1. Filosofia della Musica
Nella storia della poetica occidentale ben prima che nascesse l’idea di una comunione politica
ed economica già la poesia aveva tessuto legami profondi fra le sponde del continente europeo
(Esposito): quando ancora il pensiero politico soffriva delle crisi del nazionalismo e si
preparavano le due grandi guerre, poesia pittura e musica andavano di concerto da tempo, e
con un entusiasmo documentato dall’innesto felice di idee e progetti estetici, fra i quali quello
della lirica merita un momento di particolare interesse ai nostri scopi: nel primo ‘900 Firenze era
la capitale della poesia europea, una poesia dove la lirica trovava nuove forme di espressione,
soprattutto nei modi dell’ermetismo, rimettendo linfa vitale ai momenti di un espressionismo
un pò provato e come all’interno di un vicolo cieco. Lirica come “suprema illusione di canto che
miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni” (Solmi). Lirica significa
legame indissolubile di voce e canto, indispensabile nervatura della metrica, poesia come prima
voce dell’Arte. Proprio la tematica ben presente fin dal mondo antico, almeno per quanto
possiamo ricordarne: la poesia come voce della prima delle Muse, la Musica.
L’ultimo libro della Poetica di Aristotele è interamente dedicato all’educazione e ai motivi che
fanno ritenere importante quella musicale. Si pone l’accento sulle proprietà e qualità etiche della
musica, ritenute superiori alle altre forme di espressione artisica, sempre però distinguendo la
pratica musicale libera da quella di mestiere, studiando soprattutto le regole dell’armonia e le
proprietà dei ritmi. A differenza di Platone, Aristotele riconosce la necessità di calibrare il tipo
di ascolto musicale sulle qualità e possibilità dei tipi psicologici, diremmo noi oggi,
dell’ascoltatore. Aristotele si pone un problema centrale: la musica è una forma di piacere e
basta, o tende a portare l’uomo all’elevazione? “Nelle melodie è una proprietà naturale di
imitare i costumi ... queste considerazioni possono essere applicate anche ai ritmi: la musica
influenza quindi il carattere”.
Aristosseno tenterà una mediazione fra le posizioni di coloro che attribuiscono alla musica solo
un potere suggestivo, i Pitagorici che la considerano solo sotto l’aspetto dei rapporti numerici,
coloro che sulla scia di damone pongono l’importanza sulla teoria degli intervalli.
Musica e Medicina sono state strettamente unite fin dagli albori: un farmaco, il rimedio, aveva
effetto solo se veniva somministrato attraverso un rituale, in cui il canto e il ritmo avevano
valore fondamentale. La Musica poteva innfatti portare la forza dei cieli superiori per un
recupero (o una perdita, come nel veneficio) della salute umana, secondo la dottrina della
analogia, come andiamo adesso a vedere più in dettaglio.
La Medicina è veramente fra Umanesimo e Scienza, una metà divisoria che imponga una scelta?
Fra quello che chiamiamo passato e il tempo presente esiste un legame che non poggia su un
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2. punto sicuro di osservazione, come dice S.Cirillo filosofo citato da L.Zekov “Non si deve
scrivere una conversazione sull’acqua”.Medicina non è omogenea per pratiche e modelli, le sue
anime sono da sempre molteplici, quella di capire da una parte e quella di curare e
possibilmente guarire dall’altra. Un’anima riflessiva a carattere speculativo e un’altra che
rimanda alla trascendenza di riti collettivi di guarigione, alla transe.
L’umanesimo per regola si definisce come aspetto peculiarmente filologico del Rinascimento,
anche se i primi e non sempre incerti passi li muove fin dal XII secolo, alla conquista di un
sapere che rifletta una attività concreta della mente al fine di portare a maturazione il
completamento della personalità umana, nella coerenza di un pensiero libero, con la forza della
Bellezza, con una dottrina da far vivere come morale e non come dogma scolastico. L’humanitas
diviene educazione, disciplina legata ad una certezza di crescita del complesso uomo mente
spirito.
Petrarca, che polarizza questa idealità portandola a compiuta espressione scrive sì la nota
invettiva “Contra medicum” ovvero contro il materialismo delle propaggini più o meno
comprese delle scuole arabe, ma scrive in un mondo ancora diviso fra arti liberali e meccaniche
(e fra queste la Medicina, anche se tale divisione non era poi così rigida: a Bologna uno studente
di Medicina portava a termine gli studi in quattro anni se possedeva un titolo nelle arti liberali,
Musica compresa, oppure in cinque se ne era privo). Nell’invettiva si muove il germe della
nuova visione della Medicina nell’Umanesimo: Petrarca scopre nelle biblioteche vaticane la
naturalis Historia di Plinio, e la apprezza per credere che sia veramente uno specchio della
natura in contrapposizione alle speculazioni di Galeno (anche se non sappiamo quanto Petrarca
conoscesse del metodo sperimentale di lui) al punto da acquistare una copia della Historia per sé
stesso nel 1350 e di suggerire una separazione fra i medici e i chirurghi, ritenuti dei materialisti
al seguito acritico di Ippocrate. La critica di Petrarca, anche nel seguito delle lettere di risposta
dei medici del tempo, dell’amico Boccaccio e che si protrarrà per un decennio di scritti, è il
preludio dello “strappo” della Medicina umanistica dalla Scolastica. Eppure vale sempre la
pena di essere di larghe vedute, perchè le cose non sono mai così rigide, basti pensare al circolo
di Viterbo sotto Urbano IV fino a Giovanni XXI (egli stesso notevole medico) a cavallo del 126070, dove si muovono passi importanti non solo sul problema di ben capire Aristotele ma anche
il mondo così come appare circondare l’Uomo, con personalità del calibro di Giovanni
Campano, Ruggero Bacone, Guglielmo di Moerbeke,
sembra anche Tommaso D’Aquino,
Giovanni Peckam arcivescovo di Canterbury e confratello di Bacone che prosegue il metodo
sperimentale sulla prospettiva e la catadiottrica, eredità di Alhazen, a lungo un caposaldo per
l’insegnamento universitario dell’anatomia dell’occhio e la fisiologia del vedere. E’ interessante
osservare come l’attenzione alla destinazione didattica del materiale scientifico organizzato con
i nuovi criteri contribuisse alla formazione di un’intera classe di docenti, a partire dall’esempio
veneziano (Vergerio, Guarini), e di lì per gemmazione ferrarese e mantovano; romano (Valla e
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3. l’opuscolo di confutazione della favola sulla donazione di Costantino); napoletano con Pontano;
fiorentino con il movimento neoplatonico di Ficino e Pico della Mirandola (il primo vero
orientalista dell’Umanesimo italiano); Federico Cesi poi a Roma fa impensierire gli augusti
genitori per i suoi contatti esoterici con il Della Porta, e ancor più quando attiva la prima
Accademia internazionale, quella dei Lincei, con la quale il nuovo spirito scientifico, dotato di
una acutezza visiva quale quella della lince, si irradia per tutta Europa. E’ il trionfo del metodo
umanistico, della critica coraggiosa di Flavio Biondo nelle Decades, dell’affermazione del
principio del libero esame: un concetto di libertà intesa come costruzione di un rapporto fra
condizione umana e vita spirituale dell’uomo che rimanda ai criteri di proporzione dei
costruttori di cattedrali, anche in senso esoterico, ai principi delle corporazioni muratorie
medievali. Bologna soprattutto, da roccaforte dell’insegnamento scolastico diventa anche
pioniera di un processo di generale rinnovamento, non solo in Medicina ma anche nelle scienze
naturali; da una parte l’insegnamento audace dell’anatomia con Mondino dei Luzzi e per un
breve periodo del grande Vesalio, dall’altra l’Aldrovandi anticipatore della sistematica di
Linneo ma più in generale della scoperta di quanto un modello sistematico possa condurre più
facilmente all’elaborazione di teorie scientifiche, un maestro che riportò in auge l’insegnamento
pratico, il contatto tutoriale con gli allievi, tutte cose che oggi sembrano quasi una idea nuova.
E’ inevitabile che la misura per l’apprezzamento delle tradizioni e della cultura antica sia la
nostra esperienza moderna, il nostro sentire cultura di oggi, un pò come Ageno ricordando
Planck che dice, nella sua “Autobiografia scientifica”: “ Una nuova verità scientifica si afferma
non perchè i suoi oppositori si convincono ma perchè subentra per via naturale una nuova
generazione che trova familiari i nuovi concetti”, per cui aggiunge:” Planck non ha tenuto conto
che l’esaurimento per cause naturali può anche non favorire la parte migliore”.
Medicina allora, è solo una conoscenza specializzata a risolvere la natura e possibilmente il
rimedio ai disordini della salute umana, o è una vera e propria conoscenza, scienza? A guardare
il yuchs iatreion iscritto sul frontone di una biblioteca egizia citato da Diodoro ci accorgiamo
della polisemia del termine Medicina: ramo del sapere-conoscenza, terapia, farmacologia,
almeno fino all’epoca romana. Solo che noi percepiamo l’attività della medicina antica come un
modello chiuso nella triade:modello metafisico, canone e pratica. Ma le cose non stanno del
tutto così, c’è un filo di lettura che rende ragione della passione degli umanisti per il platonismo
come motore centrale di una certezza nella ragionevolezza della ricerca scientifica ed in
particolare medica, un qualcosa che appella la Medicina stessa come arte e non come mestiere.
In questa temperie si giustifica bene l’apparire del metodo induttivo di Francesco Bacone, e la
drammatica storia dell’insegnamento padovano di Paracelso, che apre alla sperimentazione ma
sotto la vista di una integrazione fra Uomo e Natura che trascende la realtà fenomenica intesa
come mondo delle apparenze.
La malattia come rottura dell’equilibrio è forse il tema più interessante per la speculazione della
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4. nuova arte medica nell’Umanesimo. La storia dei veleni corruttori sembra possedere radici
profonde, che al di là del fatto storico si approfondano nella struttura del mito e della poesia.
L’Odissea offriva a tratti una lettura diversa da quella epica, ponendo in evidenza il ruolo
magico delle piante, intese come potenza in atto di virtù celesti. Una potenza che però si
accompagna sempre con un lato oscuro, mortale, opposto a quello salutifero, come a indicare
che nel dominio dell’esperienza sensibile data all’uomo non si può fuggire dalla prigione del
dualismo. Ulisse pertanto viene ad assumere anche il ruolo di prototipo del navigatore su uno
specchio d’acqua non marina ma simbolo perfetto dello stato di coscienza, e in tal senso può
assumere la veste di immagine forte e dolcemente umana dello Psicopompo per eccellenza:
come Mercurio manifesta il duplice carattere dell’umana esperienza, così Ulisse, mediatrici le
piante di Potere, percorrerà tutti gli aspetti della manifestazione del divino nella prorpia vita,
farà proprie tutte le esperienze di contrapposizione nelle quali l’uomo si dibatte come
all’interno dei flutti marini, vero emblema della dignità del percorso di nascita ad una nuova
condizione di vita, superiore a quella con la quale si viene al Mondo. Il secolo che segna il
passaggio dal mondo Tradizionale al razionalismo moderno si pone fra Erasmo da Rotterdam e
Galileo, trascorrendone poco più di un secolo. Erasmo ne rappresenta il primo segno, quasi
percepito come coscienza di letterato più che apertamente espresso, ma nel carteggio con
l’amico Thomas Moore i semi che germineranno nella Nuova Scienza ci sono tutti. Il
Programma per il nuovo umanesimo sarà accolto solo dopo il 1650, al declino della stella di
Paracelso, alla nascita della nuova scienza, madrina del razionalismo moderno. Per inquadrare
il contesto della nascita della nuova scienza, e in particolare l’opera dei precursori della Medina,
occorre ripercorrere l’ambiente culturale della fine ‘500, ereditato senza soluzioni di continuo
evidenti dal tardo medioevo e dal Rinascimento; una cultura che aveva un concetto di Natura
ben diverso da quello che conosciamo oggi, una scena nella quale si rappresentò il dramma, non
solo intellettuale e filosofico, ma anche religioso e politico, di tutti coloro che, oggi “scienziati”
nascevano allora come “filosofi” (come si evince dalla lettera sul veneficio di Filippo Ingrassia
del 1561), e dove concetti nati da una vita interiore diversa e lontana dalla nostra animavano un
mondo di differente struttura, a noi ormai straniero. Non era concesso separare Natura e
Teologia, fino dal XIII°: Ars et Natura fanno scuola in tutta l’Europa medievale, da Chartres a
Cluny. Le frequenti accuse di magia che si agitano all’interno di una attività culturale tutt’altro
che tranquilla trovano origine nel nesso tra astrologia e magia ovvero nella concezione
dell’universo come vita, come spiritus, vita universale; le sue rappresentazioni simboliche, il suo
concentrarsi in oggetti (virtù celesti e potenza delle immagini) creano un processo di rimando di
influssi che possono avvicinare fin troppo, per l’ortodossia scolastica, ai neoplatonici. La
contrapposizione degli opposti, tipica in Medicina, è il segno che rimanda alla concezione che
la divinità, come le sue manifestazioni, possieda opposta valenza, un aspetto solare e favorevole
contrapposto a quello sfavorevole e notturno. Come il teurgo aveva il potere di conciliare i due
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5. aspetti del dio ponendo fine al conflitto e raggiungendo la pace e l’equilibrio, così la Medicina
teurgica risanava dirimendo la contrapposizione fra salute e malattie. Il mondo è infatti
concepito come derivante dai reciproci contrasti e dalle affinità (Aristotele: Etica a Nicomaco,
Metafisica), per opera dei quali la salute è il risultato del bilanciamento fra le forze (Fysis) che
partecipano alla costituzione individuale (krasis o complexio in Ippocrate, poi “temperie”) dove
l’ampiezza di un determinante sugli altri costituisce geometricamente una misura intesa come
latitudine (o estensione del temperamento) mentre la posizione zodiacale di nascita ne
determina la longitudine.
In questo universo il filosofo opera componendo e scomponendo (solve et coagula alchemico),
seguendo le tesi di Pico della Mirandola che aveva concluso: “Magicam operari non est aliud quam
maritare Mundum” e aveva scritto Ficino: “il filosofo esperto delle cose naturali e degli astri, che
vien detto mago, opportunamente congiunge, con giuste lusinghe, le cose celesti alle terrene,
non diversamente dall’agricoltore attento agli innesti”
Non si tratta di una semplice riedizione di idee platoniche, ma di un contributo originale di
pensiero antimaterialistico e antistoico, già ben prima contestato da Occam,
primo dei
nominalisti moderni con una grande influenza sulla scienza attuale, costituzionalmente
nominalista, dato che tutta una corrente dell’epistemologia contemporanea lo considera infatti
l’iniziatore della svalutazione del segno, della separazione fra significante e significato, così
come della posizione sulla possibilità di cogliere l’essenza del mondo, o di giungere ad una
teoria unificatrice della Fisica. Il nominalismo di Occam appare nella sua epoca come un’eresia,
non rimandando più dai segni agli universali che essi dovevano rappresentare, e non è capito il
suo tentativo di comporre un sistema coerente capace di liberare il pensiero scientifico dalle
antinomie, che ponevano seri problemi alla Logica. All’opposto, il realismo muove invece dalla
convinzione che il mondo sia matematico in senso profondo; i concetti matematici esistono nella
realtà, scopribili dall’uomo e non creati dalla sua mente come asserito dal formalismo
nominalista. La connessione armonica fra i viventi si prolunga nella storia, poiché ogni
generazione implica una dissoluzione, una nuova combinazione del vivente in un’altra forma;
comprendere i valori qualitativi dati dal rapporto fra i numeri significa quindi penetrare il
segreto della Natura. Galileo eleverà la matematica a regina del metodo, opporrà che le qualità
non risiedono nei corpi, oggettivamente, e che sono invece solo ciò che noi percepiamo. Mentre
quindi il metodo scientifico del ‘600 appare di tipo ordinato, ovvero per condurre una
osservazione distingue ogni oggetto dagli altri, analiticamente quindi, separandolo dal contesto
in cui si inserisce, permane viva, all’opposto, la tradizione ermetica e occulta dell’Alchimia,
legata all’indagine sulle verità velate, le virtù nascoste, intese questa volta invece come un corpo
unico, e concatenate in termini di simpatia o antipatia, ovvero di affinità, nei tre regni della
Natura che non sono quindi solo l’ inanimato, il vegetale e l’animale, bensì il corpo, l’anima e lo
spirito; tali relazioni sono note come “segreti della Natura” (Bolo di Mendes), legate
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6. linearmente al principio emanatore che a sua volta è identificabile in un cielo di particolare
grado di spiritualità. Per il medico-alchimista non esiste un nesso causale in forma di legge, Dio
è unica causa direttamente origine di ogni effetto, la durezza e lo spessore della materia delle
cose è solo un’apparenza, un velo sulla visione del profondo: una ninfa legata alla sorgente “è”
la sorgente. Il mutamento è il passaggio dell’emanazione attraverso i cieli e quindi i vari gradi
di stato della Forza. Pensiamo alla figura di Zenone nell’Opera al Nero di M.Yourcenar.
Il temperamento analogico dell’epoca tende a leggere e interpretare queste relazioni di influsso
spirituale come vie lineari, dette Seriae, rappresentate come un rapporto fra gli abitanti dei
cieli, i pianeti, e quelli della terra, i metalli. Il linguaggio dei testi è volutamente oscuro,
iniziatico, di difficile comprensione al di fuori del codice del simbolismo gotico. Le Seriae,
ponendo appunto relazioni in base alla simpatia o antipatia, permettono a chi le conosca il
controllo delle forze a partire da oggetti semplici e apparentemente lontani o non congruenti
con l’Ente che li rappresenta all’inizio della catena: chi conosce questo modo segreto di operare
è quindi Magus (sacerdote, come ricorda Apuleio, e sapiente). Così si forma la base della
visione mitico-magica del mondo, dove il legame fra significante e significato, il simbolo,
diviene così stretto da diventare realtà autonoma. Solo verso la fine del Barocco nell’iconografia
simbolica i segni inizieranno a distaccarsi lentamente dai significati, e da quel momento in poi
prenderanno la via di un lento oblio. Così si spiega l’importanza della musica sia per la
speculazione che per la pratica mediche, essendo concepita più secondo il modo pitagorico che
come semplice espressione melodica ( inizialmente monodica), dove il suono riflette le
proporzioni secondo le quali il Logos manifesta continuamente il mondo. Anticamente medico,
preparatore di farmaci a partire dai corpi semplici (le nostre piante officinali), propinatore degli
stessi con rituale cantato erano un tutt’uno; ancora oggi ne rimane un’eco nel termine
incantesimo. la Musica è insegnata a Bologna nel quinquennio di formazione del medico come
arte per la terapia, sulla scia della tradizione araba. Le regole tonali e armoniche si basano su
scale ormai desuete:, formate secondo l’armonia dei cieli (Cosmos): un tono fra terra e luna, un
semitono fra luna e mercurio, fra mercurio e venere; un tono e mezzo fra venere e il sole e uno
fra il sole e marte; un semitono fra marte e giove e fra giove e saturno; quindi un tono e mezzo
fino alla fascia dello Zodiaco. Partendo da saturno si genera una scala in stile dorico, in stile
invece frigio partendo da giove (Diapason pitagorico, secondo Plinio, libro delle comete,
Naturalis Historia, 21,4). Il divino funzionamento degli organi, nell’essere umano, trascende la
legge fisica perché è la natura dello spirito che agisce, superiore ma non separata dal mondo
fisico, come sarà da Cartesio in poi alla luce del razionalismo moderno. La filosofia è allora
anche il fondamento dell’arte medica. Il medico deve procedere partendo dalla Natura che
rappresenta la filosofia visibile: colui che conosce il sole e la luna le porta dentro di sé, quando
chiude gli occhi, con Paracelso. La forza consiste non nel comporre, ma nell’estrarre, nel
conoscere a partire da un simplex unico; gli arcana a cui le cose multiformemente e
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7. instabilmente si riferiscono sono collegati da una stessa vis, e costituiscono la salute dell’uomo,
sempre che vengano composti secondo le affinità e le signature indispensabili a far sì che
agiscano le proprietà dei cieli.
Il ‘600 che nasce alla luce sinistra del rogo di Giordano Bruno in Campo dei Fiori a Roma è
quindi il secolo della vertigine scientifica, come della solitudine personale come unica e solitaria
risposta al dogmatismo imperante. Malpighi: “lo sguardo dell’uomo va dall’immensità delle
viste di Galileo alle “mechaniche mirabili” del mondo vivente microscopico”. La spiegazione
comunque, anche se da una parte tende ad ampliare la prospettiva di un mondo che si apre in
successive osservazioni senza mai permettere di toccare il fondo, rappresenta tuttavia il primo
seme dell’ulteriore e finale rivoluzione che inaugurando definitivamente la via empirica aprirà
alla scienza moderna.
Dopo le lettere di Robert Hook sui moti planetari, Newton, che per primo presuppone un alto
grado di organizzazione del mondo, tenta comunque di evitare l’emergente meccanicismo.
Interessante ricordare qui che la sua posizione, che nel ‘900 verrà sentita anche come dogmatica,
viene potenziata dal Condillac come liberazione dai sistemi di spiegazione imperanti e lontani
dall’empirismo, come dire che dopo la rivoluzione francese ancora ne era da fare di strada per
l’entusiasmo innovatore del primitivo umanesimo prerinascimentale. Il lavoro centrale di
Condillac per l’Encyclopédie riflette il Bacone della sua Scala intellectus sive Filum Labyrinthi:”la
via faticosa attraverso la infinita varietà degli esperimenti”. tema e immagine che ci fa pensare
che il cuore segreto dell’Umanesimo era molto ospitale nei confronti dell’Alchimia, e che
l’umoralismo di Galeno contro il quale, preso alla lettera, si ribellò tenacemente il primo
Umanesimo, taceva entro di sé il regime nascosto delle proporzioni-relazioni dell’esoterismo
pitagorico. Tema antico, il cui ricordo più remoto per noi risale ad una tavoletta caldea dove
Amru, maestro del giovane re Izar, insegna:” Come un labirinto ci sono molte vie come le molte
teste di un drago, e ogni testa ha innumeri occhi, e al tuo massimo sforzo ne potrai vedere
acceso solo uno per volta nelle tenebre”, e ancora:” L’isolamento concettuale (idealizzazione) di
un singolo fenomeno nel burrascoso mare dei messaggi del mondo e la sua descrizione
mediante supposte entità in divenire porta alla realtà vera, perforando lo schermo illusorio
generato dai sensi” Ma questo sistema necessita delle approssimazioni, come vediamo a
proposito del modello di spiegazione in Hume, ovvero il modello viene adattato.
L’osservazione in quanto tale nel suo realismo non è a nostra portata di mano, mano che a sua
volta non è in grado di sentirsi toccata da ciò che non conosce o non ammette o che non può
arrivare come forma indagabile nell’orizzonte umano (problema di Kant sulla sintesi
aprioristica che vedremo dopo). Basti pensare a questo proposito allo “scandalo” della
meccanica quantistica. I sistemi di Condillac e di tutto il lavoro umanistico non sono quindi
reali ma idealizzati, tanto che porteranno alla distinzione di fatto in scienze pure e applicate o di
necessità, dove la medicina perde molti dei suoi significati polisemici per acquistarne di incerti
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8. e confusi. Condillac insiste sulla necessità sperimentale per poter raccogliere il massimo numero
di informazioni che si rivelino come connessioni per la loro costanza fra i fenomeni osservati,
ma sappiamo che questo caposaldo della legge scientifica e del successo delle possibilità di
previsione che svilupparono enormemente la parte applicativa del pensiero è fragile, come
vedremo nella critica a Hume sulla logica della spiegazione. Comunque è da questo punto che
si apprezza il successo e i vantaggi del metodo sistematico, che porta alla fioritura in terra
francese dell’Anatomia Patologica e della Patologia speciale. Lo scrupolo nelle descrizioni
scientifiche, che oggi ci appare prolisso, testimonia il nuovo secolo, dove parla lo scienziato in
opposizione al filosofo, la strategia del ripiegamento su toni di modestia e l’uso di elementi
letterari minori (epistole, lettere, ecc.) oltre a nascondere la nuova Scienza all’attacco
dell’Inquisizione manifesta anche caratteri peculiari: rispetto al dogmatismo filosofico lo
scienziato adesso dice anche “non so”, e parla in volgare e non in latino per catturare un
uditorio aperto anche ai non specialisti. Le verità che non potevano salire in cattedra sono
proposte come semplici esperienze “ritrovati, invenzioni e stromenti”, utili anche per vincere la
battaglia non solo dell’opposizione della Controriforma, ma anche della filosofia scolastica.
Malpighi ad esempio fu ben attento alle conseguenze che potevano derivare dagli studi della
rete mirabile che portavano ad escludere nella circolazione del sangue l’intervento di spiriti e
virtù. Al “perché” della metafisica subentra il “come” della tecnica. E’ quindi con l’affermazione
della nuova scienza che si registra nel Seicento un notevole incremento nella produzione
letteraria: esposizioni sistematiche delle nuove idee e delle nuove scoperte, ma anche libelli
polemici, opere a carattere divulgativo, celebrazioni poetiche. Il nuovo linguaggio adottato
dagli scienziati, che risponde all’esigenza di chiarezza e semplicità, incide profondamente
anche sulla lingua comune e sulla prosa letteraria non scientifica: il telescopio assume un valore
simbolico: è il mezzo che affina la vista, che acuisce i sensi imperfetti dell’uomo, e che permette
di vedere il vero del mondo, inaugurando la metafora letteraria, gli scritti di morale.
Esperienza. E’ parola pronunciata spesso, magari con la sicurezza di averne raccolto i significati
essenziali, ma quelli più profondi sfuggono all’analisi di una ragione velata, non iniziata. La
radice della parola rimanda al concetto di un salto fuori dal fuoco, un ex-pur, che dipinge il
momento del contatto dell’Io col mondo attraverso il corpo, il nostro grande mediatore. Il
contatto produce esperienza, ma il fuoco che riscalda e illumina è anche quello che distrugge.
Perché il fuoco che segretamente attiva e mantiene la nostra vita individuale, il fuoco segreto
dell’Alchimia, si fronteggia con quello esterno e distruttivo?
Anticamente chi aveva fatto
esperienza veniva detto perito, ovvero istruito nel fuoco, daimon o voce spirituale dell’uomo. Il
sapere siede quindi solo nell’uomo che si salva nel fuoco, un uomo che viene permeato, intriso
dal dolore. Ecco la parola non detta oggi e che la Medicina custodiva nel periodo umanistico.
Ma cosa è il dolore? La Biologia insegna che sono gli ormoni evolutivamente più antichi, quelli
proteici, a regolare le funzioni di base della vita e della sopravvivenza, sotto forma di piacere o
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9. dolore: la procreazione, la cura della prole, alcuni elementi della vita sociale, la rimozione del
ricordo del dolore del parto, l’acqua disponibile nell’organismo, i riflessi automatici per
l’autoconservazione.
La fisiologia insegna quindi il dolore come forma di apprendimento, diverso dal piacere solo a
causa dei trasmettitori che attivano le due diverse vie; mentre però il piacere si sviluppa lungo
una curva di intensità sempre maggiore fino all’acme, una vera e propria saturazione della
soddisfazione, e quindi una posizione di immobilità, lo stimolo del dolore porta alla ricerca di
un’altra posizione, di un’altra condizione, urge a salire ad una diversità. Piacere e dolore sono
capaci di istruirci sulla realtà psicologica, non su come questa sia effettivamente in termini di
verità.
La conoscenza non può nascere invece per il Medico dell’Umanesimo dalla separazione
razionale, mentale degli opposti, non è sapere la presa in carico di un elemento dopo
l’eliminazione del suo opposto. Nel mondo vero della Natura ogni elemento si trasforma in un
altro, dinamicamente, e nessuna sapienza potrà mai fondarsi sulla rigidità di concetti separati
dalla spada del logos, la Materia guarda quindi alla Natura per il suo riscatto: è una allegoria
corrispondente per Zolla agli aenigmata, e non può essere diversamente: con il termine aitia si
identificava la causa ma anche la colpa, il bion della vita individualizzata nello spazio e nel
tempo che si ribellava colpevolmente al fluire senza spazio e tempo di zoh, la vita, una colpa
che bion poteva espiare attraverso l’amore che muta e redime tramite la trasformazione. In
questa frase è condensata tutta la radice della sapienza antica, radice dell’arte medica.
La guarigione allora non è più l’esclusione, l’allontanamento dell’intruso (malattia) e del dolore
che lo manifesta, ma la soglia di una nuova dimensione acquisita attraverso il veicolo delle
affinità. L’affinità del mondo profano è una voce flebile e sfumata, un sinonimo per accennare a
elementi della vita legati non troppo strettamente, è un diminutivo di eguaglianza e di identità;
nella Tradizione indica invece la dignità di un legame stretto, profondo e individuato
personalmente con la trascendenza; è quindi l’affinità che guarisce, non la rimozione del dolore.
Basta pensare con quante energie si operi con terapie sintomatiche, volte cioè all’eliminazione
del sintomo, identificato come una entità quindi a sé stante, all’interno del percorso della
malattia. La malattia stessa, si insegna in Medicina legale, è un fatto evolutivo, mentre spesso
nell’opinione profana prende l’aspetto della staticità, dell’ostacolo da eliminare, del “diverso”,
del fenomeno che non dovrebbe appartenere al mondo così come psicologicamente se lo
rappresenta l’uomo di oggi.
Molti problemi si addensano ancora nascostamente accanto al dolore: cos’è l’irreversibilità di un
fenomeno fisico quando risieda entro un essere umano in termini di malattia curabile ma non
sanabile? Dobbiamo affrontare il paradosso che mentre a livello subatomico tutti i fenomeni
sono dal punto di vista cinetico reversibili in quello macroscopico sono permessi dal II principio
della termodinamica solo quelli che comportano un aumento dell’entropia.
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10. Il passaggio al modo moderno di intendere la Medicina è recente, e poco indagato: avvenne
quando Locke e soprattutto Hume si imbatterono nell’impossibilità di poter arrivare
all’universale come garanzia del vero scientifico, fino a posizione radicali scettiche. Insomma l’a
posteriori non era garantito da un a priori illuminante. L’antitesi fra le due posizioni di logica
sfocia nel tentativo di Kant di dare fondamento logico sulla universalità delle leggi di natura
dove l’esperienza non sia da intendersi in senso empiristico, a posteriori, bensì come sintesi a
priori di contingente e necessario, di dato sensibile e di forma legati insieme ed emergenti dalla
attività di conoscenza.
Mach trova questa posizione dogmatica, perchè l’intelletto si trova irrimediabilmente
circoscritto dall’esperienza: la sintesi delle scienze implica il dato sperimentale e non possiamo
però accedere a ciò che sperimentare non si può., e ad essa si riferisce a proposito della massa
inoltrandosi su posizioni convenzionaliste, ma l’invarianza della massa su base sperimentale
mostra la corda della sua soluzione, tanto per dire quanto il problema dei concetti primitivi
inverificabili sia spinoso. Bisogna dire agli studenti che le teorie sono usate come criteri
organizzativi dell’esperienza o come strumenti per operare su di essa: in pratica linee guida che
non possono riflettere dati di fatto come pretendono gli strumentalisti. Con il risultato che il
giovane medico prende per buona una medicina che confonde la vecchia semeiotica con quella
moderna strumentale che è solo una specializzazione applicativa. Al giovane medico non si
chiede nemmeno più di pensare: ci pensa l’Evidence Based Medicine a far conto di tutti i
problemi della filosofia e ad ammannire come verità quello che perlopiù sembra funzionare
bene dal punto di vista dei più e dei risultati riscontrati.
Nulla è detto sul fatto che molti termini teorici hanno la funzione di rendere ancor più generale
una teoria così da rendere più semplici le trasformazioni logiche e matematiche, tanto da
diventare uno strumento euristico per l’estensione applicativa delle teorie. Così i ragazzi non si
accorgono che le scienze più sintattiche tendono a rinunciare ai modelli mentre le altre ne fanno
largo uso. Non si insegna qualcosa sulle basi della logica delle falsificazioni: esiste solo una
differenza fra tecnica di inferenze (la teoria è soddisfacente) o sviluppo di premesse (se la teoria
è falsa o meno) , ma tutto ciò mi risulta poco trattato in sede di facoltà scientifiche, al punto che
l’opinione comune è che siano i dati sperimentali gli elementi di prova per una falsificazione di
una teoria.
Il problema delle spiegazioni sistematiche e controllabili alla prova dei fatti nel solo punto
nostro di vista alla luce del determinismo ci riporta invariabilmente alle polemiche sul realismo
da parte delle posizioni dell’idealismo convenzionalista. Non si insegna nulla ai ragazzi su
questo drammatico confronto di pensiero, li escludiamo dalla possibilità di rendersi conto. Il
medico non tratterà solo cellule ma esseri umani e quindi al “contatto” ci deve essere abituato,
sensibile. Ecco che rientra l’humanitas in altra veste, come antidoto alla stupidità che è vera e
propria mancanza di questa umanità, porta al rovesciamento delle forze positive per la sapienza
10
11. antica, e per noi in generale principio di insoddisfazione nei risultati dell’Arte. E dire che la
legge sulla riforma universitaria della Classe specialistica medica parla esplicitamente di
approccio transculturale al paziente. E’ la storia di certi momenti che fa sì che una scienza sia
riducibile o meno ad un’altra? Ad es. la concezione statistica denuncia la fragile rigidità del
neopositivismo anche nel compito critico della filosofia nei confronti della scienza, aprendo la
finestra sulla moderna visione della causalità nella meccanica quantistica, del principio di
invarianza a seconda del fattore di scala (embriogenesi ed organogenesi spiegabili con la teoria
dei frattali), un mondo in cui la meccanica quantistica permette di affrontare veri e propri tabù,
soprattutto quello di accettare che l’ordine dei fenomeni esista, ma che sia statistico. In questo
ambito ritrovano spazio altre Medicine prima rigorosamente escluse quali l’Omeopatia, che si
distingue dall’assunto quantitativo privilegiando gli aspetti qualitativi, e qui rientra a pieno
titolo l’Umanesimo prima visto.
Nelle figure del mito al Senex viene affidato l’aspetto della conservazione del poco che si pensa
di aver ottenuto, faticosamente; al Puer l’originalità della forza del cambiamento. Al primo si
attribuisce il volto della cupa rassegnazione e del conservatorismo acido, al secondo la fresca
espressione della piacevole libertà, ma nel fondo è esattamente il contrario. Senex è
l’orientamento alla stabilità con la quale esprimiamo un desiderio, Puer il dolore della libertà
della forza di trasformazione. Senex e Puer si dice fossero rappresentati in pietra, insieme, nel
tempio di un rito mediterraneo scomparso anche alla memoria dei nostri antichi padri, che
ricordando qualche frammento di sapere, lo tramandarono come culti Misterici in Eleusi.
Meditando sul pensiero di De Santillana, veramente occorre recuperare dal passato i nostri
padri, ai quali dobbiamo molto: Ossa vehementer sicca.
L’espressione “estetica musicale” è di uso comune nella comunità filosofica internazionale e
indica una tradizione problematica consolidata, mentre, al contrario, “filosofia della musica”
costituisce un’espressione al più vaga e indeterminata. In effetti se Cartesio è ancora autore di
un Breviarium musicae fortemente orientato sulla dimensione strutturale della musica e in
particolare sulla matematica del campo sonoro, già in Schopenhauer troviamo solo una base
elementare di nozioni tecniche che fanno da supporto ad un preminente interesse verso
l’interpretazione metafisica della musica. Quel che è accaduto è insomma che i due problemi del
bello musicale e del significato della musica - metafisico o non metafisico che sia - hanno ora
occupato quasi interamente la scena, mentre si è allentato il legame con tutta la riflessione
dedicata alla dimensione strutturale del musicale.
Del resto, nella seconda metà dell’Ottocento si assiste ad un’ulteriore evento capitale: la nascita
delle scienze della musica in ambito oositivistico e in territorio tedesco. La teoria della musica e
l’analisi musicale si fanno carico su basi nuove e con interessi nuovi dell’intera problematica
posta dagli aspetti strutturali della musica. Unendosi alla sociologia, alla storia della musica,
ecc., espropriano progressivamente la filosofia della musica dei suoi temi classici, e agevolano,
11
12. se non determinano, un arroccamento dei filosofi all’interno dei due problemi del bello e del
significato musicale. Ma oltre a questa circostanza, un effetto profondo nella stessa direzione è
stato esercitato anche dalla crisi della musica tonale e dall’inarrestabile moto centrifugo che fa
della musica contemporanea una babele di linguaggi musicali dotati ciascuno di regole proprie
e ciascuno basato su risorse differenti. Il risultato è stato infatti l’impossibilità per il filosofo di
fare riferimento e di appropriarsi della dimensione tecnica di un’unica musica. Del resto,
proprio per la stessa ragione, soprattutto la teoria della musica e l’analisi musicale esibiscono
oggi un apparato concettuale e una serie di strumenti estremanente complessi da dominare e
richiedono quindi un altissimo grado di specializzazione.
Non è un caso quindi che - fatte salve significative eccezioni - il nostro secolo abbia visto grandi
estetiche musicali concentrate sulla questione del significato della musica. Certamente i
problemi non si sono ridotti a questi due. Ad esempio ampio spazio è stato dato ai quelli che si
potrebbero riassumere come problemi di ontologia dell’oggetto musicale: alla questione del suo
“modo di esistenza” (reale, ideale, ecc.); alla questione del rapporto che lega la varietà delle
esecuzioni di un brano alla sua identità; al rapporto fra la musica come oggetto artistico e il
suono come dato naturale; al problema posto dalla figura dell’interprete che si frappone fra il
compositore e la sua opera, ecc. Ma in ogni caso domina una quasi completa assenza di
riferimenti, e solo in pochi casi un debole richiamo, alla teoria della musica, all’analisi musicale
e alle altre discipline musicologiche. Spesso si apre addirittura una decisa polemica frontale
contro di esse.
In questo scenario, l’espressione “filosofia della musica” assume perciò un significato specifico
proprio riproponendo quello generico di riflessione globale sui fenomeni musicali. Per la stessa
ragione non può che farsi carico di un aspetto programmatico. Senza contrapposizioni,
facendosi anzi carico di tutti i problemi della tradizione, tale espressione invita a riaprire tutti
gli scenari del musicale che erano stati chiusi, e ad affrontare anche gli aspetti filosofici della
situazione musicale e musicologica contemporanea. Che cosa realmente accomuni musica e
matematica ad esempio costituisce un problema ancora aperto. Allo stesso modo proprio la
teoria della musica e l’analisi musicale, come in generale le discipline musicologiche, pongono
problemi epistemologici che devono essere affrontati. Ancora, le nozioni mediante cui queste
discipline affrontano il loro oggetto forniscono spesso l’occasione a compiti di chiarificazione
concettuale. Più che continuare con questo elenco bisogna riconoscere nell’esistenza di un’area
di studiosi che si riconosce nella cosiddetta musicologia critica un segno dell’oggettiva necessità
di questo ordine di considerazioni. L’aggettivo “critica” sta infatti ad indicare proprio la
consapevolezza da parte del musicologo del’esistenza di questioni che non possono essere
affrontate solo all’interno del quadro metodico e concettuale di una disciplina scientifica
consolidata. Ma nell’affrontare questi ulteriori ordini problematici si ripropongono e si
rinnovano quelle questioni relative al significato della musica, all’ontologia dell’oggetto
12
13. musicale, al rapporto fra musica e uomo, musica e cultura, musica e storia, e così via, che spesso
sono state interpretate come un modo di chiudere invece che di aprire le porte alla riflessione
filosofica. (Roberto Miraglia SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia )
Il ruolo che la musica gioca nella filosofia di Leibniz non è facilmente riassumibile o
schematizzabile. Se da una parte è noto l’interesse del filosofo di Hannover nei confronti di
problemi molto specifici riguardanti la teoria musicale, l’acustica e le pratiche esecutive, la
musica rientra d’altro canto nel suo sistema logico e metafisico come una sorta di termine di
paragone privilegiato, di analogon del rapporto tra logico e sensibile.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è di fondamentale importanza la corrispondenza di
Leibniz con il matematico e musicologo Conrad Henfling sul problema del temperamento, e
quella con Christian Goldbach, che verte invece sul problema del rapporto tra struttura
matematica e fruizione estetica dell’oggetto musicale. In entrambe, ad una analisi algebrica
delle strutture intervallari si accompagna la consapevolezza che tali strutture non
rappresentano in sé la bellezza e la perfezione dell’oggetto musicale, e che questo esiste
innanzitutto come oggetto uditivo, passibile di una fruizione estetica.
Nella lettera a Goldbach del 17 aprile 1712 è contenuta la celebre definizione della musica come
aritmetica incosciente: “musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare
animi” (la musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non si rende conto di
calcolare). La definizione apre la strada ad una serie di nodi teorici fondamentali nel sistema
leibniziano: in primo luogo, il legame tra musica e matematica non è visto, come nella
tradizione pitagorico-cabalistica, in senso mistico o esoterico. La struttura numerica sottostante
la musica è innanzitutto il suo principio costruttivo, il quale tuttavia non viene analizzato nella
pratica dell’ascolto, ma solo intuito come molteplicità organizzata. In una tavola allegata alla
corrispondenza con Henfling, risalente al 1709, troviamo una significativa definizione del bello
musicale come “osservabilità del molteplice”, atto di sintesi che coglie una molteplicità
strutturata aritmeticamente senza la necessità di analizzarne le singole componenti e le loro
relazioni. L’analisi – compito del teorico della musica - non serve a disvelare verità rimaste
occulte all’ascoltatore, ma a portare alla luce le ragioni che sottostanno al fatto uditivo.
Nella definizione della musica come calcolo inconsapevole è inoltre contenuto un richiamo alla
teoria delle piccole percezioni, che, non essendo esse stesse oggetto di esperienza cosciente,
garantiscono la continuità dell’esperienza fornendole una struttura relazionale. L’analisi del
teorico, che porta alla luce le regole del comporre, ha dunque una innegabile importanza per
Leibniz, ma non nega la spontaneità della creazione artistica. Questa anzi, - fa notare il filosofo
in un frammento preparatorio ai Preceptes pour avancer les sciences, del 1680 - è determinata
da un’applicazione più o meno inconscia dei principi regolatori dell’arte musicale, da parte di
un soggetto che si trova in una sorta di corrispondenza immediata con le regole dell’armonia:
l’autentica opera d’arte è determinata dalla convergenza tra l’attività analitica della ragione e
13
14. quella sintetica dell’immaginazione.
Gli studi filosofici e scientifici non devono riguardare, per Leibniz, solo i loro oggetti propri, ma
mirare a universalità di ordine superiore. Fine della ricerca è, in ultima analisi, la comprensione
di quel principio armonico che governa il mondo. Ecco quindi che la musica assume il ruolo di
illustrazione privilegiata della struttura armonica dell’universo. Il bello musicale viene in ultima
analisi a coincidere con la comprensione intuitiva dell’ordine sotteso alla composizione, e tale
definizione si applica nella filosofia leibniziana al concetto generale di bellezza. Ciò che
determina il piacere sensibile è “sentire harmoniam” (Confessio philosophi, 1672), e
quest’ultima non è altro che il principio unificatore della varietà. L’armonia sarà peraltro tanto
maggiore, quanto maggiore sarà la varietà delle componenti che essa struttura.
Su questa base, dunque, come in una composizione tonale la presenza di dissonanze ha un
fondamentale ruolo dinamizzatore, in quanto crea tensione verso la risoluzione consonante e
con questa la possibilità di uno sviluppo armonico, così ogni contrasto interno all’armonia del
mondo viene ricondotto da Leibniz ad una apparenza, originatasi da una concezione della
realtà non abbastanza comprensiva. La varietà è condizione fondamentale dell’armonia, tanto
sul piano estetico che su quello metafisico, e gli elementi apparentemente dissonanti
contribuiscono al suo arricchimento. L’ars inveniendi che guida il compositore è analoga
all’attività combinatoria che Dio esercita su una varietà infinita di elementi, obbligandoli “ad
accordarsi tra di loro” (Discorso di metafisica).
3) Sia l’ars inveniendi sia l’arte combinatoria divina esprimono una analoga razionalità
universale. La sua chiave viene rappresentata dalle leggi dell’ars combinatoria. Ed è proprio nei
tentativi del giovane Leibniz di elaborare una lingua artificiale che la musica inizia ad assumere
quel ruolo privilegiato che caratterizzerà il suo intero sistema filosofico. Importante, in questo
senso, è la corrispondenza che il ventiquattrenne filosofo di Hannover intrattenne, nel 1670, con
l’allora celebre teorico gesuita Athanasius Kircher, autore di una vasta opera di teoria musicale
dal titolo Musurgia Universalis. Leibniz inviò a Kircher la sua opera giovanile De arte
combinatoria, per ottenerne un giudizio che in realtà il religioso – per mancanza di tempo - non
formulò che in modo vago. Più che il giudizio di Kircher su Leibniz, è interessante il fatto che il
giovane filosofo conoscesse le opere del gesuita, ed in particolare apprezzasse il suo tentativo di
elaborare un sistema combinatorio finalizzato alla composizione di contrappunti a più voci
anche da parte di chi fosse totalmente sprovvisto di cognizioni specifiche di tecnica musicale
(tale sistema, cui Kircher dà il nome di Arca musarithmica, è esposto nell’ottavo libro della
Musurgia e rappresenta un interessante tentativo di applicazione di un sistema algoritmico alla
composizione musicale). Il fondamentale punto in comune tra i due studiosi è costituito dalla
nozione di simbolicità del linguaggio musicale, che rappresenta l’ordine dell’universo, e –
conseguentemente - dalla concezione del bello musicale come percezione della struttura
numerica costituente l’armonia.
14
15. Strutturata aritmeticamente e dotata di una valenza simbolica che le deriva anche dalla sua
natura espressiva (espressione, afferma Leibniz nello scritto Quid sit idea, del 1678, è “ciò in cui
sussistono le strutture che corrispondono alle strutture analoghe della cosa da esprimere”), la
musica ha dunque le caratteristiche che la rendono adatta a divenire strumento di costruzione
della lingua universale, ovvero di un sistema logico relazionale, e non gerarchico, la cui base è
costituita da pochi elementi da cui dedurne infiniti altri “come supplementi” sulla base di un
metodo combinatorio.
L’immagine principale di cui Leibniz si serve per illustrare tale sistema relazionale è quella
dell’organo, che richiede per la propria costruzione calcoli matematici e dà origine a
combinazioni contrappuntistiche molto complesse, realizzando una sorta di combinatoria dei
timbri e delle qualità sonore. Dall’immagine dell’organo si passa sempre nel De Arte
combinatoria, a tentativi di elaborazione della Characteristica universalis attraverso le note
musicali. Nella sua opera giovanile, Leibniz adotta un modello aritmetico che si serve dei
numeri primi a simbolizzare le nozioni semplici e della moltiplicazione per la formazione delle
idee complesse. In seguito alla rilevazione di una non universale corrispondenza tra simboli e
significati, pensò di integrare tale sistema esprimendo i numeri per mezzo degli intervalli
musicali, integrando in tal modo il problema aritmetico con la valenza espressiva delle
combinazioni degli intervalli In altri scritti di argomento logico, il linguaggio musicale viene
strutturato al partire dal sistema binario (sistema che fa uso di due sole cifre: l’1 e lo 0):
rappresentando l’1 con il tono e lo 0 con il semitono, si può esprimere il posto delle cifre con il
posto di questi due elementi nella scala musicale.
I tentativi di fare della musica una lingua universale vennero messi da parte, e la volontà di
Leibniz di costituire un catalogo di nozioni primitive correlate ad una organizzazione sintattica
in grado di far derivare da esse l’intero sapere venne meno con la crescente esigenza di
specializzazione delle scienze. La musica, tuttavia, rimane la pietra di paragone del suo sistema
logico e metafisico, la sola arte in grado di esprimere compiutamente la fitta tessitura che tiene
insieme, nel sistema leibniziano, il piano della elaborazione razionale e quello della percezione
sensibile, e il fatto che a quest’ultima è riservato, in ultima analisi, il coglimento della verità,
come l’orecchio dell’ascoltatore attento coglie, in un brano musicale, la presenza di un ordine
immanente. (Celeste Moratti: Leibnitz e la Musica)
Per quanto riguarda uno studio della percezione musicale, un modello cognitivo assai proficuo
è costituito dalla teoria modulare della mente, formulata da Jerry Fodor. Nell’ambito della
mente esisterebbero due tipi principali di sistemi: sistemi di input che agiscono come trasduttori
sensoriali o linguistici e sistemi centrali che svolgono compiti di interfacciamento e di
formazione-fissazione della credenza. La natura modulare della mente riguarda in particolare i
sistemi analitici di input, i quali sono caratterizzati nel loro funzionamento dalla specificità di
dominio (nel caso della musica il dominio uditivo), dalla obbligatorietà delle loro operazioni,
15
16. dalla estrema rapidità e dall’incapsulamento informazionale ossia dall’impermeabilità rispetto
alle informazioni fornite dagli altri moduli o dai sistemi centrali. Sul piano specificamente
musicale lo stesso Fodor ipotizza sistemi computazionali “che rilevano la struttura melodica o
ritmica dello stimolo acustico”.
L’esistenza di due tipi distinti di sistemi, modulari e centrali, richiede l’indipendenza di alcuni
processi procedenti dal basso verso l’alto (bottom-up) rispetto a quelli procedenti dall’alto verso
il basso (top-down). Una spiegazione completa della percezione musicale non può prescindere
da alcuno di tali processi. Eugene Narmour, per esempio, esponendo una teoria delle strutture
melodiche basata sul modello implicazione-realizzazione già proposto da Leonard Meyer, ha
indicato come nella formazione di attese durante l’ascolto di una melodia siano in azione
contemporaneamente sistemi bottom-up e sistemi top-down. I sistemi bottom-up concernono
“style shapes” che sul piano dei parametri sonori si configurano come semplici (sono riferibili,
in abstracto, solo all’altezza dei suoni, solo alla loro durata ecc.). Essi procedono in modo del
tutto subconscio e sono innati, costanti e automatici. I sistemi top-down concernono “style
structures” che invece si configurano nella complessità dei parametri (sono riferibili a concrete
interazioni fra i vari parametri sonori). Essi procedono in modo ampiamente conscio e sono
appresi, variabili e passibili di controllo. I sistemi bottom-up sono relativi genericamente a
musica di qualsiasi stile; i sistemi top-down allo stile individuale della singola opera o
comunque a uno stile musicale specifico.
Alcuni aspetti della teoria modulare di Fodor sono stati ripresi dalla teoria della mente
computazionale di Ray Jackendoff, la quale include in sé la teoria generativa della musica
tonale di Fred Lerdahl e dello stesso Jackendoff. Ciò che Jackendoff sostiene è una visione a
grana fine della modularità, ossia l’idea che i moduli non siano da intendere come interi sistemi
di facoltà, bensì come singoli elaboratori i quali, collocandosi a diversi livelli di
rappresentazione (anche i processi centrali sarebbero in tal senso, almeno in parte, modulari),
traducono e integrano le informazioni ricevute. Ogni elaboratore è innato, ma è passibile di una
specializzazione mediante esposizione sufficiente. Per i suoi aspetti innati la facoltà musicale è
da ricondurre ad alcune proprietà specifiche che si aggiungono ad alcune proprietà generali
della mente computazionale. A sua volta tale componente innata determina, in senso
chomskiano, una grammatica universale della musica cui, per ogni idioma musicale, si
aggiungono specifici elementi acquisiti.
La teoria generativa della musica tonale postula cinque diversi livelli di rappresentazione
musicale, derivati uno dall’altro mediante regole generative. Il primo livello è quello della
superficie musicale, dove dal segnale acustico sono codificati i suoni come eventi sonori
discreti. Il secondo livello è quello della struttura di raggruppamento, dove la superficie
musicale è segmentata in una gerarchia di frasi e sezioni. Il terzo livello è quello della struttura
metrica, dove si stabilisce una griglia di accenti metrici. Il quarto livello è quello della riduzione
16
17. degli intervalli di tempo, dove l’articolazione ritmica (struttura di raggruppamento più
struttura metrica) si raccorda a una gerarchia degli eventi melodico-armonici. Il quinto livello è
quello della riduzione dei prolungamenti, dove la gerarchia tonale è precisata in termini di
tensione e di rilassamento armonico. Ascoltare un brano di musica tonale significa ricavare i
cinque livelli di rappresentazione, i quali corrispondono nell’ordine a un progressivo
approfondimento della comprensione musicale.
La teoria generativa della musica tonale è una teoria della comprensione della struttura
musicale e non una teoria della sua elaborazione. Essa infatti descrive la forma assunta
dall’informazione musicale come stato finale della computazione, piuttosto che il modo in cui
essa è via via elaborata. Per trovare ricerche che affrontino quest’ultimo aspetto bisogna
rivolgersi a studi più vicini alle problematiche della Intelligenza Artificiale, di quell’ambito
disciplinare cioè che si prefigge di riprodurre le attività intelligenti dell’uomo tramite macchine
ed elaboratori elettronici. L’applicazione alla musica di programmi di simulazione cognitiva
segue ampiamente i principi formulati in sede generale dall’Intelligenza Artificiale, con
particolare attenzione alle idee di Marvin Minsky: dal concetto di “frame” sino alla necessità di
una programmazione euristica nella soluzione dei problemi. Sono stati così realizzati
programmi che simulano attività di composizione, di analisi, di esecuzione, di percezione o di
apprendimento della musica.
Un’alternativa teorica al cognitivismo classico e alla stessa Intelligenza Artificiale è
rappresentata per molti versi dalla prospettiva connessionista, in base alla quale all’analogia fra
mente e computer tende a sostituirsi quella fra mente e cervello. Nel tentativo di riprodurre
sistemi che simulano l’intelligenza umana, il connessionismo, anziché proporre come modello il
computer organizzato linearmente secondo un’architettura sequenziale, insiste invece sull’idea
di rete neurale: un sistema dinamico, parallelo e distribuito, in cui un certo numero di unità,
dette nodi, sono collegate tra loro mediante connessioni capaci di attivare o inibire le altre unità.
Poiché le proprietà in gioco in una rete neurale sono essenzialmente relazionali e quantitative
(connessioni tra unità, peso e livelli di attivazione), il paradigma connessionista, a differenza di
quello simbolico tradizionale, si caratterizza per essere sub-simbolico. Ciò vale anche in campo
musicale dove, contro una considerazione logico-razionale dei processi di elaborazione delle
strutture, ci si concentra piuttosto sui concreti comportamenti fisici del sistema. Tra le principali
conseguenze di tale concezione v’è la possibilità di intendere le reti come sistemi che
apprendono da sé a svolgere certi compiti, senza alcun bisogno di istruzioni e regole prestabilite
(per esempio le regole della grammatica generativa). La maggiore flessibilità rispetto a un
formalismo normalizzante consente inoltre di pensare al tema dell’ambiguità delle risposte,
tema certo di notevole interesse nel caso della musica. (Augusto Mazzoni: Filosofia cognitiva e
Musica)
Recentemente G.Sermonti ha pubblicato un bel commento sull’armonia che pone un ponte
17
18. arditissimo fra il mondo antico e la genetica moderna. Si tratta di un commento al lavoro di
Ohno, genetista, che nel 1970 pubblicò “Evolution by Gene Duplication” fornendo un’idea sulla
costruzione molecolare a partire da piccole unità ripetitive piuttosto che da una serie di geni
molto più estesa e complessa, cosa del resto scoperta negli anni recenti, dove il numero di geni
dal miliardo ipotizzato è attualmente calcolato attorno alle 56.000 unità. E’ un concetto
“musicale” nel senso che a pari della musica la genetica del DNA opera sulla base di unità di
numero ridotto ma con grande fantasia. Persino i geni potrebbero essersi formati a partire da
più ridotti moduli sub-genici. Abbinando alle 4 basi del DNA una notazione musicale è
possibile ad es. ottenere sequenze armoniche di grande interesse, e che iniziano a costituire
quella che va sotto il nome di gene music. Se dal DNA è possibile ottenere sequenze arminiche è
anche possibile ottenere da brani musicali noti sequenze di codifica per proteine, come Ohno
vide a partire dal notturno op.55 n°1 di Chopin che traslitterato descrive la sequenza per la
codifica iniziale dell’enzima polimerasi II del topo. I 4 nucleotidi del DNA formano 64 possibili
combinazioni tre a tre, i 64 codoni, perfettamente corrispondenti ai 64 segni dell’I Ching
(F.Capra); l’ottava musicale comprende 12 suoni (7 toni+5 semitoni); il codice musicale adottato
da Ohno è semivincolante, poichè i nucleotidi sono quindi meno delle note, tuttavia da una
partitura musicale si torna ad una e una sola sequenza nucleotidica, che viene quindi generata
univocamente.
Ruolo del mondo musicale nei nuovi riti di consumo
Per completare l’analisi degli effetti che gli stimolanti di sintesi possono avere sugli assuntori, è
necessario conoscere l’ambiente, il contesto, nel quale queste sostanze vengono consumate.
Ovviamente le situazioni possono essere diverse: dallo studente che vuole stare sveglio di notte
per preparare un esame imminente, all’autista che deve assolutamente arrivare l’indomani a
una data destinazione; dall’adolescente che viene trascinato dal suo gruppo o partner, al
soggetto che cerca una scappatoia a una vita piatta e anonima. In ognuno di questi casi (e in
tanti altri) si può fare ricorso a sostanze diverse, alcune lecite, altre illecite, e in ogni caso le
conseguenze possono essere variabili, a seconda della situazione in cui il soggetto si trova, dalle
sue condizioni fisiche e psichiche e, ovviamente, della sostanza psicoattiva utilizzata.
Occorre porre l’accento su un fenomeno molto diffuso, di cui non si conoscono le reali
dimensioni, ovvero l’uso di extasy nel mondo delle discoteche. Come anticipato, è proprio in
questo ambito che l’MDMA in primis, ma anche altri derivati anfetaminici, vengono
prevalentemente assunti. Data la peculiarità di questo contesto e considerando gli effetti
empatogeni, entactogeni e simpaticomimetici dell’extasy, è logico pensare che parte delle
18
19. risposte del soggetto alla sostanza dipenderanno dall’interazione con l’ambiente circostante.
Prenderò pertanto in esame le caratteristiche di ambiente e musica che sono implicate nella
genesi di quelli che vengono chiamati “stati alterati (o modificati) di coscienza”. Questi sono
stati “altri”, diversi dallo stato di coscienza ordinario, ma non per questo patologici, che si
ritrovano in tutte le culture e popolazioni, compresa quella Occidentale.
COSCIENZA
I modelli di coscienza:
coscienza come proprietà della cellula: è un trucco della nostra tendenza alla identificazione ciò
che ha fatto il successo di questa teoria: se i protozoi cercano il cibo come noi vuol dire che ne
vediamo un comportamento a noi simile, e quindi attribuiamo loro una “coscienza” se pur
rudimentale.
coscienza come apprendimento, in seguito alla comparsa della memoria associativa. La
modificazione del comportamento in base all’esperienza porta alla coscienza. Ma la conoscenza
e l’apprendimento sono cose diverse, come mostrato dal fatto che il secondo si riflette
nell’apprendimento condizionato, e quindi non “cosciente”.
la teoria di Huxley, dove la coscienza si identifica col comportamento. Ma se la coscienza fosse
solo l’ombra dell’azione, perché si accentua quando l’azione diviene esitante? Perché siamo
meno coscienti quando facciamo invece cose abituali benissimo, cioè quando il comportamento
si esprime al massimo come abilità e altro? Da qui anche il comportamentismo.
teoria dell’evoluzione emergente: nuove combinazioni determinano nuovi tipi di rapporti, che
determinano a loro volta nuovi emergenti. La coscienza quindi pilota il corpo e la sua
evoluzione.
teoria della formazione reticolare, sotto il ponte di Varolio, detta anche coscienza vigile. Ma noi
conosciamo le funzioni nervose solo dopo che esse si sono riflesse nel comportamento, per cui
l’intera architettura nel suo insieme è ancora un problema.
Abbiamo anche problemi legati alla nostra immaginazione di coscienza, per es. che essa sia
continua, mentre non è detto; inoltre siamo coscienti meno a lungo di quanto riteniamo, perché
non possiamo essere coscienti dei momenti di assenza della coscienza, ma solo rendercene dopo
conto.
Per Locke la mente era una tabula rasa, e la coscienza veniva ad essere un contenitore in cui si
accumulavano esperienze, ripescabili come ricordi nell’introspezione. Eppure si ripesca poco,
mentre ci accorgiamo all’improvviso di cose che non sospettavamo prima: erano sì in noi, ma
non nella coscienza. Nella retrospezione c’è ben poco delle sensazioni reali che sono state
percepite all’epoca. Una contemplazione terospettiva della memoria è quindi in gran parte una
invenzione, nella quale vediamo noi stessi come dall’esterno. Ciò che possiamo richiamare
19
20. coscientemente è ben poco rispetto a ciò che sappiamo “fisicamente”; l’apprendimento è in gran
parte una operazione inconscia, che si riflette anche di conseguenza nelle capacità di abilità e
linguistiche, dove il periodo conscio può essere molto basso e ridotto, anzi, un momento vigile e
conscio può disturbare e peggiorare le performances.
La coscienza non è il luogo dove si formano i concetti: il linguaggio rappresenta un concetto con
una parola, ed è necessario perché il concetto non si trova nella coscienza.
La coscienza serve ad impostare un metodo di soluzione di un problema ma la soluzione non
arriva come contenuto di coscienza. Vedi l’apprendimento inconscio di cui sopra. Si può allora
non essere coscienti e imparare a risolvere problemi? Ma non solo come forme meccaniche di
risposta condizionata?
Il processo di giudizio non è mai cosciente, il giudizio appare solo dopo che si è formato nella
coscienza. Il pensiero non è del tutto cosciente, e in parte è un processo automatico su materiali
e modelli operativi fino alla comparsa della “soluzione”, inconscia e poi rappresentata alla
coscienza.
La coscienza crea uno spazio dove collocare sé stessa e i suoi contenuti, ma potremo collocare la
coscienza fuori della stanza in cui siamo, anziché nella nostra testa, e svolgere lì la nostra
attività pensante anziché nella testa. Basta pensare agli sciamani e al volo notturno, che era
pensato come una uscita da sé demoniaca.
I concetti astratti nascono dall’uso delle metafore e non risedono nella coscienza.
Spazi e tempi di narrazione sono frutto di meccanismi della coscienza, così come la selezione di
fatti, e poco hanno a che vedere con la realtà.
A destra sono infatti le funzioni riorganizzative, solistiche e sintetiche, che indirizzano alla
costruzione di metafore che sono il linguaggio per la parte sinistra.
Musica designer drugs e stati alterati di coscienza
Suoni e luci possono attivare specifiche risposte cerebrali: anzi, recentemente è stato osservato
(Shams e Coll.) come nell’abbinare uno stimolo continuo luminoso a uno acustico periodico
anche quello visivo venga percepito in tal modo (ad es. un solo stimolo visivo verrà percepito
come duplice in presenza di appropriata stimolazione acustica), come dire che entro certi ambiti
di potenza o di rilevanza di significato non esiste una priorità assoluta data al sistema visivo,
cosa creduta fino a poco tempo fa.
20
21. Musica e frequenze luminose possono quindi comportarsi come sostanze psicoattive nel
modificare i comportamenti anche a livello profondo (P.M.Ricciardi).
La caratteristica delle forze elementari è di esprimere la massima forza nella minima estensione,
anto che il più importante è sempre il meno apparente, il più nascosto, e si può esprimere solo
come rchetipo, secondo la formula poetica del mito. Ecco perché da sempre in tutte le culture
umane si pone lapoesia alla base della conoscenza, e la musica come voce della poesia. Al pari
degli Universali nonpercepibili dall’uomo nella loro totalità, anch’essa si manifesterà
dualisticamente, o come musica celeste ocome musica di oscura magia capace di perdere
l’uomo. Farmacista e incantatrice furono infatti sinonimiper un lungo periodo, poiché in origine
le sostanze erano somministrate con un rituale cantato,preponderante per importanza.
La musica/poesia originaria permette di vivere nella fisicità del corpo, cioè la danza, tutta
questatematica, che oggi noi esploriamo con i mezzi dell’analisi psicologica, ma che possiede
radici benconsolidate in tutte le culture.
Il sacerdote antico che media fra la vita e la morte unisce in sé anche l’aspetto del musico e del
medicocreando un ponte di collegamento fra la vita individuale e quella collettiva, e sarà, in
tutte le culture, ilpontifex, il fabbricatore della via-ponte fra umano e divino, e il ponte stesso,
come simbolo del passaggio,prenderà vita in forme architettoniche come nell’arte romanica e
islamica (es. il tetto del mercato diIsfahan che degrada secondo una scala tonale), nel disegno
degli strumenti e dei ponticelli delle corde,sempre all’ombra del mito di Apollo, che donò
all’uomo la corazza ricurva di una tartaruga sottesa dacorde, la Musica: la Musica trasforma, e
Marsia perderà la sua pelle, la sua precedente condizione umanaper assumerene una nuova di
più alta dignità. Le forme vegetali e animali scolpite sui capitelli dal periodo romanico in poi
sono quindi precisi
equivalenti tonali, e osservando una fila di questi potremmo ancora oggi leggere uno spartito
musicale,vere e proprie pietre che cantano, e come ogni cielo era designabile dal solido
platonico corrispondente,così la sua nota caratteristica permetteva all’iniziato la composizione
di musiche di ordine superiore. Contali musiche ci si aspettava di poter convogliare le energie
celesti sulla terra, sempre grazie al principio dianalogia, e pertanto ecco che riappare il legame
fra notazione musicale astronomia e terapia, dove i poteriterapeutici o venefici delle piante, ad
es., sono dovuti all’influenza diretta dei cieli superiori sugliinferiori.
I riti di Medicina mediati da Musica e Piante di Potere
Musicalmente l’analogia si esprime quando un ciclo in maggiore o minore passa di grado con
un saltotonale a partire da certe note, come per esempio nell’importantissimo salto Fa/Sol che
dalla tradizionemegalitica scorre in quella sciamanica. Per avvicinare l’uomo alla Natura
21
22. occorre allora unire cantomusicale e danza, trovare il giusto accordo tra utilizzo dinamico del
corpo ed equilibrio della mente; lacrescita interiore offre la possibilità di un contatto profondo
con le possibilità espressive del corpo, il grande mediatore fra il nostro Io e il Mondo (fra tutti
l’antichissima disciplina Bharata Natyam). Danza epiacere sono legati e producono effetti
ipnotici e stimolanti contrapposti, mediando anche il rilascio diendorfine che rendono resistenti
alla fatica e al dolore.Gli intervalli melodici sono separati da quantità variabili, i toni e semitoni,
tali da creare un saltofra le note, con effetti ben diversi: un salto di 8° porta all’ascolto senso di
potenza, di dramma, uno di 6°,detto la voce del cuore, di espressione sentimentale, uno di 3°
insiste sul carattere di continuità, adatto astorie e filastrocche, gli intervalli di 4° e 5°
suggeriscono cadenze, e quelli di 7°, dissonanti, la tensione chenon riesce ancora a risolversi;
infine gli intervalli di 2°, detti di mezzo, legano i vari momenti.8L’orecchio musicale si
comporta diversamente da quello biologico nell’apprezzare o rifiutare i generi,perché la cultura
indirizza in modo determinante i risultati e gli effetti dell’ascolto. Nonostante che
laprogressione dei valori di altezza non sia regolare, noi percepiamo il salire delle note nella
scala comeperfettamente intervallato, continuo. Ma quello di continuità ( e il collegato di
proporzionalità) sono
concetti formatisi nell’ambito della cultura occidentale, mentre sono ben poco rappresentati in
Natura.
Mentre per noi nelle società di massa la parola e il suono sono veicoli portanti
dellacomunicazione/economia, in quelle antiche e tradizionali la parola è celebrazione religiosa
e strumentodi guarigione; la parola in musica era la La scrittura dell’Universo.Il sistema
musicale
della
Tradizione
procede
quindi
dal
superiore
all’inferiore,
dall’alto
al
basso,dall’esterno all’interno. La musica barocca introduce per la prima volta una inversione di
direzionedando voce ai sentimenti. Per barocco si intende una forma di espressione musicale
all’inizio del ‘600 chetrae nome dal termine portoghese “perla di forma irregolare”, ad indicare
l’irrompere nella musica dellastravaganza, dell’irrazionale, dello scontro dinamico, in una
parola dei sentimenti. La notazione musicalesi svilupperà nel tempo a favore degli effettivi
rapporti numerici fra le frequenze, indipendentementedalla “temperatura”, cioè dalle regole
necessarie per rendere tali intervalli graditi all’udito.Parallelamente si apre l’interesse per altri
tipi di esplorazione musicale, e si recuperano i sistemi tonalitradizionali delle culture più
diverse. Nascono i fenomeni di commistione di generi, produttivi di formesempre nuove, come
del resto accadeva nel mondo antico a seguito di guerre e trasmigrazioni di popoli.La tecnologia
apre nuove prospettive permettendo di uscire dalle limitazioni prima indotte dallacostituzione
fisica degli strumenti, e dai limiti fisico acustici delle loro possibilità espressive.L’apertura allo
studio della musica delle più diverse culture umane ripropone alcuni temi ricorrenti: ilprimo
quello della ripetizione (di gesti o suoni) che in parte apparì nel nostro Barocco sotto forma
di“basso ostinato” e in tempi moderni nella musica minimalista, l’altro la cura nella scelta delle
22
23. pause di silenzio fra i suoni. Il silenzio nelle Tradizioni è il momento del Tutto in potenza prima
della creazione.Le parole sono intervallate da pause: anche per noi la pausa è fondamentale,
senza di essa non sarebbepossibile una costruzione di note, facendo eccezione per le musiche
elettroniche sperimentali. D’altraparte senza pause non è nemmeno possibile costruire le forme
della ripetizione ciclica e del ritornello,indispensabili a indurre gli stati di attenzione, e più a
fondo, di partecipazione emotiva, di transe. Il ritmoè nato come elemento portante del percorso
di ascesi estatica, di riunione con l’Assoluto, di guarigione.Come esempio degli effetti del
silenzio, riflettiamo su ciò che esso può produrre al termine di un brano,quando fa scattare
l’emozione catartica dell’applauso. Al Ghazzali diceva che la musica permetteva diestrarre le
cose segrete dal cuore. Ma tutte le Religioni costituite hanno poi lentamente circoscritto,limitato
e poi vietata la musica e la danza, se non in forme canoniche, assimilandola agli stati di
ebbrezzada sostanze, da possessione diabolica. Così come, del resto, riti sacri sono stati
mercificati, a livelloprofano, da esibizionismo a fini di lucro, pur ottenendosi la stessa potenza
di indurre estasi, capacità diresistere al dolore nelle prove di resistenza o di automutilazione
(fenomeno che noi conosciamo per ilraro effetto dell’associazione di fenciclidina con
cannabinoli o più frequente, in certe psicosi). Questeosservazioni sono sovente riferite al mondo
medio orientale, ma non dimentichiamo che la struttura dellaforma musica-estasi-possessione è
antichissima, come visto prima, sia nell’area mediterranea che in tuttele culture umane dal
Neolitico in poi, anche se è delle prime che possiamo sapere di più.
K’elenco delle piante è veramente esteso, come dimostra l’elenco che segue, che
schematicamente raccoglie le indicazioni sull’uso come piante di Potere di specie diffuse per
tutta la superficie abitata:
Tabernante iboga
In Africa uno dei vegetali allucinogeni più importanti è la “Tabernanthe iboga”,un arbusto che
cresce nel Gabon e nel Congo. Lo sfruttamento delle radici riveste una certa importanza nelle
economie locali. Da esso la chimica è riuscita ad isolare l’ibogaina , l’alcaloide con proprietà
anestetiche che agisce sui centri respiratori. Gli africani la usano nella caccia, nella pesca per
stordire le prede ed in guerra per rimanere intere notti senza muoversi, pur restando all’erta.
Viene anche usata come stimolante e come afrodisiaco. Infatti l’ibogaina causa gli stessi effetti
di una dose eccessiva di caffeina e allo stesso tempo produce allucinazioni. Ma per ottenere
quest’ultimo effetto la dose deve essere assai superiore.
Panchreatium triathum
Nel sud del continente, i boscimani ottengono visioni ed allucinazioni, i caratteristici effetti
dello stato psichedelico, strofinando i bulbi della “Panchreatium triathum” sulle incisioni
appositamente praticate nell’epidermide dell’assuntore per permettere alla sostanza contenuta
nel vegetale di raggiungere i centri nervosi attraverso il sangue.
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24. Mesembryanthemum
Sempre nell’Africa del Sud, nelle regioni steppiche o desertiche, gli ottentotti fanno uso del
“Mesembryanthemum” (delle “Aizoacee”). I fiori di questa pianta hanno colori vivaci,
splendenti, di grande effetto decorativo, L’alcaloide contenuto nelle radici (la mesembrina)
risveglia e accentua gli istinti più reconditi dei guerrieri, provocando in essi una irresistibile
gaiezza che si esprime con scoppi incontenibili di risa. Presa in dosi eccessive, la radice
provoca un terribile delirio.
Banisteriopsis caapi
Un’altra miniera di psichedelici è l’Amazzonia, l’oceano verde del Brasile, ancor oggi, in parte,
impenetrabile jungla. La pianta più studiata per i suoi effetti allucinogeni è la “Banisteriopsis
caapi” , un vegetale di cui peraltro si sa ancora molto poco. Fu individuato nel 1851
dall’esploratore Richard Spruce che annotò l’abitudine di alcune tribù del bacino dell’Uape di
inebriarsi bevendo il succo estratto dalle fibre di questa liana detta appunto “caapi”.
Banisteriopsis inebrians
In Colombia, il botanico Klug osservò che gli indigeni bevevano un intruglio chiamato “yage”
derivato da un’altra liana classificata come “Banisteriopsis inebrians” . L’alcaloide contenuto
nei vegetali (armina ) produce inizialmente sensazioni di vertigine e nervosismo seguite
successivamente da nausea e vomito.
Da questo stadio esplode la rappresentazione
psichedelica: lampi di luce che squarciano una caligine azzurrina, visioni colorate sempre più
variopinte. Segue un sonno ristoratore e al mattino uno stimolo di diarrea. È usata nei riti
magici dagli sciamani che ne bevono prima di esercitare l’arte divinatoria e la somministrano
agli adolescenti della tribù nel corso di tradizionali riti iniziatici.
Virola
Anche altri stregoni, nell’alto Orinoco, fanno uso di droghe inebrianti derivate da un altro
albero che vegeta nella jungla brasiliana: la “Virola” (della famiglia delle myristicacee). Gli
indigeni (Puinivi) grattano la parte interna della corteccia dell’albero, strappata all’alba, e la
mischiano con l’acqua. La poltiglia essiccata viene trasformata in una polvere marrone. Gli
sciamani, a cui è riservato l’uso della sostanza, se la inalano nelle narici con una cannuccia
prima di emettere una diagnosi di malattia o fare una profezia. La Virola impiegata per riti
magici è detta “calophilla” . La “Virola theiodora” , invece, è usata da altre popolazioni
indiane (Vaikas) dislocate nell’alto Orinoco per fini edonistici e per accrescere la libido. La
Virola contiene alcaloidi (triptamine) che danno dapprima eccitabilità, poi contrazioni
nervose, nausea e, quindi, allucinazioni visive. A tali effetti segue un sonno agitato e popolato
da incubi terrificanti.
Ayahuasca
In altre regioni del Brasile (Pernambuco e Paraiba), gli stregoni, nel corso di funzioni religiose
propiziatorie caratterizzate da un particolare rituale, erano soliti somministrare droghe a base
24
25. di triptamina ai guerrieri in partenza per la guerra per aumentare in loro impeto e
aggressività. La bevanda allucinogena che propinavano, chiamata “ayahuasca”, era distillata
con un estratto della “Mimosa hostilis” (Jurema), un arbusto rampicante a fogliame pennato,
leggero ed elegante con fiori a piumetto o a capolini sempre di grazioso effetto decorativo, o
del “Desmanthus illinoensis” . Anche le tribù dei “fulnios”, originarie del Mato Grosso,
ottengono dalle radici di queste piante e dalla corteccia della “Psychotria Ipecacuana”, una
“Rubiacea” dal tenue odore e dal sapore amaro e nauseante, bevande a base di triptamina ed
emetina che provocano visioni fantastiche. Dalle Rutaceae usate in oriente per la cardatura dei
tappeti si possono ottenere varianti a seconda della temperatura di estrazione: da qui il mito
del tappeto volante?
Sassofras officinalis
E sempre dalla corteccia cinerea che cresce in Brasile, il “Sassofras officinalis”, si estrae un olio
essenziale che ha largo impiego in farmacia e da cui, con un processo chimico, si prepara il
safrolo, il micidiale precursore impiegato per la sintesi dell’MDMA.
Anadenanthera peregrina
Dalle fave di un’altra leguminosa, la “Anadenanthera peregrina”, i maghi di diverse tribù
brasiliane ricavano ancora oggi polvere da fiuto: la “cohoba”. Gli effetti furono descritti già da
Ramon Pane, incaricato da Cristoforo Colombo di inventariare tutte le cerimonie religiose
degli indigeni. La sostanza è talmente potente che in pochi minuti l’assuntore perde coscienza
e prova la viva sensazione che gli oggetti e le pareti circostanti ondeggino e le persone
camminino capovolte. L’albero della Anadenanthera è coltivato anche da altri indigeni che
mangiano l’estratto mischiato a lumache arrostite. Queste, producendo calce viva, liberano dal
vegetale l’alcaloide triptamina. La cohoba non genera dipendenza fisica ma solo psichica ed
anche un suo omologo di derivazione semisintetica, il DMT, produce effetti psicotropi del
tutto simili.
Echinacea purpurea, Tethrapteris methystica
Vi sono poi in Brasile altre piante dalle proprietà allucinogene, di cui la conoscenza scientifica
è ancora incompleta, come la “Echinacea purpurea”
(Coneflower) del genere delle
“Composite” e la “Tethrapteris methystica”, un rampicante vegetale dai fiori gialli, simile alla
liana “caapi”, con la cui corteccia si prepara un infuso psichedelico.
Prestonia amazonica
A volte confusa con quest’ultima è la “Prestonia amazonica”, un’altra liana da cui gli indiani
traggono la già citata bevanda magica dello “yage”, i cui effetti sono assai simili all’omonima
sostanza tratta dalla “Banisteriopsis inebrians”.
Brunfelsia hopeana
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26. Anche la “Brunfelsia hopeana”, una “solonacea” dai fiori celesti ed azzurrini, pare venga
adoperata come sostanza stupefacente in Colombia, Equador e Brasile, sfruttando i diversi
alcaloidi del tipo atropina .
Methysticodentrum amesianum
Gli indiani “kamsa” coltivano un albero di difficile classificazione botanica le cui foglie
contengono scopolamina: il “Methysticodentrum amesianum” sulle cui proprietà allucinogene
gli stregoni del luogo mantengono un impenetrabile segreto che custodiscono gelosamente
tramandandoselo ereditariamente di padre in figlio.
Datura
Nella Colombia cresce la “Datura aurea e candida” . L’estratto di questo vegetale veniva
somministrato agli schiavi e alle mogli dei capi morti: infatti, costoro dovevano essere sepolti
vivi col defunto e lo stupefacente serviva a prostrare e stordire le vittime sacrificali così che
non si opponessero alla sepoltura. In Amazzonia e in Cile, invece, la bevanda tratta dalla
Datura veniva fatta bere ai bambini disubbidienti affinché, attraverso la pianta sacra, gli spiriti
degli antenati provvedessero a renderli più docili. Anche gli indiani d’America “luisegno”
adoperavano la pianta Datura a scopo “didattico-pedagogico”: preparavano con essa una
pozione da far bere ai ragazzi nel corso di riti iniziatici notturni che li immettevano nella
società degli adulti. Gli indiani “zuni”, anch’essi conoscitori delle proprietà psicodislettiche
del tubero, ancora oggi consentono solo ai sacerdoti di raccoglierlo. Gli effetti della “Datura
metel” sono così violenti che l’assuntore deve essere tenuto a forza fino a quando non piombi
in un sonno popolato da sogni colorati: sono le visioni psichedeliche concesse dagli spiriti
accorsi a visitare chi è sotto l’effetto della droga per permettergli di prevedere il futuro,
emettere vaticini e diagnosticare malattie.
Latua pubiflora
Un’altra “solanacea” che germoglia nel Cile, la “Latua pubiflora”, provoca delirio e
allucinazioni così violente che spesso causano un’alienazione mentale irreversibile.
Stipa
È detta tenacissima la “Stipa” che cresce negli arenili e sulle rupi calcaree delle regioni
meridionali del continente e che fornisce le preziose fibre per la fabbricazione di cordami,
stuoie, reti da pesca, tappeti e carta. La pianta è nota anche per il principio psichedelico
contenuto nelle foglie giunchiformi e nel rizoma strisciante utilizzato dall’uomo ma
considerato velenoso per i foraggi.
Agapanthus africanum
Viene, invece, usata a scopo decorativo ed ornamentale, oltreché psichedelico l’”Agapanthus
africanum” (Blue Lily), una pianta dai caratteristici fiori azzurri disposti ad ombrello su
lunghi steli di 75 - 80 cm e dalle foglie tozze, lunghe e larghe circa 4 cm. Ne esistono diverse
qualità tra cui alcune particolarmente pregiate che si riconoscono per le foglie listate di bianco.
26
27. Nymphaea coerulea
Ugualmente caratterizzata da uno stupendo fiore azzurro è la “Nymphaea coerulea” (Blue
Lotus), una pianta ornamentale assai diffusa nell’Africa del Nord.
Aloe
C’è poi l’”Aloe vera” (dall’arabo “alloch” che significa letteralmente “brillante e amaro”),
notevolmente ricercata dall’industria farmaceutica per le proprietà officinali del succo (“elixir”
o “pilulae”) che gli indigeni ricavano attraverso profonde incisioni nel tessuto vegetale.
L’arbusto presenta lunghe foglie carnose, spinescenti ai margini e grappoli di fiori pendenti di
forma tubolare, di colore giallo, arancione e rosso.
Myristica fragrans
In Asia, un albero simile all’albicocco contiene un alcaloide (miristicina) con notevoli effetti
psicomimetici. È la “Myristica fragrans” , originaria dell’Insulindia, di cui viene usata la noce
moscata (Nutmeg). Pare che gli indonesiani la riducano in polvere che poi inalano attraverso
le narici (“sniffing”). In Europa e negli Stati Uniti ha avuto un momento di celebrità e di
particolare diffusione quando ne facevano uso gli studenti e i detenuti soprattutto in
sostituzione della marijuana. Era assunta per bocca: un cucchiaino di noce moscata poteva
provocare cinque ore di allucinazioni visive e la perdita del senso del tempo e dello spazio.
Anche la produzione di paurose vertigini e tachicardia sono tra gli effetti piacevoli di questa
droga.
Brugmansia
Nelle isole di Giava e Sumatra, germoglia invece la “Brugmansia” , una pianta appartenente
al gruppo delle solonacee con effetti del tutto simili a quelli prodotti dalla “Datura” originaria
della Colombia e del Messico.
Peganum harmala
Molto più a nord, nell’Asia centrale, i mongoli attribuiscono un altissimo valore ad un’erba
che cresce in quelle aride steppe: la “Peganum harmala” i cui semi contengono una sostanza
rossa colorante usata industrialmente. È nota come afrodisiaco e vermifugo ma sembra che
l’alcaloide in essa contenuto (armalina ) abbia effetti anche allucinogeni.
Lagichilus inebrians
Pure nelle steppe aride, ma più a sud, nel Turkestan, cresce un arbusto chiamato “Lagichilus
inebrians”. Se ne beve l’infuso delle foglie secche. La sostanza alcaloide contenuta
(lagochilina) agisce sul sistema nervoso. I russi l’hanno inserita nella loro farmacopea ufficiale.
Argyreia nervosa
In India, è particolarmente diffusa l’”Argyreia nervosa” (Hawaiian baby woodrose), una
convolvulacea a fusto volubile che raggiunge anche i 10 metri di altezza. Si notano tra le foglie
verdi dalla pagina inferiore argentata fiori campanulati di colore intensamente roseo o bianco.
Gli effetti che se ne traggono sono simili a quelli dell’LSD.
27
28. Acacia
Analoghi effetti sono riconducibili all’uso dell’”Acacia” , un vegetale originario dell’Australia
e della Polinesia di cui esistono circa duecentottanta varietà, alcune delle quali impiegate nella
produzione della gomma. Germoglia nei luoghi aridi ed è sfruttata commercialmente
nell’industria estrattiva del tannino e nel giardinaggio come pianta ornamentale. Comune
nelle zone umide, pianta officinale di notevole importanza. Il rizoma è ricco di acorina, una
sostanza psicodislettica dal sapore amaro.
Amanita muscaria
In Siberia, invece, cresce l’”Amanita muscaria”, il fungo dal caratteristico cappello color rosso
vivo costellato di verruche bianche, non molto velenoso, contenente alcaloidi (muscarina e
psilocina ) allucinogeni, nota anche in Europa con il nome di “ovolaccio” o “ovulo malefico”.
Il micologo americano R. Gordon Wasson vi ha identificato una pianta, chiamata “Soma” nella
lingua sanscrita arcaica, frequentemente richiamata nella letteratura di una popolazione
ariana (o indo-ariana) vissuta nella prima metà del II millennio a.C. in una vasta regione
asiatica che comprendeva l’Iran, l’Afganistan ed il Pakistan. In questi scritti sacri, i cosiddetti
“inni vedici” o “Veda”, giunti fino a noi, si fa riferimento ad un succo divino dagli effetti
inebrianti , caro al Dio Indra, tratto appunto dal “Soma” che i sacerdoti bevevano durante le
liturgie religiose. Forse si tratta della droga più antica del mondo. In Europa, l’uso di piante
psicoalteranti è connesso al fenomeno della stregoneria e della magia che si è massimamente
affermato nel corso del Medioevo. Nei preparati che la tradizione rimanda alle antiche ricette
di maghi e stregoni ci sono quasi tutte le essenze dagli effetti allucinatori che crescono in
Europa.
Atropa Belladonna
Tra le più conosciute c’è l’”Atropa Belladonna” , una erbacea perenne dal fusto eretto e
ramificato, alta fino a 150 cm, comune nelle zone ombrose ed elevate del centro-sud del
continente. Presenta un grosso rizoma, grandi foglie ovali di odore sgradevole, fiori ascellari,
isolati e pendenti, di colore violaceo scuro e frutti in forma di caratteristiche bacche sferiche di
colore nero dalle proprietà medicinali. Nelle foglie e nelle radici a fittone (inserite nella
Farmacopea ufficiale italiana) nonché nel rizoma e nei frutti è contenuta (dallo 0,30% allo 0,80
%) atropina, un alcaloide che, somministrato oralmente o attraverso “sniffing”, provoca
nausea e vomito. In passato, sedicenti streghe che ne conoscevano le proprietà tossiche si
accreditarono straordinari poteri somministrandola sapientemente sciolta in bevande e
pozioni o diluita in unguenti che favorissero l’assorbimento cutaneo. L’atropina determina
eccitazione motoria e psichica oltre che offuscamento della coscienza ed ingenera il desiderio
incontenibile di muoversi e di parlare mentre si sviluppano allucinazioni visive ed auditive
accompagnate da riso convulso e grande euforia. Se la dose è eccessiva sopravviene il coma e
l’asfissia. L’Atropa Belladonna contiene anche un altro alcaloide i cui effetti sono contrari a
28
29. quelli dell’atropina, la scopolamina. Determina sonnolenza, ottundimento, visioni confuse,
allucinazioni. Il sonno, che in breve sopraggiunge, è popolato da incubi.
Datura stramonium
Vegeta poi in quasi tutta Europa la “Datura stramonium” , cosiddetta “erba delle streghe o del
diavolo”. Gli alcaloidi (daturina e atropina ) contenuti nelle foglie e nei semi inducono una
forma di estasi psichica, amnesia ed allucinazioni. Gli intossicati sono colti da deliri di tipo
schizofrenico; la loro capacità recettiva è paralizzata nonostante l’apparente lucidità.
Terminata la fase estatica, resta lo stato confusionale e un vuoto riempito da confabulazioni.
Arctostaphylos uvaursi
Sempre nei boschi e nei pascoli montani del continente europeo crescono spontanee
l’”Arctostaphylos uvaursi” , una pianta officinale contenente arbutina, e l’”Hypericum
perforatum” , una “Guttifera” dalle sommità fiorite di colore giallo, che forniscono materia
prima per la preparazione di decotti ed infusi euforizzanti e blandamente allucinogeni.
Hyoscyamus niger
Lo “Hyoscyamus niger” (Henbane) è, invece, una pianta biennale dai delicati fiori bianchi
piuttosto comune in Europa di enorme rilevanza farmaceutica per i numerosi alcaloidi
contenuti (iosciamina, atropina, ioscina, scopolamina) nelle foglie, nei frutti e nei semi.
Possiede qualità terapeutiche simili a quelle della Belladonna dalla quale si differenzia per la
capacità di indurre un maggior effetto ipnotico e un minore eccitamento motorio.
Arundo donax
Anche l’”Arundo donax” (o canna di Provenza) possiede capacità blandamente allucinogene
ed è, inoltre, sfruttato nell’industria della cellulosa e nell’artigianato. Particolarmente diffuso
nelle regioni mediterranee, si caratterizza per il grosso rizoma contenente triptamina e per il
fusto eretto da cui dipanano grandi foglie serrulate e fiori in pannocchia violaceo-argentea.
Phalaris
Il medesimo alcaloide è tratto dal rizoma di alcune varietà di “Phalaris” (arundinacea), una
“Graminacea” dalle spighette uniflore abbastanza comune in alcune zone dell’Europa,
dell’Asia e dell’America settentrionale.
Symphytum officinale
Spontaneo nella flora europea è il “Symphytum officinale” (Comfrey); cresce nei luoghi umidi
e ombrosi e presenta su di un fusto eretto, foglie ruvide, pelose ed acuminate, fiori bianchi o
violaceo-porporini ed acheni lisci e lucidi.
Mandragola
Non meno importante è la “Mandragola”
(o “Mandragora”) (“Atropa mandragora”,
“Mandragora autunnalis”, “Mandragora vernalis”), pianta dai fiori bianchi e dalle grosse
radici bipartite, nere nella varietà “autumnalis”, giallastre in quella “vernalis”, contenenti
atropina . Proprio a causa della forma biforcuta delle radici che sembravano riprodurre
29
30. sembianze umane, Pitagora le conferì l’attributo di “antropomorfa”. La sostanza vegetale,
assai nota ed usata nella medicina tradizionale, fu anche largamente impiegata nelle arti e
nelle pratiche magiche. Su di essa gli antichi favoleggiarono con particolare compiacenza tanto
che fu all’origine di numerose leggende. Si affermò addirittura che la pianta germogliasse ai
piedi dei patiboli, nel luogo dove erano cadute le ultime stille dei liquidi biologici del
condannato. Studiosi ed esegeti ritennero che già nei testi biblici e nell’Odissea fossero
attribuite alla mandragola presunte virtù taumaturgiche tra cui la capacità di rendere la
fertilità alle donne sterili, mentre l’individuazione delle proprietà narcotiche ed ipnotiche si fa
risalire a Discoride e Galeno. Anche Bacone e Shakespeare, nelle rispettive opere letterarie,
celebrarono l’efficacia narcotica e psicotropa della pianta. Machiavelli, tributando credito alla
leggenda, incentrò l’omonima opera teatrale sulle proprietà afrodisiache della mandragola. La
pianta ha ispirato perfino i disegnatori di fumetti: tutti ricordano il famoso eroe di una celebre
striscia di nome “Mandrake”.
Passiflora incarnata
Cresce, infine, in Europa e in Italia nonché in molte zone tropicali e subtropicali la “Passiflora
incarnata” (Passionflower), un grazioso rampicante con fusto legnoso alto 6 - 9 metri. La
pianta si caratterizza, oltre che per il frutto a forma di bacca ovoidale verde-giallo, per viticci
arrotolati e per i particolari fiori di colore bianco - violaceo con cinque petali e cinque sepali
nei cui stami, filamenti e stigmi rosso porpora la tradizione popolare vede raffigurarsi i
simboli della Passione di Cristo. Con un miscuglio del materiale vegetale tratto da questa
pianta si può confezionare una sostanza psicotropa che agisce sul Sistema Nervoso Centrale
inducendo una notevole sedazione e allucinazioni. Non è ancora chiaro quale sia il principio
attivo responsabile degli effetti psicoalteranti.
Lolophora williamsii
Il paradiso degli allucinogeni sembra essere il Messico. Moltissimi vegetali che germogliano in
questo Paese contengono alcaloidi psicoalteranti. Il più famoso è senz’altro il “peyotl”
(“Lolophora williamsii” ), un piccolo cactus dal fusto seminterrato simile alla radice
tuberizzata di una bietola, lungo fino a 20 cm, carnoso, privo di spine, di colore bluastro o
verde-grigio, solcato e leggermente incavato all’apice dove compare un ciuffo di peli e di fiori
di colore rosa. Proprio nelle infiorescenze apicali (buttons) è contenuto il principale alcaloide
(mescalina ). L’uso di questo fungo da parte delle popolazioni autoctone, soprattutto come
allucinogeno rituale, si perde nella notte dei tempi. Pare che gli sciamani aztechi ne facessero
uso da antichissimo tempo in riti religiosi e cerimonie iniziatiche. La stessa raccolta del peyotl
era un rito: durava 43 giorni e solo gli uomini potevano coglierlo, purché per tutto il tempo
della raccolta non si fossero lavati e fossero rimasti digiuni. Gonzalo Hernandez de Oviedo y
Valdés, cronista spagnolo inviato nel 1571da Filippo II nella nuova colonia americana, lo
definisce la “radice diabolica”. Dal Messico settentrionale si è poi diffuso negli USA e in
30
31. Canada dove viene chiamato in venticinque modi diversi. La mescalina, contenuta anche nel
“Trichocereus pachanoi” e nel “Trichocereus peruvians” altre varietà di cactus presenti nelle
aree subtropicali e temperate della regione andina, è una sostanza allucinogena che ricalca il
profilo delle feniletilamine. Isolata da Speth nel 1918, deve il nome ai pellirossa mescaleros che
per primi la individuarono nel peyotl e contribuirono a diffonderne l’uso. Gli indigeni, una
volta convertiti al Cristianesimo, continuarono a consumare il peyotl nelle loro cerimonie, non
più magico-pagane ma magico-cristiane. Nel 1918 fondarono la Native American Church
(Chiesa indigena americana) che fu poi trasformata nella Christian Peyotl Church (Chiesa
cristiana del peyotl). Gli adepti di questa religione (circa 250.000 oggigiorno) durante il rito
sacramentale della Comunione mangiavano i bottoni di peyotl, al posto dell’Ostia consacrata.
Essi non solo hanno resistito all’ostilità dei missionari cristiani, ma hanno ottenuto
dall’episcopato una deroga al divieto d’uso del cactus allucinogeno. Inoltre, la mescalina,
attraverso esperienze di psicosi indotte, ha ispirato l’opera letteraria (“Le porte della
percezione”) dello scrittore Aldous Huxley che riteneva la sostanza il mezzo più efficace per
fare luce su quelle zone della coscienza umana che la razionalità della cultura occidentale
aveva messo in ombra. Ne fu anche tentata la sperimentazione nella cura della schizofrenia e
di altri disturbi mentali. Il peyotl si assume attraverso il fumo o ingerendo, dopo averli
ammorbiditi con la saliva, i buttons essiccati. Produce rapidamente una successione mutevole
di visioni colorate: disegni geometrici, luci variopinte, figure animate. Alle visioni, a volte, si
accompagnano sensazioni auditive e gustative. I lampi di colore sono accompagnati da
alterazione della percezione di spazio e tempo, da un senso di gigantismo o di
depersonalizzazione. Il “viaggio” dura dalle 5 alle 12 ore. Tra gli effetti collaterali sono stati
osservati ansia, eccitazione, tremori, aumento della frequenza cardiaca. La quantità di
mescalina capace di produrre tali prestazioni è valutata intorno ai 350 - 500 mg per dose. Né il
peyotl né la mescalina causano assuefazione, dipendenza fisica o sindrome di astinenza ma
generano una fortissima tolleranza: la stessa quantità di sostanza assunta, a distanza di pochi
giorni, può non avere più il medesimo effetto. Sul mercato clandestino, dove circola anche una
versione sintetica della mescalina prodotta in laboratorio (metil-mescalina), il peyotl è
reperibile nella forma dei caratteristici buttons, mentre la mescalina è contenuta in parti di
pianta essiccata e polverizzata oppure in polveri, compresse o capsule.
Un’altra pianta
messicana che incontrò i favori dei pellirossa americani è la “Sophora secundiflora”, un
arbusto ramificato, molto decorativo, che produce bacche rosse chiamate “fagioli rossi” o
“fagioli al mescal”. Alcune di queste bacche sono state ritrovate in scavi archeologici datati
1000 a.C. L’alcaloide contenuto (citisina) provoca visioni allucinanti. L’abuso può condurre ad
uno stato convulsionale ed anche alla morte. È probabile che il rito del peyotl fosse stato
preceduto, presso gli indiani apaches e comanci, dal rito della “danza del fagiolo rosso”
abbandonato poi, quando fu scoperto il meno pericoloso e più efficace peyotl.
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