1. MODA E FUORIMODA
Sistema moda e subculture giovanili
Testi di Massimo Antonucci
2. La sce na inglese negli anni 60
Passando alla scena europea, possiamo cominciare
dicendo che solo all'inizio degli anni'60 l'Inghilterra riuscirà a
strappare all'America il primato del cambiamento culturale.
Durante gli anni'50, infatti, sarà impegnata nell'opera di
ricostruzione, dopo i disastri della seconda guerra mondiale.
Come osserva Gino Castaldo nel suo saggio La terra promessa :
Dal conflitto mondiale America e Inghilterra uscirono in modo
diametralmente opposto. L'America ne uscì non solo trionfante,
ma anche come la nazione che aveva pagato il minor prezzo. Il
suo territorio era intatto, l'economia prospera, pronta a
evolversi verso la supremazia mondiale, creando un benessere
interno mai verificatosi prima. Al contrario l'Inghilterra, sebbene
fosse una delle potenze vittoriose, emerse dalla guerra con ferite
profonde, con le risorse allo stremo, con le città in rovina e
l'ovvia esigenza di puntare alla ricostruzione. L'Inghilterra ci ha
messo più tempo a recuperare la sua antica funzione di
egemonia imperialista che, come vedremo, si svolgerà
soprattutto in campo culturale. Anzi, il declino dell'Impero
britannico procede parallelamente alla nascita dell'impero
culturale.
Nel saggio La Londra dei Beatles di Paola Colaiacomo e
Vittoria Caratozzolo leggiamo:
Il 15 aprile 1966 la rivista americana Time usciva con una
copertina intitolata a <<London: the Swinging City>>. Londra,
spiegava il servizio nell'interno, era in quel momento tra le città
europee la più impetuosamente sospinta dal pendolo della storia
verso il futuro. <<To swing>> vale altalenare, muoversi secondo
un moto pendolare, che contempla un'andata e un ritorno: e ciò
verso cui spingeva il pendolo di Londra era un nuovo stile di
3. vita, di cui prima di tutto la città in se stessa sembrava offrire la
realizzazione e la promessa.
Da qualche tempo Londra aveva iniziato ad esportare i
suoi prodotti culturali in America, facendo parlare di "british
invasion":
Nel 1964 si era verificata una specie di nuova conquista
dell'America... Era stato quello, infatti, l'anno del primo trionfale
viaggio dei Beatles, di Mary Quant, dei Rolling Stones, al di là
dell'Oceano. Sfilate, concerti, apparizioni televisive, avevano
totalizzato milioni di telespettatori, battuto ogni record di
popolarità. La terra del cinema doveva essere ben sazia di
immagini di celluloide...se ora così entusiasticamente apriva i
propri sconfinati mercati ai suoni e ai colori dell'antica
madrepatria.
Ritornando alla parola swinging le autrici del saggio
sopra citato approfondiscono l'analisi delle diverse
connotazioni legate a questo termine:
Ma ora torniamo indietro, all'espressione <<swinging>>, già
usata nel Seicento dal drammaturgo Thomas Otway, e proprio
nel senso che ora viene ripreso dal servizio di Time a indicare
cioè coloro che, non riconoscendo le barriere della morale
convenzionale, si gettano di slancio, swinging, al di là di quelle
stesse barriere, in rivolta contro una maggioranza silenziosa che
rinnega la gioia di vivere. Swing era anche stata chiamata quella
musica da ballo americana, di derivazione jazzistica, dunque con
l'Africa dentro, al cui ritmo frenetico, esplosivo, disperato, gli
alleati avevano ballato, magari in un rifugio antiareo la sera
precedente una qualche operazione bellica decisiva....Sicché ora,
la vistosa copertina di Time, e poi nell'interno il testo, con tutte
le fotografie e le immagini che sembrano voler costruire nei
dettagli i luoghi deputati del nuovo mito, le stazioni del nuovo
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4. pellegrinaggio ideale, troviamo un terreno già preparato,
quando puntano proprio su quella parola , <<swinging>>, per
far precipitare in essa tutto il complesso di sensazioni, tutta
l'atmosfera, tutta la Stimmung che vogliono al tempo stesso
evidenziare e far emergere, quasi creandola ex novo.
La trovata veramente geniale del servizio, infatti, fu tutta in
quella parola, che subito si impose, aderendo al suo tema come
un'etichetta.
Swinging, il movimento pendolare con una andata e un
ritorno, può essere una utile metafora per inquadrare, facendo
un passo indietro, il fenomeno dell'importazione massiccia in
Inghilterra dei prodotti culturali provenienti dagli Stati Uniti,
durante gli anni'50. La "british invasion" degli anni'60, in altri
termini, è stata preceduta da un fenomeno altrettanto forte,
ma di segno contrario, durante il decennio precedente,
quando gli Stati Uniti erano al centro della scena culturale. Tra
i tanti prodotti d'importazione, però, solo pochi trovano il
terreno adatto per affermarsi. In Sottocultura di Dick Hebdige
leggiamo:
... solo la sottocultura beat, prodotto di un allineamento in un
certo modo romantico con i negri, sarebbe sopravvissuta nel
passaggio dall'America all'Inghilterra negli anni Cinquanta.
Senza una significativa presenza nera nelle comunità della
working class inglese, l'equivalente scelta hipster non fu
semplicemente possibile. L'influsso degli immigrati indo-
occidentali era solo appena cominciato e, quando alla fine la loro
influenza sulle sottoculture della working class inglese fu sentita
all'inizio degli anni'60, in genere si articolò in forme e tramite
forme specificatamente caraibiche (ska, bluebeat, ecc.). Nel
frattempo era avvenuta un'altra convergenza, più spettacolare,
al di fuori dell'ambito del jazz, nel rock...La musica era stata tolta
dal proprio contesto originale in cui le implicazioni
5. dell'equazione potenzialmente esplosiva "negro" uguale
"giovane" era stata pienamente riconosciuta dalla cultura della
generazione immediatamente precedente e trapiantata in
Inghilterra dove servì da nucleo per lo stile teddy boy. Si poteva
sentire nei nuovi coffee bar inglesi dove, benché filtrato da
un'atmosfera distintamente inglese di latte bollito e altri intrugli,
rimase chiaramente estraneo e futuristico, barocco come il juke
box che lo esprimeva. E, allo stesso modo degli altri prodotti
sacri - il ciuffo, il cappotto corto, il Brylcreem e il "cinema" -
venne a significare l'America, un continente fantastico fatto di
cow boy e di gangster, di lusso, di eleganza e di "automobili".
Nella sottocultura teddy boy, però, intervenne una sorta
di rimozione delle origini della musica rock, nata come
contaminazione di forme musicali bianche e nere (basti citare
come esempio le vibrazioni nel cantato), diventando ai loro
occhi solo una dalle tante novità americane d'importazione
insieme al jazz, all'hula hoop, al motore a combustione interna
e ai pop corn. Questa rimozione dell'anima nera del rock fece
sì che i teddy boy non percepirono alcuna contraddizione tra
l'ascolto di questa musica e la matrice xenofoba della loro
cultura. A questo proposito Hebdige afferma:
Con l'eruzione sulla scena inglese alla fine degli Anni Cinquanta,
il rock sembrò frutto di una germinazione spontanea, ovvia
espressione immediata delle energie giovanili. E quando i teddy
boy, ben lontani dall'accogliere a braccia aperte gli immigrati di
colore da poco arrivati, cominciarono attivamente a prendere le
armi contro di loro, erano impermeabili a qualsiasi senso di
contraddizione.
Questa vena xenofoba dei teddy boys fu un elemento
determinante nel differenziarli dalla sottocultura beatnik che
ostentava un'aria cosmopolita e tollerante.
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6. Gli stili erano incompatibili, e, quando venne fuori il "trad" jazz
come punto focale di una sottocultura inglese più importante
alla fine degli Anni Cinquanta, queste differenze furono
evidenziate in maniera ancora più dura.
Il trad jazz contava su un ambiente di rozzi bevitori di birra, che
era in contrasto con le qualità del primo rock'n roll, angolose,
nervose, spigolose da un lato, e l'estetica spudoratamente
artificiale dei teddy boy dall'altro - una combinazione aggressiva
di esotismo vestimentario (scarpe di pelle scamosciata, baveri di
velluto e di pelliccia, cravatte di cordino) - viveva in un duro
contrasto con il miscuglio "naturale" dei beatnik fatto di
montgomery, di sandali e di CND (Campaign for the Nuclear
Disarm).
I primi anni'60 vedono nascere, insieme alla formazione
di comunità di immigrati che si stabiliscono nelle zone
working class dell'Inghilterra, la nuova sottocultura dei mods.
Come lo hipster americano... il mod era un "tipico dandy della
classe inferiore", maniaco dei piccoli dettagli degli abiti,
caratterizzato come i meticolosi avvocati newyorkesi di Tom
7. Wolfe, dalla forma del colletto della camicia, di una precisione
esatta come gli spacchi delle sue giacche fatte su misura; dalla
forma delle sue scarpe fatte a mano
A differenza dei teddy boy, importuni in maniera provocatoria, i
mod erano più sottili e più sottomessi in apparenza: indossavano
vestiti apparentemente conservatori in colori rispettabili, erano
meticolosamente lindi e in ordine. I capelli erano generalmente
corti e puliti e i mod preferivano conservare il profilo elegante
di un impeccabile "taglio alla francese" con una lacca invisibile
piuttosto che con la banale brillantina preferita dai rocker più
apertamente maschili. I mod inventarono uno stile che
permetteva loro di conciliare scuola, lavoro e tempo libero e che
nascondeva tanto quanto dichiarava. Interrompendo
tranquillamente la normale sequenza che porta dal significante
al significato, i mod minavano il significato di "colletto, vestito e
cravatta" spingendo l'accuratezza del vestire fino all'assurdo.
I mods vivono una doppia vita: da una parte il lavoro o
la scuola, dall'altra un mondo underground, letteralmente al
di sotto del mondo normale, fatto di cantine, discoteche,
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8. boutique e negozi di dischi. Una parte di questa "identità
segreta" è costituita dalle affinità con la cultura nera:
Il mod della Soho hard core del 1964, impenetrabile dietro i suoi
occhiali scuri e il cappello a tesa piccola si degnava solo di
muovere i passi (i piedi rivestiti di scarpe di tela da giocatore di
pallacanestro o di Raoul originali) ai soul di importazione più
esoterici: (I'm the) Enterteiner di Tony Clarke, Papa's got a
Brand New Bag di James Brown, (I'm in with) The Crowd di
Dobie Gray, oppure ska giamaicano, Madness di Prince Buster.
Bloccati in maniera più fissa rispetto ai teddy boy e ai rocker in
una grande varietà di impieghi che imponevano loro obblighi
molto rigidi tanto su come dovevano presentarsi, vestirsi e sul
loro "comportamento generale", quanto sul loro tempo, i mod
davano un'importanza altrettanto grande al fine
settimana...Durante questi periodi di tempo libero
(faticosamente prolungati, in alcuni casi, grazie alle anfetamine)
c'era da fare un vero "lavoro": lucidare i motoscooter, comprare
i dischi, far stirare, restringere o andare a riprendere i pantaloni
alle lavanderie, lavare e asciugare i capelli...
In questo nuovo stile di vita, che guarda alla cultura nera
come potenziale elemento sovversivo dell'ordine dei valori
costituito, si stabiliscono priorità diverse dalla norma: il lavoro
è insignificante; vanità e arroganza sono qualità ammesse e
desiderabili.
Nel famoso articolo pubblicato su Time il 15 aprile
del1966 "London: a swinging city", così Piri Halasz fotografa la
scena londinese: “Questa primavera, a Londra, l'antica
eleganza si intreccia alla nuova opulenza, in un'abbagliante
miscela di op e di pop.”
"Op" sta per optical, lo stile geometrico "ottico" che
predilige il bianco e nero, o le marcature nette tra colore e
9. colore, e che arriva ad imporsi, in quegli anni, nei vari ambiti
del design, dall'abbigliamento all'architettura.
"Pop", invece, sta per "popular", "popolare", una parola
con la quale si vuole indicare la cultura popolare nel suo
complesso e, quindi, i fumetti, la moda, la musica, l'arte. "Pop",
così, non è tanto una particolare forma espressiva quanto uno
stile di vita, un'idea del mondo: <<Noi vogliamo vestiti pop art,
musica pop art e atteggiamenti pop art. Noi siamo pop art>>,
aveva appena finito di dichiarare Pete Townshend, del gruppo
degli Who.
Di "pop" in Inghilterra s'inizia a parlare, però, ben prima
del 1966. Nel collage Sono stata il giocattolo di un uomo ricco
del 1947 di Eduardo Paolozzi, artista di origine italiana
operante a Londra, la parola "POP" viene sputata fuori da una
pistola puntata contro una pin-up sorridente. Nello stesso
collage, in un angolo, compare la mitica bottiglia di Coca Cola
con accanto lo slogan: "Servite la Coca Cola nell'intimità della
casa!"; nell'angolo opposto, troviamo la figura di un aereo da
guerra, con tanto di motto bellico "Fateli continuare a volare!".
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10. Si può intuire, osservando il collage, la fascinazione di
Paolozzi per le immagini dell'abbondanza, provenienti dagli
Stati Uniti; ben comprensibile, d'altra parte, nel momento in
cui l'Inghilterra soffre pesantemente delle conseguenze del
conflitto mondiale. Che quella di Paolozzi, però, non sia solo
una fascinazione effimera risulta presto evidente: l'artista
formerà, insieme a pittori, architetti, musicisti e critici d'arte
un formidabile laboratorio di sperimentazione, denominato
"Indipendent Group", in cui verranno esplorate le potenzialità
dei nuovi media e delle nuove tecnologie dell'immagine made
in U.S.A. .
Il lavoro dell' Indipendent Group trova piena espressione
nella mostra del 1956, intitolata This is tomorrow, all'interno
della quale si propone una diversa sensibilità spaziale, modi
dell'abitare e del vivere più liberi e più creativi.
11. Tra il 1947 e il 1956 le connotazioni legate alla parola
"pop" cambiano radicalmente: nel collage di Paolozzi il
termine "pop" evoca, associato allo sparo di una pistola, una
qualche minaccia incombente; nella mostra dell'Indipendent
Group, invece, sembra che la cultura di massa, la
moltiplicazione industriale degli oggetti, costituisca, anziché
un pericolo, una straordinaria opportunità. A questo
proposito, riprendiamo un passo del saggio, già citato, La
londra dei Beatles :
Già nel '56 molte cose erano cambiate. La dura, ancorché
ubertosa, America post-bellica ora transitava attraverso l'
Europa, attraverso l'isola di Gran Bretagna, con ben altri
prodotti, e altri umori: con Herthbreak Hotel di Elvis Presley,
per esempio, che arrivò proprio quell'anno, e catturò, fra i tanti,
il cuore sedicenne di John Lennon... E intorno al '56 anche
l'Inghilterra aveva spostato la sua immagine dell'America. Aveva,
potremmo dire, assorbito l'America, avendone fatto un proprio
tema di lavoro. C'era quel gruppetto di intellettuali
indipendenti, un pò sordi alla propaganda contro la
massificazione, contro l'antiumanesimo che sarebbe implicito
nell'idea di cultura di massa...C'erano le prime boutique di Mary
Quant a Chelsea, di Vince a Carnaby Street. C'era già insomma
chi si era immaginato che dalla moltiplicazione degli oggetti
capaci di dar piacere giorno per giorno, ora per ora, potesse
derivare non sottomissione e morte, nemmeno per gioco
pubblicitario, ma libertà. L'utopia degli anni '60, l'utopia della
liberazione pacifica attraverso i consumi, cominciava a prendere
forma.
Intorno alla metà degli anni'50, quindi, emerge in
Inghilterra una cultura "pop" che crede nel potenziale
liberatorio della cultura e della produzione di massa; una
cultura che vede, nell'affermarsi della società di massa,
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12. un'opportunità per la realizzazione di una vita quotidiana più
libera e di una società meno classista:
Si sognava una vita meno opprimente, una domesticità meno
spoglia di comfort: spazi meglio attrezzati, più agio nei
movimenti, nessuno che ti dica dove bere la Coca Cola, orari
fluidi, gioco e lavoro fusi insieme. Un modo di vestire che
comunicasse immediatamente una critica all'idea tradizionale di
moda come privilegio di classe. La classe d'appartenenza, anzi,
non interessa più nessuno, dato che il tipo di società che si vuole
costruire è rigorosamente aclassista. <<Classless>> è una parola
che si incontra a ogni piè sospinto, e nei settori più disparati...
Certo, c'era un pizzico d'utopia nell'immaginare che lo sparo di
una pistola potesse trasformarsi in maniera così indolore nello
spontaneo scoppio di allegria di chi crede di star fabbricando il
proprio futuro. <<Il domani è gia qui>>, dicono gli Indipendenti,
ma la loro è tutta una storia anni '50, e comunque solo una
faccia della medaglia. Perché linee, suoni, colori, forme di
eleganza, continueranno ad avere un loro valore di status
symbol, è evidente. Tuttavia gli abiti di Mary Quant, i dischi dei
Beatles, il taglio dei capelli alla Vidal Sassoon, il progetto di Casa
del Futuro elaborato dai due fratelli Smithson, architetti, il
programma di Londra come <<città vivente>>...: tutto questo
fervore di scoperta e di cambiamento, pur disseminato in tanti
frammenti materiali - in parte realizzazioni compiute in parte
progetti - se è segnale d'appartenenza, simbolo di stato, non lo è
per la ricchezza materiale che vi è investita, ma per la
potenzialità d'immagine che rimanda. Ciascuno di quei differenti
<<oggetti>> non vale in sé, ma per lo stile di vita cui allude, per
le situazioni che ingloba, e di cui è pegno. Per il sapere della vita
che presuppone, per le informazioni che comunica.
13. Ritorniamo per un attimo all'intervista a Pete
Townshned degli Who del 1965 rilasciata al Melody Maker .
L'arte pop consiste nel ri-presentare qualcosa con cui il pubblico
abbia già familiarità...Noi siamo per i vestiti pop-art, per la
musica pop-art e il comportamento pop-art. Questo è quello che
tutti sembrano dimenticare: noi non ci cambiamo, fuori dal
palcoscenico. Noi viviamo pop-art.
A giudizio di Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo le
parole di Pete Townshend costituiscono una testimonianza del
tipico fraintendimento di quegli anni:
E' tutto in questa sorta di adamantina semplicità, di assolutezza,
il fraintendimento, e proficuo fraintendimento, di quegli anni:
nell'utopia di poter schiacciare l'uno sull'altro i due piani
dell'illusione e della realtà, fino a farli coincidere perfettamente,
senza sfrangiature né sbavature. Musica, vestiti, comportamento:
campi disparati, categorie non omogenee, vengono dunque dati
per comunicanti, e capaci di influenzarsi l'uno con l'altro. Ma
non è un semplice amore della confusione... ad autorizzare e
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14. incrementare questa interna traducibilità..: se tutto - musica,
vestiti, pose, comportamenti - è ripresentazione del già visto e
conosciuto, tutto è già per definizione grafismo, immagine. E' al
livello dell'immagine, dunque, che quelle categorie
disomogenee...si rapportano tra loro, e trovano il punto di
comunicazione che non potrebbero avere in <<natura>>. Sempre
e comunque su un'immagine verte ogni discorso, ogni analisi: il
primo livello, ingenuo, è sempre già saltato. Allora, perché
affannarsi a voler separare a tutti i costi il <<reale>> dalla
<<posa>>?
Una cultura che celebra la riproducibilità tecnica degli
oggetti e delle immagini vive costantemente in una sorta di
deja vu. Dal punto di vista degli artisti questo effetto è
ricercato coscientemente - è il <<... ri-presentare qualcosa con
cui il pubblico abbia già familiarità>> di cui parla Townshned -
e porta, ad esempio, all'uso così frequente in quegli anni del
collage, tecnica che consiste fondamentalmente nel montaggio
di immagini preesistenti.
A proposito della circolazione e della ri-presentazione
delle immagini nella cultura pop, è significativa la
testimonianza di Richard Smith:
<<I mezzi di comunicazione rappresentano una parte
considerevole del mio paesaggio>> scriverà Richard Smith nella
Nota aggiuntiva al suo film Trailer . Dove quello che stupisce è
l'uso di quella parola, <<landscape>>, da parte di un artista
come lui, non interessato al dato naturale in quanto tale: così
dice <<la frutta della bancarella del mercato è per me sempre
già la frutta fotografata di un'immagine pubblicitaria>>.
Si attua, così, una sorta di rovesciamento, dove è
l'immagine riproducibile e riprodotta ad essere il dato su cui
poggia la percezione del reale:
15. Quando si guardano le cose nell'esperienza reale, sostiene Smith,
si intromette inevitabilmente per l'occhio un elemento di
disturbo - luce, solidità, riflessi - già solo per il fatto che quelle
cose sono immerse nell'atmosfera, e reagiscono ad essa. Invece
nella fotografia si ha a che fare con un'immagine depurata, dalla
texture uniforme, perché sottratta ai cambiamenti di luce.
Perciò, continua, anche i riferimenti a paesaggi che compaiono
nei primi suoi dipinti, vanno intesi come passati attraverso il
filtro di paesaggi fotografati.
Il repertorio delle immagini cui l'artista fa riferimento
per le sue creazioni non è, quindi, certamente quello della
realtà così come è immediatamente percepibile, ma sempre
quello delle immagini filtrate e riprodotte dalle nuove
tecnologie.
La possibilità che queste tecniche gli aprono di usare colori off
register - <<il verde pallido insieme al giallo pallido, che produce
un effetto di fresco, di "frescomenta">> - o di proiettare lettere e
immagini anamorficamente... <<produce l'effetto di riportare in
primo piano...il valore della superficie>>.
La sperimentazione di Smith conoscerà importanti
sviluppi in ambiti come la moda e la pubblicità: si pensi ai
colori acidi dei vestiti di Mary Quant, o dei cartelloni
pubblicitari.
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16. Generalmente Mary Quant viene ricordata per
l'invenzione della minigonna, anche se alcuni ridimensionano
il suo ruolo in questa piccola rivoluzione del costume,
affermando che l' unico merito che le va attribuito consiste
nell'aver lanciato una moda che, però, di fatto era già in uso
nelle strade di Londra. Nel saggioMass moda di Patrizia
Calefato, ad esempio, si legge:
Quando Mary Quant, dal suo atelier londinese di
King's Road, ebbe nei primi anni'60 la geniale idea di
lanciare su larga scala l'uso di una gonna corta diversi
centimetri sopra il ginocchio, già da un pò di tempo le
ragazze della Swinging London l'avevano
spontaneamente inventata e la esibivano nella loro
"moda di strada" quotidiana.
17. Inizia, infatti, in questi anni una nuova fase del sistema-
moda: finisce il dirigismo centralistico dell'Alta Moda e si
procede verso una moda aperta e policentrica, dove gli input
del cambiamento possono essere di varia provenienza. Si
arriva spesso ad un vero e proprio capovolgimento, come nel
caso appena citato della minigonna, quando coloro che
dovrebbero essere il terminale delle proposte di moda si fanno
protagoniste del cambiamento, lanciando nuove proposte di
stile.
La stessa Mary Quant, d'altra parte, mostra di essere
consapevole dell'importanza del momento culturale negli
sviluppi del proprio lavoro, quando nella sua autobiografia
Quant by Quant scrive:
Ci trovavamo all'inizio di un formidabile rinascimento della
moda. E questo non accadeva per causa nostra. Semplicemente,
come poi risultò, noi ne eravamo parte.
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18. La giovane stilista, in effetti, si trova a vivere da
protagonista un momento di grande importanza nella storia
del costume: il passaggio dall'Haute Couture al pret-à-porter,
dal concetto di fashion a quello di look.
Il pret-a-porter nasce intorno agli anni'50, ma arriva a
piena maturazione solo negli anni '60. Lipovetsky in L'impero
dell'effimero così ricostruisce l'avvento del pret-à-porter:
Nel 1949 J.C. Weill lancia in Francia l'espressione calco della
forma americana ready to wear, al fine di liberare la confezione
di serie dalla immagine pubblica negativa che aveva fino a quel
momento. A differenza della confezione di serie tradizionale, il
pret-à-porter si è impegnato nella direzione di produrre
industrialmente capi di vestiario accessibili a tutti ma tuttavia
di <<moda>>, ispirati alle ultime tendenze. Mentre un tempo gli
abiti confezionati erano mal tagliati, mal rifiniti, di poca fantasia
e scarsa qualità, il pret-à-porter vuole unificare industria e
moda, vuol diffondere per le strade novità, stile e gusto del
bello. (...) Il 1957 è l'anno del primo Salone del pret-à-porter
femminile (...) Ma fino alla fine degli anni Cinquanta il pret-à-
porter non crea una sua estetica e ripropone la logica
precedente, l'imitazione giudiziosa delle nuove forme della
Haute Couture. E' a partire dai primi anni '60 che approda alla
sua vera ragion d'essere, elaborando abiti improntati più a
criteri d'audacia, giovinezza e novità che non alla perfezione
<<classica>>. Si afferma una nuova ondata di creatori che non
appartengono alla Haute Couture. Nel 1959 Daniel Hechter
lancia lo stile Babette e il cappotto di tipo talare; nel 1960
Cacharel reinventa lo chemisier da donna...A Londra nel 1963
Mary Quant crea il Ginger Group, origine della minigonna...
Il pret-a-porter rappresenta una rottura radicale, perché
la confezione di serie con alto contenuto stilistico riduce
nettamente il senso di esclusività, così legato all'Alta Moda.
19. Come racconta Mary Quant nella sua autobiografia
datata 1965:
Un tempo l'abito era un segno inequivocabile della posizione
sociale e della fascia di reddito di una donna. Oggi non è più
così. Lo snobismo è passato di moda, e nei nostri negozi le
duchesse lottano gomito a gomito con le dattilografe per
comprarsi gli stessi abiti.
E' l'inizio di una moda "classless", o se si preferisce di un
processo di “democratizzazione” della moda.
Negli anni '60, quindi, i cambiamenti sia a livello degli
apparati di produzione sia del senso estetico determinano un
processo di trasformazione all'interno del sistema, che vede
l'affermarsi del concetto di look. A questo proposito leggiamo
alcuni considerazioni tratte dal saggio La Londra dei Beatles
di Colaiacomo-Caratozzolo:
Ci si libera dell'illusione del modello <<esclusivo>>, o magari
della sua libera interpretazione e riproduzione, e si giura fedeltà
a un design, o meglio a un look. E' <<look>> quella astrazione
figurativa che si interpone, come un filtro o una mediazione, tra
l'abito preso nella sua singolarità e concretezza individuale, e lo
stile cui l'abito stesso fa riferimento, il suo contenuto tematico:
che può essere indifferentemente rétro o folk, oppure astratto,
geometrico, <<ottico>>. Tant'è vero che per alcuni anni tutte
queste immagini convissero, e si mescolarono e ibridarono
felicemente fra di loro. Ci si riconosceva come hip, o <<with it>>
- così si diceva - a prima vista, perché l'abito lo segnalava:
segnalava, a quanti avevano occhi per vederlo, che chi indossava
quell'abito si era calato nel look. Ossia si era accettato in quanto
<<looked at>>: guardato - in primo luogo da se stesso -
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20. all'interno di un determinato sistema figurativo. Ma poteva
bastare un particolare veramente minimo - una sciarpa, una
spilla - a dare l'indicazione: a fare folk, o hippie, o op, o pop.
Non c'era bisogno del completino.
Le autrici contrappongono il concetto di look a quello di
fashion, dove per fashion s'intende quella forma di rigido
dirigismo dell'apparato produttivo che impone l'integrale
osservanza delle mode dell'anno e di quelle stagionali. Il look
come immagine della persona e forma di teatralizzazione
dell'identità arriverà, però, a piena maturazione solo negli
anni'80. Lipovetsky a questo proposito osserva:
E' la fine dell'era del consenso nel modo di mostrarsi... La
dispersione multiforme del nuovo sistema della moda vive in
sintonia con l'open society che istituisce un pò dappertutto il
regno delle formule personalizzate, dei regolamenti flessibili,
dell'iperscelta e del self service generalizzato. L'imperativo
<<dirigista>> delle tendenze stagionali è stato sostituito dalla
sovrapposizione degli stili, il meccanismo ingiuntivo e uniforme
della moda dei cent'anni ha ceduto il passo a una logica ludica
dell'opzione, non solo fra diversi modelli d'abito ma fra le più
incompatibili concezioni del modo di mostrarsi. Questa è la
moda aperta, seconda fase della moda moderna, caratterizzata
da codici eteromorfi e da un antidirigismo che ha per massimo
ideale ciò che oggi viene chiamato look . Contro tutte le mode
<<allineate>>, contro il codice sterilizzato della gente-bene,
contro la noncuranza, il gusto <<in voga>> negli anni Ottanta
invita alla sofisticazione dell'aspetto, a inventare e cambiare
liberamente l'immagine del soggetto, a infondervi artifici, gioco,
singolarità.
E' bene specificare che per moda dei cent'anni
Lipovetsky intende la moda che si afferma intorno alla seconda
21. metà del XIX secolo, dominata dalla Haute Couture parigina, e
termina proprio intorno agli anni '60 del XX secolo.
Negli anni'60, così, si verifica una profonda
trasformazione del sistema moda: dal dirigismo centralista
dell'Alta Moda al policentrismo della moda aperta; dalla
rigida codificazione delle mode dell'anno e stagionali alla
molteplicità degli stili e alla loro libera combinazione. Un
altro elemento di grande importanza caratterizza, però,
questa fase di grandi cambiamenti: l'affermarsi dell'estetica
<<giovane>>. Leggiamo ancora alcune considerazioni di
Lipovetsky:
Negli anni '60 l'effetto Courreges e il successo dello <<stile>> e
dei creatori della prima ondata di pret-a-porter sono
espressione, nell'ambito della moda, dell'ascesa dei nuovi valori
del rock e di idoli giovani: in pochi anni ciò che è <<junior>> è
diventato prototipo di moda. L'aggressività delle forme, la
mescolanza e il sovrapporsi degli stili, la trasandatezza, hanno
potuto imporsi soltanto grazie ad una cultura dominata da
ironia, gioco, gusto per sconvolgimenti emozionali e libertà
comportamentale. La moda si è vestita da ragazzina, esprime
uno stile di vita liberato dalle costrizioni e disinvolto nei
confronti dei regolamenti statuiti. Questa costellazione culturale
di massa ha minato il potere sovrastante della Haute Couture;
l'immaginario giovanile ha determinato la freddezza verso
l'abbigliamento di lusso, apparso di colpo come simbolo del
mondo <<vecchio>>. L'eleganza <<distinta>>, di buon gusto, di
classe, della Haute Couture, è stata screditata da valori che
cantavano l'abbandono delle convenzioni, l'audacia e la
velocità...Un rovesciamento più completo è avvenuto nei
comportamenti: <<Prima le figlie volevano somigliare alle madri,
ora è il contrario>>.
Testi di Massimo Antonucci
22. La minigonna è il capo d'abbigliamento che meglio
rappresenta questo nuovo clima culturale. Non è, infatti,
semplicemente una nuova moda, ma il segno tangibile di una
radicale trasformazione a livello del costume. A questo
proposito Patrizia Calefato osserva nel suo saggio Mass Moda :
Nella storia del costume e nella storia delle donne la minigonna
rappresenta sicuramente un intoppo, un intralcio, una rottura,
in una logica dell'abito femminile che prescrive per tradizione
che questo abbia innanzi tutto la funzione "morale" di coprire,
cancellare, nascondere il corpo. La minigonna è un segno
femminile "forte", che condensa nella sua storia valori di libertà
rispetto alle censure e alle false ipocrisie. L'accorciamento
dell'orlo dell'abito ha infatti sempre coinciso nel nostro secolo
con momenti di emancipazione femminile: negli anni '20 le
gonne "charleston" segnarono in maniera provocatoria la crisi
definitiva delle crinoline, delle doppie balze, dei mutandoni e
anche la messa in discussione di una pruderie modellata
sull'immaginario maschile che assegna a "ciò che non si vede"
un valore erotico più intenso rispetto a ciò che si vede... Coco
Chanel, simbolo e artefice in moda della liberazione femminile
dei primi decenni del nostro secolo, indicò da parte sua una
forma di liberazione che riguardò soprattutto le lunghezze delle
gonne e dei capelli. Se qualche decennio dopo, intorno agli anni
'50, la gonna al ginocchio fu introdotta come capo funzionale al
ruolo produttivo delle nuove generazioni di donne lavoratrici, la
minigonna degli anni'60 fu invece un vero segno di
emancipazione e portò con sé una ventata di anticonformismo
nell'ambito della moda istituzionale di quegli anni.