scala
regionale. Per la prima volta nella storia, la produzione di cereali sta diminuendo in una regione in
cui non si scorge nulla all’orizzonte che possa fermare questo calo. A causa del fallimento dei
governi nel coniugare le misure politiche che riguardano popolazione e acqua, ogni giorno che
passa ci sono 10.000 persone in più da alimentare e meno acqua da irrigazione per alimentarli.
     (Lester Brown, su “Il manifesto” dell’11 maggio 2011)


11.Acidificazione e inquinamento degli oceani
     Acque acide
      Due terzi del pianeta sono coperti dagli oceani, essenziali nella regolazione del clima grazie
alla capacità di assorbire l’anidride carbonica. Ma l’acidificazione degli ecosistemi marini, causata
dalle industrie, dalla combustione, dalla nostra stessa respirazione, mette a rischio la chimica degli
oceani. Per scoprire l’impatto che questo processo avrà nei prossimi cento anni, è stato da poco
avviato il Progetto Epoca, un maxi studio che coinvolge cento scienziati di nove paesi europei.
(L’Espresso del 13 settembre 2008)
     Rischio acidità
     Gli oceani assorbono la Co2
      Gli oceani assorbono attualmente circa un terzo delle emissioni di anidride carbonica del
Pianeta. Questa capacità li sta rendendo sempre più acidi con ripercussioni su ecosistemi e biologia
marina. Proprio sugli impatti legati all’acidificazione degli oceani si è concentrato un incontro che
si è appena concluso in Giappone del gruppo intergovernativo di scienziati ONU, l’IPCC. Già
adesso, si legge sul sito dell’Ipcc, l’acidificazione delle acque degli oceani è riconosciuta come “una
componente fondamentale del cambiamento globale, potenzialmente responsabile di una vasta
gamme di impatti sugli ecosistemi, con ulteriori conseguenze sui mezzi di sostentamento e
sicurezza alimentare”.
      Al nuovo rapporto Ipcc contribuirà l’Italia con Riccardo Valentini, anche presidente del
Sistema di osservazione globale, nel ruolo di coordinatore del capitolo sull’Europa che dedicherà
particolare attenzione al Mediterraneo. “Il processo del Quinto rapporto è iniziato –spiega

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Valentini- e porterà alla fine del 2013 alla stesura del lavoro. Per ora si fa un grosso lavoro di
screening della letteratura scientifica, per il solo capitolo sulla U.E. saranno esaminati circa 4.000
documenti”. Negli incontri che si sono tenuti dall’11 al 14 gennaio in Giappone, osserva Valentini,
si è cominciata a respirare “una nuova atmosfera. C’è una maggiore coscienza dell’importanza ch
questi rapporti hanno sia per le scelte legate alle politiche energetiche e climatiche, sia per
l’opinione pubblica. Per questo c’è la volontà di rendere tutto più trasparente”.
      (Corriere della Sera del 24 gennaio 2011)


12.Il declino delle risorse ittiche
     Indagine Wwf: degrado e inquinamento di corsi e bacini italiani producono seri danni alla
fauna ittica
      Com’è amara l’acqua per i pesci
      L’85% delle specie di fiume e lago è candidata all’estinzione
      Fulco Pratesi
      Di tutte le classi di animali del nostro Paese, quella che presenta la maggiore percentuale di
specie a rischio d’estinzione è costituita dai pesci di acqua dolce, con l’85% di candidati alla
scomparsa, seguiti dagli anfibi (76%), rettili (69%), uccelli (66%), mammiferi (64%). Pur se poco
presenti nelle cronache e nelle denunce degli ambientalisti, come accade per i mammiferi e gli
uccelli, questi componenti della fauna italica rivestono un notevole interesse, dal punto di vista
scientifico ed economico. Una recente indagine condotta sul campo da 600 volontari del WWF
lungo trenta fiumi dal Friuli alla Sicilia, ha fornito dati sconfortanti sullo stato di gran parte di essi.
      Prelievi, legali o abusivi, di acqua, distruzione della vegetazione riparia, inquinamenti,
sottrazione di ghiaia e sabbia dagli alvei, discariche solide sulle rive, cementificazione delle sponde,
bracconaggio, canalizzazioni e sbarramenti a scopi idroelettrici hanno quasi ovunque degradato i
corsi d’acqua arrecando danni pesantissimi alla fauna ittica. Ma a queste aggressioni, più note e
visibili, si accompagnano quelle determinate dall’invasione, nei corpi idrici, di specie ittiche aliene,
che causano gravi danni a quelle indigene. E’ da tempo che i pescatori sportivi, (che hanno
collaborato alla ricerca), denunciano i problemi provocati da immissioni, volontarie o meno, di
elementi estranei alla nostra fauna in competizione ecologica con le specie indigene. Tra i pesci
esotici – oltre a quelli già “naturalizzati” da anni come il persico trota, il persico sole e la trota iridea
provenienti dall’America del Nord – spiccano la lucioperca dell’Europa centrosettentrionale,
l’abramide e soprattutto l’immenso e vorace siluro del Danubio, (due metri e mezzi di lunghezza e
fino a 300 chili di peso) grande distruttore di ciprinidi ma anche di piccoli mammiferi, anfibi e
giovani uccelli acquatici. (…) I più in pericolo sarebbero la trota macrostigma del Meridione e delle
Isole maggiori, la trota marmorata del Nord Italia, il carpione del Garda, la lampreda padana e la
lampreda di ruscello, lo storione cobice dei fiumi Po, Adige, Brenta, Piave e Tagliamento, il
panzarolo della Padania, il ghiozzo di ruscello dell’Italia centrale e il carpione del Fibreno (che vive
solo in un piccolissimo lago, di 0,29 km quadrati, a Fibreno in provincia di Frosinone). (…) (il testo
completo sul Corriere della Sera del 15 marzo 2011, con foto delle dieci specie a rischio)


13. La distruzione delle barriere coralline


      Un vero e proprio ricchissimo forziere per la biologia marina, già ora profondamente segnato
dall’inquinamento, dalla pesca intensiva e dal riscaldamento dell’acqua. Conseguenze sotto gli
occhi di tutti: i coralli morti stecchiti e la barriera sbiancata e spettrale, come quella che ormai

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delude i turisti ritardatari alle Maldive. …entro il 2020, anno totem ormai per l’ambientalismo, è
obbligatorio portare dal 13 al 17% il totale delle terre emerse protetto in maniera integrale, e al
      10 % , dall’attuale misero 1%, la superficie oceanica dichiarata riserva “no take”, cioè
intoccabile. Proprio per salvare il salvabile dei reef più importanti. (Alessandro Cecchi Paone,
Corriere della Sera Magazine, dicembre 2010, con foto)


14. La riduzione delle foreste
     Quando le foreste emettono carbonio invece di catturarlo
      Le foreste sono di immensa importanza per la ricchezza della loro biodiversità. In realtà, sui
50 o 100 milioni di specie che si ritiene siano presenti sul pianeta, ne sono state identificate solo 1,8
milioni, cioè meno del 5%. I tre quarti si troverebbero nelle zone tropicali. Molto ambite a causa del
legno o per guadagnare nuove terre agricole, da qualche tempo le foreste sono diventate anche un
argomento fondamentale nei dibattiti sul clima. Oltre ad una azione di regolatore locale, la
vegetazione ricopre infatti, insieme ai suoli, un ruolo importante nel fissare una parte del carbonio
atmosferico planetario. Suoli e vegetazione accumulano naturalmente 3,2 giga-tonnellate (Gt) di
carbonio l’anno. Il disboscamento provoca ogni anno 1,6 gt di rigetto di carbonio. Il saldo positivo
di stoccaggio da parte della vegetazione e dei suoli è dunque di 1,6 Gt all’anno, ossia un quarto dei
6,8 Gt emessi ogni anno dalle attività umane. Riassumendo, la vegetazione terrestre assorbe solo un
quarto del carbonio eccedente liberato nel’atmosfera dalle attività umane – produzione d’energia,
trasporti e messa a coltura delle terre.
      L’aumento di concentrazione di carbonio nell’atmosfera, così come le temperature più elevate
osservate nell’ultimo secolo, hanno in un primo tempo, stimolato la produzione vegetale. Così,
alcune foreste hanno avuto un aumento di produttività del 15% nel corso del XX° secolo. Questo
fatto ha portato a considerare le foreste come “pozzi di carbonio”: i paesi industriali potrebbero
quindi compensare i rifiuti con piantagioni, in particolare nell’ambito del protocollo di Kyoto. Il
fatto che questa proposta sia stata vivamente osteggiata dagli ambientalisti fino al 2001, ha offerto
agli Stati Uniti il pretesto per rifiutare di ratificare il protocollo. Dopo di allora, il rimboschimento è
stato incluso nei meccanismi di Kyoto come srumento di compensazione per le emissioni di gas a
effetto serra, ma resta molto controverso a diversi livelli.
     La soglia del 2050
      Le proiezioni indicano che la capacità della vegetazione di assorbire carbonio raggiungerà la
soglia verso il 2050. Dopo questa data, lo stress subito a causa del riscaldamento, così come il
proliferare di parassiti, dovrebbero far si che le foreste smettano di catturare il carbolio e anzi lo
emettano.
      I “pozzi “ forestali non costituiscono che un rinvio di qualche decennio, prima di un
peggioramento lasciato in eredità alle future generazioni. Dal momento che le foreste fitte sono
considerate in equilibrio, e quindi ormai incapaci di fissare carbonio, c’è chi pensa di tagliarle per
utilizzarne il legname e di sostituirle con piantagioni di specie a crescita rapida come eucalipti,
acacie e albizie, il che costituisce un netto impoverimento della biodiversità. La moda recente degli
agro carburanti in sostituzione del petrolio ha indotto anch’essa un rilancio del dissodamento.
      Parallelamente, il riscaldamento riduce l’umidità nei sottoboschi e facilita il propagarsi degli
incendi. Il fenomeno è stato osservato negli ultimi anni in Europa,Australia e Stati Uniti, ma
riguarda anche le regioni tropicali dell’Africa, dell’Amazzonia e dell’Asia.
     Lo sfruttamento industriale del legno, anche a scarso impatto, rende le foreste più fragili
     aprendo piste che prosciugano la vegetazione.


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L’esempio più impressionante è la coincidenza tra il Nino e l’avvio delle concessioni forestali
in Indonesia. Dall’inizio degli anni ’80, vasti incendi hanno devastato periodicamente queste
foreste, distruggendo in alcuni anni più di tre milioni di ettari, cioè la superficie del Belgio. Gli
incendi del 1997-1998 avrebbero liberato nell’atmosfera 2,5 Gt di carbonio, vale a dire
l’equivalente delle emissioni annue europee.
     Direttamente legata agli incendi e ai dissodamenti per l’agroindustria, la combustione del
carbonio delle torbiere costituisce un’altra questione cruciale. Accumulata da centinaia di migliaia
di anni, la torba rappresenta su scala planetaria 500 Gt di carbonio, cioè circa settanta anni di
emissioni antropiche. Il problema interessa soprattutto le foreste del Borneo e di Sumatra, i cui suoli
concentrano il 60% della torba mondiale. Tenuto conto di tali rifiuti, l’Indonesia diverrebbe il terzo
emettitore di carbonio, dopo Stati Uniti e Cina.
    (Tratto da “L’Atlante per l’ambiente”, Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con
mappe e grafici)
     Oggi in tutto il mondo si celebra il Giorno della Terra. L’obiettivo: un miliardo di “azioni
verdi” entro il 2020
     SOS Terra, le sette foreste da salvare
     Negli ultimi 25 anni è andato distrutto il 10% delle aree boschive.
       Le chiamano “le magnifiche sette” e sono tutte esotiche e misteriose. A preoccuparsi per loro
sono in tanti, da Greenpeace al WWF. L’obiettivo è bloccarne l’impoverimento. Per mantenere il
loro splendore, per tutelare la nostra salute. Se sparissero, infatti, saremmo investiti dai gas serra
rilasciati dai 500 miliardi di tonnellate di carbonio che loro invece preservano nel suolo. Sono le
foreste, già protagoniste nell’agenda dell’ONU, che ha dichiarato il 2011 “Anno Internazionale
delle Foreste”. A loro è dedicata anche la Giornata mondiale della Terra, 41 candeline e quasi
mezzo miliardo di persone che le spegneranno oggi in 192 paesi di tutto il mondo, con un desiderio
da realizzare: raggiungere un miliardo di “azioni verdi” entro l’inizio del vertice ONU sullo
sviluppo sostenibile, previsto a Rio de Janeiro nel 2012. “Il 10% delle foreste è scomparso negli
ultimi 25 anni, a una media di 13 milioni di ettari l’anno dal 2000”, lancia l’allarme Massimiliano
Rocco del WWF. La perdita più alta riguarda la fascia neotropicale (centro e Sudamerica) con 5
milioni all’anno; meno 3,4 milioni in Africa; meno 2,2 milioni in Asia. “Non ci rendiamo nemmeno
conto del danno che facciamo quotidianamente con scelte irresponsabili” aggiunge Rocco. E in
effetti fa una certa impressione leggere i dati del CNR, secondo il quale negli uffici italiani si
consumano 1,2 milioni di tonnellate di carta, pari a 80 chili per dipendente, 240 miliardi di fogli
utilizzati ogni anno che si traducono in quattro miliardi di anidride carbonica. Per risparmiare 1,3
milioni di tonnellate di CO2 basterebbe usare la stampa fronte retro o eliminarla del tutto, quando
non è proprio indispensabile.
     Greenpeace sul suo sito avverte: ogni due secondi viene distrutta un’area di foreste grande
quanto un campo di calcio. “Non possiamo distogliere l’attenzione dalle ultime sette foreste della
Terra: l’Amazzonia, la Patagonia, le foreste indonesiane, quelle del bacino del Congo, la foresta
boreale del Canada, la “foresta di babbo Natale” in Lapponia, infine le foreste russe.” Insiste Chiara
Campione di Greenpeace.
       Il patrimonio verde richiede millenni per formarsi. “E quando sentiamo parlare di
riforestazione dobbiamo comunque stare attenti perché raramente questi progetti riescono a
ripristinare la biodiversità originaria”, precisa l’attivista.
      L’associazione ambientalista fornisce i numeri dell’emergenza. A causa degli incendi delle
foreste torbiere indonesiane ogni anno vengono rilasciati nell’atmosfera 1,8 miliardi di tonnellate di
gas serra. In Congo dove gorilla, scimpanzé e bonobo (oltre a dieci milioni di persone), dipendono
dalla foresta pluviale, sono stati stipulati in due anni cento contratti di taglio per 15 milioni di ettari

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di verde: equivalgono a cinque volte il Belgio. (…) (Il testo completo sul Corriere della Sera del 22
aprile 2011, con mappe)
     L’economia della foresta, di Marina Forti
       Si chiamano “prodotti minori della foresta” o anche “prodotti no timber”, non legno, tutto ciò
che la foresta può dare finché è viva. Secondo stime della FAO, qualcosa come l’80% della
popolazione dei paesi “in via di sviluppo” trae dalle foreste buona parte di ciò che serve alla
sopravvivenza quotidiana. Prendiamo Chaikur, un villaggio come migliaia di altri sulle pendici dei
Ghat orientali, dorsale montagnosa che percorre da nord a sud il versante orientale dell’India.
Grandi alberi di tamarindo ombreggiano il villaggio, e qui sono anche la principale fonte di reddito.
In gennaio-febbraio nei cortili delle case gruppi di persone lavorano attorno a grandi mucchi di
frutti di tamarindo che assomigliano a grossi baccelli di colore scuro: vanno sbucciati, tolta la
venatura, messi da parte i semi (da cui si trae amido) e raccolta la polpa, che ha consistenza pastosa.
La pasta di tamarindo è ingrediente essenziale nella cucina dell’India meridionale e di molti paesi
asiatici. Altri “prodotti no timber” sono le fibre vegetali, certi fiori. O le foglie di tendu, quelle che
si arrotolano per fare le sigarettine indiane chiamate bidi, che andavano molto di moda tra gli
occidentali negli anni passati.
      Di recente, le raccoglitrici di questi villaggi hanno formato cooperative, per non essere alla
mercé dei grossisti che fissano il prezzo. Ma l’intera economia della foresta è minacciata da una
deforestazione rampante. “Quasi ogni giorno i giornali riferiscono di qualche squestro di legname
tagliato illegalmente, ma è solo la punta dell’iceberg” dice Iqbal Bhai, abitante della zona e
cofondatore di un’associazione per salvare le foreste come bene comune. Il fatto,dice, è che “gli enti
governativi, quando ripiantano, mettono acacie e altri alberi che crescono in fretta, ma non specie
indigene. Ad esempio, ci siamo opposti al progetto di fare una piantagione di pino tropicale, per
produrre polpa di cellulosa con un bel finanziamento della Banca Mondiale. Perchè questo va a
spese delle specie indigene come il teak, il sal, alberi a crescita lenta”. Il sal è un albero importante
il suo nome botanico è Shorea Robusta, specie nativa dell’Asia meridionale, dalle pendici
dell’Himalaya ai Ghat orientali, alla Birmania. Grande albero (raggiunge i 30 o 35 metri), con foglie
larghe, nelle poche zone di foresta ancora vergine spesso è la specie dominante. E’ una delle più
importanti fonti di legno duro in India, resinoso e duraturo -le case di questi villaggi hanno strutture
di sal. Ma se ne tagliava poco, una volta, perché agli abitanti qui è più utile da vivo. Le foglie
intrecciate e seccate sono usate per fare piatti e scodelle usati per il cibo venduto nelle bancarelle;
fresche servono per servire gli involtini di paan, con la noce di betel. Sono usa e getta, sì, ma
finiranno mangiati dalle capre o dalle mucche ( è così che l’India finora si è difesa dall’invasione
del polistirolo). Infine si usano la resina, i semi e i frutti, da cui si estrae un olio per le lampade. E’
un albero protetto, è preda dei tagliatori di frodo. Per gli abitanti locali è molto più utile da vivo, con
foglie e resine.
      “come fanno a non rendersene conto , la Banca Mondiale e le altre organizzazioni che
finanziano questi progetti? Li chiamano “reafforestation”, ma che riforestazione è tagliare specie
indigene e mettervi al posto alberi esotici?. Mi chiedo se davvero non capiscono che quando
distruggi la foresta nativa distruggi la sopravvivenza di tante persone”
     (tratto da Il Manifesto del 22 marzo del 2011).


     Dall’Amazzonia al Borneo. La società si difende: i nostri dossier sono corretti
     I dati gonfiati sulle foreste sparite
     Attacco verde ai super consulenti
     GreenPeace contro McKinsey: previsioni sbagliate per speculare sugli aiuti


                                                                                                        27
Una società di consulenza che incoraggia ad abbatterele foreste e allo stesso tempo fa
intascare gli aiuti contro la deforestazione non può che essere molto amata dai governi. E infatti la
McKinsey ha prodotto dal 2007gli studi diventati di riferimento nella complicata materia della
riduzione del riscaldamento globale. Congo, Guyana o Indonesia aspirano a una fetta dei 4,6
miliardi previsti dall’accordo internazionale di Cancun (2010) per salvare le foreste pluviali?
Compilano dossier ispirati ai dati della McKinsey, marchio passpartout nel mondo degli affari e
della governance mondiale, e sono quasi certi di ottenere gli aiuti desiderati.
      Solo che, secondo il rapporto “Bad influence” di GreenPeace, le carte distribuite dalla
McKinsey sono truccate, non hanno alcun valore scientifico. Risponderebbero, in realtà,
all’esigenza di alcuni Stati di continuare lo sfruttamento economico del polmone verde del Pianeta,
venendo pure pagati per farlo. La McKinsey, conosciuta anche come The Firm, fondata nel 1926 a
Chicago dal professore universitario James O. McKinsey, è la più influente società di consulenza
del mondo, con circa 16.000 dipendenti e una rete di “ex” impiantata ai più alti livelli della politica
e dell’economia mondiale. Un bersaglio perfetto per GrenPeace, tradizionalmente poco tenera con i
grandi nomi del capitalismo globalizzato. (…) oggi è la più grande associazione ambientalista con
uffici in oltre 40 paesi e 2,8 milioni di donatori in tutto il mondo: nel rapporto “Bad Influence”
appena pubblicato l’organizzazione della “pace verde”si lancia contro l’influenza nefasta di
McKinsey nella lotta alla deforestazione, citando alcuni casi significativi.
       Nella Repubblica Democratica del Congo McKinsey consiglia al governo di chiedere
risarcimenti perché l’industria del legname raddoppierà l’abbattimento degli alberi entro il 2030.
Uno sforzo da premiare, secondo la società di consulenza, altrimenti le piante tagliate potrebbero
triplicare.
      In Guyana, in base ai dati di McKinsey, il tasso di deforestazione è del 4,3 all’anno; per
evitare per evitare la totale sparizione della foresta pluviale entro il 2035, Paesi donatori come
Norvegia o Gran Bretagna dovranno versare oltre 400 milioni di euro all’anno alla piccola
repubblica sudamericana. Secondo GreenPeace, invece, il tasso di deforestazione attuale è molto
più basso, attorno allo 0,1%; questo permetterà agli industriali del legno di aumentare gli
abbattimenti, ed essere comunque risarciti.
       In Indonesia, per ridurre i danni alla foresta pluviale gli studi di McKinsey consigliano di
arrestare la coltivazione della terra ad opera dei piccoli agricoltori, incoraggiando invece
l’allargamento delle piantagioni di alberi, destinati però ad essere abbattuti. In questo modo,
secondo McKinsey, si ottiene la stessa riduzione di biossido di carbonio, a costi 30 volte inferiori.
     A guadagnarci sono il governo e ancora una volta l’industria del legname, non certo i
contadini indonesiani e neanche gli oranghi del Borneo, in via di estinzione.
      McKinsey ribatte alle accuse: “Siamo in totale disaccordo con i risultati del rapporto di
Greenpeace e ribadiamo la validità del nostro lavoro e approccio- ha dichiarato la società in una
nota-, assistendo i clienti del settore pubblico, suggeriamo misure che possono essere usate in un
complesso dibattito nazionale sulle strategie per una crescita economica equa e a bassa produzione
di carbonio”.
      Una volta fugati i dubbi sull’esistenza stessa del riscaldamento globale, ecco l’incertezza sui
dati usati per combatterlo o fingere di farlo. Greenpeace chiede a McKinsey di rivelare la fonte dei
suoi studi. McKinsey risponde che non può farlo: comprometterebbe il “rapporto di riservatezza”
con i clienti. (S. Montefiori, sul Corriere della Sera del 10 aprile 2011, con grafici e mappe).
     Foreste più estese ma con meno specie, cosa perdiamo senza biodiversità
     La giornata di ieri, 22 maggio 2011, ha concentrato su di se diverse ricorrenze. In primo
luogo, la Giornata Mondiale della Biodiversità, un utile richiamo al 2010, dedicato dall’ONU
proprio a questo argomento. E il fatto che l’anno scorso sia stato, sempre dall’ONU, consacrato alle

                                                                                                    28
50 meccanismi ambientali - Alberto Castagnola
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50 meccanismi ambientali - Alberto Castagnola

  • 1. BOZZA IL PIANETA VIOLATO Uno strumento di comprensione dei meccanismi di danno ambientale Per una visione responsabile del comune futuro (A cura di Alberto Castagnola) 1
  • 2. Roma, giugno 2011 INDICE Presentazione 1. La grande nube 2. Aumento della temperatura causata da smog e consumo petrolio e gas 3. Scioglimento dei ghiacci 4. Aumento livello del mare 5. Perturbazioni climatiche sempre più catastrofiche 6. Aria cattiva nei centri urbani 7. Ampliamento del buco nell’ozono 8. Prosciugamento dei fiumi e dei laghi 9. Scarsità idrica e abbassamento falde acquifere 10. Desertificazione (siccità, guerre per il controllo delle fonti) 11. Acidificazione e inquinamento degli oceani 12. Il declino delle risorse ittiche 13. La distruzione delle barriere coralline 14. La riduzione delle foreste 15. Le piogge acide 16. Il degrado dei pascoli 17. L’erosione del suolo 18. L’inquinamento dell’acqua 19. L’inquinamento da pesticidi, fertilizzanti e altri prodotti chimici 20. L’estinzione delle specie animali e vegetali 21. La scomparsa di una specie interrompe le catene alimentari 22. L’aumento della omogeneità genetica 23. La diffusione di organismi geneticamente modificati 24. La cementificazione di fiumi, coste e aree urbane 25. L’aumento dei rifiuti 2
  • 3. 26. L’aumento dei rifiuti tossici e industriali 27. L’accumulazione delle scorie nucleari 28. L’inquinamento da inceneritori e gassifica tori 29. Consumo eccessivo di materie prime industriali 30. Consumo eccessivo di materie prime agricole per scopi industriali 31. L’aumento di metalli pesanti nel sangue 32. Aumento delle malattie causate da danni ambientali 33. Diffusione malattie da virus ancora non curabili 34. Aumento obesità e relative malattie 35. Ambiente poco da “macho” 36. Aumento rottami spaziali 37. Aumento polveri sottili nell’aria 38. Aumento delle due “isole” di plastica nel Pacifico 39. L’aumento dei rifiuti elettronici 40. L’inquinamento da radon 41. Inquinamento acustico 42. Inquinamento urbano 43. Inquinamento da amianto 44. Inquinamento da “coltan” 45. Rischi connessi alle nanotecnologie 46. I danni della produzione di agro carburanti 47. La morte delle api 48. Inquinamento elettromagnetico 49. Inquinamento luminoso 50. L’imbottigliamento delle acque da permafrost 51. Le conseguenze per l’ambiente dei rifiuti alimentari Danni emergenti 52. Sfruttamento dei giacimenti di litio 53. Mercurio da lampadine 54. Il controllo strategico sulle terre rare 55. Il metano idrato sotto il permafrost 3
  • 4. 56. Batteri mutanti resistenti agli antibiotici 57. Quanto inquina Internet 58. I parabeni, conservanti rischiosi Indicazioni bibliografiche Strumenti audio visuali Sitologia 4
  • 5. PRESENTAZIONE Quanto state per iniziare a leggere nasce come semplicissimo strumento per la formazione, cioè come una lista dei principali meccanismi di danno arrecati al pianeta da distribuire ai partecipanti dei corsi, utile per poter seguire il docente e come promemoria personale; quindi un indice meno che sommario per poter leggere una situazione globale sempre più grave e complessa. Nei mesi successivi al primo corso in cui è stato utilizzato, l’elenco dei meccanismi si è più che raddoppiato ed è emersa la distinzione tra danni già da tempo in atto, e per i quali spesso nulla si è ancora fatto, e danni potenziali che le scelte economiche e tecnologiche in corso di adozione o di elaborazione lasciano già intravedere. In ogni occasione formativa, inoltre, venivano raccolti e spesso distribuiti, testi particolarmente significativi che analizzavano i meccanismi di danno nelle loro cause e conseguenze ed è nata l’idea di raccoglierli come documentazione sistematica all’interno della lista generale; il tutto naturalmente concepito come lavoro da aggiornare continuamente e da integrare man mano che le analisi elaborate da esperti e scienziati diventano più approfondite e attendibili. I testi utilizzati, per una scelta precisa, sono quasi tutti apparsi sulla stampa quotidiana e su alcuni settimanali, quindi non sono fonti scientifiche o particolarmente qualificate, ma solo dei testi pieni di dati e di informazioni, riportati da giornalisti capaci di realizzare una divulgazione accurata e attendibile, alla portata di lettori raramente in possesso di conoscenze specializzate. Non vi è quindi alcun rapporto tra il numero e le dimensioni dei testi raccolti e l’incidenza dei relativi meccanismi di danno sulla biosfera e sulle sofferenze umane prodotte; inoltre la selezione e la datazione dei testi risente moltissimo delle priorità attribuite dai giornalisti ai temi legati alla cronaca e alle “mode” e non è quindi raro il caso di meccanismi essenziali che vengono trascurati per anni o sui quali si concentra l’attenzione solo per qualche giorno per poi ricadere nel dimenticatoio. Si tratta quindi in pratica di una rassegna stampa selettiva, che permette, con uno sforzo minimo, di acquisire una visione realistica, concreta e complessiva dei drammi che il nostro pianeta sta sopportando e delle gravi preoccupazioni che oscurano le prospettive degli umani che abitano l’unica Terra che abbiamo a disposizione. L’obiettivo è quindi, molto semplicemente, quello di far avere ad un numero rapidamente crescente di persone “comuni” una visione completa e non superficiale dei meccanismi di danno che ogni giorno deteriorano il nostro ambiente, cercando di sottrarle ai tanti tentativi di mistificare o nascondere le conseguenze di ognuno di questi meccanismi, realizzati negli ultimi anni da molti governi e da quasi tutte le organizzazioni internazionali. I motivi di questa scelta sono circoscritti ma hanno una rilevanza strategica non da poco. Negli ultimi anni le notizie si sono moltiplicate e apparentemente esiste un livello informativo diffuso piuttosto alto. In realtà la grande maggioranza delle popolazioni, anche nei paesi ritenuti più avanzati, non accede a questo livello e viene alimentata dai notiziari ben più scarni ed elusivi delle televisioni e delle radio. I flussi informativi, inoltre, sono ampiamente utilizzati da multinazionali e grandi imprese di servizi per proteggersi in anticipo da accuse e contestazioni e per imporre ulteriori modelli di consumo ancora non certo rispettosi per l’ambiente. Durante il 2010, infatti, è iniziata la presentazione pubblicitaria della “economia verde” che nella stragrande maggioranza dei casi, rappresenta solo il tentativo di prolungare nel tempo e sotto mentite spoglie i meccanismi di danno ambientale che hanno finora garantito i maggiori profitti e vantaggi alle strutture produttive. Chi sono quindi i destinatari desiderati di questo strumento di una conoscenza ne superficiale, ne ad alto livello scientifico e di specializzazione? In primo luogo i partecipanti a ogni corso che intenda affrontare i problemi delle società contemporanee nell’ottica delle analisi economiche e 5
  • 6. sociali e che quindi non può assolutamente trascurare la componente ambientale, specie per la sua importanza cruciale per i futuri assetti delle società civili di tutti i paesi. Sarebbe poi auspicabile che proprio i limiti dello strumento stesso fossero considerati utili da organizzazioni (istituzionali e di movimento) di una certa dimensione, per dotare i loro aderenti di una conoscenza di base, non specialistica ma organica; ciò vale al momento e nel contesto italiano, per i maggiori organismi che operano nella cooperazione allo sviluppo come per le organizzazioni di massa e per quelle sindacali. Siamo convinti infatti che molte delle riconversioni, dei recuperi e delle scelte tecnologiche non dannose per l’ambiente non saranno adottate dal sistema dominante finché le esigenze fondamentali e più urgenti non saranno avanzate e sostenute da basi sociali molto diffuse e attive. Molti sono convinti che presentare un quadro ampio, articolato e piuttosto completo dell’insieme dei danni che stiamo infliggendo al pianeta Terra possa scoraggiare anche le persone di buona volontà e che la lettura sortisca in ultima analisi un effetto negativo di spinta verso l’indifferenza e di rimozione dei rischi che corriamo ogni momento delle nostre giornate; siamo sicuri che questo risultato assolutamente negativo si otterrà in molti casi e le persone che si sottraggono alle loro responsabilità andranno perse, forse per sempre. In realtà restiamo convinti che tutte le persone minimamente curiose e potenzialmente pronte ad affrontare meccanismi di cambiamento radicale, potrebbero trovare, in una visione complessiva della attuale situazione del pianeta e della specie umana, la spinta a prendere finalmente atto dei meccanismi che ci stanno travolgendo e a darsi carico di una analisi cosciente e della necessità di cominciare a muoversi in modo responsabile verso forme di mobilitazione continuative. Solo una conoscenza articolata e innegabile della situazione e delle prospettive reali dei popoli della Terra può far uscire dall’indifferenza profonda che ci pervade. Infine, è importante che questo lavoro sia rivisto, integrato, saccheggiato e aggiornato da chiunque voglia usarlo, sia cioè considerato non la proprietà intellettuale di qualcuno, ma solo come un oggetto collettivo utile, che può trovare usi e riusi diversi. Sarà interessante vedere se le nuove forme di volta involta assunte saranno a loro volta ridiffuse e riutilizzate con le stesse modalità, perché altri ne possano usufruire, condividendo atteggiamenti di responsabilità collettiva. (A. C. e quanti altri si riconoscono in questo tentativo…..) 6
  • 7. Quadro generale dei principali danni ambientali (di A. Castagnola, lavoro in corso, da integrare) 1. La grande nube Effetto buio, ultima sfida al pianeta Terra Un’impalpabile coperta di smog sovrasta i cieli. Dal deserto del Sahel alle vette dell’ Himalaya L’hanno scoperta otto anni fa,una grande nuvola marrone che sovrastava un’ampia area dell’Asia meridionale. Densa di fuliggine, composti chimici e particelle di carbonio generate dal traffico, dall’inquinamento industriale e dalla combustione di carbone e biomasse. Veerabhadran Ramanathan, scienziato indiano di stanza alla Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California, a San Diego, ha svelato col tempo che altre coltri oscurano i nostri cieli, spostandosi per migliaia di chilometri, oltre oceani e frontiere. Una coperta di smog, impedendo alla luce solare di raggiungere la superficie terrestre, ha portato negli ultimi 30 anni a una diminuzione pari al 10% della luminosità sul pianeta con punte del 37% in 50 anni a Hong Kong e a un lento raffreddamento della superficie terrestre che ha in parte “mascherato”, limitandone i danni, il surriscaldamento provocato dai gas serra. E le tenebre avanzano con una media del 2-3% all’anno. Non è tutto. La caligine riduce anche la luce solare che si riversa sugli oceani, facendo diminuire l’evaporazione oceanica e perciò le precipitazioni. E l’ultima scoperta di Ramanathan è che gli stessi corpi nuvolosi d’inquinamento che raffreddano il suolo e innescano l’effetto buio e l’effetto inaridimento, nei bassi strati dell’atmosfera dove essi vagano causano invece un forte surriscaldamento, dovuto alle particelle di carbonio che assorbono le radiazioni e diffondono calore tutto intorno. Un calore, che secondo le pionieristiche ricerche del climatologo, sarebbe tra i principali responsabili dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya.” Per il pianeta è una minaccia altrettanto letale dei gas serra”, avverte il professore. (…) Le nuvole marroni si concentrano in alcuni punti caldi (hot spot) a livello regionale o di megalopoli. Combinando le osservazioni via satellite con modelli algoritmici e una capillare raccolta di dati al suolo, l’equipe di Ramanathan è riuscita ad identificare cinque “punti caldi” regionali: 1) Asia orientale: Cina orientale, Thailandia, Vietnam e Cambogia; 2) le pianure indo gangetiche dell’Asia meridionale: dal Pakistan orientale attraverso l’India fino al Bangladesh e Myanmar; 3) Indonesia; 4) Africa meridionale dalle zone sub sahariane allo Zambia e allo Zimbabwe; 5) Il bacino amazzonico in Sudamerica. A queste aree si aggiungono 13 mega hot spot, corrispondenti ad altrettante megalopoli: Bangkok, Pechino, Il Cairo, Dhaka, Karachi, Kolkata, lagos, Mumbay, Ne Delhi, Seul, Shanghai, Shenzen e Teheran. (…) Le nubi sono formate da aerosol di varia natura, in particolare solfati e nitrati, che agiscono come dei parasole sopra la Terra, riflettendo e disperdendo la luce solare nello spazio, e fuliggine (cioè aerosol di carbonio e idrocarburi incombusti) che invece assorbe la luce solare e rilascia calore nell’aria circostante. Di fatto, un cocktail di sostanze raffreddanti e riscaldanti, che si muove in continuazione, spinto dalle correnti aeree e dai venti. “La ricerca ha rivelato l’esistenza di pennacchi di nuvole marroni in atmosfera che si spostano attraverso e sopra gli oceani. L’inquinamento della costa orientale degli Stati Uniti in quattro o cinque giorni può arrivare in Europa e in una settimana dall’Europa va in Asia meridionale. Da problema locale, diventa un problema regionale e globale; ogni paese diventa il cortile dei rifiuti di qualcun altro”, spiega il climatologo. Un circolo vizioso senza fine. Che non si ferma al termometro di casa. 7
  • 8. La combinazione dell’abbassamento delle temperature sulla superficie terrestre, del riscaldamento dell’aria e dell’alterazione delle precipitazioni regionali avrebbe effetti devastanti. Per esempio, minori precipitazioni sui continenti, fenomeni di siccità in Asia e Africa e gravi danni alle coltivazioni, come hanno dimostrato i recenti dati sul raccolto di riso in India (la produzione degli ultimi venti anni è diminuita di circa il 15%) o le strane mutazioni nell’alternarsi dei monsoni indiani. “I modelli climatici attribuiscono proprio alle nuvole marroni, le atmospheric brown clouds, la causa principale della siccità nel Sahel e della desertificazione dei tropici negli ultimi 50 anni. L’ultimo stadio della ricerca di Ramanathan riguarda l’effetto riscaldamento in atmosfera. Utilizzando degli aeroplanini computerizzati e telecomandati per raccogliere i dati, la sua equipe ha studiato cosa avveniva intorno e all’interno di una nuvola marrone sospesa sull’Oceano Indiano, all’altezza delle Maldive, spessa ben tre chilometri: la concentrazione di particelle inquinanti e fuliggine, la quantità di radiazione solare e quanta luce solare veniva intrappolata in atmosfera, il vapore acqueo…Dopo una ventina di missioni aeree, ha confermato che le particelle di carbonio contribuivano almeno per il 50% al riscaldamento della bassa atmosfera, il resto essendo dovuto ai gas serra. In base ad elaborati calcoli matematici, complessivamente l’effetto warming sarebbe pari a 0,25° ogni decennio, sufficiente per spiegare ad esempio il drammatico “ritiro” dei ghiacciai himalayani. La fuliggine, a queste altitudini, tra l’altro un doppio effetto: da un lato il già citato riscaldamento atmosferico provocato dalla nube che tocca le vette, dall’altro il fatto che le particelle di carbonio si condensano e depositano sulle nevi e sul ghiaccio, aumentando la quantità di luce solare assorbita. In questo quadro a tinte fosche, si intravede però una luce. A differenza dei gas serra, che restano in atmosfera per centinaia di anni, la sopravvivenza della fuliggine è di poche settimane. “Se riusciamo a tagliare le emissioni, ne vedremo subito i benefici”, conclude Ramanathan. (…) (il testo completo in Corriere della Sera Magazine del 12 aprile 2008 con foto). Più verdi, più al verde Bangkok Ossidi di azoto, benzene, etanolo, tricloroetano, benzina, trementina. Sono i principali componenti delle nuvole di smog fotochimico che nelle giornate con poco vento ridipingono il cielo sopra Bangkok, la capitale della Thailandia, una delle città più inquinate del mondo. (…) (il testo completo in Corriere della Sera Magazine del 12 aprile 2008, con foto)< 2. Aumento della temperatura causata da smog e consumo di petrolio e gas Il ciclo del carbonio sconvolto dal cambiamento climatico L’equilibrio dinamico che per molte centinaia di milioni di anni ha accompagnato il clima della Terra era legato a un ciclo del carbonio relativamente regolare. Come se un giocoliere lo facesse passare dallo stato solido a quello gassoso, dalla biosfera e dagli oceani all’atmosfera. Questo processo è stato destabilizzato dalla rivoluzione industriale, basata sulla combustione dei composti di carbonio quali il petrolio, il carbone e il gas detto naturale. Decine di miliardi di tonnellate sepolte sotto la terra e gli oceani sono state così rilasciate nell’atmosfera modificando le quantità coinvolte nel ciclo del carbonio. Ci sono voluti milioni di millenni per farlo fossilizzare, ma solo poche diecine di anni per disperderlo nell’atmosfera. Per fortuna, il giocoliere ha degli assi nella manica che compensano un poco lo squilibrio: biosfera e oceano costituiscono infatti un immenso serbatoio di carbonio. Lo assorbono dall’atmosfera e lo integrano al suolo o lo precipitano sotto forma di carbonati (gli oceani). Hanno così già assorbito quasi la metà dei rifiuti antropici. E’ il motivo per il quale li si definisce “pozzi di carbonio”. Ma c’è un problema: la quantità di carbonio trattenuta nell’oceano diminuisce per….il 8
  • 9. riscaldamento climatico! Può essere infatti che l’aumento delle temperature dell’oceano riduca la capacità di sedimentazione, rallentando, se non, a certe latitudini, sopprimendo le correnti oceaniche responsabili ( a livello della Groenlandia e nel Pacifico) del deposito dei sedimenti. D’altra parte, la deforestazione delle foreste tropicali e il cambiamento d’uso delle terre (sfruttamento agricolo o urbanizzazione) riducono ulteriormente il ruolo compensatorio della biosfera. E la desertificazione, accentuata dal riscaldamento in particolare nell’Africa subsahariana, non fa che aggravare il fenomeno. La biosfera (vegetazione, suolo e oceano) consente un margine di manovra nella gestione delle nostre emissioni di CO2, ma limitato. Si calcola che possa riciclare in modo naturale 3,2 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di carbonio all’anno. Una quantità soggetta a evoluzione, a causa dell’alterazione del ciclo del carbonio e del nostro sfruttamento della biosfera. Inutile, perciò, contare sui pozzi di carbonio per riassorbire il problema climatico. La sola soluzione è ridurre le emissioni di gas a effetto serra all’origine (“mitigazione”). Per evitare di raggiungere una soglia di riscaldamento pericolosa, è necessario fissare un obiettivo di stabilizzazione della concentrazione di questi gas. E’ quindi imperativo stabilire con precisione il margine di manovra che ci concede l’atmosfera (3,5 gigatonnellate). La valutazione che ne consegue è che in cinquanta anni bisognerebbe dividere per quattro le emissioni complessive di gas a effetto serra. Si pone così la questione della ripartizione. Ridurre a un quarto in ogni paese? Fissare una quantità di carbonio annua per abitante (si parla di 0,5 tonnellate di carbonio, cioè 1,8 tonnellate di CO2)? Comunque, anche se gli abitanti dei paesi sviluppati dovessero assumersi le proprie responsabilità, questo non eviterà che anche i paesi emergenti (Asia, Sudamerica) partecipino allo sforzo generale. In conclusione, bisogna riconoscere che l’essere umano fa parte integrante del ciclo del carbonio (sia per quanto incide che per quanto subisce), ma che non sembra averne ancora preso pienamente coscienza. Scienziati in allarme “la politica nasconde la verità sul clima” “Due gradi in più? Le cose stanno peggio “sarebbe bello, ci metterei dieci firme, non una. Peccato sia irrealistico: i due gradi sono un traguardo che non è più alla nostra portata. Dirlo è un atto di onestà. Così come è un atto di onestà aggiungere che se non ci muoviamo subito, se non chiudiamo nel giro di pochissimi anni il rubinetto dei gas serra, non riusciremo neppure a fermarci a 3 gradi”. Rank Raes, capo dell’Unità cambiamenti climatici del Centro di ricerca della Commissione Europea, esprime ad alta voce quello che i migliori climatologi del mondo – da Stephen Schneide della Stanford University a Jasan Lowe del Met Office – stanno raccontando a Copenhagen nelle riunioni parallele al negoziato dei governi. Nella bozza di accordo finale resa pubblica ieri, l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale a due gradi in più viene sventolato come una bandiera. E’ il vessillo che dovrebbe indurre i Paesi a tagli nelle emissioni di gas serra che vanno dal 50 al 90% entro il 2050. Ma per gli scienziati non c’è rapporto tra i tempi della politica e i tempi della biosfera: con gli obiettivi oggi sul tappeto i due gradi restano un miraggio. Ecco il ragionamento dei climatologi: Primo punto: calcolando solo l’effetto dei gas serra già in atmosfera, si deve mettere in conto un aumento di temperatura di circa mezzo grado nei prossimi decenni. Secondo punto: Attivare l’economia virtuosa significa ripulire il cielo dallo smog. Il che farà benissimo ai nostri polmoni, ma eliminerà “l’effetto schermo”delle radiazioni solari, che oggi maschera il reale aumento di temperatura : è un altro grado che va aggiunto. 9
  • 10. Terzo punto: calcolando che c’è già stato un aumento di più di 0,8 gradi rispetto all’era preindustriale, ( i due gradi hanno come punto di riferimento quel periodo) e che un aumento intorno a 1,5 per le ragioni precedenti è inevitabile, la barriera dei 2 gradi risulta già sfondata. Ma è ragionevole l’ipotesi di attestarsi appena sopra i due gradi? “ e’ tecnicamente fattibile, ma richiederebbe una volontà politica di cui oggi non si scorge traccia: dovremmo tagliare in maniera draconiana tutte le emissioni di gas serra e azzerare la deforestazione”, continua Raes, “Uno scenario già considerato buono invece è un tagli robusto delle emissioni dei paesi industrializzati e una crescita ridotta delle emissioni dei paesi in via di sviluppo. Ma anche così i gas serra continueranno a crescere ed è molto difficile che si fermeranno prima che si raggiunga un aumento medio di 3 gradi. Poi, dopo qualche decennio, quando il motore della nuova economia avrà ingranato, le emissioni scenderanno”. Peccato che la natura non risponda con la stessa velocità della Borsa. “Andiamo incontro a perdite di ghiaccio molto importanti, in particolare in aree come la Groenlandia “, ha ricordato Jasan Lowe del Met Office. “E’ un cambiamento profondo che rafforzerà il processo di riscaldamento e innalzerà il livello del mare. Non possiamo pensare che dopo aver superato il picco delle emissioni, quando finalmente riusciremo a riportare la concentrazione di CO2 in atmosfera a valori accettabili, tutto tornerà come prima: ci vorranno secoli e secoli”. Ma che significa in pratica un aumento medio di 3 gradi? In alcune aree e in alcuni periodi la temperatura salirà in maniera molto più consistente. Nelle aree artiche si prevede una crescita almeno doppia e soffriranno vaste zone come l’Africa e il Mediterraneo. Vuol dire che episodi come le ondate di caldo dell’estate del 2003 (70.000 morti aggiuntivi stimati dall’OMS in Europa) diventeranno frequenti. “Eppure ridurre in tempi brevi le emissioni è possibile”, osserva Stefano Caserini il docente al Politecnico di Milano che ha appena pubblicato Guida alle leggende sul clima che cambia. “ma se reagiremo con troppa lentezza non potremo più limitarci a non inquinare. Dovremo immaginare anche il ricorso a misure che oggi appaiono fantascientifiche. Potremmo far crescere le piante, bruciarle per produrre energie e poi seppellire la CO2. Cioè riportare il carbonio in profondità, dove è restato per milioni di anni sotto forma di petrolio”. L’allarme viene dal cielo Cosa succederebbe se la temperatura del pianeta aumentasse di tre gradi? Uno studio recente dell’Università di Durham e della Royal Society for the Protection of Birds, condotto in collaborazione con BirdLife International, (la rete di associazioni che difendono gli uccelli, come la LIPU), racchiuso nell’Atlante climatico degli uccelli nidificanti in Europa, ha annunciato l’estinzione per ben 120 specie entro la fine del ventunesimo secolo. I ricercatori hanno disegnato una mappa dei futuri “areali riproduttivi” (ossia l’area geografica in cui vive una specie) di molte specie tra il 2070 e il 2090, in cui presumibilmente dovrebbe aumentare la temperatura del pianeta. LO scenario che se ne ricava è terrificante. In Europa, il 25% delle specie si estinguerà. L’aumento delle temperature costringerà molte specie a spostarsi verso nord-est, in nuove aree più limitate. A farne le spese saranno soprattutto le specie artiche, sub-artiche e iberiche, ma anche quelle a distribuzione limitata o molto limitata (endemiche), ad esempio : il canapino asiatico, il Verzellino fronte rossa, il Picchio Muratore corso e il Gallo cedrone del Caspio. In Italia, 15 specie sulle 262 esaminate rischieranno l’estinzione. I nostri pronipoti rischieranno di non vedere l’Airone Bianco, oppure il Gabbiano Corso o la Pernice Sarda. Li sostituiranno altre specie provenienti da Spagna e Grecia. E per la prima volta nel nostro paese potrebbe nidificare il Nibbio bianco, l’Usignolo d’Africa e la Gazza Azzurra. 10
  • 11. “Lo spostamento medio delle varie specie sarà di circa 500 chilometri verso nord-est, - spiega Marco Gustin, responsabile Specie e Ricerca di Lipu-BirdLife, i paesi del mediterraneo subiranno una diminuzione di specie di uccelli, mentre nei paesi del centro, ma soprattutto del nord Europa, aumenteranno. Se una specie come la Pernice Sarda, si trova bene a nidificare in un ambiente non ci sarà più qui perché le condizioni del clima saranno cambiate, quindi non saranno più ideali. Molte specie non avranno più zone idonee per riprodursi. Per questo diminuiranno, perché dovranno convivere in un’area più ristretta. (…) (E. Formisani, il testo completo su Carta del 15-21 febbraio 2008) Gas serra Nel 2010 sono state prodotte 30,6 miliardi di tonnellate equivalenti di Co2, pari ad un aumento del 5% delle emissioni rispetto al 2009. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, l’anno scorso le emissioni di anidride carbonica sono state “le più alte della storia”. (tratto da “Internazionale” del 2 giugno 2011) E il clima continua a scaldarsi Brutte notizie hanno accolto i delegati dei circa 180 paesi firmatari della Convenzione dell’Onu sul clima, che ieri hanno cominciato due settimane di colloqui a Bonn, in Germania. E la prima delle brutte notizie è che le emissioni di anidride carbonica, il principale dei gas di serra che alterano il clima terrestre hanno toccato un nuovo record nel 2010. Così certifica l’ultimo rapporto diffuso dagli economisti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie). In altre parole, vent’anni di negoziati internazionali su come tagliare le emissioni provocate dall’uso di combustibili fossili (petrolio, carbone, gas) per ora hanno dato risultati molto scarsi, per non dire nulli: la quantità di gas “di serra” spediti nell’atmosfera terrestre non rallenta neppure la sua crescita. I dati sono allarmanti. L’anno scorso 30,6 gigatonnellate (Gt, ovvero miliardi di tonnellate) di anidride carbonica sono finite in aria, in gran parte prodotte dalla combustione di fossili: è un aumento di 1,6 Gt rispetto al 2009, anno in cui le emissioni erano scese (nel 2008 erano 29,3 Gt). Ovvero la crisi finanziaria e la recessione mondiale ha segnato solo una lieve flessione, poi le emissioni hanno ricominciato a crescere, e molto più in fretta di quanto chiunque si aspettasse, ha detto un allarmato Fatih Birol, capo degli economisti dell’Aie e considerato uno dei massimi esperti mondiali di energia, al quotidiano The Guardian, ( che la settimana scorsa aveva anticipato le conclusioni del rapporto). Gran parte dell’aumento delle emissioni registrato nell’anno scorso, circa tre quarti, è da attribuire a paesi “emergenti” (dove le economie crescono più che nel vecchio mondo industrializzato). E lo studio dell’Aie fa notare anche che l’8’% delle centrali termiche che saranno attive nel 2020 sono già costruite o in costruzione, e quasi tutte usano combustibili fossili. Ovvero, il corso delle emissioni di anidride carbonica è già segnato. E questa è l’altra cattiva notizia: i dati diffusi dall’Aie indicano che le emissioni sono pressoché tornate al ritmo di crescita pre-crisi, fa notare il professor Nicholas Stern della London Scool of Economics (è l’autore del noto “Stern Report” sui costi del cambiamento del clima). Ma se la crescita delle emissioni di gas di serra continua a questo ritmo “significa che abbiamo il 50% di possibilità che la temperatura media aumenti di oltre 4 gradi centigradi al 2100”, ha detto Stern (sempre al Guardian). E questo sarebbe semplicemente una catastrofe: il Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc) considera la soglia dei 2 gradi di aumento della temperatura media come il limite oltre a cui i cambiamenti climatici diverranno irreversibili. Mantenere l’aumento della temperatura entro i 2° è quindi l’obiettivo formalmente adottato dai paesi firmatari della Convenzione Onu sul clima, durante l’ultima Conferenza sul clima a Cancun. 11
  • 12. Ma con le emissioni che crescono a questo ritmo, dice un allarmatissimo Birol, quei 2° sono solo “una bella utopia”. E dire che secondo molti scienziati già solo 2° di aumento medio della temperatura avranno un impatto devastante sul pianeta – molte isole e zone costiere sommerse, una grave crisi dell’agricoltura mondiale. La signora Christiana Figueres, segretaria esecutiva della Covenzione Onu sul clima, giorni fa ha rilanciato: “Il mondo deve darsi come obiettivo stare entro gli 1,5 gradi”. Con queste premesse, difficile aspettarsi molto dalla Conferenza incominciata a Bonn, uno dei passaggi preparatori in vista del prossimo vertice mondiale sul clima, a Durbans in dicembre, che dovrebbe mettere a punto una nuova politica mondiale sul clima: decidere il destino del protocollo di Kyoto dopo la sua scadenza nel 2012, delineare un nuovo sistema di obiettivi per ridurre le emissioni di gas di serra, indicare come raccogliere 100 miliardi di dollari per finanziare il “fondo per il clima”, lanciato dal vertice precedente per aiutare i paesi ad affrontare le conseguenze del cambiamento del clima. 3. Scioglimento dei ghiacci Il ghiacciaio Tasman in Nuova Zelanda Il terremoto di magnitudo 6,3 che il 22 febbraio 2011 ha colpito Christchurch, in Nuova Zeland, ha provocato anche il distacco di un pezzo di ghiaccio di 30 milioni di tonnellate dal Ghiacciaio Tasman. Dopo essere caduto nel lago Tasman, il blocco di ghiaccio si è frantumato in tanti iceberg più piccoli. Quando il radiometro Aster, a bordo del satellite Terra della Nasa, ha scattato questa foto, gran parte degli iceberg si erano spostati verso il lato opposto del lago. (…) Situato a circa duecento chilometri a ovest di Christchurch, il ghiacciaio di Tasman è il più largo e il più lungo della Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha cominciato a ritirarsi, soprattutto perdendo ghiaccio dal suo termine, cioè al confine tra il ghiacciaio e il suolo. Il terremoto ha solo accelerato un processo che si sarebbe verificato comunque. Alla fine del 2007 l’istituto neozelandese per l’acqua e le ricerca atmosferica (NIWA) ha annunciato che il ghiacciaio Tasman è arretrato di cinque chilometri dal 1976. L’accumulo di sedimenti, le morene, rivelano l’estensione precedente del ghiacciaio e circondano il lago. I ghiacciai delle Alpi meridionali neozelandesi hanno perso l’11% del loro volume tra il 1976 e il 2007. Da allora sono rimasti stabili o sono ulteriormente arretrati. (Tratto da Internazionale n. 888 dell’11 marzo 2011, con foto) 4. Aumento livello del mare Collasso dei poli, un primo atto è in Groenlandia Il livello medio del mare è salito di circa 17 centimetri dall’inizio del XX secolo e il fenomeno va accelerandosi da una quindicina di anni. L’innalzamento è dovuto agli effetti congiunti dello scioglimento dei ghiacci, compreso quello delle calotte, e dell’espansione dell’acqua provocata dal riscaldamento della superficie degli oceani. Il volume del ghiaccio diminuisce attualmente su tutti i continenti, a eccezione dell’Antartico. La banchisa artica, la calotta della Groenlandia e il permafrost (suolo gelato in permanenza), si trovano nelle altre latitudini dell’emisfero boreale., dove nel secolo scorso il riscaldamento del pianeta è stato dell’ordine del doppio della media mondiale. 12
  • 13. Durante l’estate la banchisa artica si ritira ogni anno di più, al ritmo del 7,4 % ogni decennio da trent’anni. Il che fa prevedere la sua possibile scomparsa estiva alla fine del xxi secolo. Il permafrost, che è ripartito sui continenti circumpolari (attorno al bacino artico), con una profondità crescente verso il nord, ha perso il 15% della sua superficie primaverile dal 1900. Questa è resa spesso fluida o fangosa a causa del gelo che persiste al di sotto. Le alte terre della Groenlandia sono ricoperte da una calotta glaciale (inlandsis) che arriva a 4020 metri. A una altitudine simile, il riscaldamento provoca un aumento della capacità igrometrica dell’aria e quindi delle precipitazioni sotto forma di neve. Così il ghiaccio tenderebbe a ispessirsi sulla maggior parte del paese. Sulle coste, scende per gravità in ghiacciai che si prolungano fino al mare, dove si disperdono sotto forma di iceberg. Il problema del futuro della calotta della Groenlandia sta nella velocità di quest’ultimo fenomeno. Quando il mare si riscalda, come succede dal XX secolo, il distacco si accelera e aumenta la velocità di discesa del ghiaccio proveniente dall’alto. L’incognita attuale dipende dalla differenza tra apporti di neve e scioglimento del ghiaccio. Il risultato influenzerà l’altezza del livello marino, la quantità di acqua dolce liberata nell’oceano Atlantico e, associato alla variazione del tasso di salinità dell’acqua, si ripercuoterà sulla corrente marina di superficie, la Corrente del Golfo, che a sua volta influenza il clima dell’Europa e la circolazione oceanica. Alla fine del XX secolo, l’acqua di scioglimento della Groenlandia ha contribuito all’innalzamento del livello marino. Secondo recenti ricerche, il disgelo di alcuni ghiacciai è più rapido di quanto gli esperti non pensassero. Una tale liquefazione accelerata della Groenlandia, che comporta una diminuzione di volume della calotta, ha stimolato l’ipotesi di scenari catastrofici. Contribuirebbe fortemente all’innalzamento del livello marino medio: fino a 7 metri in caso di scomparsa totale della calotta della Groenlandia, prevista nell’eventualità che l’innalzamento della temperatura media superasse i 2° C rispetto alla fine del XIX secolo. Segnale d’allarme. Il disastro potrebbe , inoltre, indurre una modifica della temperatura , e soprattutto della salinità dell’acqua, all’origine di un rallentamento della circolazione della Corrente del Golfo, il che comporterebbe due conseguenze: - da una parte, i climi dell’Europa occidentale, attualmente addolciti da una circolazione atmosferica proveniente da ovest, e che passa sopra la Corrente del Golfo, diventerebbero, con inverni più freddi ed estati più calde di ora, più continentali e più simili a quelli della costa est del Canada e del nord degli Stati Uniti; - d’altra parte, la circolazione oceanica, legata alla corrente di superficie indissociabile, dovrebbe reagire in una maniera ancora non chiara. Questi scenari estremi sono per ora in attesa della convalida delle loro fondamenta scientifiche. Tuttavia, rappresentano un segnale d’allarme rispetto all’idea di un cambiamento climatico a evoluzione graduale. Al di la di certe soglie, potrebbero verificarsi mutazioni repentine. Gli scienziati attualmente cercano tracce di eventi improvvisi e rapidi nei ghiacci e nei sedimenti che segnalino evoluzioni non lineari tali da ipotizzare l’applicazione della teoria del caos all’evoluzione del clima. (Tratto da “L’Atlante per l’Ambiente” di Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con mappe e dati) 13
  • 14. 5. Perturbazioni climatiche sempre più catastrofiche America Tra le macerie dell’Alabama: 321 i morti, migliaia i feriti Obama: devastazione mai vista e ora si teme il Mississippi Il Presidente nella zona dei 137 tornado. Prevista un’alluvione “Non ho mai visto una devastazione simile. Spezza il cuore” Parlando tra le macerie di Tuscaloosa, la città dell’Alabama più duramente colpita dai 137 tornado che mercoledì hanno devastato dei Stati del Sud degli Stati Uniti, uccidendo 321 persone e ferendone gravemente migliaia, il presidente americano Barak Obama e la first lady Michelle ieri hanno cercato di ridate speranza ad una America che a sei anni di distanza torna a rivivere il dramma di Katrina. (…) Sono stati i tornado più violenti nell’area dal 1974, quando 148 cicloni colpirono 13 Stati, uccidendo 315 persone. Il maltempo che ha colpito mercoledì e giovedì ha anche lasciato un milione di utenti senza elettricità, chiudendo intere fabbriche e rendendo impraticabili strade e autostrade. Gli Stati più colpiti dovranno anche fare i conti con lo spettro delle inondazioni dalla portata storica, che secondo gli esperti potrebbero subissare la famigerata alluvione del Mississippi del 1927, la più grave nella storia degli Stati Uniti, che uccise 246 persone in ben 7 Stati, provocando danni per oltre 13 miliardi di dollari, una enormità per quei tempi. (…) (il testo completo sul Corriere della Sera del 30 aprile 2011, con mappa e foto) Mississippi, la piena vista dal satellite In Louisiana la grande alluvione è cominciata. In Mississippi è attesa a ore. A causa delle intense piogge e dello scioglimento delle nevi il Mississippi si è ingrossato inondando ampie zone in Illinois, Missouri, Kentucky, Tennessee, Arkansas, Mississippi e Louisiana. Le autorità della Louisiana hanno aperto altre chiuse per far decrescere il livello dell’acqua, causando l’allagamento di 12.000 chilometri quadrati nell’area della Morganza. (Corriere della Sera del 16 maggio 2011, con foto e immagini da satellite). 6. Aria cattiva nei centri urbani Smog L’inquinamento atmosferico, e soprattutto le polveri sottili inferiori a 2,5 micrometri, riduce la speranza di vita degli abitanti delle grandi città. Abbassando la concentrazione di queste polveri, in Europa si potrebbero evitare 19.000 decessi all’anno, afferma lo studio Aphekom, condotto in 25 città europee. L’impatto delle polveri sottili: Mesi di speranza di vita guadagnati, per chi ha più di 30 anni, se la soglia dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità fosse rispettata: Bucarest (22,5), Budapest (19,3), Barcellona (13,7), Atene (12,8), Roma (12,1), Siviglia (10,2), ecc. (Tratto da Internazionale n.888, dell’11 marzo 2011, con tabella) Inquinamento Per il nono mese consecutivo a Roma polveri oltre i limiti L’OMS: L’aria cattiva delle città? Vivremo tutti nove mesi di meno Per il nono giorno consecutivo, i livelli di polveri sottili (PM10) nell’aria di Roma sono oltre i limiti. C’è inquinamento anche nei parchi. Il Campidoglio ordina per oggi un nuovo blocco parziale della circolazione per i veicoli più inquinanti. In attesa che il meteo cambi, Roberto Bertollini, direttore scientifico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Europa, avverte: “Di inquinamento muoiono 8 mila persone l’anno, e uno studio dice che a causa dell’aria cattiva ogni persona vive 8,6 mesi in meno”. (cfr articoli sul Corriere della Sera del 15 febbraio 2011) 14
  • 15. A settanta all’ora sulle tangenziali per ridurre le polveri Manca un piano nazionale dell’aria. Quello che permetterebbe a Milano e alle altre città affogate dallo smog di mettere in atto iniziative concertate contro le polveri sottili. A Milano si vive il trentaseiesimo giorno di sforamento dei limiti del Pm10 e il governatore della Lombardia chiama in causa il governo e il ministro dell’ambiente. (…) Una mancanza che oltre a non garantire una procedura comune a livello nazionale contro lo smog, ha provocato la decisione dell’Unione Europea di non concedere più deroghe all’Italia in fatto di inquinamento. Il paese continua a respirare veleni.(cfr. articoli sul Corriere della Sera del 9 e10 febbraio 2011) 7. Ampliamento del buco nell’ozono Una ricostituzione lenta dello strato di ozono Lo strato di ozono, naturalmente presente nell’alta atmosfera, è vitale. Senza questa protezione i raggi ultravioletti del sole ucciderebbero qualsiasi tipo di vita sulle terre emerse. La sua scomparsa costringerebbe l’umanità a vivere rintanata nei rifugi, per poi scomparire. La Terra ritornerebbe nelle condizioni di tre miliardi e mezzo di anni fa. Lo strato di ozono consente un delicato equilibrio, in quanto agli umani occorre una piccola quantità di raggi ultravioletti B, che agiscono come catalizzatori della vitamina D, mentre una dose eccessiva favorisce varie forme di cancro della pelle. Negli Stati Uniti, più di 9000 persone muoiono ogni anno a causa di questi tumori, e il loro numero è raddoppiato dal 1980 al 2000. Nel 2006, è stato battuto un record: la superficie del buco d’ozono, misurata in ottobre alla fine dell’inverno australe, si è estesa da circa 3 a 4 milioni di km. Quadrati. Al centro dell’Antartico, sono state misurate concentrazioni quasi nulle di ozono. Questa distruzione pressoché totale è dovuta principalmente alle condizioni climatiche della regione, la cui temperatura , a fine settembre 2006, è stata inferiore di circa 5° centigradi alle medie stagionali. Con un meccanismo fisico ben noto, il riscaldamento della bassa atmosfera prodotto dalla concentrazione dei gas a effetto serra, causa un raffreddamento degli strati alti dell’atmosfera. Questo raffreddamento accentua a sua volta l’impoverimento dello strato di ozono. Utilizzati come gas propulsori negli aerosol, ma anche nei frigoriferi e nei climatizzatori, nelle schiume isolanti e nei prodotti usati per combattere gli incendi, i clorofluorocarburi (Cfc) sono all’origine dell’impoverimento dello strato di ozono stratosferico. Queste molecole di sintesi, emesse da milioni di fonti nel mondo, si ritrovano nella stratosfera, tra i 15 e i 40 chilometri al di sopra del livello del mare. Sottoposto all’azione del sole, il cloro dei Cfc si libera e distrugge le molecole d’ozono. Il bromuro di metile, un pesticida utilizzato nei paesi del Sud, ha un effetto ancora più devastante. Grazie al protocollo di Montreal per le sostanze che impoveriscono lo strato di ozono, (Ods), adottato nel 1989 sotto l’egida delle Nazioni Unite, è stato proibito l’uso dei Cfc e di altre sostanze che degradano questa part dell’atmosfera. E, in effetti, ovunque nel mondo si osserva una diminuzione nell’utilizzo di queste sostanze, ma l’effetto di distruzione dell’ozono stratosferico persisterà per alcune diecine di anni , tanto più che in seguito all’entrata in vigore del protocollo di Montreal, il commercio illecito di Ods si è sviluppato tanto al Sud quanto al Nord. Non prima del 2065 L’ultimo rapporto 2006 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) conferma la correlazione tra la riduzione delle emissioni di Ods e la parziale ricostituzione dello strato di ozono. Tuttavia, le emissioni dei sistemi di refrigerazione e delle schiume isolanti, permangono negli apparecchi per periodi tra i 15 e gli 80 anni. Una dinamica di emissione così lenta modifica le previsioni sui tempi di ritorno all’iniziale equilibrio dell’ozono stratosferico: non prima del 2065, secondo gli scienziati. 15
  • 16. Ma il tempo di vita delle molecole clorate, così come le loro proprietà di assorbimento dell’irradiazione solare hanno un’altra conseguenza. I gas frigorigeni riscaldano: i Cfc contribuiscono in modo significativo all’accrescimento dell’effetto serra di origine antropica. Il blocco progressivo della produzione dei Cfc ha prodotto una netta diminuzione del contributo all’effetto serra da parte dell’insieme delle sostanze presenti nel protocollo di Montreal. Di fatto, le molecole fluorate (idrofluorocarburi, dette Hfc) hanno, in media, un potere di riscaldamento globale otto volte inferiore a quello dei Cfc, che sostituiscono. Gli idroclorofluorocarburi, (Hcfc, utilizzati nei sistemi di climatizzazione), sono fluidi di sostituzione fluorati che non presentano diminuzioni altrettanto significative dell’effetto riscaldante, anzi, per alcuni, è vero esattamente il contrario. La messa a punto di sostanze di sostituzione degli Hcfc, che rispondano sia a criteri di uso (sicurezza e prestazioni), che di neutralità ambientale, è in corso e dovrebbe portare a fluidi che non distruggono lo strato di ozono e non contribuiscono, o molto poco, a rafforzare l’effetto serra. Il testo completo, con immagini e schemi di flusso, ne “L’atlante per l’ambiente” di Le Monde Diplomatique/ Il manifesto) Il gas da fermare Stati Uniti. Nel 1987 la firma del protocollo di Montreal ha fermato la produzione di clorofluorocarburi, i gas che provocano il buco dell’ozono. Grazie a questa misura, il buco sopra l’Antartide ha cominciato a ridursi. Ci sono però altri gas che distruggono l’ozonosfera, lo strato protettivo nella parte alta dell’atmosfera terrestre. Secondo una ricerca pubblicata in anteprima sul sito di Scienze, il peggiore è il protossido di azoto, che è anche un gas serra, ed è quindi responsabile dell’aumento delle temperature del pianeta. Proprio per questa sua doppia azione negativa, sarebbe importante controllare le emissioni nell’atmosfera del protossido. A parte le fonti naturali, i principali produttori sono alcuni settori industriali, che usano combustibili fossili, ma anche biomasse e biocarburanti, considerati dei combustibili ecologici. Anche l’uso di fertilizzanti in agricoltura ha un ruolo importante. Se non ci sarà un forte cambiamento nei processi produttivi, il monossido di azoto è destinato a rimanere il gas anti ozono per eccellenza. Il settimanale Science auspica almeno una riduzione delle emissioni del gas, per accelerare la riparazione del buco antartico e limitare l’effetto sui cambiamenti climatici. (Tratto da “Internazionale” del 4 settembre 2009) Strato di ozono ridotto del 40% A causa del vento e del freddo lo strato di ozono ha registrato un assottigliamento sopra il Polo Nord del 40% tra il marzo 2010 e il marzo 2011. L’ozono è lo strato di gas che avvolge il pianeta e ci protegge dai raggi “uv” (ultravioletti) del sole (Corriere della Sera del 6 aprile 2011, con immagini da satellite a colori) 8. Prosciugamento dei fiumi e dei laghi Il mare interno dell’Africa ha i giorni contati Dal 1960 la superficie del lago Ciad si è ridotta del 90%. Mentre i governi studiano progetti faraonici per salvare la distesa d’acqua, le popolazioni si sono adattate ai cambiamenti. Sulle rive del lago Ciad, nel villaggio di Guitè, alcune piroghe scaricano le loro merci, legali e illegali. Sulla terraferma i prezzi si contrattano in franchi Cfa e in naira, la moneta nigeriana. La distesa d’acqua che unisce Ciad, Niger, Nigeria e Camerun è una zona di intensi commerci 16
  • 17. transfrontalieri. La nostra imbarcazione diretta all’isola di Kinasserom, un villaggio di pescatori, passa tra le canne e le piante di papiro. La vegetazione è ricca, si vedono molti uccelli e l’acqua si estende a perdita d’occhio: è difficile pensare che il lago e il suo ecosistema hanno i giorni contati. Alcuni scienziati avvertono che il “mare interno dell’Africa” potrebbe scomparire nei prossimi venti anni. E secondo i dati delle autorità ciadiane, basate sulle osservazioni della Nasa, la superficie del lago si è ridotta dai 25.000 chilometri quadrati del 1960 ai 2500. di oggi. Quest’anno le forti piogge sembrano scongiurare le previsioni più pessimiste. Alimentato dagli affluenti Chari e Logone, il bacino meridionale del lago ha riversato parte delle sue acque nel bacino settentrionale, il più colpito dalla siccità. Il lago non è più diviso in due parti ma è un’unica, profonda distesa di acqua. I pescatori, però, non sono contenti. Issaka Abacar, proprietario di una piccola imbarcazione, sostiene che “la pesca non è più abbondante come prima. Con le acque più alte, gli esemplari per la riproduzione si disperdono in mezzo alle piante”. Ma si lamenta anche dell’abbassamento delle acque del lago. “Vivo qui da più di venticinque anni. La quantità d’acqua diminuisce e i pesci anche”. Arrachid Ahmat Ibrahim, referente locale di un progetto di sviluppo, spiega che è anche colpa dei metodi di pesca “non regolamentari”: sbarramenti o reti a maglie troppo strette impediscono il passaggio ai pesci per la riproduzione. Secondo Ibrahim, in questa regione di undici milioni di abitanti, 300 mila persone traggono il loro sostentamento dalla pesca. La popolazione è in rapida crescita e le risorse diventano scarse. “nel 1984 a Kinasserom vivevano duecento persone, ora siamo seimila”, osserva Adam Seid, il capo villaggio. Per assicurare la rinascita del lago, il governo ciadiano punta su un progetto faraonico: far confluire parte delle acque del fiume Oubangui, che scorre tra la Repubblica Centrafricana e la Repubblica Democratica del Congo, nel Chari, il principale affluente del lago. Seid è reticente sull’argomento, ma non lo è Mahamat, un giovane abitante del villaggio: “Se l’acqua aumenta, dovremo lasciare le nostre case. Il governo ci ha interpellati, ma gli affari si concludono tra stato e stato. Noi comunque non siamo d’accordo”. I pescatori difendono i loro interessi immediati, ribatte Brahim Hamdane, un funzionario del ministero per l’ambiente. “La priorità è salvare il lago”. (…) ( tratto da Internazionale n. 874, 26 novembre 2010, con foto e mappa) Il lago di Aral Prima del 1960 il lago di Aral era il quarto lago del mondo. Da allora ha perso l’88% della superficie e il 92% del volume di acqua. Da tempo le dimensioni del lago di Aral, al confine tra Uzbekistan e Kazachistan, dipendono dal fiume Amu Darya, che nasce sui monti del Pamir e sfocia nel lago dopo aver attraversato il deserto. Anche il Syr Darya alimenta il bacino, ma l’Amu Darya è più grande e più incostante. Negli anni sessanta l’acqua del fiume cominciò a essere deviata per favorire lo sviluppo agricolo e il lago cominciò a restringersi. L’immagine scattata il 26 agosto 2010 dal satellite Terra della Nasa mostra lo stretto rapporto tra il lago di Aral e l’Amu Darya. E’ la foto più recente di una sequenza di dieci anni pubblicata sul sito World of Change dell’Earth Observatory. Tra il 2000 e il 2009 il lago si è ridotto a un ritmo costante. Nel 2006 una grave una grave siccità si è abbattuta sul bacino dell’Amu Darya. Nel 2007 l’acqua che ha raggiunto il lago è stata pochissima e nei due anni seguenti non ne è arrivata affatto. Senza l’acqua dell’Amu Darya il lago si è rapidamente rimpicciolito e nel 2009 il lobo orientale è scomparso. Nel 2010 però la situazione è un po’ migliorata : sul Pamir ha nevicato normalmente e l’Amu Darya ha raggiunto il lago. L’acqua fangosa si è depositata nel lobo orientale, facendolo apparire molto più grande di quanto non fosse nel 2009. (tratto da Internazionale n.874, 26 novembre 2010, con foto da satellite) 17
  • 18. Così hanno ucciso un Lago greco Era largo 45 km quadrati (quasi come quello di Lugano) e profondo 5 metri. Oggi si può attraversare camminando. Koronia, nel nord del paese, è stato prosciugato e la sua fauna distrutta. Nemmeno i soldi dell’Unione Europea sono serviti a salvarlo. Ma ora Atene è chiamata a rispondere del disastro. La Commissione Europea ha avviato una procedura giudiziaria alla Corte di Strasburgo contro l’inazione del governo greco. Una serie di pali indica i vecchi confini del lago Koronia, a parecchie decine di metri dalla riva attuale. Situato presso Salonicco (nella Macedonia greca) il quarto lago del paese si estendeva su 45 chilometri quadrati. In trenta anni la sua superfice è diminuita di un terzo e la sua profondità è scesa da cinque a un metro e in certi punti anche a meno di un metro. Nell’estate del 2009, il lago, quasi prosciugato, si poteva attraversare a piedi. Nel cuore dell’Europa, Koronia sta scomparendo. Davanti a uno dei palisi trova una discarica, con vecchi televisori, mobili rotti, sacchi di plastica. Eppure, il sito fa parte di Natura 2000, la rete europea delle zone naturali protette.E’ anche sotto la protezione della Convenzione Internazionale di ramsar per la tutela delle zone umide. “organizziamo regolarmente campagne di risanamento, ma i rifiuti ritornano”, spiega fatalista, Marios Asteriou, del centro che gestisce Koronia e il vicino lago Volvi, più grande, più profondo e in migliori condizioni. Atene sotto l’accusa dell’UE Persa la pazienza, la Commissione europea ha deciso, il 27 gennaio scorso, di portare la Grecia davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver protetto il lago. Accusando inoltre il governo di mancato rispetto delle direttive europee sugli uccelli e l’habitat, e anche sul trattamento delle acque urbane. Nel 2004, la Commissione aveva avallato un piano risanamento del lago, ed era pronta a finanziarlo al 75%, per l’importo di 20 milioni di euro. Sette anni dopo, solo un quarto del progetto è stato realizzato. Perché tale inerzia? “E’ difficile da capire, per chi non è greco”, riconosce Vasso Tsiaousi, del Centro zone umide della Grecia. Il progetto dipende da quattro ministeri e dalla prefettura regionale di Salonicco, il che non facilita il suo avanzamento, vista l’inefficienza dell’amministrazione. Certe gare d’appalto per la realizzazione dei lavori sono state contestate davanti alla giustizia, per il sospetto di favoritismi nell’attribuzione dei mercati. I ricorsi sono ancora in sospeso. La Commissione Europea oggi minaccia di rimettere in questione il proprio finanziamento. I motivi di un disastro Le cause del disastro ecologico sono note da molto tempo. Situato in una regione agricola, il lago ha sofferto negli anni ’80 del potenziamento dell’agricoltura intensiva, ma anche dell’industrializzazione. Le industrie, specialmente quelle tessili, molto inquinanti a causa dell’utilizzazione di bagni coloranti, smaltivano le acque residue gettandole nel lago. Una parte di queste attività è stata poi delocalizzata in Bulgaria. Anche le acque residue della vicina città di Lagada vengono scaricate nel lago. La stazione di depurazione, costruita nel 2001 con l’appoggio finanziario dell’UE, non è ancora stata raccordata alla città. Alla fine degli anni ’70, gli agricoltori passarono dall’orticultura del mais, più avida d’acqua, con la benedizione, all’epoca, di Bruxelles. E continuarono, come i loro genitori, ad attingere acqua dal suolo, ma con pozzi elettrici – spesso illegali – che arrivarono fino a 50 metri di profondità. E’ così che le acque del lago si sono abbassate e, alla fine degli anni ’90, tutti i pesci sono morti. Nel 2004 si è tentato di ripopolarlo, ma invano. Del piano di risanamento è stata rispettata soltanto una parte, quella della creazione di un bacino che consente di dirottare il corso di due fiumi nel lago. All’inizio di febbraio, il bacino era vuoto, per mancanza di precipitazione atmosferiche. Tuttavia, da un anno, il bacino ha consentito di mantenere il livello del lago a circa un metro. 18
  • 19. “Questo non serve a niente. Bisogna finire la pulizia e la depurazione del lago prima di aggiungere acqua. Altrimenti, c’è il rischio di conseguenze disastrose per il lago Volvi”, spiega il deputato europeo, ecologo, Michail Tremopoulos. Oggi, Koronia assomiglia a un lago, una vasta distesa di acqua, circondata da canneti, dove passano numerosi uccelli. Ma “non è più un lago”, spiega Maria Moustaka, biologa presso l’università della città di Salonicco. Secondo lei, si tratta piuttosto di un ambiente che favorisce la proliferazione di alghe e microbi resistenti alle materie tossiche. Negli anni 1997, 2004 e 2007, migliaia di uccelli sono morti. Il lago protegge specie minacciate come l’aquila dalla coda bianca, il cormorano pigmeo o l’airone cenerino. In questo momento, l’acqua non sembra tossica per gli uccelli, “ma tutto può cambiare con molta rapidità”, aggiunge ancora Maria Moustaka, che procede regolarmente a prelievi. Talvolta, il lago è talmente sporco che c’è un livello di batteri alto quanto quello di un bacino di depurazione”. (…) (il testo completo è nel Magazine del Corriere della Sera del 17 marzo 2011, con foto e cartine)) 9. Scarsità idrica e abbassamento falde acquifere L’acqua, dalla scarsità alla penuria Quasi 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,4 miliardi sono prive di depuratori; 1,8 milioni di bambini muoiono ogni anno di infezioni trasmesse da acque infette. Milioni di donne sprecano ore ogni giorno per andare a cercare l’acqua. Milioni di abitanti delle bidonvilles (baraccopoli), la pagano da cinque a dieci volte più cara che i residenti delle zone correttamente urbanizzate. Quasi 450 milioni di giorni di scuola vengono persi annualmente per questo motivo. L’Africa spreca ogni anno il 5% del suo prodotto interno lordo (PIL) a causa di queste carenze. Nel 2000, l’Onu si era impegnata a dimezzare, entro il 2015, il numero di persone prive di questi servizi vitali. Gli obiettivi del millennio per lo sviluppo (MDG) non saranno raggiunti. L’acqua non è prioritaria nelle spese pubbliche: gli Stati le dedicano meno dell’1% del loro Pil. Il budget militare del Pakistan è quasi 50 volte quello dell’acqua e della depurazione. Ma un migliore accesso all’acqua proteggerebbe in modo efficace gli 850 milioni di abitanti di zone rurali che soffrono di malnutrizione e sono minacciati dal riscaldamento climatico. L’UNDP ha chiesto agli Stati di mettere acqua e depurazione in testa alle loro priorità, nonché di raddoppiare l’aiuto internazionale, cioè 4 miliardi di dollari in più ogni anno. Supersfruttamento delle risorse L’agricoltura è la prima consumatrice di acqua, con l’80% dell’utilizzazione mondiale della risorsa, contro il 12% per l’industria e l’8% del consumo pubblico. Lo sfruttamento intensivo delle risorse, con l’aumento delle superfici agricole irrigate, provoca l’abbassamento delle falde freatiche e il prosciugamento dei fiumi, esaurendo le risorse indispensabili ai 6,5 miliardi di abitanti del pianeta, che diventeranno 8 miliardi nel 2030. Produrre un chilo di grano richiede 1500 litri di acqua, un chilo di carne industriale quasi 10.000 litri… I comportamenti e le pratiche devono essere radicalmente modificati,anche nei paesi ricchi, anch’essi minacciati dalla penuria. I cambiamenti climatici, le scomparsa delle zone umide, l’inquinamento crescente e una cattiva allocazione delle risorse contribuiscono all’insorgere di squilibri preoccupanti. L’urbanizzazione galoppante e la cementificazione massiccia rendono i suoli impermeabili, provocando a valle piene e inondazioni. 19
  • 20. Le acque sotterranee, il cui ritmo di rinnovamento può esigere diecine di migliaia di anni, sono letteralmente prese d’assalto, a scapito dei bisogni delle generazioni future. Ne dipende un americano su due, mentre la metà delle falde acquifere nordamericane è già in situazione di stress idrico. Inoltre, ovunque nel mondo le reti di distribuzione pubblica accusano tassi di perdita dal 30 al 50%. Diventa pertanto indispensabile aumentare la produttività dell’acqua, soprattutto nei paesi che non dispongono dei mezzi tecnici e finanziari atti a captare una risorsa mobilizzabile. Occorre sfruttare ogni goccia per trarne più derrate agricole, più carne, pesce o latte. Come migliorare la produttività agricola? Ricorrendo all’acqua piovane, promuovendo varietà di cereali adatte alle scarse quantità di acqua disponibile, o sviluppando tecniche di irrigazione economiche o piccole dighe. Preservare gli ambienti umidi E questo vale anche per i paesi ricchi: invece di investire in tecnologie curative sempre più dispendiose, è tempo di preoccuparsi di preservare gli ambienti umidi e di evitare di ostacolare il ciclo naturale dell’acqua. I paesi nordeuropei hanno ridotto con successo l’utilizzazione di prodotti fitosanitari. La Germania è al primo posto nel riciclo di acque piovane. Le riforme devono essere drastiche. Il riscaldamento climatico modifica anche le caratteristiche idrogeologiche dei corsi d’acqua, a causa dell’aumento delle precipitazioni invernali e della loro diminuzione estiva. Ne consegue una riduzione dell’accumulo invernale di neve e un disgelo molto più precoce in primavera, il che provoca profonde modificazioni nei regimi idrogeologici dei bacini. Si potrebbe essere costretti al blocco forzato delle centrali nucleari, in mancanza di acqua con cui raffreddarle. Le pratiche agricole dovranno essere riviste per adattare la produzione a condizioni idrogeologiche degradate e a una evaporazione-traspirazione più intensa in estate. Il che rischia anche di far aumentare i tassi di concentrazione dei Sali minerali nell’acqua e dunque l’inquinamento. (Tratto da “L’Atlante per l’Ambiente” di Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, 2008, con grafici e tabelle) Più riso per l’Iraq Finalmente una buona notizia dall’Iraq: sulle rive dell’Eufrate si vedono campi di riso rigoglioso e in questi giorni, nel pieno del raccolto annuale, il ministero dell’agricoltura fa previsioni ottimiste: il governo si prepara ad acquistare dai suoi agricoltori tra 150.000 e 175.000 tonnellate del buon riso aromatico di prima qualità tipico di queste terre, un bel balzo dalle 119.000 tonnellate raccolte l’anno scorso. Spiegano le autorità che la resa per ettaro è aumentata dell’11% rispetto all’anno scorso e del 18% rispetto a due anni fa, e questo grazie alla maggiore disponibilità di acqua, elettricità per far funzionare le pompe e irrigare i campi, fertilizzanti . Una buona notizia parziale, perché il consumo annuo di riso in Iraq ammonta a 1,2 milioni di tonnellate: il paese resta un importatore netto di riso e lo stesso vale per il grano. Anzi, quella che una volta era nota come la “mezzaluna fertile” è oggi uno dei dieci maggiori importatori di riso e grano al mondo. Il problema di fondo resta la penuria di acqua, che ha conseguenze a cascata. La terra coltivabile è sempre stata in Iraq quella compresa tra il Tigri e l’Eufrate – “la terra tra i due fiumi”, Mesopotamia, - mentre il resto, (il 78% del territorio iracheno) non è adatto agli usi agricoli, al massimo è pascolo. Ma Tigri ed Eufrate portano sempre meno acqua: in giugno l’Eufrate arrivava alla frontiera con la Siria con una portata di 250 metri cubi al secondo, un record negativo. Anche il 20
  • 21. Tigri ha una portata dimezzata rispetto a prima del 2003, da 1680 a 836 metri cubi al secondo. Di conseguenza sono bassi i reservoir alimentati dall’Eufrate (quello di Haditha, la diga di Mosul e il lago Habaniyah). Gli ultimi tre anni di siccità hanno peggiorato la situazione. La mancanza di acqua ha fatto aumentare la salinità dei terreni e questo ha costretto il governo l’anno scorso a dimezzare la superficie coltivata a riso, irrigata totalmente dall’acqua dell’Eufrate. E la scarsità di acqua da il colpo di grazia a una situazione già vulnerabile: l’agricoltura è stata paralizzata da decenni di insicurezza, guerra, mancanza di investimenti, pressione umana. La somma di tutto questo ha costretto nei tre anni passati a quasi dimezzare la superficie coltivata a riso. Se questo raccolto è andato bene è perché, in primo luogo, si è allentata la siccità: il ministero dell’agricoltura ha promosso opere per catturare piogge e nevi dell’inverno scorso nei reservoir, così quest’estate la disponibilità di acqua è stata maggiore. Allo stesso tempo, la fornitura di elettricità è leggermente migliorata, permettendo agli agricoltori di far funzionale le pompe per irrigare i loro campi (“il problema è sempre che quando c’è acqua non c’è corrente elettrica e viceversa”, dice all’agenzia Reuter un agricoltore della zona di Meshkhab, a sud di Bagdad). Aver diminuito la superficie negli anni passati ha permesso di concentrare gli input di acqua e fertilizzanti e aumentare il raccolto, dicono i responsabili del ministero dell’agricoltura: così la produzione si è consolidata nelle province centrali di Najaf, Diwaniya e Wassit. Ora molti pensano a espandere le coltivazioni: un buon incentivo sta nel fatto che il governo – l’ente nazionale per i cereali, acquirente istituzionale dei raccolti iracheni – paga agli agricoltori 583 dollari per tonnellata di riso, ben più dei 420-430 dollari pagati per tonnellata di riso importato dai mercati internazionali. Un buon auspicio, il raccolto di riso. Anche se resta un futuro incerto, per molte ragioni, non ultime le dighe in costruzione sul Tigri in Turchia. (M. Forti, su “Il manifesto” del 22 dicembre 2010) Energia Nucleare a secco Per funzionare le centrali nucleari hanno bisogno d’acqua. La siccità che ha colpito la Francia potrebbe costringere 44 dei 58 reattori situati vicino ad un corso d’acqua a sospendere l’attività, sostiene l’Osservatorio sul nucleare. Le norme dovrebbero garantire la sicurezza, ma in caso di arresto degli impianti potrebbe mancare l’elettricità. E se le autorità dovessero concedere, come nel 2003 e nel 2006, una deroga sulla temperatura massima delle acque di scarico, che non devono superare i 28 gradi, sarebbe un problema per la flora e la fauna. (Tratto da Internazionale del 20 maggio 2011) 10.Desertificazioni (siccità, guerre per il controllo delle fonti) La via della sete Mongolia Di qui passava la Via della Seta. Ma quando Marco Polo la percorse, ottocento anni fa, non s’imbatté certo in un panorama così desolato. Questa regione, a metà strada tra Cina e Mongolia, diecimila chilometri quadrati di territorio ormai desertificato dalla siccità, porta ancora il nome di lago Juyan. Anche se di quel lago immenso che irrigò la pianure più rigogliose dell’impero mongolo, non è rimasta neppure una goccia d’acqua: le ultime, residue pozzanghere si sono prosciugate alla fine degli anni Novanta. Il lago Juyan si è trasformato così in una delle lande più aride del pianeta. Un eco disastro, perché oggi questo enorme serbatoio alimenta a sua volta tempeste di sabbia sempre più devastanti, che si abbattono sulle fertili pianure della Cina del Nord. 21
  • 22. Trasformandole in deserto. E. Lucchini (testo tratto da “Io donna”, supplemento del Corriere della Sera del 12 gennaio 2008, con foto) Grande sete, nuove guerre Quando le sollevazioni politiche del Medio oriente si saranno placate, continueranno per un bel pezzo a farsi sentire in molte sfide latenti che oggi non appaiono sulle pagine dei giornali. Tra queste primeggiano il rapido aumento della popolazione, la carenza sempre più diffusa di acqua e una crescente insicurezza alimentare. In alcuni paesi, la produzione di cereali si sta riducendo mano a mano che esauriscono le falde acquifere, zone rocciose di acqua sotterranea. Dopo l’embargo petrolifero dei paesi arabi negli anno ‘70, i sauditi si resero conto che, a causa della loro enorme dipendenza dall’importazione di cereali, erano vulnerabili ad un contro embargo cerealicolo. Utilizzando la tecnologia della perforazione petrolifera, trovarono una falda acquifera piuttosto profonda nel deserto con cui produrre grano per irrigazione. In pochi anni, l’Arabia Saudita diventò autosufficiente per quanto riguarda il suo regime alimentare di base. Tuttavia, dopo più di venti anni di autosufficienza di grano, i sauditi annunciarono nel gennaio del 2008 che questo deposito acquifero era quasi completamente esaurito e che la produzione di grano sarebbe stata gradualmente abbandonata. Fra il 2007 e il 2010 la produzione di quasi tre milioni di tonnellate si ridusse a meno di un milione. Al ritmo attuale, i sauditi potrebbero realizzare il loro ultimo raccolto di grano nel 2012 e passare a dipendere dall’importazione del cereale per alimentare una popolazione di quasi 30 milioni di persone. L’abbandono insolitamente rapido della coltivazione di grano in Arabia Saudita si deve a due fattori. In primo luogo, in questo paese arido esiste poca agricoltura che non sia di irrigazione. In secondo luogo, l’irrigazione dipende quasi esclusivamente da una falda acquifera fossile che, a differenza della maggioranza delle altre, non si ricarica in modo naturale, grazie all’apporto delle piogge. Inoltre, l’acqua marina desalinizzata, che si utilizza nel paese per rifornire le città, è troppo costosa perfino per i sauditi per usarla in irrigazioni. La recente insicurezza alimentare dell’Arabia Saudita l’ha portata a comprare e affittare terre in vari paesi, fra cui due dei più colpiti dalla fame, : l’Etiopia e il Sudan. In effetti, i sauditi stanno programmando di produrre i loro alimenti con le risorse della terra e dell’acqua di altri paesi, per incrementare delle importazioni che aumentano sempre più rapidamente. Nel vicino Yemen, le falde che possono rialimentarsi vengono sfruttate al di sopra del loro tasso di riproduzione e gli acquiferi fossili più profondi si stanno esaurendo rapidamente. Gli indici idrici dello Yemen stanno calando di circa due metri all’anno. Nella capitale Sana’a, che ospita due milioni di abitanti, si distribuisce acqua corrente solo una volta ogni quattro giorni. A Taiz, una città più piccola nel sud del paese, l’erogazione avviene ogni venti giorni. Lo Yemen, con una delle popolazioni che cresce più velocemente nel mondo, sta diventando un caso disperato, idrologicamente parlando. Con la caduta degli indici idrici, la produzione di cereali si è ridotta ad un terzo negli ultimi quaranta anni, mentre la domanda ha continuato ad aumentare in maniera costante. Il risultato è che gli yemeniti importano più dell’80 % del cereale. Mentre calano le sue magre esportazioni di petrolio, senza nessuna industria che meriti questo nome e con quasi il 60% della popolazione infantile fisicamente atrofizzata e con malnutrizione cronica, questo paese, che è il più povero dei paesi arabi, si trova di fronte a un futuro tetro e potenzialmente turbolento. Il probabile risultato dell’esaurimento degli acquiferi nello Yemen, che porterà ad una maggiore contrazione dei raccolti ed estenderà la fame e la sete, è il collasso sociale. Essendo già uno stato fallito, può ridiventare un insieme di feudi tribali che si fanno la guerra per le scarse 22
  • 23. risorse idriche rimanenti. I conflitti interni dello Yemen potrebbero travalicare la sua estesa frontiera con l’Arabia Saudita, senza alcuna vigilanza. La Siria e l’Iraq, - gli altri due paesi popolosi della regione -, hanno anch’essi problemi con l’acqua. Alcuni provengono dalla portata ridotta dei fiumi Eufrate e Tigri, da cui dipendono per l’acqua destinata all’irrigazione. La Turchia, che controlla le sorgenti dei due fiumi, è impegnata in un importante programma di costruzione di bacini che provoca una riduzione dei flussi a valle. Sebbene i tre paesi hanno un programma comune per condividere l’acqua, i piani della Turchia di aumentare la generazione di energia idroelettrica e le sue zone irrigate si realizzano a spese dei suoi due vicini a valle. Visto l’incerto futuro degli approvvigionamenti idrici fluviali, gli agricoltori siriani e iracheni stanno scavando più pozzi per l’irrigazione e questo sta provocando un eccesso di estrazione nei due paesi. La produzione cerealicola della Siria è calata di un quinto, dopo aver raggiunto un culmine di circa 7 milioni di tonnellate nel 2001. In Iraq, il raccolto di cereali è diminuito di un quarto, dopo aver raggiunto un massimo di 4,5 milioni di tonnellate nel 2002. La Giordania, con sei milioni di abitanti, sta al limite in termini di agricoltura. Quaranta anni fa, più o meno, produceva più di trecentomila tonnellate di cereali all’anno. Oggi produce solo sessantamila tonnellate e deve importare quindi più del 90% del suo grano. Solo il Libano è riuscito ad evitare un calo della sua produzione cerealicola. Cosicchè, nel Medio Oriente arabo, una regione in cui la popolazione cresce rapidamente, il mondo sta assistendo alla prima collisione fra crescita demografica e rifornimento d’acqua su scala regionale. Per la prima volta nella storia, la produzione di cereali sta diminuendo in una regione in cui non si scorge nulla all’orizzonte che possa fermare questo calo. A causa del fallimento dei governi nel coniugare le misure politiche che riguardano popolazione e acqua, ogni giorno che passa ci sono 10.000 persone in più da alimentare e meno acqua da irrigazione per alimentarli. (Lester Brown, su “Il manifesto” dell’11 maggio 2011) 11.Acidificazione e inquinamento degli oceani Acque acide Due terzi del pianeta sono coperti dagli oceani, essenziali nella regolazione del clima grazie alla capacità di assorbire l’anidride carbonica. Ma l’acidificazione degli ecosistemi marini, causata dalle industrie, dalla combustione, dalla nostra stessa respirazione, mette a rischio la chimica degli oceani. Per scoprire l’impatto che questo processo avrà nei prossimi cento anni, è stato da poco avviato il Progetto Epoca, un maxi studio che coinvolge cento scienziati di nove paesi europei. (L’Espresso del 13 settembre 2008) Rischio acidità Gli oceani assorbono la Co2 Gli oceani assorbono attualmente circa un terzo delle emissioni di anidride carbonica del Pianeta. Questa capacità li sta rendendo sempre più acidi con ripercussioni su ecosistemi e biologia marina. Proprio sugli impatti legati all’acidificazione degli oceani si è concentrato un incontro che si è appena concluso in Giappone del gruppo intergovernativo di scienziati ONU, l’IPCC. Già adesso, si legge sul sito dell’Ipcc, l’acidificazione delle acque degli oceani è riconosciuta come “una componente fondamentale del cambiamento globale, potenzialmente responsabile di una vasta gamme di impatti sugli ecosistemi, con ulteriori conseguenze sui mezzi di sostentamento e sicurezza alimentare”. Al nuovo rapporto Ipcc contribuirà l’Italia con Riccardo Valentini, anche presidente del Sistema di osservazione globale, nel ruolo di coordinatore del capitolo sull’Europa che dedicherà particolare attenzione al Mediterraneo. “Il processo del Quinto rapporto è iniziato –spiega 23
  • 24. Valentini- e porterà alla fine del 2013 alla stesura del lavoro. Per ora si fa un grosso lavoro di screening della letteratura scientifica, per il solo capitolo sulla U.E. saranno esaminati circa 4.000 documenti”. Negli incontri che si sono tenuti dall’11 al 14 gennaio in Giappone, osserva Valentini, si è cominciata a respirare “una nuova atmosfera. C’è una maggiore coscienza dell’importanza ch questi rapporti hanno sia per le scelte legate alle politiche energetiche e climatiche, sia per l’opinione pubblica. Per questo c’è la volontà di rendere tutto più trasparente”. (Corriere della Sera del 24 gennaio 2011) 12.Il declino delle risorse ittiche Indagine Wwf: degrado e inquinamento di corsi e bacini italiani producono seri danni alla fauna ittica Com’è amara l’acqua per i pesci L’85% delle specie di fiume e lago è candidata all’estinzione Fulco Pratesi Di tutte le classi di animali del nostro Paese, quella che presenta la maggiore percentuale di specie a rischio d’estinzione è costituita dai pesci di acqua dolce, con l’85% di candidati alla scomparsa, seguiti dagli anfibi (76%), rettili (69%), uccelli (66%), mammiferi (64%). Pur se poco presenti nelle cronache e nelle denunce degli ambientalisti, come accade per i mammiferi e gli uccelli, questi componenti della fauna italica rivestono un notevole interesse, dal punto di vista scientifico ed economico. Una recente indagine condotta sul campo da 600 volontari del WWF lungo trenta fiumi dal Friuli alla Sicilia, ha fornito dati sconfortanti sullo stato di gran parte di essi. Prelievi, legali o abusivi, di acqua, distruzione della vegetazione riparia, inquinamenti, sottrazione di ghiaia e sabbia dagli alvei, discariche solide sulle rive, cementificazione delle sponde, bracconaggio, canalizzazioni e sbarramenti a scopi idroelettrici hanno quasi ovunque degradato i corsi d’acqua arrecando danni pesantissimi alla fauna ittica. Ma a queste aggressioni, più note e visibili, si accompagnano quelle determinate dall’invasione, nei corpi idrici, di specie ittiche aliene, che causano gravi danni a quelle indigene. E’ da tempo che i pescatori sportivi, (che hanno collaborato alla ricerca), denunciano i problemi provocati da immissioni, volontarie o meno, di elementi estranei alla nostra fauna in competizione ecologica con le specie indigene. Tra i pesci esotici – oltre a quelli già “naturalizzati” da anni come il persico trota, il persico sole e la trota iridea provenienti dall’America del Nord – spiccano la lucioperca dell’Europa centrosettentrionale, l’abramide e soprattutto l’immenso e vorace siluro del Danubio, (due metri e mezzi di lunghezza e fino a 300 chili di peso) grande distruttore di ciprinidi ma anche di piccoli mammiferi, anfibi e giovani uccelli acquatici. (…) I più in pericolo sarebbero la trota macrostigma del Meridione e delle Isole maggiori, la trota marmorata del Nord Italia, il carpione del Garda, la lampreda padana e la lampreda di ruscello, lo storione cobice dei fiumi Po, Adige, Brenta, Piave e Tagliamento, il panzarolo della Padania, il ghiozzo di ruscello dell’Italia centrale e il carpione del Fibreno (che vive solo in un piccolissimo lago, di 0,29 km quadrati, a Fibreno in provincia di Frosinone). (…) (il testo completo sul Corriere della Sera del 15 marzo 2011, con foto delle dieci specie a rischio) 13. La distruzione delle barriere coralline Un vero e proprio ricchissimo forziere per la biologia marina, già ora profondamente segnato dall’inquinamento, dalla pesca intensiva e dal riscaldamento dell’acqua. Conseguenze sotto gli occhi di tutti: i coralli morti stecchiti e la barriera sbiancata e spettrale, come quella che ormai 24
  • 25. delude i turisti ritardatari alle Maldive. …entro il 2020, anno totem ormai per l’ambientalismo, è obbligatorio portare dal 13 al 17% il totale delle terre emerse protetto in maniera integrale, e al 10 % , dall’attuale misero 1%, la superficie oceanica dichiarata riserva “no take”, cioè intoccabile. Proprio per salvare il salvabile dei reef più importanti. (Alessandro Cecchi Paone, Corriere della Sera Magazine, dicembre 2010, con foto) 14. La riduzione delle foreste Quando le foreste emettono carbonio invece di catturarlo Le foreste sono di immensa importanza per la ricchezza della loro biodiversità. In realtà, sui 50 o 100 milioni di specie che si ritiene siano presenti sul pianeta, ne sono state identificate solo 1,8 milioni, cioè meno del 5%. I tre quarti si troverebbero nelle zone tropicali. Molto ambite a causa del legno o per guadagnare nuove terre agricole, da qualche tempo le foreste sono diventate anche un argomento fondamentale nei dibattiti sul clima. Oltre ad una azione di regolatore locale, la vegetazione ricopre infatti, insieme ai suoli, un ruolo importante nel fissare una parte del carbonio atmosferico planetario. Suoli e vegetazione accumulano naturalmente 3,2 giga-tonnellate (Gt) di carbonio l’anno. Il disboscamento provoca ogni anno 1,6 gt di rigetto di carbonio. Il saldo positivo di stoccaggio da parte della vegetazione e dei suoli è dunque di 1,6 Gt all’anno, ossia un quarto dei 6,8 Gt emessi ogni anno dalle attività umane. Riassumendo, la vegetazione terrestre assorbe solo un quarto del carbonio eccedente liberato nel’atmosfera dalle attività umane – produzione d’energia, trasporti e messa a coltura delle terre. L’aumento di concentrazione di carbonio nell’atmosfera, così come le temperature più elevate osservate nell’ultimo secolo, hanno in un primo tempo, stimolato la produzione vegetale. Così, alcune foreste hanno avuto un aumento di produttività del 15% nel corso del XX° secolo. Questo fatto ha portato a considerare le foreste come “pozzi di carbonio”: i paesi industriali potrebbero quindi compensare i rifiuti con piantagioni, in particolare nell’ambito del protocollo di Kyoto. Il fatto che questa proposta sia stata vivamente osteggiata dagli ambientalisti fino al 2001, ha offerto agli Stati Uniti il pretesto per rifiutare di ratificare il protocollo. Dopo di allora, il rimboschimento è stato incluso nei meccanismi di Kyoto come srumento di compensazione per le emissioni di gas a effetto serra, ma resta molto controverso a diversi livelli. La soglia del 2050 Le proiezioni indicano che la capacità della vegetazione di assorbire carbonio raggiungerà la soglia verso il 2050. Dopo questa data, lo stress subito a causa del riscaldamento, così come il proliferare di parassiti, dovrebbero far si che le foreste smettano di catturare il carbolio e anzi lo emettano. I “pozzi “ forestali non costituiscono che un rinvio di qualche decennio, prima di un peggioramento lasciato in eredità alle future generazioni. Dal momento che le foreste fitte sono considerate in equilibrio, e quindi ormai incapaci di fissare carbonio, c’è chi pensa di tagliarle per utilizzarne il legname e di sostituirle con piantagioni di specie a crescita rapida come eucalipti, acacie e albizie, il che costituisce un netto impoverimento della biodiversità. La moda recente degli agro carburanti in sostituzione del petrolio ha indotto anch’essa un rilancio del dissodamento. Parallelamente, il riscaldamento riduce l’umidità nei sottoboschi e facilita il propagarsi degli incendi. Il fenomeno è stato osservato negli ultimi anni in Europa,Australia e Stati Uniti, ma riguarda anche le regioni tropicali dell’Africa, dell’Amazzonia e dell’Asia. Lo sfruttamento industriale del legno, anche a scarso impatto, rende le foreste più fragili aprendo piste che prosciugano la vegetazione. 25
  • 26. L’esempio più impressionante è la coincidenza tra il Nino e l’avvio delle concessioni forestali in Indonesia. Dall’inizio degli anni ’80, vasti incendi hanno devastato periodicamente queste foreste, distruggendo in alcuni anni più di tre milioni di ettari, cioè la superficie del Belgio. Gli incendi del 1997-1998 avrebbero liberato nell’atmosfera 2,5 Gt di carbonio, vale a dire l’equivalente delle emissioni annue europee. Direttamente legata agli incendi e ai dissodamenti per l’agroindustria, la combustione del carbonio delle torbiere costituisce un’altra questione cruciale. Accumulata da centinaia di migliaia di anni, la torba rappresenta su scala planetaria 500 Gt di carbonio, cioè circa settanta anni di emissioni antropiche. Il problema interessa soprattutto le foreste del Borneo e di Sumatra, i cui suoli concentrano il 60% della torba mondiale. Tenuto conto di tali rifiuti, l’Indonesia diverrebbe il terzo emettitore di carbonio, dopo Stati Uniti e Cina. (Tratto da “L’Atlante per l’ambiente”, Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 2008, con mappe e grafici) Oggi in tutto il mondo si celebra il Giorno della Terra. L’obiettivo: un miliardo di “azioni verdi” entro il 2020 SOS Terra, le sette foreste da salvare Negli ultimi 25 anni è andato distrutto il 10% delle aree boschive. Le chiamano “le magnifiche sette” e sono tutte esotiche e misteriose. A preoccuparsi per loro sono in tanti, da Greenpeace al WWF. L’obiettivo è bloccarne l’impoverimento. Per mantenere il loro splendore, per tutelare la nostra salute. Se sparissero, infatti, saremmo investiti dai gas serra rilasciati dai 500 miliardi di tonnellate di carbonio che loro invece preservano nel suolo. Sono le foreste, già protagoniste nell’agenda dell’ONU, che ha dichiarato il 2011 “Anno Internazionale delle Foreste”. A loro è dedicata anche la Giornata mondiale della Terra, 41 candeline e quasi mezzo miliardo di persone che le spegneranno oggi in 192 paesi di tutto il mondo, con un desiderio da realizzare: raggiungere un miliardo di “azioni verdi” entro l’inizio del vertice ONU sullo sviluppo sostenibile, previsto a Rio de Janeiro nel 2012. “Il 10% delle foreste è scomparso negli ultimi 25 anni, a una media di 13 milioni di ettari l’anno dal 2000”, lancia l’allarme Massimiliano Rocco del WWF. La perdita più alta riguarda la fascia neotropicale (centro e Sudamerica) con 5 milioni all’anno; meno 3,4 milioni in Africa; meno 2,2 milioni in Asia. “Non ci rendiamo nemmeno conto del danno che facciamo quotidianamente con scelte irresponsabili” aggiunge Rocco. E in effetti fa una certa impressione leggere i dati del CNR, secondo il quale negli uffici italiani si consumano 1,2 milioni di tonnellate di carta, pari a 80 chili per dipendente, 240 miliardi di fogli utilizzati ogni anno che si traducono in quattro miliardi di anidride carbonica. Per risparmiare 1,3 milioni di tonnellate di CO2 basterebbe usare la stampa fronte retro o eliminarla del tutto, quando non è proprio indispensabile. Greenpeace sul suo sito avverte: ogni due secondi viene distrutta un’area di foreste grande quanto un campo di calcio. “Non possiamo distogliere l’attenzione dalle ultime sette foreste della Terra: l’Amazzonia, la Patagonia, le foreste indonesiane, quelle del bacino del Congo, la foresta boreale del Canada, la “foresta di babbo Natale” in Lapponia, infine le foreste russe.” Insiste Chiara Campione di Greenpeace. Il patrimonio verde richiede millenni per formarsi. “E quando sentiamo parlare di riforestazione dobbiamo comunque stare attenti perché raramente questi progetti riescono a ripristinare la biodiversità originaria”, precisa l’attivista. L’associazione ambientalista fornisce i numeri dell’emergenza. A causa degli incendi delle foreste torbiere indonesiane ogni anno vengono rilasciati nell’atmosfera 1,8 miliardi di tonnellate di gas serra. In Congo dove gorilla, scimpanzé e bonobo (oltre a dieci milioni di persone), dipendono dalla foresta pluviale, sono stati stipulati in due anni cento contratti di taglio per 15 milioni di ettari 26
  • 27. di verde: equivalgono a cinque volte il Belgio. (…) (Il testo completo sul Corriere della Sera del 22 aprile 2011, con mappe) L’economia della foresta, di Marina Forti Si chiamano “prodotti minori della foresta” o anche “prodotti no timber”, non legno, tutto ciò che la foresta può dare finché è viva. Secondo stime della FAO, qualcosa come l’80% della popolazione dei paesi “in via di sviluppo” trae dalle foreste buona parte di ciò che serve alla sopravvivenza quotidiana. Prendiamo Chaikur, un villaggio come migliaia di altri sulle pendici dei Ghat orientali, dorsale montagnosa che percorre da nord a sud il versante orientale dell’India. Grandi alberi di tamarindo ombreggiano il villaggio, e qui sono anche la principale fonte di reddito. In gennaio-febbraio nei cortili delle case gruppi di persone lavorano attorno a grandi mucchi di frutti di tamarindo che assomigliano a grossi baccelli di colore scuro: vanno sbucciati, tolta la venatura, messi da parte i semi (da cui si trae amido) e raccolta la polpa, che ha consistenza pastosa. La pasta di tamarindo è ingrediente essenziale nella cucina dell’India meridionale e di molti paesi asiatici. Altri “prodotti no timber” sono le fibre vegetali, certi fiori. O le foglie di tendu, quelle che si arrotolano per fare le sigarettine indiane chiamate bidi, che andavano molto di moda tra gli occidentali negli anni passati. Di recente, le raccoglitrici di questi villaggi hanno formato cooperative, per non essere alla mercé dei grossisti che fissano il prezzo. Ma l’intera economia della foresta è minacciata da una deforestazione rampante. “Quasi ogni giorno i giornali riferiscono di qualche squestro di legname tagliato illegalmente, ma è solo la punta dell’iceberg” dice Iqbal Bhai, abitante della zona e cofondatore di un’associazione per salvare le foreste come bene comune. Il fatto,dice, è che “gli enti governativi, quando ripiantano, mettono acacie e altri alberi che crescono in fretta, ma non specie indigene. Ad esempio, ci siamo opposti al progetto di fare una piantagione di pino tropicale, per produrre polpa di cellulosa con un bel finanziamento della Banca Mondiale. Perchè questo va a spese delle specie indigene come il teak, il sal, alberi a crescita lenta”. Il sal è un albero importante il suo nome botanico è Shorea Robusta, specie nativa dell’Asia meridionale, dalle pendici dell’Himalaya ai Ghat orientali, alla Birmania. Grande albero (raggiunge i 30 o 35 metri), con foglie larghe, nelle poche zone di foresta ancora vergine spesso è la specie dominante. E’ una delle più importanti fonti di legno duro in India, resinoso e duraturo -le case di questi villaggi hanno strutture di sal. Ma se ne tagliava poco, una volta, perché agli abitanti qui è più utile da vivo. Le foglie intrecciate e seccate sono usate per fare piatti e scodelle usati per il cibo venduto nelle bancarelle; fresche servono per servire gli involtini di paan, con la noce di betel. Sono usa e getta, sì, ma finiranno mangiati dalle capre o dalle mucche ( è così che l’India finora si è difesa dall’invasione del polistirolo). Infine si usano la resina, i semi e i frutti, da cui si estrae un olio per le lampade. E’ un albero protetto, è preda dei tagliatori di frodo. Per gli abitanti locali è molto più utile da vivo, con foglie e resine. “come fanno a non rendersene conto , la Banca Mondiale e le altre organizzazioni che finanziano questi progetti? Li chiamano “reafforestation”, ma che riforestazione è tagliare specie indigene e mettervi al posto alberi esotici?. Mi chiedo se davvero non capiscono che quando distruggi la foresta nativa distruggi la sopravvivenza di tante persone” (tratto da Il Manifesto del 22 marzo del 2011). Dall’Amazzonia al Borneo. La società si difende: i nostri dossier sono corretti I dati gonfiati sulle foreste sparite Attacco verde ai super consulenti GreenPeace contro McKinsey: previsioni sbagliate per speculare sugli aiuti 27
  • 28. Una società di consulenza che incoraggia ad abbatterele foreste e allo stesso tempo fa intascare gli aiuti contro la deforestazione non può che essere molto amata dai governi. E infatti la McKinsey ha prodotto dal 2007gli studi diventati di riferimento nella complicata materia della riduzione del riscaldamento globale. Congo, Guyana o Indonesia aspirano a una fetta dei 4,6 miliardi previsti dall’accordo internazionale di Cancun (2010) per salvare le foreste pluviali? Compilano dossier ispirati ai dati della McKinsey, marchio passpartout nel mondo degli affari e della governance mondiale, e sono quasi certi di ottenere gli aiuti desiderati. Solo che, secondo il rapporto “Bad influence” di GreenPeace, le carte distribuite dalla McKinsey sono truccate, non hanno alcun valore scientifico. Risponderebbero, in realtà, all’esigenza di alcuni Stati di continuare lo sfruttamento economico del polmone verde del Pianeta, venendo pure pagati per farlo. La McKinsey, conosciuta anche come The Firm, fondata nel 1926 a Chicago dal professore universitario James O. McKinsey, è la più influente società di consulenza del mondo, con circa 16.000 dipendenti e una rete di “ex” impiantata ai più alti livelli della politica e dell’economia mondiale. Un bersaglio perfetto per GrenPeace, tradizionalmente poco tenera con i grandi nomi del capitalismo globalizzato. (…) oggi è la più grande associazione ambientalista con uffici in oltre 40 paesi e 2,8 milioni di donatori in tutto il mondo: nel rapporto “Bad Influence” appena pubblicato l’organizzazione della “pace verde”si lancia contro l’influenza nefasta di McKinsey nella lotta alla deforestazione, citando alcuni casi significativi. Nella Repubblica Democratica del Congo McKinsey consiglia al governo di chiedere risarcimenti perché l’industria del legname raddoppierà l’abbattimento degli alberi entro il 2030. Uno sforzo da premiare, secondo la società di consulenza, altrimenti le piante tagliate potrebbero triplicare. In Guyana, in base ai dati di McKinsey, il tasso di deforestazione è del 4,3 all’anno; per evitare per evitare la totale sparizione della foresta pluviale entro il 2035, Paesi donatori come Norvegia o Gran Bretagna dovranno versare oltre 400 milioni di euro all’anno alla piccola repubblica sudamericana. Secondo GreenPeace, invece, il tasso di deforestazione attuale è molto più basso, attorno allo 0,1%; questo permetterà agli industriali del legno di aumentare gli abbattimenti, ed essere comunque risarciti. In Indonesia, per ridurre i danni alla foresta pluviale gli studi di McKinsey consigliano di arrestare la coltivazione della terra ad opera dei piccoli agricoltori, incoraggiando invece l’allargamento delle piantagioni di alberi, destinati però ad essere abbattuti. In questo modo, secondo McKinsey, si ottiene la stessa riduzione di biossido di carbonio, a costi 30 volte inferiori. A guadagnarci sono il governo e ancora una volta l’industria del legname, non certo i contadini indonesiani e neanche gli oranghi del Borneo, in via di estinzione. McKinsey ribatte alle accuse: “Siamo in totale disaccordo con i risultati del rapporto di Greenpeace e ribadiamo la validità del nostro lavoro e approccio- ha dichiarato la società in una nota-, assistendo i clienti del settore pubblico, suggeriamo misure che possono essere usate in un complesso dibattito nazionale sulle strategie per una crescita economica equa e a bassa produzione di carbonio”. Una volta fugati i dubbi sull’esistenza stessa del riscaldamento globale, ecco l’incertezza sui dati usati per combatterlo o fingere di farlo. Greenpeace chiede a McKinsey di rivelare la fonte dei suoi studi. McKinsey risponde che non può farlo: comprometterebbe il “rapporto di riservatezza” con i clienti. (S. Montefiori, sul Corriere della Sera del 10 aprile 2011, con grafici e mappe). Foreste più estese ma con meno specie, cosa perdiamo senza biodiversità La giornata di ieri, 22 maggio 2011, ha concentrato su di se diverse ricorrenze. In primo luogo, la Giornata Mondiale della Biodiversità, un utile richiamo al 2010, dedicato dall’ONU proprio a questo argomento. E il fatto che l’anno scorso sia stato, sempre dall’ONU, consacrato alle 28