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“Non possiamo comandare sulla natura se non obbedendole” Francesco Bacone, filosofo (1561-
1626).

Edward Wilson, della Harward University,

“Consideriamo l’essenza dell’ambientalismo come è stata definita dalla scienza. La Terra, a
differenza degli altri pianeti del sistema solare, non è in equilibrio fisico. Dipende dal suo guscio
che è vivo e crea le particolari condizioni in cui la vita è sostenibile. Il suolo, l’acqua e l’atmosfera
sulla superficie si sono evoluti nel corso di centinaia di milioni di anni fino alla loro condizione
attuale grazie all’attività della biosfera, uno strato meravigliosamente complesso di creature viventi
le cui attività sono collegate tra loro in cicli globali precisi, ma gracili, di energia e materia organica
trasformata. La biosfera ricrea il nostro mondo speciale ogni giorno, ogni minuto e lo mantiene in
un eccezionale e scintillante disequilibrio fisico. Di questo disequilibrio la specie umana è
completamente schiava.
Quando modifichiamo la biosfera in una qualsiasi direzione, allontaniamo l’ambiente dalla danza
delicata della biologia. Quando distruggiamo ecosistemi e annientiamo le specie, degradiamo il più
grande patrimonio che questo pianeta abbia da offrire e in tal modo minacciamo la nostra stessa
esistenza. Non siamo scesi su questo mondo come esseri angelici. Ne siamo alieni che hanno
colonizzato la Terra. La nostra specie si è evoluta qui, una fra molte, nel corso di milioni di anni ed
esiste in quanto miracolo organico, collegato ad altri miracoli organici.
L’ambiente naturale che trattiamo con tanta insensata ignoranza e sconsideratezza è stata la nostra
culla, il nostro asilo, la nostra scuola e la nostra unica casa. Siamo profondamente adattati alle sue
particolari condizioni, in ogni singola fibra del corpo e in ogni singolo processo biochimico che ci
da la vita. Questa è l’essenza dell’ambientalismo, il principio ispiratore di quanti si occupano della
salute del pianeta. Ma non è ancora una visione del mondo molto diffusa; evidentemente è ancora
troppo poco persuasiva per distogliere molti dai diversivi prioritari dello sport, della politica, della
religione e delle ricchezze personali”

                                                                              [Bologna, pag. 25]


Fairfield Osborne, New York Zoological Society, nel suo libro del 1948, “Il pianeta saccheggiato”

“L’idea di scrivere questo libro mi balenò verso la fine della seconda guerra mondiale. Mi
sembrava, in quei giorni, che l’umanità fosse impegnata in due tremendi conflitti e non solo in
quello che echeggiava in ogni testata di giornale, in ogni radio, nella mente, nel cuore e nelle
sofferenze dei popoli di tutto il mondo. All’altra guerra, silenziosa, inavvertita, ma alla fine, più
micidiale ancora, l’uomo si è abbandonato da tempo incalcolabile, ciecamente, inconsapevolmente.
Vasta come il mondo, questa guerra continua ed è foriera per la razza umana di sciagure più
largamente diffuse di quelle di qualunque conflitto armato. Contiene in sé la possibilità di un
disastro finale superiore perfino a quello dell’uso dell’energia atomica applicata alla distruzione.
E questa guerra è la guerra dell’uomo contro la natura”

                                                                              [ Bologna, pag. 27]


Edward Wilson
“Anche se nessuno lo desiderava, siamo la prima specie a essere diventata una forza geofisica in
grado di alterare il clima della Terra, ruolo precedentemente riservato alla tettonica, alle reazioni

                                                                                                         1
cromosferiche e ai cicli glaciali. Dopo il meteorite di dieci chilometri di diametro che 65 milioni di
anni fa precipitò nello Yucatan ponendo fine all’era dei rettili, i più grandi distruttori della vita
siamo noi. Con la sovrappopolazione ci siamo creati il pericolo di finire il cibo e l’acqua. Ci attende
quindi una scelta tipicamente faustiana: accettare il nostro comportamento corrosivo e rischioso
come prezzo inevitabile della crescita demografica ed economica, oppure rianalizzare noi stessi e
andare alla ricerca di una nuova etica ambientale”

                                                                              [Bologna, pag. 27]


“Agli inizi del secolo scorso, nel 1900, impiegavamo giornalmente solo l’equivalente di pochi barili
di petrolio per ottener l’energia utilizzata a livello mondiale. Oggi consumiamo ogni giorno oltre 80
milioni di barili di petrolio.
Sempre nel 1900 utilizzavamo metalli per una ventina di milioni di tonnellate l’anno e ora siamo
passati a oltre 1,2 miliardi di tonnellate.
Il consumo di carta è passato da 4 milioni di tonnellate nel 1900 a circa 160 milioni di tonnellate nel
1998.
La produzione di materie plastiche, praticamente sconosciuta nel 1900, ha raggiunto i 131 milioni di
tonnellate nel 1995.
L’economia umana attinge oggi a tutti i 92 elementi chimici presenti nella tavola periodica degli
elementi, mentre nel 1900 ne utilizzava solo una ventina”

                                                                             [Bologna, pag. 30]

“Oggi utilizziamo dagli 80.000 ai 100.000 composti chimici di origine antropogenica, derivanti da
attività industriali, dei quali ignoriamo gli effettisui sistemi naturali e sul nostro organismo. Soltanto
di un 2% circa di questi è stata analizzata le eventuale cancerogenicità”.

                                                                             [Bologna, pag. 32]

Nicholas Georgescu Roegen

“il guaio è che lo stock di energia e materia terrestre accessibile è necessariamente finito. E inoltre
la termodinamica, sostenuta da irrefutabili dimostrazioni storiche, insegna che la materia-energia
disponibile si degrada continuamente e in modo irreversibile in “rifiuti”, una forma di materia-
energia inutile dal punto di vista degli usi umani.

La radice della scarsità economica risiede nelle leggi della termodinamica, che può essere
considerata la fisica del valore economico, come ha dimostrato Sadi Carnot nel suo famoso saggio
del 1824. In un mondo in cui esistessero le leggi della termodinamica, la stessa energia potrebbe
essere usata più volte e nessun oggetto materiale si consumerebbe. Ma in un mondo come questo,
non potrebbe esistere la vita quale oggi la conosciamo.

La conclusione è chiara e ineludibile. L’attività industriale in cui è oggi impiegata gran parte
dell’umanità accelera sempre di più l’esaurimento delle risorse terrestri, fino ad arrivare
inevitabilmente alla crisi. Prima o poi, la “crescita”, la grande ossessione degli economisti standard
e marxisti, deve per forza finire. La sola questione aperta è “quando”. Negli ultimi dieci anni [1967-
1977, n.d.r.] circa, sono emersi sintomi evidenti dei limiti ambientali alla crescita. L’inquinamento
si è diffuso ovunque”

                               (In “Bioeconomia”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 116-117)

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La Terra è un pianeta finito, non si possono usare senza limiti le risorse naturali

Negli anni 2006-2007 si sono moltiplicati i rapporti, le immagini, i dati relativi ai danni spesso
irrecuperabili che l’uomo sta arrecando alla natura nella quale siamo immersi. La percezione della
reale gravità della situazione stenta invece a diventare cultura diffusa, mentre le strategie e le misure
economiche adottate finora sono lontanissime dal delineare radicali miglioramenti possibili nei
tempi sempre più stretti che ci separano da esiti letali.
In questo particolare momento abbiamo sentito la necessità di individuare alcuni principi
fondamentali che dovrebbero essere seguiti a scala globale per garantirci un futuro ben diverso. Pur
essendo basati su una attenta analisi delle informazioni scientifiche disponibili, i principi sono
diretti alle persone più coscienti e ai decisori politici che non vogliano evitare di prendere in
considerazione aspetti così cruciali della storia dell’umanità. Sono delle linee guida facilmente
comprensibili, non ancora una strategia complessiva o una selezione di scelte fondamentali e
urgenti. Vogliono stimolare reazioni e riflessioni, suggerire comportamenti, evitare dimenticanze in
persone responsabili e attive, forse non ancora sufficientemente coscienti.

               Dodici principi per la sopravvivenza dell’uomo e del pianeta


   1. Il concetto di limite

   Risalgono ai primi anni ’70 i richiami ad una concezione apparentemente banale della Terra
   intesa come pianeta di dimensioni e consistenza ben delimitate, ma che per lunghi decenni era
   stata cancellata dal continuo sovrapporsi e espandersi di produzioni che utilizzavano le risorse
   naturali come se fossero assolutamente infinite. Si può infatti risalire alla fine degli anni ’60,
   con l’inizio del cosiddetto “consumismo”, per individuare l’avvio di politiche statuali e strategie
   industriali che imposero la moltiplicazione degli oggetti e delle merci da consumare come
   modello generalizzato, sia per la struttura produttiva che per le nuove abitudini di consumo.
   Si è infatti verificata una vera e propria “mutazione” del sistema economico dominante, che è
   passato dalla produzione di oggetti corrispondenti a bisogni reali (alimenti essenziali,
   abbigliamento necessario per le diverse stagioni, auto da cambiare una volta giunte al temine
   della loro vita di funzionamento, divertimenti non costosi commisurati al reddito e al tempo
   libero) ad una possibilità di accesso percepita come illimitata ad un numero rapidamente
   crescente di oggetti e servizi sempre più distanti dai bisogni umani, ma resi indispensabili dalla
   pressione sempre più accentuata della pubblicità e delle strategie di commercializzazione.
   Questa scelta del sistema dominante (presente ovviamente non solo in Italia, anzi iniziata con
   qualche anno di anticipo nei paesi più industrializzati) ha garantito un lungo periodo di
   espansione produttiva, di nuovi investimenti per la fabbricazione di beni di consumo e di
   diffusione all’estero di impianti sostenuti da incentivi locali e dai bassissimi salari dei lavoratori.
   Questo immenso processo di moltiplicazione di oggetti, sempre percepiti come “necessari” per i
   condizionamenti ormai acquisiti dai consumatori, è ancora in atto e le spinte all’ulteriore
   espansione non accennano a ridursi (anche in presenza negli ultimi anni di “crisi”, spesso
   dovute però a meccanismi di tipo finanziario). Pochi peraltro si rendono conto del fatto che è
   proprio il consumismo, basato su consumi sempre più lontani da esigenze umane reali, la molla
   che ha portato a utilizzare senza limiti le risorse naturali (minerali, alimentari, energetiche) del
   pianeta e che è all’origine di gran parte dei danni ambientali. I collegamenti sono sotto gli occhi
   di chi vuole vederli: cibo in eccesso e diffusione di obesità e malattie; mezzi di trasporto sempre
   più diffusi e formazione di inquinamento atmosferico che genera effetto serra; buco nella fascia
   di ozono causato dai gas contenuti nei frigoriferi sempre più grandi e potenti; specie animali e


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vegetali che spariscono con una rapidità impressionante, e la lista dei danni continua ad
allungarsi suscitando solo allarmi verbali.
L’estrazione di risorse naturali dalle montagne e dai mari, le riduzione delle terre coltivabili a
causa della cementificazione, della deforestazione e della desertificazione e i livelli di
inquinamento dell’acqua e dell’aria non hanno finora incontrato limiti percettibili, in quanto le
grandi imprese multinazionali sono finora riuscite a non farsi vincolare in alcun modo e ben
pochi sono gli Stati che hanno difeso il loro stesso territorio.
Già nel 2002, le ricerche dell’IGBP, il Programma Internazionale per la Geosfera e la Biosfera,
meglio conosciuto come Programma per il Cambiamento Globale, evidenziavano che:
       • in poche generazioni l’umanità ha consumato le riserve di combustibile fossile
            generate in centinaia di milioni di anni, avvicinandosi alla soglia dell’esaurimento;
       • la concentrazione nell’atmosfera di diversi gas che incrementano l’effetto serra
            naturale, in particolare l’anidride carbonica e il metano, è aumentata
            pericolosamente, innescando rapidi cambiamenti climatici;
       • circa il 50% della superficie terrestre è stata modificata direttamente dall’intervento
            umano, con significative conseguenze sulla ricchezza della vita sulla Terra
            (biodiversità), per il ciclo dei nutrienti, per la struttura del suolo e per il clima;
       • la quantità di azoto fissato sinteticamente dalle attività agricole attraverso i
            fertilizzanti chimici è oggi superiore a quella fissata naturalmente negli ecosistemi
            terrestri nel ciclo naturale di questo elemento;
       • più della metà della quantità dell’acqua dolce accessibile è utilizzata in modo diretto
            o indiretto dalla nostra specie, e le riserve idriche sotterranee si stanno rapidamente
            esaurendo in moltissime aree del pianeta (dalla Cina agli Stati Uniti, dall’India
            all’Iran;
       • gli ecosistemi marini e costieri si stanno drammaticamente alterando. Sono stati
            distrutti il 50% degli ambienti di mangrovie e il 50% delle zone umide;
       • circa il 22% delle zone marine di pesca sono state ipersfruttate o esaurite, e il 44% è
            al limite dell’esaurimento;
       • i tassi di estinzione delle forme di vita sono notevolmente aumentati, sia negli
            ecosistemi marini che in quelli terrestri. Siamo nel mezzo di un grande evento di
            perdita di biodiversità , provocato, per la prima volta nella storia della vita sulla
            Terra, dalle attività di una singole specie vivente: la nostra.

Negli ultimi mesi, numerosi e ben documentati rapporti internazionali hanno finalmente
quantificato l’entità dei danni, la velocità di progressione dei meccanismi distruttivi e la quantità
di risorse che sarebbero necessarie per interrompere l’espansione illimitata e recuperare
parzialmente alcuni danni che non hanno ancora superato la soglia di non ritorno. I limiti del
pianeta sono emersi con chiarezza e la necessità di intervento immediato per evitare le catastrofi
ha assunto dimensioni ben determinate.
Questi limiti, cioè la pratica impossibilità di procedere come se l’uomo avesse a disposizione un
numero infinito di pianeti, e non fosse confinato in una biosfera fortemente danneggiata,
dovrebbero ora essere tradotti (e in tempi molto stretti) in una serie di misure nazionali e
internazionali dirette a interrompere i meccanismi di danno, a ricostituire ove possibile le risorse
naturali deteriorate o sovrasfruttate, a costruire processi produttivi e di consumo rigorosamente
commisurati alle risorse utilizzabili in modo non distruttivo. Tutti questi processi dovrebbero
inoltre tenere conto delle esigenze ben diverse esistenti nei differenti paesi e soprattutto
dell’implacabile ritmo dell’aumento demografico, in quanto il pianeta dovrà offrire condizioni
di sopravvivenza ad oltre 9 miliardi di persone nel giro di poco più di tre decenni.
Può sembrare un compito immane, specie per i paesi che in meno di 40 anni hanno spinto l’uso
delle risorse (in particolare di quelle energetiche come il petrolio e l’uranio) senza curarsi di
valutare gli effetti su un sistema complesso come quello che lega gli equilibri dell’atmosfera alle

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emissioni artificiali create dagli uomini. Forse però in questi mesi la presa di coscienza della
drammatica situazione in cui ci ha spinto il mancato rispetto dei limiti fisici del pianeta sta
cominciando a diffondersi in termini realistici; il mondo delle responsabilità politiche ancora
non ha reagito in misura adeguata alla gravità dei problemi da affrontare, ma forse gli eventi
climatici e quelli che colpiscono la superficie terrestre costringeranno quanto prima le società
più responsabili a modificare il loro atteggiamento.

2. Il principio di ricostituzione dei cicli biologici

Uno dei danni maggiori finora arrecati alla natura è costituito dagli interventi distruttivi
effettuati sui cicli biologici che caratterizzano le specie che vivono sul pianeta, azioni che si
sono oltretutto prodotte nel giro di pochi anni, senza quindi lasciare il tempo a piante ed animali
di adattarsi alle nuove situazioni. Ogni volta che si è distrutta una foresta primaria senza prima
effettuare una accurata indagine sulle specie che la popolavano, sono spariti centinaia o migliaia
di esemplari di specie non conosciute o rare, che potevano celare sostanze utili per l’uomo o
conoscenza di comportamenti e capacità che avrebbero potuto arricchire il nostro patrimonio
scientifico e tecnologico. Ogni volta che abbiamo introdotto una varietà ibrida o geneticamente
mutata in un area di diversificazione genetica, abbiamo causato la sparizione delle specie
vegetali originarie locali e abbiamo aumentato l’omogeneità del patrimonio naturale che fino a
qualche decennio fa era a nostra disposizione. Ogni volta che si sono introdotte in un lago o nel
mare specie abituate ad ambienti diversi, molto più aggressive e resistenti, si è determinata la
sparizione di alcune specie diventate il cibo preferito dei nuovi venuti. Ogni volta che si è
depredata senza alcun limite una pianta o un animale tipici di un luogo, si è interrotta una catena
alimentare e si è causata la perdita di tutte le specie che facevano parte della stessa catena.
I dati sono impressionanti e ogni giorno vengono rese pubbliche, tra l’indifferenza generale,
ulteriori informazioni che tracciano un quadro complessivo sempre più drammatico. Si dispone
di diversi rapporti che danno notizia , in relazione alla conoscenza fin qui raggiunta, di quale sia
lo stato della biodiversità. Secondo un recente rapporto predisposto dal Centro per il
monitoraggio della conservazione nel mondo, il WCMC del Programma delle Nazioni Unite per
l’Ambiente, il numero delle specie finora descritte è di 1.750.000, mentre quelle ritenute
esistenti, ma non ancora conosciute alla scienza, dovrebbe essere di 14 milioni. La ricerca in
questo settore è particolarmente arretrata: ogni volta che si analizza in profondità un chilometro
cubo di foresta, individuando tutte le specie animali e vegetali in esso contenute, le stime
esistenti si modificano in misura consistente. Ciò significa anche che in Amazzonia o in
qualunque altra zona ad alta intensità di biodiversità, ogni volta che disboschiamo un’area
distruggiamo con gli alberi anche tutte le specie a noi ancora sconosciute che la abitavano,
prima ancora di averle potute studiare.
Questo è uno dei motivi per cui è molto difficile calcolare oggi quante sono le specie viventi
minacciate di estinzione, proprio perché manca un elenco completo di quelle che realmente
esistono. Ogni anno inoltre si aggiungono 13'000 specie all’elenco di quelle studiate e
conosciute; tuttavia, poiché spesso si descrivono come nuove specie in realtà già studiate in
passato, forse il numero più attendibile di nuove specie aggiunto all’elenco è di circa 10.000
all’anno. La comunità scientifica che studia i sistemi naturali e la biodiversità è concorde nel
ritenere che l’intervento umano stia provocando una sesta estinzione di massa (le altre 5 hanno
avuto bisogno di centinaia di milioni di anni), che ha però la caratteristica di essere l’unica
causata da una specie che condivide con le altre il nostro pianeta. Esiste una documentazione
che riguarda circa 1000 specie che si sono estinte dal 1500 ad oggi a seguito dell’intervento
umano. In genere ogni specie comprende un certo numero di popolazioni (anche se esistono
specie con una sola popolazione) e una prima valutazione ha calcolato in via approssimativa in
tre miliardi il numero di popolazioni esistenti. Non dobbiamo però dimenticare, ad esempio, che


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è sufficiente una riduzione dello 0,08 degli ambienti tropicali per provocare la perdita di circa
16 milioni di popolazioni.
Per quanto riguarda le specie minacciate di estinzione, una recente “lista rossa” dell’IUCN,
elenca 15.589 specie minacciate: il 12% di quelle di uccelli, il 23% di quelle dei mammiferi; il
32% di quelle di mammiferi. Le stime delle estinzioni sono piuttosto variabili: si va dalle 40.000
all’anno (circa 100 al giorno) di Myers, alle 27.000 di Wilson (circa 74 al giorno).
Invertire questa tendenza appare un compito particolarmente difficile, anche perché finora gli
interventi di recupero e di ricostituzione del patrimonio preesistente non hanno ottenuto mezzi e
misure giuridiche sufficienti. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile nel 2002 ha indicato
in modo esplicito la necessità di ridurre significativamente entro il 2010 il tasso di progressiva
perdita della biodiversità sul nostro pianeta. L’Unione Europea invece è stata più ambiziosa e ha
parlato di fermare entro la stessa data il tasso di perdita della biodiversità.
In termini di attuazione, si può registrare la moltiplicazione delle aree protette (quantificate di
recente in 102.102) ma questo numero non tranquillizza perché non comporta automaticamente
la protezione delle specie che vivono al loro interno. Guerre, incursioni delle popolazioni locali,
rifugiati, bracconaggio, introduzione di specie aliene, deforestazione, miniere, infrastrutture,
cambiamenti climatici indotti dall’uomo minano quotidianamente tantissime aree protette e
spesso ne compromettono il futuro.

3. La salvaguardia della capacità di riassorbimento

Una volta accertato il continuo aumento di elementi dannosi all’interno della biosfera e
soprattutto la scarsità di interventi e di politiche volti a contenere in misura significativa questi
aumenti, uno dei principi che andrebbe rispettato a qualunque costo è quello della salvaguardia
delle capacità del pianeta di assorbire questi elementi dannosi e di ridurre le conseguenze della
loro presenza sempre maggiore. Nel caso dell’anidride carbonica diffusa nell’aria e dell’effetto
serra da essa provocato (riscaldamento che ha una molteplicità di conseguenze dannose, prima
fra tutte lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente aumento del livello dell’acqua del mare)
viene considerato assolutamente necessario e prioritario un intervento massiccio di
riforestazione. Tuttavia, a giudicare dai dati sulla sparizione incessante delle foreste primarie e
tropicali e sulle azioni di ricostituzione di boschi (troppo pochi e troppo artificiali anche solo per
compensare la deforestazione in atto), gli scienziati sono convinti che “l’eventuale creazione di
“serbatoi” per assorbire la crescita dell’anidride carbonica nell’atmosfera (attraverso, ad
esempio, azioni di riforestazione) potrebbe solo rallentare il riscaldamento globale e questo
tema è oggetto di diffusa attività di ricerca e di proposte di linee guida” (Cfr. il Rapporto 2003
dell’IPCC).
Secondo G. Bologna, “la questione della riforestazione è particolarmente delicata, in quanto
sappiamo che la deforestazione produce immissione di ossido di carbonio , soprattutto se
derivata da incendi di foreste , e comunque indebolisce le capacità del manto vegetale di
assorbire lo stesso biossido di carbonio a causa della eliminazione diretta degli alberi, del
degrado dl suolo e della perdita di biomassa in generale. Oggi è prioritario proteggere le foreste
esistenti e non solo per la loro capacità di trattenimento del biossido di carbonio, ma perché le
foreste più antiche sembrano essere le più efficaci in questo ruolo. Le attività di riforestazione
significative per il trattenimento del biossido di carbonio sono quelle che hanno luogo su terreni
di per se già poveri di sostanza organica, come le terre abbandonate dalle pratiche agricole, le
aree a rischio di erosione o di desertificazione e persino le aree industriali dismesse o le zone
periurbane, dove il recupero della vegetazione rappresenta una operazione molto utile anche per
altri motivi, dalla lotta alla desertificazione al recupero del verde nelle periferie. Inoltre è da
tenere presente che l’incremento di situazioni di particolare caldo e siccità può trasformare le
foreste da “serbatoi di carbonio” a “emettitori “dello stesso, poiché la fase di respirazione delle


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piante, quando emettono il biossido di carbonio assorbito durante la fotosintesi, è molto
sensibile al calore e ciò può aumentare l’emissione.
La capacità di assorbimento da parte del pianeta entra in gioco anche per numerose altre
sostanze, per molte delle quali la biodegradabilità è esclusa, almeno per le caratteristiche che le
tecnologie finora adottate hanno imposto ai prodotti. Lo sversamento in un fiume di sostanze
chimiche tossiche può distruggere i pesci ma arriva fino al mare; il solo lavaggio in alto mare
delle petroliere (quando non addirittura il loro naufragio) può contaminare per anni chilometri di
costa. I rifiuti tossici e pericolosi interrati senza precauzione possono inquinare oltre al suolo le
falde acquifere sotterranee anche a molta distanza. La lista delle sostanze inquinanti è molto
lunga e le quantità disperse nell’ambiente senza controlli aumentano sempre più.
La capacità di metabolizzazione e di assorbimento da parte dei terreni e delle acque è stata
finora praticamente considerata come illimitata, mentre con la crescita dei centri urbani e la
riduzione delle terre coltivate gli spazi disponibili per la biodegradabilità naturale si restringono
rapidamente.
Secondo G.Bologna: “Una concezione di sviluppo sostenibile che pretenda di basarsi sul
concettosi continua crescita, materiale e quantitativa, dei nostri flussi di materia ed energia
all’interno degli ecosistemi globali, è certamente impraticabile e costituisce, anzi, una vera e
propria contraddizione in termini. Sostenibilità, al contrario, significa individuare quei
delicatissimi equilibri dinamici che consentono la rigenerazione dei sistemi naturali e
preservano la loro capacità di assorbimento dei nostri scarti”.
Purtroppo siamo ancora molto lontani dall’aver percepito correttamente la drammaticità dei
rapporti tra i processi naturali e le azioni umane, e malgrado gli sforzi della ricerca scientifica,
non sono ancora stati definiti dei percorsi per adeguare le tecnologie, le produzioni e i consumi
ai ritmi e agli equilibri, alle capacità di rigenerazione e di assimilazione di una molteplicità di
sistemi naturali che interagiscono tra loro.


4. L’uso multiplo di una risorsa naturale limitata

Ogni risorsa che estraiamo dalla Terra e dal Sole per utilizzarla ai nostri scopi (non sempre
giustificabili in termini umani od etici) deve essere utilizzata più volte prima di trasformarla in
residui non più reimpiegabili in nessuna forma, ma soprattutto prima di reimmetterli
nell’ambiente senza pensare ad attivare processi di metabolizzazione o biodegradabilità che
impediscano di danneggiare la terra, le acque o l’aria.
In sostanza, il fatto di aver estratto senza limiti risorse naturali in se limitate e di aver portato
alcune di esse sull’orlo della definitiva sparizione, impone di limitare il danno già fatto,
impiegando più e più volte quanto già trasformato in materie prime agricole e industriali,
riciclandole e riusandole ed evitando in tal modo di continuare ad estrarre (sempre senza limiti)
le risorse originali ancora nascosta nella terra.
Queste soluzioni, che richiedono innovazioni tecnologiche particolari negli usi primari e
metodologie avanzate di raccolta e selezione dei rifiuti (da considerare in larghissima misura
delle “materie seconde”) non sono ancora molto diffuse, anche se abbondantemente teorizzate.
Alcune di esse, ad esempio il recupero dei materiali ferrosi dalle navi in disarmo trascinate sulle
spiagge dell’India, o la raccolta di cartoni e lattine nelle discariche del Sud del mondo, hanno
visto nascere categorie di lavoratori ad altissimo rischio e a paghe bassissime, fortemente
emarginati, che pure svolgono compiti di rilevante interesse anche per la parte ricca
dell’umanità.
Molto deve essere ancora studiato e ricercato nella fase a monte di quasi tutte le materie prime
(specie quelle utilizzate per trasformare in usi utili l’energia solare), affinché il riciclo e il riuso
siano previsti fin dalle fasi iniziali di uso delle materie prime, onde ridurre in particolare i costi


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successivi, ad esempio non mescolando metalli difficilmente separabili o continuando a
preferire plastiche non biodegradabili.
L’applicazione di questo principio si rivelerà particolarmente utile per le materie prime in via di
esaurimento, prolungando la loro vita economica attraverso le successive trasformazioni. E’
anche evidente che i costi specie energetici del riciclaggio saranno sempre più sopportabili man
mano che si avvicinerà il momento della sparizione definitiva della materia prima sfruttata in
modo assolutamente eccessivo.
I consumatori finali, a loro volta, dovranno essere sempre più coscienti della necessità di
rifuggire dai prodotti usa e getta e di dare le loro preferenze a prodotti che per la loro qualità si
prestano maggiormente a usi ripetuti e a trasformazioni successive. Tale comportamento dovrà
essere immediatamente liberato dalla patina di pauperismo che gli è stata imposta dalle tecniche
commerciali e pubblicitarie del consumismo e dovrà invece assumere l’aspetto di scelta positiva
e rispettosa della natura.


5. Il principio di conservazione

L’entità dei danni complessivamente inflitti all’ambiente ha determinato una serie di studi diretti
ad individuare lo stato di conservazione della superficie del pianeta sotto l’azione ininterrotta e
sempre più rapida delle attività degli uomini, definita “impronta umana” (diversa dall’impronta
ecologica elaborata da W. Rees e M. Wackernagel) e calcolata con un “indice dell’influenza
umana”. Questo indice dedica molta attenzione a fattori come la densità della popolazione
umana, la trasformazione fisica del suolo, la presenza di infrastrutture, l’accessibilità dei sistemi
naturali, dovuta a d esempio alle strade, e trascura invece gli effetti di fenomeni globali come le
modificazioni del clima, l’inquinamento e l’assottigliamento della fascia di ozono. In effetti la
trasformazione della superficie del suolo provoca danni notevoli in termini di perdita e
frammentazione degli ecosistemi.
L’applicazione di questo indicatore alle situazioni concrete nel 2002 porta a concludere che
l’83% della superficie terrestre è influenzata dai fattori presi come riferimento. Sempre su tale
base conoscitiva vennero individuate 568 aree dove è ancora presente una situazione che si può
definire “selvatica”. L’anno successivo, l’associazione Conservation International, utilizzando
criteri diversi, individuò 37 aree che possono ancora definirsi “selvagge”, che rappresentano il
43% della superficie terrestre ma ospitano solo il 2,4 % della popolazione mondiale.
In realtà il concetto di conservazione allo stato originario (sul quale vengono poi individuate le
altre regioni più antropizzate), è relativamente significativo a causa del rapido peggioramento
degli altri danni che deteriorano la biosfera nel suo insieme.
Le ricerche in corso, specie quelle volte a individuare con precisione le aree di massima
diversificazione genetica originale, dove si possono ancora incontrare le piante originarie, ormai
quasi ovunque soppiantate dalle varietà ad alto rendimento e da quelle geneticamente
modificate, sono invece di estrema importanza per la salvaguardia del patrimonio genetico che è
ancora a disposizione dell’umanità nel suo complesso.
In questa prospettiva l’idea di realizzare un deposito sotterraneo in un area molto fredda e
isolata (Isole Svalbard), dove conservare tutti i semi che permettano la riproduzione di ogni
pianta utile in un futuro in cui il clima sarà fortemente modificato, lascia piuttosto perplessi,
anche perché al progetto partecipano alcune multinazionali che riproducono i semi per venderli
a livello mondiale.
Più interessante, in termini di conservazione delle risorse naturali, è la proposta presentata
dall’Ecuador nel 2007, di non avviare l’estrazione del petrolio nella sua area amazzonica in
cambio di un contributo finanziario della comunità internazionale, che compensasse i suoi
mancati guadagni. In sostanza sembra si stia facendo strada l’ipotesi di non arrivare
all’esaurimento completo di una risorsa come il petrolio, ma di lasciare intatti alcuni giacimenti,

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che in futuro potrebbero rivestire per l’umanità una utilità molto maggiore dell’uso delle fonti
fossili come combustibile.
E’ da sperare che nei prossimi anni il principio della conservazione possa riguardare tutte le
risorse naturali non rinnovabili.

6. La riconquista della percezione degli elementi costitutivi della natura

E’ passato molto tempo da quando si discuteva della cosiddetta Ipotesi di Gaia, elaborata dal
chimico inglese James Lovelock a partire dal 1979, che consisteva nel concepire l’intera
biosfera come una unità autoregolata, capace di mantenere vitale, cioè in grado di ospitare la
vita, il nostro pianeta, mediante il controllo dell’ambiente chimico e fisico. In alcune situazioni,
tuttavia, questa visione molto ottimistica di una continua, reciproca e sinergica relazione tra vita
e non vita sulla Terra, è stata usata come una giustificazione a qualsiasi azione distruttiva
provocata dalla specie umana ai sistemi naturali.
Il primo a mettere in parte in discussione la visione di Lovelock è stato Crutzen sulla base delle
sue ricerche sugli effetti devastanti dei clorofluorocarburi sulla fascia di ozono: “Questa vicenda
ci insegna che bisogna valutare con cautela e lungimiranza l’impatto delle nostre azioni
sull’ambiente, perché i danni si possono verificare nei luoghi più impensati: i poli sono
lontanissimi dai luoghi dove i CFC venivano prodotti e usati”.
Secondo G. Bologna, il pericolo più grave che oggi gli scienziati avvertono, come minaccia
della funzionalità e della vitalità dei sistemi naturali, è costituito dalla loro frammentazione
dovuta all’incessante e pesante intervento umano. La frammentazione ambientale è quel
processo dinamico di origine antropica a causa del quale un’area naturale subisce una
suddivisione in frammenti più o meno disgiunti e progressivamente più piccoli e isolati.
Se si esce dalla ristretta cerchia degli scienziati e degli ambientalisti, l’immagine che ancora
regna sovrana è quella iniziale di Gaia, la Terra vista e percepita come un organismo immenso e
armonioso, perfettamente adeguato alle esigenze della sola razza umana, e soprattutto capace di
assorbire tutte le sostanze e i rifiuti prodotti dal “progresso tecnologico” perseguito
incessantemente dagli esseri umani. Ormai è però evidente che la situazione è ben diversa, che i
danni già arrecati sono estremamente rilevanti, ma soprattutto che non possiamo confidare
ciecamente negli automatismi della biosfera per ritornare in una situazione di equilibrio.
Vi è poi un altro aspetto della percezione della natura da parte degli esseri umani che è stato
profondamente intaccato dai processi economici spinti all’estremo. In larga misura nei paesi
tecnologicamente dominanti, in misura più contenuta in quelli considerati sottosviluppati, donne
e uomini dedicano una attenzione decrescente ai ritmi e alle bellezze di Madre Natura. Nel
maggio 2007 si è calcolato che più della metà della popolazione mondiale vive nei centri urbani
(almeno un miliardo nelle baraccopoli che li circondano) e che il processo di inurbazione non
accenna a decrescere. Un numero crescente di persone non conosce una vera foresta o si è
bagnato in acque non inquinate, i ritmi delle stagioni e delle produzioni agricoli sono fortemente
alterati, piante e animali selvatici sono sconosciuti ai più. Anche l’aria pulita sta diventando un
bene solo apparentemente comune.
E invece proprio in questo momento ci sarebbe bisogno di mobilitare moltitudini che amano
profondamente la natura che li circonda affinché la difendano e la sorveglino come un bene
prezioso di interesse comune. Il recupero di una percezione profonda dai valori naturali è quindi
un obiettivo urgente e che non può essere mancato, pena l’emergere precipitoso di squilibri e
contraddizioni che continuano a maturare ogni giorno.
Le soluzioni di cui più si parla sono idee al limite del ridicolo (seminare piante su tetti e balconi,
creare strutture metalliche sovrastate da pannelli solari e piene di fiori e di piante, ecc. ma
all’interno di megalopoli sommerse dallo smog) oppure città –giardino ovviamente riservate ai
redditi più alti, ipotesi del tutto inadeguate rispetto all’entità degli inquinamenti.


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Sono invece le persone diventate coscienti e responsabili che devono riconquistare il contatto
continuo con la Terra e con i suoi frutti, ma soprattutto devono comprendere i nuovi compiti che
li attendono: fare una passeggiata, ricercare cibi di stagione, far affermare le produzioni
biologiche come la cultura dominante del prossimo decennio. Risentirsi in armonia con i ritmi
biologici del pianeta è un imperativo al quale nessuno può più sottrarsi.

7. Il reinserimento dell’uomo nel ciclo del carbonio

Tutti i dati oggi disponibili dimostrano che stiamo stravolgendo il ciclo di alcuni elementi
essenziali per la vita, come quelli del carbonio e dell’azoto.
Si stima che tra atmosfera, oceani e biosfera siano in circolazione circa 42.000 miliardi di
tonnellate di carbonio. La quantità precisa riscontrabile in ciascuno di questi “serbatoi” è tuttora
soggetta a incertezze e gli scienziati ritengono che molti flussi importanti possano variare in
modo significativo di anno in anno. Dal 1750 circa, con l’inizio della rivoluzione industriale, il
consumo di combustibili fossili è stato sempre più in grande scala; così da allora oltre 270
miliardi di tonnellate sono andate a finire nel “serbatoio” atmosferico. Solo a causa dell’uso dei
combustibili fossili per le attività economiche ogni anno immettiamo in atmosfera oltre 7
miliardi di tonnellate di carbonio. Questo incremento continuo sta variando la piccolissima
percentuale di anidride carbonica presente nella nostra atmosfera (0,03%), tanto da alterare gli
equilibri energetici, modificare in tempi brevi le dinamiche climatiche e, quindi, provocare non
pochi problemi alle nostra economie e alle capacità di risposta al mutamento accelerato da parte
dei sistemi naturali.
Sempre seguendo il testo di G. Bologna, riguardo al ciclo dell’azoto, la specie umana produce a
livello industriale circa 160 milioni di tonnellate di azoto reattivo all’anno, una cifra superiore
all’azoto fissato biologicamente nei sistemi naturali terrestri ( che è di circa 90-120 milioni di
tonnellate annue). L’attività umana sta quindi alterando in modo radicale il ciclo globale
dell’azoto con la produzione energetica e alimentare. L’eccesso di azoto crea problemi all’aria,
all’acqua, al suolo nonché alla complessiva salute degli ecosistemi e degli esseri umani.
“L’uomo sta evolvendo come un parassita malaccorto o inadatto che sfrutterà il suo ospite fino a
distruggere se stesso”: queste parole sono state scritte nel 1983 da E.P. Odum e oggi descrivono
una realtà di cui non abbiamo ancora una chiara percezione.
Anzi si continuano ad avviare processi deleteri per i due cicli biologici qui richiamati e come
esempio si
A metà del 2008 si è evidenziata una crisi alimentare a scala mondiale, causata dagli aumenti di
consumi in paesi come la Cina e dagli incrementi demografici mondiali, ma l’elemento
scatenante è stata sicuramente la decisione del presidente americano di imprimere un nuovo
impulso alla produzione di piante da trasformare in carburanti vegetali per le auto e gli impianti
industriali.
Anche la Commissione Europea ha emanato il 23 gennaio 2008 una direttiva, in base alla quale
i paesi europei dovranno adottare misure adeguate per sostituire il 10% del carburante usato dai
mezzi di trasporto con combustibili provenienti dalle piante. Il provvedimento impone che la
produzione di biocarburanti non deve causare la distruzione di foreste primarie, di terreni
tradizionalmente destinati al pascolo e di zone umide; in sostanza dovrebbero essere utilizzati
solo terreni già coltivabili e quindi nasce la possibilità di una concorrenza con la produzione
alimentare.
E’ quindi nel settore agricolo che questa svolta politica ha avuto degli effetti molto rilevanti e
non certo positivi, mentre i danni all’ambiente sembrano essere ancora più gravi di quelli
causati dalle emissioni di anidride carbonica provenienti dal traffico su strada.
In effetti, anche prendendo in considerazione le fonti a più alta produttività, come le piantagioni
di canna da zucchero delle savane nel centro del Brasile, esse creano un debito di carbonio che
richiede 17 anni per essere restituito. La fonte peggiore, palme da olio piantate distruggendo

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foreste tropicali, produce un debito di carbonio che richiede circa 840 anni per essere riprodotto.
Perfino quando si produce etanolo da un granturco cresciuto su terre arabili “lasciate in riposo”
(dette “set aside” in Europa e “riserve di conservazione” negli Stati Uniti, e concepite in genere
per regolamentare le produzioni agricole in modo da non deprimere i redditi degli agricoltori),
sono necessari 48 anni per ripagare il debito di carbonio. In sostanza, poiché dovremmo ridurre
fortemente le nostre emissioni di carbonio proprio in questo periodo, l’effetto complessivo dei
raccolti per produrre carburanti è quello di rendere ancora più gravi le modifiche al clima che si
registrano oggi.
Per questo motivo, alcuni esperti suggeriscono di utilizzare per la produzione di biocarburanti
soltanto i residui dei raccolti (foglie, fusti, piccoli rami), in modo da non incidere sulle terre
arabili.
Purtroppo occorre tener conto del fatto che queste parti delle piante rappresentano un
nutrimento essenziale per garantire la produttività dei suoli. Secondo uno studio recente, la
rimozione di questi residui delle coltivazioni moltiplicherebbe di 100 volte l’erosione del suolo.
Se poi si tenta di ricostituire la qualità dei terreni distribuendo fertilizzanti chimici, secondo il
Premio Nobel Paul Crutzen si produce, nei processi industriali per fabbricarli, ossido di
idrogeno, un gas 296 volte più potente dell’anidride carbonica.
Queste considerazioni relative ai danni e agli squilibri ambientali non devono far dimenticare gli
effetti economici immediati di una misura che viene presentata come una misura ecologica,
diretta a ridurre l’uso del petroli: la diversa destinazione delle piante di granturco ha causato
immediata scarsità di questo prodotti sui mercati internazionali e l’aumento dei prezzi ha colpito
duramente le popolazioni più povere, impossibilitate ad acquistare un alimento base. La crisi
iniziata in Messico si è poi estesa in numerosi paesi causando sommosse e repressioni.
La necessità di ricondurre il ciclo del carbonio almeno alle sue dimensioni complessive degli
anni precedenti la seconda guerra mondiale è ormai diventa urgente e inevitabile.


8. Il principio di precauzione

Il concetto nella sua essenza può sembrare addirittura banale, ma purtroppo è stato fortemente
trascurato negli ultimi decenni causando una lunga serie di danni, mentre non si può certo
affermare che il principio sia già stato accettato e venga applicato con serietà e costanza. In
parole povere si afferma che se una innovazione o una scelta possono presentare dei rischi, non
dovrebbero essere adottate e inserite nell’ambiente, finché non sia stato accertato, con ricerche e
sperimentazioni, che tali rischi sono da escludere. La realtà del sistema economico dominante è
ben diversa: un gran numero di prodotti e di soluzioni tecnologiche vengono messi in
produzione e in vendita senza che vi sia una assoluta sicurezza che non possono provocare
danni. Solo a titolo di esempio si devono richiamare i prodotti medicinali, che vengono
distribuiti se si rivelano efficaci dopo le tre fasi classiche della ricerca (ricerca e
sperimentazione in laboratorio, sperimentazione sugli animali, sperimentazione su esseri
umani), mentre la quarta fase, quella della sperimentazione di massa, viene effettuata nel
mercato, sugli acquirenti e gli utilizzatori ignari del fatto che non tutti i rischi sono stati esclusi.
Questo modo di procedere ha assunto dimensioni e conseguenze decisamente insostenibili nel
caso delle tecnologie nucleari (spinte dagli interessi militari alla disponibilità di plutonio per
armare le testate atomiche), che sono state impiegate senza sapere come distruggere o isolare le
scorie dopo i circa 25 anni di vita di ogni impianto. Ancora oggi, dopo oltre 60 anni da
Hiroshima, le scorie vagano sulla superficie del pianeta senza che si profili all’orizzonte la tanto
attesa soluzione del problema. Oggi, addirittura, si ripropone il massiccio ricorso all’energia di
origine nucleare, nascondendo senza esitazioni le pesanti conseguenze che possono derivare per
l’ambiente e le popolazioni dai nuovi impianti, definiti “sicuri” per aver aumentato i sistemi di


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sicurezza, ma senza aver verificato in concreto la possibilità di escludere i rischi in modo
scientifico.
Il principio di precauzione è stato precisato negli ultimi anni in molte sedi istituzionali e di
ricerca. Nel 1992, il principio 15 della Dichiarazione di Rio, emersa dalla Conferenza delle
Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, afferma:”Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati
applicheranno largamente, secondo le loro possibilità, l’approccio precauzionale. In caso di
rischio di danno grave e irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire
da pretesto per rinviare l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi,
dirette a prevenire il degrado ambientale”.
Il testo di G. Bologna aggiunge altre informazioni: “Il concetto di fondo contenuto nel principio
precauzionale – in sintesi: evitare di intraprendere iniziative che potranno generare rischi
significativi – è stato anticipato da altre dichiarazioni internazionali prima di essere
esplicitamente formalizzato in uno dei principi della Dichiarazione di Rio nel 1992. Ad
esempio, la Dichiarazione Ministeriale della Seconda Conferenza Internazionale sulla
Protezione del Mare del Nord del 1987 stabilisce di “accettare che per proteggere il mare del
Nord dai possibili effetti nocivi delle sostanze più pericolose sia necessario adottare un principio
di precauzione, che può richiedere il controllo delle immissioni nell’ambiente di tali sostanze
ancor prima che un nesso causale tra esse ed eventuali danni sia stato dimostrato da
inequivocabili prove scientifiche”.
Una analoga Dichiarazione Ministeriale della Conferenza Economica delle Nazioni Unite per
l’Europa del 1990afferma che: “per raggiungere una condizione di sviluppo sostenibile si
dovrebbero basare gli orientamenti politici sul principio di precauzione (…) Dove vi sia il
pericolo di danni gravi o irreversibili, la mancanza di certezze scientifiche complete non
dovrebbe essere usata come pretesto per ritardare l’adozione di misure che prevengano il
degrado ambientale”.
A sua volta, in Europa, l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), ha prodotto un interessante
rapporto sul principio precauzionale, che riporta, tra l’altro, numerosi documenti dove questo
approccio viene richiamato. Oltre a quelli già citati, compaiono: il Protocollo di Montreal del
1987 sulle sostanze che depauperano la fascia di ozono; la Convenzione quadro sui
cambiamenti climatici del 1992; il Trattato dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht del
1992) in seguito ripreso dal Trattato di Amsterdam; il Protocollo sulla Biosicurezza di
Cartagena, del 2000, della Convenzione sulla diversità biologica; la Convenzione di Stoccolma
sugli inquinanti persistenti organici (i cosiddetti POPs, Persistent Organic Pollutants).
Sempre seguendo il testo di G. Bologna, il 2 febbraio 2000 la Commissione europea ha
presentato una comunicazione al Consiglio che si propone di illustrare la strategia da adottare
nell’utilizzo del principio di precauzione sia all’interno della Comunità, sia a livello
internazionale. In questo documento il principio di precauzione “comprende quelle specifiche
circostanze in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono
indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, che esistono
ragionevoli motivi di temere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull’ambiente e sulla salute
umana, animale o vegetale, possono essere incompatibili con il livello di protezione prescelto”.
Lo stesso rapporto approfondisce, in specifici capitoli, alcuni esempi storici di casi affrontati in
grande ritardo rispetto ad avvertimenti che non sono stati presi in giusta considerazione. Il
rapporto riferisce quindi delle questioni legate alle radiazioni, con i primi segnali di allarme
avutisi nel 1896, dell’incredibile sfruttamento delle aree da pesca, del benzene, dell’amianto, dei
policlorobifenili (PCB), delle sostanze che riducono la fascia di ozono nell’atmosfera,
dell’anidride solforosa, del DES (detilstilbestrolo), del MTBE (metilterbutiletere) usato come
sostituto del piombo nelle benzine, dell’encefalopatia spongiforme bovina (sindrome mucca
pazza), ecc. Altri prodotti particolarmente pericolosi sono il cianuro usato per l’estrazione
dell’oro, il piombo utilizzato in diverse lavorazioni, ecc. Queste vicende, e le lezioni che ne


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sono derivate, se tenute a mente quali esempi negativi, sono senz’altro molto utili e istruttive per
evitare di incorrere nel futuro in casi analoghi.
Invece si deve constatare che il principio di precauzione non è ancora stato adottato alla scala in
cui sarebbe necessario, accompagnato da un sistema di controlli preventivi e da pene rilevanti
rigorosamente applicate.
Inoltre si incontrano ancora oggi casi in cui sarebbe stato necessario adottare il principio (dalla
diffusione non autorizzata e non sorvegliata di prodotti geneticamente modificati ai farmaci che
continuamente vengono ritirati per “sopravvenuti” rischi non previsti). Sarebbe ormai anche
necessario aumentare le precauzioni, data la gravità delle situazioni che caratterizzano tante
specie animali e vegetali e tante regioni del globo e che potrebbero dare luogo a conseguenze di
estrema gravità per un pianeta che ha difficoltà crescenti a sostenerle (effetti moltiplicatori dei
rischi).


9. La conversione all’ambiente di produzioni e consumi

E’ ormai necessario prevedere che alcune produzioni e alcuni processi e tecnologie di
produzione possano rivelarsi non più sostenibili per il pianeta. All’origine di situazioni di questo
tipo possono trovarsi sostanze la cui pericolosità ambientale e per la salute degli organismi
viventi è ormai accertata senza che si possano trovare modifiche o adattamenti risolutivi, oppure
la difficoltà tecnica ed economica di stoccare in modo e in siti sicuri i residui e le scorie di
produzione o gli stessi prodotti una volta terminato il loro ciclo di vita utile, o ancora la
impossibilità per la Terra di diluire o riassorbire le sostanze inquinanti. Gli esempi sono molti,
anche tralasciando quello eclatante degli impianti nucleari: il ciclo del mercurio e dell’arsenico,
la diffusione del piombo, i pesticidi che ancora contengono i dodici principi attivi più velenosi,
cancerogeni, mutageni e teratogeni, i metalli pesanti sempre più presenti negli organismi umani,
ecc. La diossina è forse un caso a parte: in Italia il 50% della popolazione è esposto a livelli di
contaminazione da diossina e da sostanze simili superiori alla dose tollerabile stabilita
dall’Unione Europea (due picogrammi tek/kg di peso corporeo al giorno, la media italiana è
2-2,2). Gli alimenti ,soprattutto pesce, latte e prodotti caseari, rappresentano oltre il 90% dei
veicoli di contaminazione. Un recente studio della FAO (“Diossine nella catena alimentare”)
chiarisce che dei 419 tipi di composto correlati alla diossina identificati, solo 30 hanno una
tossicità significativa. Si tratta di inquinanti ambientali pervasivi o inquinanti organici
persistenti che resistono alla degradazione fisico-chimica e biologica. Una volta entrati negli
organismi, compresi gli esseri umani, si accumulano nei tessuti grassi. A dosi elevate, oltre a
essere cancerogeni, causano una gran varietà di effetti tossici, ai quali sono sensibili il sistema
endocrino, riproduttivo e dello sviluppo. In particolare le diossine sono prodotte dalle sorgenti
di combustione, grandi e piccole (uno dei motivi dell’opposizione agli inceneritori) e entrano
nel ciclo vitale degli animali che mangiano su terreni o in acque fortemente inquinate (quindi
non sempre gli animali ruspanti sono di per se più sicuri).
In tutti questi casi è ormai urgente prevedere delle politiche di riconversione degli impianti e di
sostituzione dei prodotti, adottando tecnologie non inquinanti e spostando se possibile (magari
in parte) le strutture produttive verso oggetti utili per la salvaguardia dell’ambiente.
Adottare queste politiche di prevenzione permetterebbe di ridurre i danni all’ambiente degli
Stati ospiti e di mettere a punto delle strategie di riconversione (e relativi brevetti) che possono
essere imitate da altri Stati con notevoli vantaggi economici per lo Stato che avesse anticipato
tali politiche.
La convenienza di affrontare i costi della riconversione deve essere accuratamente calcolata in
relazione ai costi della riabilitazione delle aree e del rimborso dei danni arrecati alla popolazione
(tenendo conto dell’esperienza dell’amianto).


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E’ da prevedere che un orientamento politico in questa direzione potrà emergere solo quando la
spinta esercitata da campagne organizzate per la tutela dei consumatori avrà raggiunto
dimensioni ragguardevoli. Ogni ricerca sui danni arrecati agli ignari consumatori e ogni
campagna informativa sui danni in atto potrà dare un sostegno decisivo alle iniziative di
riconversione preventiva degli impianti massimamente pericolosi.
Se poi almeno una parte di tali impianti potesse essere diretta alla fabbricazione di sostanze e
prodotti compatibili con l’equilibrio del pianeta e utili per la salvaguardia dell’ambiente, i
problemi del mantenimento dei posti di lavoro potrebbero ridimensionarsi. Non devono poi
essere dimenticate le esigenze di effettuare ricerche preliminari (studi di fattibilità, valutazioni
di tecnologie alternative, ecc.) che a loro volta potrebbero offrire nuove possibilità
occupazionali.


10. La riprogettazione

Nella prospettiva di un rapido adeguamento della struttura produttiva alle esigenze di
salvaguardia dell’ambiente ormai innegabili, sarà necessario anche prevedere una completa
revisione dei danni ambientali causati da prodotti che creano eccessivi rifiuti o che si sono
ormai rivelati indistruttibili (o comunque non biodegradabili in tempi brevi). Gli oggetti in
plastica, ad esempio, continuano ad accumularsi sulla terra e nei mari, laghi e fiumi con grande
rapidità, dato che non è stato posto ancora alcun limite all’uso e alla produzione e soprattutto
alla dispersione incontrollata nell’ambiente. E’ noto che nell’Oceano Pacifico sono stati
individuati due grandi ammassi di contenitori in plastica, trasportati dalle correnti e concentrati
in due isole galleggianti, ciascuna di una estensione pari a quella degli Stati Uniti e in continuo
aumento. Ai consumatori sono offerti ogni giorno nuovi oggetti in plastica adatti ad una infinità
di usi, e nelle case e nei territori si accumulano questi prodotti del petrolio praticamente
ineliminabili, mentre nelle discariche occupano spazi crescenti, una delle cause del rapido
esaurimento della loro ricettività.
Sembra assolutamente necessario prevedere l’avvio in tempi brevi di strategie di nuova
concezione degli oggetti realmente indispensabili, mentre tutti gli oggetti oggi in uso (sia
industriali che di consumo) andrebbero riprogettati alle origini, per ridurre al massimo il loro
contenuto di rifiuti non biodegradabili e le loro esigenze di imballaggi (che oggi rappresentano
circa il 40% dell’ammontare complessivo dei rifiuti da riciclare o da eliminare senza creare
ulteriori danni).
Riprogettare tutti gli oggetti che hanno alimentato i meccanismi del consumismo e quindi del
consumo illimitato di risorse naturali, può apparire una impresa titanica, ma forse un impegno
consistente e immediato in questa direzione costituisce la via maestra per uscire dalla tragica
contraddizione che caratterizza il modello oggi dominante di produzione e di consumo, che
supera ormai di molte volte le capacità del pianeta. Abbiamo urgente bisogno di prodotti di
“qualità ambientale garantita”, che interrompano in tempi brevi il degrado del pianeta e aprano
una fase completamente nuova di utilizzo delle risorse naturali adeguato alla capacità della
Terra di sostenere l’intervento umano.
La priorità degli studi e delle ricerche dovrebbe essere attribuita agli oggetti (e ai relativi
processi produttivi) più inquinanti e più dannosi per la salute degli esseri viventi, ma soprattutto
di uso più comune e diffuso anche in culture diverse. La nuova progettazione e i piani esecutivi
dovrebbero essere affidati a organismi in grado di garantire l’effettiva innovazione e una reale
sostenibilità ambientale. Molte imprese già oggi presentano auto e fonti energetiche
apparentemente modificate, che hanno solo spostato i danni a monte e a valle o li ripresentano
con accurati mascheramenti che permettono di usare ancora senza limiti le risorse naturali e di
infliggere altre ferite ad un ambiente già duramente provato. Le imprese che invece decidessero
di modificare radicalmente il loro modo di produrre introducendo tecnologie e materie prime

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totalmente rispettose dell’ambiente dovrebbero essere inserite in un settore oggi quasi
inesistente: i produttori “amici della natura” e i loro prodotti dovrebbero essere trasparenti,
tracciabili e continuamente controllati, ma soprattutto venduti in reparti ben separati da quelli
tradizionali.
E’ evidente che gruppi di cooperative e aziende a controllo pubblico potrebbero fare da
battistrada al resto del mondo industriale, ma le loro buone intenzioni dovrebbero essere
accuratamente controllate e seguite (da una apposita Agenzia?) per evitare trucchi ben noti e
ulteriori danni camuffati.
Infine, si deve sottolineare che le molteplici attività richieste da una riprogettazione diffusa
possono offrire un flusso di nuovi posti di lavoro (nella ricerca scientifica, nei centri di
sperimentazione, nei centri studi aziendali, nella realizzazione dei prototipi, nelle produzioni di
sondaggio e poi nelle linee di produzione e nelle strutture commerciali specializzate) forse
addirittura superiore a quello attuale, fortemente esposto a multe e blocchi per evitare danni
ambientali.

11. Adeguare i bisogni alle dimensioni del pianeta

L’altro grande filone di analisi e di strategie operative che dovrebbe essere rapidamente avviato
e perseguito è rappresentato dalle valutazioni dei bisogni reali della popolazione mondiale in
rapporto alle risorse del pianeta effettivamente utilizzabili senza intaccare i meccanismi
fondamentali della biosfera. Dovrebbero essere calcolati i fabbisogni alimentari essenziali nei
paesi poveri e in quelli ricchi, in tutte le fasce di popolazione, e dovrebbero essere valutati i
“distacchi” tra le strutture attuali di consumo e i livelli minimi essenziali, come pure le
“eccedenze” tra i livelli minimi e i livelli predominanti e massimi dei consumi “opulenti”.
Analoghi calcoli dovrebbero essere effettuati per i consumi non alimentari, procedendo a
delineare, per approssimazioni successive, strutture di consumo al quale possono corrispondere
soluzioni tecnologiche e produttive che implichino, per ogni regione, un massimo di produzione
che però non intacchi minimamente gli equilibri della biosfera e le capacità di riproduzione e
assorbimento del suolo e delle acque. Su questa base conoscitiva sarà poi necessario ipotizzare
delle diverse combinazioni delle produzioni fondamentali (grano, riso, granturco, ecc. ma anche
soia, cotone, ecc.) e conseguentemente dei flussi di scambio equilibrati a prezzi contrattati in
condizioni di parità.
Questo complesso di operazioni dovrà poi essere proiettato nel futuro per tenere conto del
rapido aumento della popolazione mondiale, che aumenterà di 75 milioni di persone all’anno
fino a raggiungere la cifra complessiva di 9,2 miliardi di persone fra 38 anni circa (previsione
media dell’ONU).
Quanto precede è naturalmente uno schema molto semplificato, ma che dovrà essere realizzato
da esperti con le dovute competenze in tempi molto brevi, perché finora gli studi ambientali
delle organizzazioni internazionali hanno dato la priorità ai meccanismi di danno al pianeta ( a
come fermarli o rallentarli, a come innestare processi non dannosi, ecc.) trascurando in qualche
misura gli immensi squilibri tra i consumi di oltre metà della umanità attuale e quelli di meno di
un miliardo di persone immerse nel consumismo senza limiti dei paesi più ricchi. Questo
squilibrio incide paurosamente sullo sfruttamento delle risorse del pianeta e tenderà ad
aumentare i suoi effetti negativi e violenti man mano che gli incrementi demografici
(concentrati quasi esclusivamente nelle fasce più povere delle popolazioni mondiali)
aumenteranno la forza delle rivendicazioni degli esclusi. Questi processi devono invece essere
previsti ed affrontati fin da subito, parallelamente alle analisi e agli interventi di salvaguardia
ambientale.
In ogni caso la prospettiva qui delineata attribuisce nuovi ruoli e importanza ancora maggiore
alle politiche del “consumo critico” e alla diffusione di modelli di consumo responsabile in un


                                                                                                15
paese come l’Italia, pochissimo attento a modulare le caratteristiche dei consumi per rispettare
le più urgenti esigenze dell’ambiente.



12. Elaborare un modello per ogni cultura

Un ultimo principio, sul quale occorre riflettere molto profondamente, riguarda i rapporti tra uso
eccessivo delle risorse naturali, risorse disponibili in ciascun territorio (tenendo conto degli
effetti fortemente distorsivi introdotti da politiche di tipo coloniale e dall’azione di sfruttamento
delle imprese multinazionali) e modelli di consumo tradizionali e indotti dai processi di
globalizzazione. Per raggiungere gli equilibri generali accennati nel punto precedente sarà
assolutamente necessario far elaborare da ogni cultura un suo modello di consumo strettamente
aderente alle risorse correttamente utilizzabili del suo territorio. Per ridurre al massimo i
consumi energetici legati agli inutili, massicci spostamenti di prodotti (specie alimentari) sarà
sicuramente necessario valorizzare al massimo i consumi tipici tradizionali, attivando dei flussi
di esportazione solo quando i fabbisogni locali saranno stati soddisfatti e le risorse in eccedenza
siano particolarmente utili per popolazioni che abbiano abitudini alimentari, e di consumo in
genere, analoghe o molto simili.
La elaborazione di una pluralità di modelli di consumo incontrerà particolari difficoltà in molte
situazioni sociali, già fortemente influenzate da prodotti e abitudini derivate o imposte da paesi
lontani. Sarà necessario recuperare usi e costumi abbandonati o dimenticati, guadagnando però
in adesione alle produzioni del proprio territorio e in minore dipendenza da importazioni quasi
sempre non liberamente scelte.
D’altra parte, è assolutamente necessario che ogni popolazione, anche povera di mezzi, diventi
responsabile della salvaguardia e della sorveglianza dell’ambiente nel quale le loro vite sono
inserite. Ogni modello locale deve però anche essere elaborato in modo creativo e denso di
immaginazione, in riferimento ai miti e alle tradizioni dei luoghi, per aumentare il piacere di
vivere in un contesto naturale non danneggiato e in società che si evolvono in armonia con la
vita del pianeta.


La fonte principale alla quale abbiamo fatto riferimento è il testo fondamentale di Gianfranco
Bologna, del WWF: Manuale della sostenibilità Idee, concetti, nuove discipline capaci di
futuro, Edizioni Ambiente, Milano, dicembre 2005

Altri testi essenziali utilizzati:

IPCC, Climate Change 2007, Mitigazione dei cambiamenti climatici, Sintesi per i decisori
politici , ENEA, Roma, 2008

D. Rosner e G. Markovitz, The Politics of Lead Toxicology and the Devastatine
Consequences for Children

S. Gandolfi,     Diossina? Ovunque, Magazine del Corriere della Sera, giovedì primo maggio
2008

M. Correggia, Miniere illegali, cianuro e l’invenzione dell’oro, Terraterra, Il Manifesto, 31
gennaio 2008



                                                                                                  16
M. Forti Tutti i veleni dei Grandi Laghi americani, Terraterra, Il Manifesto, 12 febbraio
2008

AAVV L’Atlante per l’ambiente, analisi e soluzioni, Le Monde Diplomatique e Il Manifesto,
Roma, novembre 2007

AAVV Il pianeta impazzito, Atlante de La Repubblica, Roma, maggio 2007

AAVV Il pianeta rovente, come salvarsi dal riscaldamento globale, National Geographic,
Roma, marzo 2008-05-08

M.V. Sbordoni Cambiamenti climatici: tempi duri per lo sviluppo sostenibile, VIS, Roma,
2008




                                                                                      17

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I limiti: i 12 principi (fiom)

  • 1. Testi da premettere o da inserire come riquadri nel testo successivo “Non possiamo comandare sulla natura se non obbedendole” Francesco Bacone, filosofo (1561- 1626). Edward Wilson, della Harward University, “Consideriamo l’essenza dell’ambientalismo come è stata definita dalla scienza. La Terra, a differenza degli altri pianeti del sistema solare, non è in equilibrio fisico. Dipende dal suo guscio che è vivo e crea le particolari condizioni in cui la vita è sostenibile. Il suolo, l’acqua e l’atmosfera sulla superficie si sono evoluti nel corso di centinaia di milioni di anni fino alla loro condizione attuale grazie all’attività della biosfera, uno strato meravigliosamente complesso di creature viventi le cui attività sono collegate tra loro in cicli globali precisi, ma gracili, di energia e materia organica trasformata. La biosfera ricrea il nostro mondo speciale ogni giorno, ogni minuto e lo mantiene in un eccezionale e scintillante disequilibrio fisico. Di questo disequilibrio la specie umana è completamente schiava. Quando modifichiamo la biosfera in una qualsiasi direzione, allontaniamo l’ambiente dalla danza delicata della biologia. Quando distruggiamo ecosistemi e annientiamo le specie, degradiamo il più grande patrimonio che questo pianeta abbia da offrire e in tal modo minacciamo la nostra stessa esistenza. Non siamo scesi su questo mondo come esseri angelici. Ne siamo alieni che hanno colonizzato la Terra. La nostra specie si è evoluta qui, una fra molte, nel corso di milioni di anni ed esiste in quanto miracolo organico, collegato ad altri miracoli organici. L’ambiente naturale che trattiamo con tanta insensata ignoranza e sconsideratezza è stata la nostra culla, il nostro asilo, la nostra scuola e la nostra unica casa. Siamo profondamente adattati alle sue particolari condizioni, in ogni singola fibra del corpo e in ogni singolo processo biochimico che ci da la vita. Questa è l’essenza dell’ambientalismo, il principio ispiratore di quanti si occupano della salute del pianeta. Ma non è ancora una visione del mondo molto diffusa; evidentemente è ancora troppo poco persuasiva per distogliere molti dai diversivi prioritari dello sport, della politica, della religione e delle ricchezze personali” [Bologna, pag. 25] Fairfield Osborne, New York Zoological Society, nel suo libro del 1948, “Il pianeta saccheggiato” “L’idea di scrivere questo libro mi balenò verso la fine della seconda guerra mondiale. Mi sembrava, in quei giorni, che l’umanità fosse impegnata in due tremendi conflitti e non solo in quello che echeggiava in ogni testata di giornale, in ogni radio, nella mente, nel cuore e nelle sofferenze dei popoli di tutto il mondo. All’altra guerra, silenziosa, inavvertita, ma alla fine, più micidiale ancora, l’uomo si è abbandonato da tempo incalcolabile, ciecamente, inconsapevolmente. Vasta come il mondo, questa guerra continua ed è foriera per la razza umana di sciagure più largamente diffuse di quelle di qualunque conflitto armato. Contiene in sé la possibilità di un disastro finale superiore perfino a quello dell’uso dell’energia atomica applicata alla distruzione. E questa guerra è la guerra dell’uomo contro la natura” [ Bologna, pag. 27] Edward Wilson “Anche se nessuno lo desiderava, siamo la prima specie a essere diventata una forza geofisica in grado di alterare il clima della Terra, ruolo precedentemente riservato alla tettonica, alle reazioni 1
  • 2. cromosferiche e ai cicli glaciali. Dopo il meteorite di dieci chilometri di diametro che 65 milioni di anni fa precipitò nello Yucatan ponendo fine all’era dei rettili, i più grandi distruttori della vita siamo noi. Con la sovrappopolazione ci siamo creati il pericolo di finire il cibo e l’acqua. Ci attende quindi una scelta tipicamente faustiana: accettare il nostro comportamento corrosivo e rischioso come prezzo inevitabile della crescita demografica ed economica, oppure rianalizzare noi stessi e andare alla ricerca di una nuova etica ambientale” [Bologna, pag. 27] “Agli inizi del secolo scorso, nel 1900, impiegavamo giornalmente solo l’equivalente di pochi barili di petrolio per ottener l’energia utilizzata a livello mondiale. Oggi consumiamo ogni giorno oltre 80 milioni di barili di petrolio. Sempre nel 1900 utilizzavamo metalli per una ventina di milioni di tonnellate l’anno e ora siamo passati a oltre 1,2 miliardi di tonnellate. Il consumo di carta è passato da 4 milioni di tonnellate nel 1900 a circa 160 milioni di tonnellate nel 1998. La produzione di materie plastiche, praticamente sconosciuta nel 1900, ha raggiunto i 131 milioni di tonnellate nel 1995. L’economia umana attinge oggi a tutti i 92 elementi chimici presenti nella tavola periodica degli elementi, mentre nel 1900 ne utilizzava solo una ventina” [Bologna, pag. 30] “Oggi utilizziamo dagli 80.000 ai 100.000 composti chimici di origine antropogenica, derivanti da attività industriali, dei quali ignoriamo gli effettisui sistemi naturali e sul nostro organismo. Soltanto di un 2% circa di questi è stata analizzata le eventuale cancerogenicità”. [Bologna, pag. 32] Nicholas Georgescu Roegen “il guaio è che lo stock di energia e materia terrestre accessibile è necessariamente finito. E inoltre la termodinamica, sostenuta da irrefutabili dimostrazioni storiche, insegna che la materia-energia disponibile si degrada continuamente e in modo irreversibile in “rifiuti”, una forma di materia- energia inutile dal punto di vista degli usi umani. La radice della scarsità economica risiede nelle leggi della termodinamica, che può essere considerata la fisica del valore economico, come ha dimostrato Sadi Carnot nel suo famoso saggio del 1824. In un mondo in cui esistessero le leggi della termodinamica, la stessa energia potrebbe essere usata più volte e nessun oggetto materiale si consumerebbe. Ma in un mondo come questo, non potrebbe esistere la vita quale oggi la conosciamo. La conclusione è chiara e ineludibile. L’attività industriale in cui è oggi impiegata gran parte dell’umanità accelera sempre di più l’esaurimento delle risorse terrestri, fino ad arrivare inevitabilmente alla crisi. Prima o poi, la “crescita”, la grande ossessione degli economisti standard e marxisti, deve per forza finire. La sola questione aperta è “quando”. Negli ultimi dieci anni [1967- 1977, n.d.r.] circa, sono emersi sintomi evidenti dei limiti ambientali alla crescita. L’inquinamento si è diffuso ovunque” (In “Bioeconomia”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 116-117) 2
  • 3. La Terra è un pianeta finito, non si possono usare senza limiti le risorse naturali Negli anni 2006-2007 si sono moltiplicati i rapporti, le immagini, i dati relativi ai danni spesso irrecuperabili che l’uomo sta arrecando alla natura nella quale siamo immersi. La percezione della reale gravità della situazione stenta invece a diventare cultura diffusa, mentre le strategie e le misure economiche adottate finora sono lontanissime dal delineare radicali miglioramenti possibili nei tempi sempre più stretti che ci separano da esiti letali. In questo particolare momento abbiamo sentito la necessità di individuare alcuni principi fondamentali che dovrebbero essere seguiti a scala globale per garantirci un futuro ben diverso. Pur essendo basati su una attenta analisi delle informazioni scientifiche disponibili, i principi sono diretti alle persone più coscienti e ai decisori politici che non vogliano evitare di prendere in considerazione aspetti così cruciali della storia dell’umanità. Sono delle linee guida facilmente comprensibili, non ancora una strategia complessiva o una selezione di scelte fondamentali e urgenti. Vogliono stimolare reazioni e riflessioni, suggerire comportamenti, evitare dimenticanze in persone responsabili e attive, forse non ancora sufficientemente coscienti. Dodici principi per la sopravvivenza dell’uomo e del pianeta 1. Il concetto di limite Risalgono ai primi anni ’70 i richiami ad una concezione apparentemente banale della Terra intesa come pianeta di dimensioni e consistenza ben delimitate, ma che per lunghi decenni era stata cancellata dal continuo sovrapporsi e espandersi di produzioni che utilizzavano le risorse naturali come se fossero assolutamente infinite. Si può infatti risalire alla fine degli anni ’60, con l’inizio del cosiddetto “consumismo”, per individuare l’avvio di politiche statuali e strategie industriali che imposero la moltiplicazione degli oggetti e delle merci da consumare come modello generalizzato, sia per la struttura produttiva che per le nuove abitudini di consumo. Si è infatti verificata una vera e propria “mutazione” del sistema economico dominante, che è passato dalla produzione di oggetti corrispondenti a bisogni reali (alimenti essenziali, abbigliamento necessario per le diverse stagioni, auto da cambiare una volta giunte al temine della loro vita di funzionamento, divertimenti non costosi commisurati al reddito e al tempo libero) ad una possibilità di accesso percepita come illimitata ad un numero rapidamente crescente di oggetti e servizi sempre più distanti dai bisogni umani, ma resi indispensabili dalla pressione sempre più accentuata della pubblicità e delle strategie di commercializzazione. Questa scelta del sistema dominante (presente ovviamente non solo in Italia, anzi iniziata con qualche anno di anticipo nei paesi più industrializzati) ha garantito un lungo periodo di espansione produttiva, di nuovi investimenti per la fabbricazione di beni di consumo e di diffusione all’estero di impianti sostenuti da incentivi locali e dai bassissimi salari dei lavoratori. Questo immenso processo di moltiplicazione di oggetti, sempre percepiti come “necessari” per i condizionamenti ormai acquisiti dai consumatori, è ancora in atto e le spinte all’ulteriore espansione non accennano a ridursi (anche in presenza negli ultimi anni di “crisi”, spesso dovute però a meccanismi di tipo finanziario). Pochi peraltro si rendono conto del fatto che è proprio il consumismo, basato su consumi sempre più lontani da esigenze umane reali, la molla che ha portato a utilizzare senza limiti le risorse naturali (minerali, alimentari, energetiche) del pianeta e che è all’origine di gran parte dei danni ambientali. I collegamenti sono sotto gli occhi di chi vuole vederli: cibo in eccesso e diffusione di obesità e malattie; mezzi di trasporto sempre più diffusi e formazione di inquinamento atmosferico che genera effetto serra; buco nella fascia di ozono causato dai gas contenuti nei frigoriferi sempre più grandi e potenti; specie animali e 3
  • 4. vegetali che spariscono con una rapidità impressionante, e la lista dei danni continua ad allungarsi suscitando solo allarmi verbali. L’estrazione di risorse naturali dalle montagne e dai mari, le riduzione delle terre coltivabili a causa della cementificazione, della deforestazione e della desertificazione e i livelli di inquinamento dell’acqua e dell’aria non hanno finora incontrato limiti percettibili, in quanto le grandi imprese multinazionali sono finora riuscite a non farsi vincolare in alcun modo e ben pochi sono gli Stati che hanno difeso il loro stesso territorio. Già nel 2002, le ricerche dell’IGBP, il Programma Internazionale per la Geosfera e la Biosfera, meglio conosciuto come Programma per il Cambiamento Globale, evidenziavano che: • in poche generazioni l’umanità ha consumato le riserve di combustibile fossile generate in centinaia di milioni di anni, avvicinandosi alla soglia dell’esaurimento; • la concentrazione nell’atmosfera di diversi gas che incrementano l’effetto serra naturale, in particolare l’anidride carbonica e il metano, è aumentata pericolosamente, innescando rapidi cambiamenti climatici; • circa il 50% della superficie terrestre è stata modificata direttamente dall’intervento umano, con significative conseguenze sulla ricchezza della vita sulla Terra (biodiversità), per il ciclo dei nutrienti, per la struttura del suolo e per il clima; • la quantità di azoto fissato sinteticamente dalle attività agricole attraverso i fertilizzanti chimici è oggi superiore a quella fissata naturalmente negli ecosistemi terrestri nel ciclo naturale di questo elemento; • più della metà della quantità dell’acqua dolce accessibile è utilizzata in modo diretto o indiretto dalla nostra specie, e le riserve idriche sotterranee si stanno rapidamente esaurendo in moltissime aree del pianeta (dalla Cina agli Stati Uniti, dall’India all’Iran; • gli ecosistemi marini e costieri si stanno drammaticamente alterando. Sono stati distrutti il 50% degli ambienti di mangrovie e il 50% delle zone umide; • circa il 22% delle zone marine di pesca sono state ipersfruttate o esaurite, e il 44% è al limite dell’esaurimento; • i tassi di estinzione delle forme di vita sono notevolmente aumentati, sia negli ecosistemi marini che in quelli terrestri. Siamo nel mezzo di un grande evento di perdita di biodiversità , provocato, per la prima volta nella storia della vita sulla Terra, dalle attività di una singole specie vivente: la nostra. Negli ultimi mesi, numerosi e ben documentati rapporti internazionali hanno finalmente quantificato l’entità dei danni, la velocità di progressione dei meccanismi distruttivi e la quantità di risorse che sarebbero necessarie per interrompere l’espansione illimitata e recuperare parzialmente alcuni danni che non hanno ancora superato la soglia di non ritorno. I limiti del pianeta sono emersi con chiarezza e la necessità di intervento immediato per evitare le catastrofi ha assunto dimensioni ben determinate. Questi limiti, cioè la pratica impossibilità di procedere come se l’uomo avesse a disposizione un numero infinito di pianeti, e non fosse confinato in una biosfera fortemente danneggiata, dovrebbero ora essere tradotti (e in tempi molto stretti) in una serie di misure nazionali e internazionali dirette a interrompere i meccanismi di danno, a ricostituire ove possibile le risorse naturali deteriorate o sovrasfruttate, a costruire processi produttivi e di consumo rigorosamente commisurati alle risorse utilizzabili in modo non distruttivo. Tutti questi processi dovrebbero inoltre tenere conto delle esigenze ben diverse esistenti nei differenti paesi e soprattutto dell’implacabile ritmo dell’aumento demografico, in quanto il pianeta dovrà offrire condizioni di sopravvivenza ad oltre 9 miliardi di persone nel giro di poco più di tre decenni. Può sembrare un compito immane, specie per i paesi che in meno di 40 anni hanno spinto l’uso delle risorse (in particolare di quelle energetiche come il petrolio e l’uranio) senza curarsi di valutare gli effetti su un sistema complesso come quello che lega gli equilibri dell’atmosfera alle 4
  • 5. emissioni artificiali create dagli uomini. Forse però in questi mesi la presa di coscienza della drammatica situazione in cui ci ha spinto il mancato rispetto dei limiti fisici del pianeta sta cominciando a diffondersi in termini realistici; il mondo delle responsabilità politiche ancora non ha reagito in misura adeguata alla gravità dei problemi da affrontare, ma forse gli eventi climatici e quelli che colpiscono la superficie terrestre costringeranno quanto prima le società più responsabili a modificare il loro atteggiamento. 2. Il principio di ricostituzione dei cicli biologici Uno dei danni maggiori finora arrecati alla natura è costituito dagli interventi distruttivi effettuati sui cicli biologici che caratterizzano le specie che vivono sul pianeta, azioni che si sono oltretutto prodotte nel giro di pochi anni, senza quindi lasciare il tempo a piante ed animali di adattarsi alle nuove situazioni. Ogni volta che si è distrutta una foresta primaria senza prima effettuare una accurata indagine sulle specie che la popolavano, sono spariti centinaia o migliaia di esemplari di specie non conosciute o rare, che potevano celare sostanze utili per l’uomo o conoscenza di comportamenti e capacità che avrebbero potuto arricchire il nostro patrimonio scientifico e tecnologico. Ogni volta che abbiamo introdotto una varietà ibrida o geneticamente mutata in un area di diversificazione genetica, abbiamo causato la sparizione delle specie vegetali originarie locali e abbiamo aumentato l’omogeneità del patrimonio naturale che fino a qualche decennio fa era a nostra disposizione. Ogni volta che si sono introdotte in un lago o nel mare specie abituate ad ambienti diversi, molto più aggressive e resistenti, si è determinata la sparizione di alcune specie diventate il cibo preferito dei nuovi venuti. Ogni volta che si è depredata senza alcun limite una pianta o un animale tipici di un luogo, si è interrotta una catena alimentare e si è causata la perdita di tutte le specie che facevano parte della stessa catena. I dati sono impressionanti e ogni giorno vengono rese pubbliche, tra l’indifferenza generale, ulteriori informazioni che tracciano un quadro complessivo sempre più drammatico. Si dispone di diversi rapporti che danno notizia , in relazione alla conoscenza fin qui raggiunta, di quale sia lo stato della biodiversità. Secondo un recente rapporto predisposto dal Centro per il monitoraggio della conservazione nel mondo, il WCMC del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, il numero delle specie finora descritte è di 1.750.000, mentre quelle ritenute esistenti, ma non ancora conosciute alla scienza, dovrebbe essere di 14 milioni. La ricerca in questo settore è particolarmente arretrata: ogni volta che si analizza in profondità un chilometro cubo di foresta, individuando tutte le specie animali e vegetali in esso contenute, le stime esistenti si modificano in misura consistente. Ciò significa anche che in Amazzonia o in qualunque altra zona ad alta intensità di biodiversità, ogni volta che disboschiamo un’area distruggiamo con gli alberi anche tutte le specie a noi ancora sconosciute che la abitavano, prima ancora di averle potute studiare. Questo è uno dei motivi per cui è molto difficile calcolare oggi quante sono le specie viventi minacciate di estinzione, proprio perché manca un elenco completo di quelle che realmente esistono. Ogni anno inoltre si aggiungono 13'000 specie all’elenco di quelle studiate e conosciute; tuttavia, poiché spesso si descrivono come nuove specie in realtà già studiate in passato, forse il numero più attendibile di nuove specie aggiunto all’elenco è di circa 10.000 all’anno. La comunità scientifica che studia i sistemi naturali e la biodiversità è concorde nel ritenere che l’intervento umano stia provocando una sesta estinzione di massa (le altre 5 hanno avuto bisogno di centinaia di milioni di anni), che ha però la caratteristica di essere l’unica causata da una specie che condivide con le altre il nostro pianeta. Esiste una documentazione che riguarda circa 1000 specie che si sono estinte dal 1500 ad oggi a seguito dell’intervento umano. In genere ogni specie comprende un certo numero di popolazioni (anche se esistono specie con una sola popolazione) e una prima valutazione ha calcolato in via approssimativa in tre miliardi il numero di popolazioni esistenti. Non dobbiamo però dimenticare, ad esempio, che 5
  • 6. è sufficiente una riduzione dello 0,08 degli ambienti tropicali per provocare la perdita di circa 16 milioni di popolazioni. Per quanto riguarda le specie minacciate di estinzione, una recente “lista rossa” dell’IUCN, elenca 15.589 specie minacciate: il 12% di quelle di uccelli, il 23% di quelle dei mammiferi; il 32% di quelle di mammiferi. Le stime delle estinzioni sono piuttosto variabili: si va dalle 40.000 all’anno (circa 100 al giorno) di Myers, alle 27.000 di Wilson (circa 74 al giorno). Invertire questa tendenza appare un compito particolarmente difficile, anche perché finora gli interventi di recupero e di ricostituzione del patrimonio preesistente non hanno ottenuto mezzi e misure giuridiche sufficienti. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile nel 2002 ha indicato in modo esplicito la necessità di ridurre significativamente entro il 2010 il tasso di progressiva perdita della biodiversità sul nostro pianeta. L’Unione Europea invece è stata più ambiziosa e ha parlato di fermare entro la stessa data il tasso di perdita della biodiversità. In termini di attuazione, si può registrare la moltiplicazione delle aree protette (quantificate di recente in 102.102) ma questo numero non tranquillizza perché non comporta automaticamente la protezione delle specie che vivono al loro interno. Guerre, incursioni delle popolazioni locali, rifugiati, bracconaggio, introduzione di specie aliene, deforestazione, miniere, infrastrutture, cambiamenti climatici indotti dall’uomo minano quotidianamente tantissime aree protette e spesso ne compromettono il futuro. 3. La salvaguardia della capacità di riassorbimento Una volta accertato il continuo aumento di elementi dannosi all’interno della biosfera e soprattutto la scarsità di interventi e di politiche volti a contenere in misura significativa questi aumenti, uno dei principi che andrebbe rispettato a qualunque costo è quello della salvaguardia delle capacità del pianeta di assorbire questi elementi dannosi e di ridurre le conseguenze della loro presenza sempre maggiore. Nel caso dell’anidride carbonica diffusa nell’aria e dell’effetto serra da essa provocato (riscaldamento che ha una molteplicità di conseguenze dannose, prima fra tutte lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente aumento del livello dell’acqua del mare) viene considerato assolutamente necessario e prioritario un intervento massiccio di riforestazione. Tuttavia, a giudicare dai dati sulla sparizione incessante delle foreste primarie e tropicali e sulle azioni di ricostituzione di boschi (troppo pochi e troppo artificiali anche solo per compensare la deforestazione in atto), gli scienziati sono convinti che “l’eventuale creazione di “serbatoi” per assorbire la crescita dell’anidride carbonica nell’atmosfera (attraverso, ad esempio, azioni di riforestazione) potrebbe solo rallentare il riscaldamento globale e questo tema è oggetto di diffusa attività di ricerca e di proposte di linee guida” (Cfr. il Rapporto 2003 dell’IPCC). Secondo G. Bologna, “la questione della riforestazione è particolarmente delicata, in quanto sappiamo che la deforestazione produce immissione di ossido di carbonio , soprattutto se derivata da incendi di foreste , e comunque indebolisce le capacità del manto vegetale di assorbire lo stesso biossido di carbonio a causa della eliminazione diretta degli alberi, del degrado dl suolo e della perdita di biomassa in generale. Oggi è prioritario proteggere le foreste esistenti e non solo per la loro capacità di trattenimento del biossido di carbonio, ma perché le foreste più antiche sembrano essere le più efficaci in questo ruolo. Le attività di riforestazione significative per il trattenimento del biossido di carbonio sono quelle che hanno luogo su terreni di per se già poveri di sostanza organica, come le terre abbandonate dalle pratiche agricole, le aree a rischio di erosione o di desertificazione e persino le aree industriali dismesse o le zone periurbane, dove il recupero della vegetazione rappresenta una operazione molto utile anche per altri motivi, dalla lotta alla desertificazione al recupero del verde nelle periferie. Inoltre è da tenere presente che l’incremento di situazioni di particolare caldo e siccità può trasformare le foreste da “serbatoi di carbonio” a “emettitori “dello stesso, poiché la fase di respirazione delle 6
  • 7. piante, quando emettono il biossido di carbonio assorbito durante la fotosintesi, è molto sensibile al calore e ciò può aumentare l’emissione. La capacità di assorbimento da parte del pianeta entra in gioco anche per numerose altre sostanze, per molte delle quali la biodegradabilità è esclusa, almeno per le caratteristiche che le tecnologie finora adottate hanno imposto ai prodotti. Lo sversamento in un fiume di sostanze chimiche tossiche può distruggere i pesci ma arriva fino al mare; il solo lavaggio in alto mare delle petroliere (quando non addirittura il loro naufragio) può contaminare per anni chilometri di costa. I rifiuti tossici e pericolosi interrati senza precauzione possono inquinare oltre al suolo le falde acquifere sotterranee anche a molta distanza. La lista delle sostanze inquinanti è molto lunga e le quantità disperse nell’ambiente senza controlli aumentano sempre più. La capacità di metabolizzazione e di assorbimento da parte dei terreni e delle acque è stata finora praticamente considerata come illimitata, mentre con la crescita dei centri urbani e la riduzione delle terre coltivate gli spazi disponibili per la biodegradabilità naturale si restringono rapidamente. Secondo G.Bologna: “Una concezione di sviluppo sostenibile che pretenda di basarsi sul concettosi continua crescita, materiale e quantitativa, dei nostri flussi di materia ed energia all’interno degli ecosistemi globali, è certamente impraticabile e costituisce, anzi, una vera e propria contraddizione in termini. Sostenibilità, al contrario, significa individuare quei delicatissimi equilibri dinamici che consentono la rigenerazione dei sistemi naturali e preservano la loro capacità di assorbimento dei nostri scarti”. Purtroppo siamo ancora molto lontani dall’aver percepito correttamente la drammaticità dei rapporti tra i processi naturali e le azioni umane, e malgrado gli sforzi della ricerca scientifica, non sono ancora stati definiti dei percorsi per adeguare le tecnologie, le produzioni e i consumi ai ritmi e agli equilibri, alle capacità di rigenerazione e di assimilazione di una molteplicità di sistemi naturali che interagiscono tra loro. 4. L’uso multiplo di una risorsa naturale limitata Ogni risorsa che estraiamo dalla Terra e dal Sole per utilizzarla ai nostri scopi (non sempre giustificabili in termini umani od etici) deve essere utilizzata più volte prima di trasformarla in residui non più reimpiegabili in nessuna forma, ma soprattutto prima di reimmetterli nell’ambiente senza pensare ad attivare processi di metabolizzazione o biodegradabilità che impediscano di danneggiare la terra, le acque o l’aria. In sostanza, il fatto di aver estratto senza limiti risorse naturali in se limitate e di aver portato alcune di esse sull’orlo della definitiva sparizione, impone di limitare il danno già fatto, impiegando più e più volte quanto già trasformato in materie prime agricole e industriali, riciclandole e riusandole ed evitando in tal modo di continuare ad estrarre (sempre senza limiti) le risorse originali ancora nascosta nella terra. Queste soluzioni, che richiedono innovazioni tecnologiche particolari negli usi primari e metodologie avanzate di raccolta e selezione dei rifiuti (da considerare in larghissima misura delle “materie seconde”) non sono ancora molto diffuse, anche se abbondantemente teorizzate. Alcune di esse, ad esempio il recupero dei materiali ferrosi dalle navi in disarmo trascinate sulle spiagge dell’India, o la raccolta di cartoni e lattine nelle discariche del Sud del mondo, hanno visto nascere categorie di lavoratori ad altissimo rischio e a paghe bassissime, fortemente emarginati, che pure svolgono compiti di rilevante interesse anche per la parte ricca dell’umanità. Molto deve essere ancora studiato e ricercato nella fase a monte di quasi tutte le materie prime (specie quelle utilizzate per trasformare in usi utili l’energia solare), affinché il riciclo e il riuso siano previsti fin dalle fasi iniziali di uso delle materie prime, onde ridurre in particolare i costi 7
  • 8. successivi, ad esempio non mescolando metalli difficilmente separabili o continuando a preferire plastiche non biodegradabili. L’applicazione di questo principio si rivelerà particolarmente utile per le materie prime in via di esaurimento, prolungando la loro vita economica attraverso le successive trasformazioni. E’ anche evidente che i costi specie energetici del riciclaggio saranno sempre più sopportabili man mano che si avvicinerà il momento della sparizione definitiva della materia prima sfruttata in modo assolutamente eccessivo. I consumatori finali, a loro volta, dovranno essere sempre più coscienti della necessità di rifuggire dai prodotti usa e getta e di dare le loro preferenze a prodotti che per la loro qualità si prestano maggiormente a usi ripetuti e a trasformazioni successive. Tale comportamento dovrà essere immediatamente liberato dalla patina di pauperismo che gli è stata imposta dalle tecniche commerciali e pubblicitarie del consumismo e dovrà invece assumere l’aspetto di scelta positiva e rispettosa della natura. 5. Il principio di conservazione L’entità dei danni complessivamente inflitti all’ambiente ha determinato una serie di studi diretti ad individuare lo stato di conservazione della superficie del pianeta sotto l’azione ininterrotta e sempre più rapida delle attività degli uomini, definita “impronta umana” (diversa dall’impronta ecologica elaborata da W. Rees e M. Wackernagel) e calcolata con un “indice dell’influenza umana”. Questo indice dedica molta attenzione a fattori come la densità della popolazione umana, la trasformazione fisica del suolo, la presenza di infrastrutture, l’accessibilità dei sistemi naturali, dovuta a d esempio alle strade, e trascura invece gli effetti di fenomeni globali come le modificazioni del clima, l’inquinamento e l’assottigliamento della fascia di ozono. In effetti la trasformazione della superficie del suolo provoca danni notevoli in termini di perdita e frammentazione degli ecosistemi. L’applicazione di questo indicatore alle situazioni concrete nel 2002 porta a concludere che l’83% della superficie terrestre è influenzata dai fattori presi come riferimento. Sempre su tale base conoscitiva vennero individuate 568 aree dove è ancora presente una situazione che si può definire “selvatica”. L’anno successivo, l’associazione Conservation International, utilizzando criteri diversi, individuò 37 aree che possono ancora definirsi “selvagge”, che rappresentano il 43% della superficie terrestre ma ospitano solo il 2,4 % della popolazione mondiale. In realtà il concetto di conservazione allo stato originario (sul quale vengono poi individuate le altre regioni più antropizzate), è relativamente significativo a causa del rapido peggioramento degli altri danni che deteriorano la biosfera nel suo insieme. Le ricerche in corso, specie quelle volte a individuare con precisione le aree di massima diversificazione genetica originale, dove si possono ancora incontrare le piante originarie, ormai quasi ovunque soppiantate dalle varietà ad alto rendimento e da quelle geneticamente modificate, sono invece di estrema importanza per la salvaguardia del patrimonio genetico che è ancora a disposizione dell’umanità nel suo complesso. In questa prospettiva l’idea di realizzare un deposito sotterraneo in un area molto fredda e isolata (Isole Svalbard), dove conservare tutti i semi che permettano la riproduzione di ogni pianta utile in un futuro in cui il clima sarà fortemente modificato, lascia piuttosto perplessi, anche perché al progetto partecipano alcune multinazionali che riproducono i semi per venderli a livello mondiale. Più interessante, in termini di conservazione delle risorse naturali, è la proposta presentata dall’Ecuador nel 2007, di non avviare l’estrazione del petrolio nella sua area amazzonica in cambio di un contributo finanziario della comunità internazionale, che compensasse i suoi mancati guadagni. In sostanza sembra si stia facendo strada l’ipotesi di non arrivare all’esaurimento completo di una risorsa come il petrolio, ma di lasciare intatti alcuni giacimenti, 8
  • 9. che in futuro potrebbero rivestire per l’umanità una utilità molto maggiore dell’uso delle fonti fossili come combustibile. E’ da sperare che nei prossimi anni il principio della conservazione possa riguardare tutte le risorse naturali non rinnovabili. 6. La riconquista della percezione degli elementi costitutivi della natura E’ passato molto tempo da quando si discuteva della cosiddetta Ipotesi di Gaia, elaborata dal chimico inglese James Lovelock a partire dal 1979, che consisteva nel concepire l’intera biosfera come una unità autoregolata, capace di mantenere vitale, cioè in grado di ospitare la vita, il nostro pianeta, mediante il controllo dell’ambiente chimico e fisico. In alcune situazioni, tuttavia, questa visione molto ottimistica di una continua, reciproca e sinergica relazione tra vita e non vita sulla Terra, è stata usata come una giustificazione a qualsiasi azione distruttiva provocata dalla specie umana ai sistemi naturali. Il primo a mettere in parte in discussione la visione di Lovelock è stato Crutzen sulla base delle sue ricerche sugli effetti devastanti dei clorofluorocarburi sulla fascia di ozono: “Questa vicenda ci insegna che bisogna valutare con cautela e lungimiranza l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente, perché i danni si possono verificare nei luoghi più impensati: i poli sono lontanissimi dai luoghi dove i CFC venivano prodotti e usati”. Secondo G. Bologna, il pericolo più grave che oggi gli scienziati avvertono, come minaccia della funzionalità e della vitalità dei sistemi naturali, è costituito dalla loro frammentazione dovuta all’incessante e pesante intervento umano. La frammentazione ambientale è quel processo dinamico di origine antropica a causa del quale un’area naturale subisce una suddivisione in frammenti più o meno disgiunti e progressivamente più piccoli e isolati. Se si esce dalla ristretta cerchia degli scienziati e degli ambientalisti, l’immagine che ancora regna sovrana è quella iniziale di Gaia, la Terra vista e percepita come un organismo immenso e armonioso, perfettamente adeguato alle esigenze della sola razza umana, e soprattutto capace di assorbire tutte le sostanze e i rifiuti prodotti dal “progresso tecnologico” perseguito incessantemente dagli esseri umani. Ormai è però evidente che la situazione è ben diversa, che i danni già arrecati sono estremamente rilevanti, ma soprattutto che non possiamo confidare ciecamente negli automatismi della biosfera per ritornare in una situazione di equilibrio. Vi è poi un altro aspetto della percezione della natura da parte degli esseri umani che è stato profondamente intaccato dai processi economici spinti all’estremo. In larga misura nei paesi tecnologicamente dominanti, in misura più contenuta in quelli considerati sottosviluppati, donne e uomini dedicano una attenzione decrescente ai ritmi e alle bellezze di Madre Natura. Nel maggio 2007 si è calcolato che più della metà della popolazione mondiale vive nei centri urbani (almeno un miliardo nelle baraccopoli che li circondano) e che il processo di inurbazione non accenna a decrescere. Un numero crescente di persone non conosce una vera foresta o si è bagnato in acque non inquinate, i ritmi delle stagioni e delle produzioni agricoli sono fortemente alterati, piante e animali selvatici sono sconosciuti ai più. Anche l’aria pulita sta diventando un bene solo apparentemente comune. E invece proprio in questo momento ci sarebbe bisogno di mobilitare moltitudini che amano profondamente la natura che li circonda affinché la difendano e la sorveglino come un bene prezioso di interesse comune. Il recupero di una percezione profonda dai valori naturali è quindi un obiettivo urgente e che non può essere mancato, pena l’emergere precipitoso di squilibri e contraddizioni che continuano a maturare ogni giorno. Le soluzioni di cui più si parla sono idee al limite del ridicolo (seminare piante su tetti e balconi, creare strutture metalliche sovrastate da pannelli solari e piene di fiori e di piante, ecc. ma all’interno di megalopoli sommerse dallo smog) oppure città –giardino ovviamente riservate ai redditi più alti, ipotesi del tutto inadeguate rispetto all’entità degli inquinamenti. 9
  • 10. Sono invece le persone diventate coscienti e responsabili che devono riconquistare il contatto continuo con la Terra e con i suoi frutti, ma soprattutto devono comprendere i nuovi compiti che li attendono: fare una passeggiata, ricercare cibi di stagione, far affermare le produzioni biologiche come la cultura dominante del prossimo decennio. Risentirsi in armonia con i ritmi biologici del pianeta è un imperativo al quale nessuno può più sottrarsi. 7. Il reinserimento dell’uomo nel ciclo del carbonio Tutti i dati oggi disponibili dimostrano che stiamo stravolgendo il ciclo di alcuni elementi essenziali per la vita, come quelli del carbonio e dell’azoto. Si stima che tra atmosfera, oceani e biosfera siano in circolazione circa 42.000 miliardi di tonnellate di carbonio. La quantità precisa riscontrabile in ciascuno di questi “serbatoi” è tuttora soggetta a incertezze e gli scienziati ritengono che molti flussi importanti possano variare in modo significativo di anno in anno. Dal 1750 circa, con l’inizio della rivoluzione industriale, il consumo di combustibili fossili è stato sempre più in grande scala; così da allora oltre 270 miliardi di tonnellate sono andate a finire nel “serbatoio” atmosferico. Solo a causa dell’uso dei combustibili fossili per le attività economiche ogni anno immettiamo in atmosfera oltre 7 miliardi di tonnellate di carbonio. Questo incremento continuo sta variando la piccolissima percentuale di anidride carbonica presente nella nostra atmosfera (0,03%), tanto da alterare gli equilibri energetici, modificare in tempi brevi le dinamiche climatiche e, quindi, provocare non pochi problemi alle nostra economie e alle capacità di risposta al mutamento accelerato da parte dei sistemi naturali. Sempre seguendo il testo di G. Bologna, riguardo al ciclo dell’azoto, la specie umana produce a livello industriale circa 160 milioni di tonnellate di azoto reattivo all’anno, una cifra superiore all’azoto fissato biologicamente nei sistemi naturali terrestri ( che è di circa 90-120 milioni di tonnellate annue). L’attività umana sta quindi alterando in modo radicale il ciclo globale dell’azoto con la produzione energetica e alimentare. L’eccesso di azoto crea problemi all’aria, all’acqua, al suolo nonché alla complessiva salute degli ecosistemi e degli esseri umani. “L’uomo sta evolvendo come un parassita malaccorto o inadatto che sfrutterà il suo ospite fino a distruggere se stesso”: queste parole sono state scritte nel 1983 da E.P. Odum e oggi descrivono una realtà di cui non abbiamo ancora una chiara percezione. Anzi si continuano ad avviare processi deleteri per i due cicli biologici qui richiamati e come esempio si A metà del 2008 si è evidenziata una crisi alimentare a scala mondiale, causata dagli aumenti di consumi in paesi come la Cina e dagli incrementi demografici mondiali, ma l’elemento scatenante è stata sicuramente la decisione del presidente americano di imprimere un nuovo impulso alla produzione di piante da trasformare in carburanti vegetali per le auto e gli impianti industriali. Anche la Commissione Europea ha emanato il 23 gennaio 2008 una direttiva, in base alla quale i paesi europei dovranno adottare misure adeguate per sostituire il 10% del carburante usato dai mezzi di trasporto con combustibili provenienti dalle piante. Il provvedimento impone che la produzione di biocarburanti non deve causare la distruzione di foreste primarie, di terreni tradizionalmente destinati al pascolo e di zone umide; in sostanza dovrebbero essere utilizzati solo terreni già coltivabili e quindi nasce la possibilità di una concorrenza con la produzione alimentare. E’ quindi nel settore agricolo che questa svolta politica ha avuto degli effetti molto rilevanti e non certo positivi, mentre i danni all’ambiente sembrano essere ancora più gravi di quelli causati dalle emissioni di anidride carbonica provenienti dal traffico su strada. In effetti, anche prendendo in considerazione le fonti a più alta produttività, come le piantagioni di canna da zucchero delle savane nel centro del Brasile, esse creano un debito di carbonio che richiede 17 anni per essere restituito. La fonte peggiore, palme da olio piantate distruggendo 10
  • 11. foreste tropicali, produce un debito di carbonio che richiede circa 840 anni per essere riprodotto. Perfino quando si produce etanolo da un granturco cresciuto su terre arabili “lasciate in riposo” (dette “set aside” in Europa e “riserve di conservazione” negli Stati Uniti, e concepite in genere per regolamentare le produzioni agricole in modo da non deprimere i redditi degli agricoltori), sono necessari 48 anni per ripagare il debito di carbonio. In sostanza, poiché dovremmo ridurre fortemente le nostre emissioni di carbonio proprio in questo periodo, l’effetto complessivo dei raccolti per produrre carburanti è quello di rendere ancora più gravi le modifiche al clima che si registrano oggi. Per questo motivo, alcuni esperti suggeriscono di utilizzare per la produzione di biocarburanti soltanto i residui dei raccolti (foglie, fusti, piccoli rami), in modo da non incidere sulle terre arabili. Purtroppo occorre tener conto del fatto che queste parti delle piante rappresentano un nutrimento essenziale per garantire la produttività dei suoli. Secondo uno studio recente, la rimozione di questi residui delle coltivazioni moltiplicherebbe di 100 volte l’erosione del suolo. Se poi si tenta di ricostituire la qualità dei terreni distribuendo fertilizzanti chimici, secondo il Premio Nobel Paul Crutzen si produce, nei processi industriali per fabbricarli, ossido di idrogeno, un gas 296 volte più potente dell’anidride carbonica. Queste considerazioni relative ai danni e agli squilibri ambientali non devono far dimenticare gli effetti economici immediati di una misura che viene presentata come una misura ecologica, diretta a ridurre l’uso del petroli: la diversa destinazione delle piante di granturco ha causato immediata scarsità di questo prodotti sui mercati internazionali e l’aumento dei prezzi ha colpito duramente le popolazioni più povere, impossibilitate ad acquistare un alimento base. La crisi iniziata in Messico si è poi estesa in numerosi paesi causando sommosse e repressioni. La necessità di ricondurre il ciclo del carbonio almeno alle sue dimensioni complessive degli anni precedenti la seconda guerra mondiale è ormai diventa urgente e inevitabile. 8. Il principio di precauzione Il concetto nella sua essenza può sembrare addirittura banale, ma purtroppo è stato fortemente trascurato negli ultimi decenni causando una lunga serie di danni, mentre non si può certo affermare che il principio sia già stato accettato e venga applicato con serietà e costanza. In parole povere si afferma che se una innovazione o una scelta possono presentare dei rischi, non dovrebbero essere adottate e inserite nell’ambiente, finché non sia stato accertato, con ricerche e sperimentazioni, che tali rischi sono da escludere. La realtà del sistema economico dominante è ben diversa: un gran numero di prodotti e di soluzioni tecnologiche vengono messi in produzione e in vendita senza che vi sia una assoluta sicurezza che non possono provocare danni. Solo a titolo di esempio si devono richiamare i prodotti medicinali, che vengono distribuiti se si rivelano efficaci dopo le tre fasi classiche della ricerca (ricerca e sperimentazione in laboratorio, sperimentazione sugli animali, sperimentazione su esseri umani), mentre la quarta fase, quella della sperimentazione di massa, viene effettuata nel mercato, sugli acquirenti e gli utilizzatori ignari del fatto che non tutti i rischi sono stati esclusi. Questo modo di procedere ha assunto dimensioni e conseguenze decisamente insostenibili nel caso delle tecnologie nucleari (spinte dagli interessi militari alla disponibilità di plutonio per armare le testate atomiche), che sono state impiegate senza sapere come distruggere o isolare le scorie dopo i circa 25 anni di vita di ogni impianto. Ancora oggi, dopo oltre 60 anni da Hiroshima, le scorie vagano sulla superficie del pianeta senza che si profili all’orizzonte la tanto attesa soluzione del problema. Oggi, addirittura, si ripropone il massiccio ricorso all’energia di origine nucleare, nascondendo senza esitazioni le pesanti conseguenze che possono derivare per l’ambiente e le popolazioni dai nuovi impianti, definiti “sicuri” per aver aumentato i sistemi di 11
  • 12. sicurezza, ma senza aver verificato in concreto la possibilità di escludere i rischi in modo scientifico. Il principio di precauzione è stato precisato negli ultimi anni in molte sedi istituzionali e di ricerca. Nel 1992, il principio 15 della Dichiarazione di Rio, emersa dalla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, afferma:”Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno largamente, secondo le loro possibilità, l’approccio precauzionale. In caso di rischio di danno grave e irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per rinviare l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”. Il testo di G. Bologna aggiunge altre informazioni: “Il concetto di fondo contenuto nel principio precauzionale – in sintesi: evitare di intraprendere iniziative che potranno generare rischi significativi – è stato anticipato da altre dichiarazioni internazionali prima di essere esplicitamente formalizzato in uno dei principi della Dichiarazione di Rio nel 1992. Ad esempio, la Dichiarazione Ministeriale della Seconda Conferenza Internazionale sulla Protezione del Mare del Nord del 1987 stabilisce di “accettare che per proteggere il mare del Nord dai possibili effetti nocivi delle sostanze più pericolose sia necessario adottare un principio di precauzione, che può richiedere il controllo delle immissioni nell’ambiente di tali sostanze ancor prima che un nesso causale tra esse ed eventuali danni sia stato dimostrato da inequivocabili prove scientifiche”. Una analoga Dichiarazione Ministeriale della Conferenza Economica delle Nazioni Unite per l’Europa del 1990afferma che: “per raggiungere una condizione di sviluppo sostenibile si dovrebbero basare gli orientamenti politici sul principio di precauzione (…) Dove vi sia il pericolo di danni gravi o irreversibili, la mancanza di certezze scientifiche complete non dovrebbe essere usata come pretesto per ritardare l’adozione di misure che prevengano il degrado ambientale”. A sua volta, in Europa, l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), ha prodotto un interessante rapporto sul principio precauzionale, che riporta, tra l’altro, numerosi documenti dove questo approccio viene richiamato. Oltre a quelli già citati, compaiono: il Protocollo di Montreal del 1987 sulle sostanze che depauperano la fascia di ozono; la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992; il Trattato dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht del 1992) in seguito ripreso dal Trattato di Amsterdam; il Protocollo sulla Biosicurezza di Cartagena, del 2000, della Convenzione sulla diversità biologica; la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti persistenti organici (i cosiddetti POPs, Persistent Organic Pollutants). Sempre seguendo il testo di G. Bologna, il 2 febbraio 2000 la Commissione europea ha presentato una comunicazione al Consiglio che si propone di illustrare la strategia da adottare nell’utilizzo del principio di precauzione sia all’interno della Comunità, sia a livello internazionale. In questo documento il principio di precauzione “comprende quelle specifiche circostanze in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, che esistono ragionevoli motivi di temere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull’ambiente e sulla salute umana, animale o vegetale, possono essere incompatibili con il livello di protezione prescelto”. Lo stesso rapporto approfondisce, in specifici capitoli, alcuni esempi storici di casi affrontati in grande ritardo rispetto ad avvertimenti che non sono stati presi in giusta considerazione. Il rapporto riferisce quindi delle questioni legate alle radiazioni, con i primi segnali di allarme avutisi nel 1896, dell’incredibile sfruttamento delle aree da pesca, del benzene, dell’amianto, dei policlorobifenili (PCB), delle sostanze che riducono la fascia di ozono nell’atmosfera, dell’anidride solforosa, del DES (detilstilbestrolo), del MTBE (metilterbutiletere) usato come sostituto del piombo nelle benzine, dell’encefalopatia spongiforme bovina (sindrome mucca pazza), ecc. Altri prodotti particolarmente pericolosi sono il cianuro usato per l’estrazione dell’oro, il piombo utilizzato in diverse lavorazioni, ecc. Queste vicende, e le lezioni che ne 12
  • 13. sono derivate, se tenute a mente quali esempi negativi, sono senz’altro molto utili e istruttive per evitare di incorrere nel futuro in casi analoghi. Invece si deve constatare che il principio di precauzione non è ancora stato adottato alla scala in cui sarebbe necessario, accompagnato da un sistema di controlli preventivi e da pene rilevanti rigorosamente applicate. Inoltre si incontrano ancora oggi casi in cui sarebbe stato necessario adottare il principio (dalla diffusione non autorizzata e non sorvegliata di prodotti geneticamente modificati ai farmaci che continuamente vengono ritirati per “sopravvenuti” rischi non previsti). Sarebbe ormai anche necessario aumentare le precauzioni, data la gravità delle situazioni che caratterizzano tante specie animali e vegetali e tante regioni del globo e che potrebbero dare luogo a conseguenze di estrema gravità per un pianeta che ha difficoltà crescenti a sostenerle (effetti moltiplicatori dei rischi). 9. La conversione all’ambiente di produzioni e consumi E’ ormai necessario prevedere che alcune produzioni e alcuni processi e tecnologie di produzione possano rivelarsi non più sostenibili per il pianeta. All’origine di situazioni di questo tipo possono trovarsi sostanze la cui pericolosità ambientale e per la salute degli organismi viventi è ormai accertata senza che si possano trovare modifiche o adattamenti risolutivi, oppure la difficoltà tecnica ed economica di stoccare in modo e in siti sicuri i residui e le scorie di produzione o gli stessi prodotti una volta terminato il loro ciclo di vita utile, o ancora la impossibilità per la Terra di diluire o riassorbire le sostanze inquinanti. Gli esempi sono molti, anche tralasciando quello eclatante degli impianti nucleari: il ciclo del mercurio e dell’arsenico, la diffusione del piombo, i pesticidi che ancora contengono i dodici principi attivi più velenosi, cancerogeni, mutageni e teratogeni, i metalli pesanti sempre più presenti negli organismi umani, ecc. La diossina è forse un caso a parte: in Italia il 50% della popolazione è esposto a livelli di contaminazione da diossina e da sostanze simili superiori alla dose tollerabile stabilita dall’Unione Europea (due picogrammi tek/kg di peso corporeo al giorno, la media italiana è 2-2,2). Gli alimenti ,soprattutto pesce, latte e prodotti caseari, rappresentano oltre il 90% dei veicoli di contaminazione. Un recente studio della FAO (“Diossine nella catena alimentare”) chiarisce che dei 419 tipi di composto correlati alla diossina identificati, solo 30 hanno una tossicità significativa. Si tratta di inquinanti ambientali pervasivi o inquinanti organici persistenti che resistono alla degradazione fisico-chimica e biologica. Una volta entrati negli organismi, compresi gli esseri umani, si accumulano nei tessuti grassi. A dosi elevate, oltre a essere cancerogeni, causano una gran varietà di effetti tossici, ai quali sono sensibili il sistema endocrino, riproduttivo e dello sviluppo. In particolare le diossine sono prodotte dalle sorgenti di combustione, grandi e piccole (uno dei motivi dell’opposizione agli inceneritori) e entrano nel ciclo vitale degli animali che mangiano su terreni o in acque fortemente inquinate (quindi non sempre gli animali ruspanti sono di per se più sicuri). In tutti questi casi è ormai urgente prevedere delle politiche di riconversione degli impianti e di sostituzione dei prodotti, adottando tecnologie non inquinanti e spostando se possibile (magari in parte) le strutture produttive verso oggetti utili per la salvaguardia dell’ambiente. Adottare queste politiche di prevenzione permetterebbe di ridurre i danni all’ambiente degli Stati ospiti e di mettere a punto delle strategie di riconversione (e relativi brevetti) che possono essere imitate da altri Stati con notevoli vantaggi economici per lo Stato che avesse anticipato tali politiche. La convenienza di affrontare i costi della riconversione deve essere accuratamente calcolata in relazione ai costi della riabilitazione delle aree e del rimborso dei danni arrecati alla popolazione (tenendo conto dell’esperienza dell’amianto). 13
  • 14. E’ da prevedere che un orientamento politico in questa direzione potrà emergere solo quando la spinta esercitata da campagne organizzate per la tutela dei consumatori avrà raggiunto dimensioni ragguardevoli. Ogni ricerca sui danni arrecati agli ignari consumatori e ogni campagna informativa sui danni in atto potrà dare un sostegno decisivo alle iniziative di riconversione preventiva degli impianti massimamente pericolosi. Se poi almeno una parte di tali impianti potesse essere diretta alla fabbricazione di sostanze e prodotti compatibili con l’equilibrio del pianeta e utili per la salvaguardia dell’ambiente, i problemi del mantenimento dei posti di lavoro potrebbero ridimensionarsi. Non devono poi essere dimenticate le esigenze di effettuare ricerche preliminari (studi di fattibilità, valutazioni di tecnologie alternative, ecc.) che a loro volta potrebbero offrire nuove possibilità occupazionali. 10. La riprogettazione Nella prospettiva di un rapido adeguamento della struttura produttiva alle esigenze di salvaguardia dell’ambiente ormai innegabili, sarà necessario anche prevedere una completa revisione dei danni ambientali causati da prodotti che creano eccessivi rifiuti o che si sono ormai rivelati indistruttibili (o comunque non biodegradabili in tempi brevi). Gli oggetti in plastica, ad esempio, continuano ad accumularsi sulla terra e nei mari, laghi e fiumi con grande rapidità, dato che non è stato posto ancora alcun limite all’uso e alla produzione e soprattutto alla dispersione incontrollata nell’ambiente. E’ noto che nell’Oceano Pacifico sono stati individuati due grandi ammassi di contenitori in plastica, trasportati dalle correnti e concentrati in due isole galleggianti, ciascuna di una estensione pari a quella degli Stati Uniti e in continuo aumento. Ai consumatori sono offerti ogni giorno nuovi oggetti in plastica adatti ad una infinità di usi, e nelle case e nei territori si accumulano questi prodotti del petrolio praticamente ineliminabili, mentre nelle discariche occupano spazi crescenti, una delle cause del rapido esaurimento della loro ricettività. Sembra assolutamente necessario prevedere l’avvio in tempi brevi di strategie di nuova concezione degli oggetti realmente indispensabili, mentre tutti gli oggetti oggi in uso (sia industriali che di consumo) andrebbero riprogettati alle origini, per ridurre al massimo il loro contenuto di rifiuti non biodegradabili e le loro esigenze di imballaggi (che oggi rappresentano circa il 40% dell’ammontare complessivo dei rifiuti da riciclare o da eliminare senza creare ulteriori danni). Riprogettare tutti gli oggetti che hanno alimentato i meccanismi del consumismo e quindi del consumo illimitato di risorse naturali, può apparire una impresa titanica, ma forse un impegno consistente e immediato in questa direzione costituisce la via maestra per uscire dalla tragica contraddizione che caratterizza il modello oggi dominante di produzione e di consumo, che supera ormai di molte volte le capacità del pianeta. Abbiamo urgente bisogno di prodotti di “qualità ambientale garantita”, che interrompano in tempi brevi il degrado del pianeta e aprano una fase completamente nuova di utilizzo delle risorse naturali adeguato alla capacità della Terra di sostenere l’intervento umano. La priorità degli studi e delle ricerche dovrebbe essere attribuita agli oggetti (e ai relativi processi produttivi) più inquinanti e più dannosi per la salute degli esseri viventi, ma soprattutto di uso più comune e diffuso anche in culture diverse. La nuova progettazione e i piani esecutivi dovrebbero essere affidati a organismi in grado di garantire l’effettiva innovazione e una reale sostenibilità ambientale. Molte imprese già oggi presentano auto e fonti energetiche apparentemente modificate, che hanno solo spostato i danni a monte e a valle o li ripresentano con accurati mascheramenti che permettono di usare ancora senza limiti le risorse naturali e di infliggere altre ferite ad un ambiente già duramente provato. Le imprese che invece decidessero di modificare radicalmente il loro modo di produrre introducendo tecnologie e materie prime 14
  • 15. totalmente rispettose dell’ambiente dovrebbero essere inserite in un settore oggi quasi inesistente: i produttori “amici della natura” e i loro prodotti dovrebbero essere trasparenti, tracciabili e continuamente controllati, ma soprattutto venduti in reparti ben separati da quelli tradizionali. E’ evidente che gruppi di cooperative e aziende a controllo pubblico potrebbero fare da battistrada al resto del mondo industriale, ma le loro buone intenzioni dovrebbero essere accuratamente controllate e seguite (da una apposita Agenzia?) per evitare trucchi ben noti e ulteriori danni camuffati. Infine, si deve sottolineare che le molteplici attività richieste da una riprogettazione diffusa possono offrire un flusso di nuovi posti di lavoro (nella ricerca scientifica, nei centri di sperimentazione, nei centri studi aziendali, nella realizzazione dei prototipi, nelle produzioni di sondaggio e poi nelle linee di produzione e nelle strutture commerciali specializzate) forse addirittura superiore a quello attuale, fortemente esposto a multe e blocchi per evitare danni ambientali. 11. Adeguare i bisogni alle dimensioni del pianeta L’altro grande filone di analisi e di strategie operative che dovrebbe essere rapidamente avviato e perseguito è rappresentato dalle valutazioni dei bisogni reali della popolazione mondiale in rapporto alle risorse del pianeta effettivamente utilizzabili senza intaccare i meccanismi fondamentali della biosfera. Dovrebbero essere calcolati i fabbisogni alimentari essenziali nei paesi poveri e in quelli ricchi, in tutte le fasce di popolazione, e dovrebbero essere valutati i “distacchi” tra le strutture attuali di consumo e i livelli minimi essenziali, come pure le “eccedenze” tra i livelli minimi e i livelli predominanti e massimi dei consumi “opulenti”. Analoghi calcoli dovrebbero essere effettuati per i consumi non alimentari, procedendo a delineare, per approssimazioni successive, strutture di consumo al quale possono corrispondere soluzioni tecnologiche e produttive che implichino, per ogni regione, un massimo di produzione che però non intacchi minimamente gli equilibri della biosfera e le capacità di riproduzione e assorbimento del suolo e delle acque. Su questa base conoscitiva sarà poi necessario ipotizzare delle diverse combinazioni delle produzioni fondamentali (grano, riso, granturco, ecc. ma anche soia, cotone, ecc.) e conseguentemente dei flussi di scambio equilibrati a prezzi contrattati in condizioni di parità. Questo complesso di operazioni dovrà poi essere proiettato nel futuro per tenere conto del rapido aumento della popolazione mondiale, che aumenterà di 75 milioni di persone all’anno fino a raggiungere la cifra complessiva di 9,2 miliardi di persone fra 38 anni circa (previsione media dell’ONU). Quanto precede è naturalmente uno schema molto semplificato, ma che dovrà essere realizzato da esperti con le dovute competenze in tempi molto brevi, perché finora gli studi ambientali delle organizzazioni internazionali hanno dato la priorità ai meccanismi di danno al pianeta ( a come fermarli o rallentarli, a come innestare processi non dannosi, ecc.) trascurando in qualche misura gli immensi squilibri tra i consumi di oltre metà della umanità attuale e quelli di meno di un miliardo di persone immerse nel consumismo senza limiti dei paesi più ricchi. Questo squilibrio incide paurosamente sullo sfruttamento delle risorse del pianeta e tenderà ad aumentare i suoi effetti negativi e violenti man mano che gli incrementi demografici (concentrati quasi esclusivamente nelle fasce più povere delle popolazioni mondiali) aumenteranno la forza delle rivendicazioni degli esclusi. Questi processi devono invece essere previsti ed affrontati fin da subito, parallelamente alle analisi e agli interventi di salvaguardia ambientale. In ogni caso la prospettiva qui delineata attribuisce nuovi ruoli e importanza ancora maggiore alle politiche del “consumo critico” e alla diffusione di modelli di consumo responsabile in un 15
  • 16. paese come l’Italia, pochissimo attento a modulare le caratteristiche dei consumi per rispettare le più urgenti esigenze dell’ambiente. 12. Elaborare un modello per ogni cultura Un ultimo principio, sul quale occorre riflettere molto profondamente, riguarda i rapporti tra uso eccessivo delle risorse naturali, risorse disponibili in ciascun territorio (tenendo conto degli effetti fortemente distorsivi introdotti da politiche di tipo coloniale e dall’azione di sfruttamento delle imprese multinazionali) e modelli di consumo tradizionali e indotti dai processi di globalizzazione. Per raggiungere gli equilibri generali accennati nel punto precedente sarà assolutamente necessario far elaborare da ogni cultura un suo modello di consumo strettamente aderente alle risorse correttamente utilizzabili del suo territorio. Per ridurre al massimo i consumi energetici legati agli inutili, massicci spostamenti di prodotti (specie alimentari) sarà sicuramente necessario valorizzare al massimo i consumi tipici tradizionali, attivando dei flussi di esportazione solo quando i fabbisogni locali saranno stati soddisfatti e le risorse in eccedenza siano particolarmente utili per popolazioni che abbiano abitudini alimentari, e di consumo in genere, analoghe o molto simili. La elaborazione di una pluralità di modelli di consumo incontrerà particolari difficoltà in molte situazioni sociali, già fortemente influenzate da prodotti e abitudini derivate o imposte da paesi lontani. Sarà necessario recuperare usi e costumi abbandonati o dimenticati, guadagnando però in adesione alle produzioni del proprio territorio e in minore dipendenza da importazioni quasi sempre non liberamente scelte. D’altra parte, è assolutamente necessario che ogni popolazione, anche povera di mezzi, diventi responsabile della salvaguardia e della sorveglianza dell’ambiente nel quale le loro vite sono inserite. Ogni modello locale deve però anche essere elaborato in modo creativo e denso di immaginazione, in riferimento ai miti e alle tradizioni dei luoghi, per aumentare il piacere di vivere in un contesto naturale non danneggiato e in società che si evolvono in armonia con la vita del pianeta. La fonte principale alla quale abbiamo fatto riferimento è il testo fondamentale di Gianfranco Bologna, del WWF: Manuale della sostenibilità Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro, Edizioni Ambiente, Milano, dicembre 2005 Altri testi essenziali utilizzati: IPCC, Climate Change 2007, Mitigazione dei cambiamenti climatici, Sintesi per i decisori politici , ENEA, Roma, 2008 D. Rosner e G. Markovitz, The Politics of Lead Toxicology and the Devastatine Consequences for Children S. Gandolfi, Diossina? Ovunque, Magazine del Corriere della Sera, giovedì primo maggio 2008 M. Correggia, Miniere illegali, cianuro e l’invenzione dell’oro, Terraterra, Il Manifesto, 31 gennaio 2008 16
  • 17. M. Forti Tutti i veleni dei Grandi Laghi americani, Terraterra, Il Manifesto, 12 febbraio 2008 AAVV L’Atlante per l’ambiente, analisi e soluzioni, Le Monde Diplomatique e Il Manifesto, Roma, novembre 2007 AAVV Il pianeta impazzito, Atlante de La Repubblica, Roma, maggio 2007 AAVV Il pianeta rovente, come salvarsi dal riscaldamento globale, National Geographic, Roma, marzo 2008-05-08 M.V. Sbordoni Cambiamenti climatici: tempi duri per lo sviluppo sostenibile, VIS, Roma, 2008 17