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UNIVERSITA‟ DEGLI STUDI “G.d‟ANNUNZIO”
CHIETI-PESCARA
FACOLTA‟ DI MEDICINA E CHIRURGIA
Tesi di laurea
La dimensione spazio-temporale in psicopatologia
Laureanda: Relatore:
Fabiola Sarchione Chiar.mo Prof.
Filippo Maria Ferro
Anno Accademico 2010/2011
Ai miei genitori e a mia nonna,
che mi hanno sostenuta e incoraggiata
in questi sei lunghi e faticosi anni di studio.
INDICE
Premessa
Capitolo 1: La dimensione spazio-temporale in fenomenologia pag. 1
1.1 La concezione dello spazio pag. 1
1.2 La concezione del tempo pag. 4
Capitolo 2: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza d‟ansia pag. 7
2.1 I Disturbi d‟Ansia pag. 7
2.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi d‟Ansia pag. 8
2.3 Teorie eziopatogenetiche pag. 8
2.4 Disturbo di panico pag. 9
2.5 Fobia specifica pag. 12
2.6 Disturbo ossessivo-complusivo pag. 13
2.7 Disturbo d‟ansia generalizzato pag. 15
2.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi d‟Ansia pag. 16
Capitolo 3: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
borderline pag. 18
3.1 Disturbo borderline di personalità pag. 18
3.2 Teorie eziopatogenetiche pag. 19
3.3 Trattamento pag. 19
3.4 Aspetti clinici e concezione spazio-temporale nella
sofferenza borderline pag. 20
Capitolo 4: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
tossicomane pag. 22
4.1 Disturbi da uso di sostanze psicoattive pag. 22
4.2 Teorie eziopatogenetiche pag. 23
4.3 Classificazione e Diagnosi secondo il DSM-IV pag. 24
4.4 Neurobiologia dell‟uso di sostanze pag. 25
4.5 Trattamento pag. 26
4.6 Concezione spazio-temporale nella sofferenza
tossicomane pag. 27
Capitolo 5: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
depressiva pag. 30
5.1 I Disturbi dell‟umore pag. 30
5.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi dell‟Umore pag. 30
5.3 Teorie eziopatogenetiche pag. 31
5.4 Disturbo Depressivo Maggiore pag. 33
5.5 Disturbo Distimico pag. 36
5.6 Disturbo Bipolare I pag. 37
5.7 Disturbo Bipolare II pag. 37
5.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi
dell‟umore pag. 38
Capitolo 6: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza psicotica pag. 40
6.1 Il disturbo schizofrenico pag. 40
6.2 Altri Disturbi Psicotici pag. 47
6.3 La concezione spazio-temporale nei Disturbi Psicotici pag. 52
Conclusioni pag. 56
Bibliografia pag. 59
Premessa
Le pagine seguenti di questa tesi di laurea prevedono come argomento di
trattazione un aspetto molto particolare riscontrato in soggetti affetti da
patologie dell‟area psichiatrica, vale a dire la loro dimensione spazio-
temporale, ossia il modo in cui loro vivono, occupano, interpretano il
tempo e lo spazio che gli si presentano innanzi.
L‟interesse che ha condotto alla scelta di quest‟argomento è scaturito,
grazie all‟aiuto prestatomi dal Professor Filippo Maria Ferro,
dall‟osservazione pratica sperimentata in prima persona frequentando la
Clinica Psichiatrica della singolare interpretazione che i pazienti fanno
del vissuto temporale e spaziale, e dalla lettura di relazioni a riguardo
redatti dai più illustri studiosi e psichiatri dello scenario italiano.
Scandagliare questo tema è indispensabile perché i soggetti possono
andare incontro all‟evoluzione di un gran numero di disturbi psichiatrici
da cui scaturisce una vasta gamma di modi di rapportarsi a queste due
categorie esistenziali; da qui l‟importanza per il medico di conoscere le
varie interpretazioni dello spazio e del tempo in relazione ai diversi
quadri morbosi, non solo per intraprendere il trattamento più appropriato
per quel determinato paziente ma anche per approcciarsi nella maniera
più adeguata alla sua sofferenza.
Tanti illustri studiosi e filosofi nell‟arco degli anni si sono interrogati sul
significato delle parole “tempo” e “spazio”, prima collegandolo alla vita
abituale e quotidiana, e poi alla vita vissuta dal paziente, sia esso malato
di una patologia somatica sia esso malato di una patologia mentale.
Da qui le diverse declinazioni dello spazio come un essere con, un essere
qui, un esser là, ma anche un esser tra. Il medico deve sapersi orientare
in queste declinazioni spaziali perché esse gli permettono di creare un
rapporto d‟intersoggettività col paziente, così come deve sapere entrare
nella sua abitazione, nel suo spazio vitale, dove è insito tutto il suo
vissuto.
Il tempo ovviamente non è qui inteso come il tempo arido scandito dalle
lancette dell‟orologio, bensì come il tempo vissuto; un tempo dove un
singolo minuto vissuto intensamente (che sia un vissuto di gioia o di
sofferenza fisica o mentale non fa differenza) può sembrare eterno, così
come un‟intera giornata può “volare via” quando la si vive
spensieratamente senza rendersi conto delle ore che passano. Quindi il
passato, il presente e il futuro perdono le loro rigide coordinate
temporali. Questo è vero in misura maggiore nelle persone malate dove
questa semplice tripletta (passato, presente e futuro) può diventare una
specie di trappola da cui è difficile uscire, perché c‟è un continuo
rievocare il passato o gettarsi nel futuro, dimenticandosi che il tempo da
vivere è il presente.
Per scandagliare il tema della dimensione spazio-temporale in
psicopatologia sono stati consultati manuali di psichiatria e relazioni
esposte in convegni di psichiatria tenuti dai più celebri psichiatri italiani.
Quindi per ogni disturbo preso in considerazione sono state riportate non
solo le caratteristiche tipiche, quali la classificazione secondo il DSM-
IV, la clinica e il trattamento specifico, ma soprattutto è stato
approfondito l‟aspetto peculiare di questa tesi, cioè la visione riguardante
lo spazio e il tempo vissuti da questi soggetti e che risulterà essere
differente da una patologia all‟altra.
1. La dimensione spazio-temporale in fenomenologia
Fin dai tempi antichi, scienziati e filosofi si sono interrogati su quale
potesse essere la corretta interpretazione di questi due parametri
fondamentali: lo spazio e il tempo. Kant li definì come “forme a priori
della conoscenza”, dal momento che essi risultavano essere né reali né
irreali, né finiti né infiniti, né oggettivi né soggettivi; quindi sono il
modo con cui la mente dell‟uomo inquadra la realtà.
È rimarchevole notare come delle attività della mente possano essere
misurate in modo così preciso; nel caso del tempo si può apprezzare sia
il miliardesimo di secondo che l‟anno luce.
Pur essendo due parametri nettamente differenti fra loro, infatti un conto
è considerare lo spazio e un conto è considerare il tempo, essi vengono
valutati contemporaneamente come se fossero implicitamente intersecati
fra loro, e se un soggetto è disorientato lo sarà sia nel tempo che nello
spazio.
Il vissuto della dimensione spazio-temporale riguarda tutti gli individui,
sia gli individui sani che le persone affette da malattie psichiatriche.
1.1 La concezione dello spazio
La vita vissuta dall‟uomo non viene vista solo come un insieme di eventi
cronologicamente connessi l‟uno con l‟altro o come semplice anamnesi,
ma è vista come storia interiore di vita, cioè come vita vissuta dall‟uomo;
da qui la concezione dell‟uomo visto come “homo viator”, viandante,
camminatore. Il qui ora della vita, si costituisce sempre mediante un da
dove? e un verso dove?
Esserci, significa essere qui ma contemporaneamente anche essere là;
negli ultimi decenni si è affermata la terminologia esser dentro (che
sarebbe il qui) ed esser fuori (che sarebbe il là). Quindi esser qui-esser
dentro, esser là-esser fuori, significa: esser qui dove si occupa uno
spazio ma contemporaneamente essere anche là, là dove c‟è un interesse,
dove si pone lo sguardo o dove arriva la presa. Poi c‟è l‟inter essere, cioè
un essere tra.
Ecco quindi che lo spazio consta di un esser qui, di un esser là e di un
essere tra.
È in questo contesto che si colloca la sempre più attuale problematica del
contatto interpersonale che si instaura tra psichiatra e paziente; ci deve
essere una modulazione della distanza spaziale che si frappone fra il
medico e il paziente, il quale può andare incontro al medico, può
gettargli le braccia al collo per la disperazione, ma si può anche chiudere
in sé e quindi chiudersi all‟incontro; vedi il segno del cappuccio o segno
del lenzuolo, cioè quando in corsia un paziente si presenta
all‟osservazione con il lenzuolo tirato fin sul volto, quello è un modo che
lui ha per far capire che non vuole esser contattato, che non vuole che si
entri nel suo lebensraum, cioè nel suo spazio vitale. Da qui la
considerazione che lo spazio vissuto è visto anche come modulatore dei
rapporti interpersonali, i quali non sono legati a leggi rigide di
prossemica ma sono qualcosa di ondivago e oscillante.
Questo approccio allo spazio vissuto come modulatore dei rapporti
interpersonali porta poi al concetto di territorio, ossia il luogo dove
bisogna vedere il paziente; il territorio ha però in sé il rischio di
rinnovare un escludersi del rapporto interpersonale.
Da un punto di vista generale, lo spazio può essere definito stretto,
angusto, o largo, che autorizza, cioè, l‟intervallo del fra, del fra noi,
dell‟essere tra. Questo essere tra è ricco di diverse declinazioni
esistentive, infatti può essere il tra che c‟è tra due persone contendenti,
tra due persone che si odiano, ma è anche il tra di due persone che si
incontrano per discutere e divertirsi.
Ma lo spazio è anche classificabile come lo spazio vissuto del singolo, lo
spazio del territorio e lo spazio pubblico. Lo spazio pubblico non è
semplicemente riducibile a quello che può essere lo spazio pubblico di
una piazza, ma è uno spazio pubblico nel quale si viene coinvolti;
concetto questo mirabilmente inteso da Hannah Arendt che concepisce lo
spazio pubblico al contempo sia pubblico che intriso di una privatezza
radicale insopprimibile.
Poi ci sono gli spazi del gruppo, ossia gli “spazi coseici”, del cum sé,
cioè dei sé che stanno insieme.
Ma il concetto di spazialità è legato anche a un verbo fondamentale che è
abitare. “L‟uomo è il pastore dell‟essere” diceva Heidegger; però,
l‟uomo non è solo l‟essere che delimita il proprio territorio ma è anche
colui che lo abita e che in esso vive da solo o con, ma anche quando è
solo è sempre con qualcuno ossia è con una presenza assente.
La spazialità è implicita nel luogo d‟abitazione, che a sua volta si
identifica con colui che lo vive: se non si entra nella casa del paziente,
nella sua abitazione, nel suo vissuto, non si può cogliere bene chi
realmente esso sia perché lui rimane distaccato, inoltre si possono
cogliere determinate cose che altrimenti non sarebbero immaginabili.
Quindi il concetto di spazialità vissuta implicita nei luoghi
dell‟abitazione, nel dimorare, nel dimorare accanto a qualcuno, negli
ambienti di lavoro, nell‟ospedale, nella scuola, nel carcere...
Però prima dell‟abitare nell‟uomo, nel pre uomo c‟è la tana. In
quest‟ultima non c‟è una distinzione spaziale o temporale perché si ritma
sui bisogni della vita, del giorno e della notte, su alternarsi che sono
geobiologici. Quindi la tana consente lo spostamento nell‟abitare tramite
la corporeità, il corpo vissuto.
Poi si passa a un abitare wohnen, diceva Martin Heidegger, cioè a un
abitare con, a un co-abitare, ad esser viandanti insieme nel percorso della
vita che è un percorso spazio-temporale.
Tutto questo rientra nel concetto di spazio vitale. Lo spazio vitale non è
di per sé solo ma consente la costituzione dello spazio intersoggettivo.
Diversi possono essere gli spazi vitali. Ad esempio c‟è lo spazio vitale
dell‟allettato che è rappresentato solo dal letto, in quanto questo paziente
a causa di degenerazioni fisiche non dispone più di una propria libertà di
movimento e non può più alzarsi dal letto. In questo caso lo spazio è
molto intenso perché è pieno di proibizioni (“questo non mi è
consentito”) ed è pieno di appetizioni (“come desidererei poter...”).
Da qui l‟importanza della riconquista: in uno spazio piccolo che si può
riacquistare c‟è intrinseco tutto uno spazio grande promettente. Quindi la
sola concezione del “si potrebbe” è fondamentale.
1.2 La concezione del tempo
Da sempre c‟è l‟impressione di una contrapposizione fra il tempo arido
della lancetta e il modo in cui viene vissuto il tempo.
La percezione del tempo, è noto, essere diversa in base all‟età. Infatti il
tempo vissuto quando si è giovani è diverso da quello vissuto quando si
è adulti: nei giovani il tempo corre molto lento perché si ha fretta di
arrivare da qualche parte, negli adulti il tempo corre troppo in fretta
perché si ha la percezione che la vita possa finire e si ha la percezione
che il tempo non basti mai.
Il tempo si può suddividere in un tempo oggettivo, che scorre con mezzi
meccanici e senza il controllo dell‟uomo, e un tempo soggettivo, che è
concepito e misurato solo dalla coscienza, quindi dal sé.
Già Aristotele nel trattato “Sull‟anima” aveva accennato a questa
distinzione, ma per lui solo il tempo oggettivo era importante.
Sant‟Agostino scrisse: “Come si assottiglia e si consuma il futuro che
ancora non esiste? Come cresce il passato che non c‟è più, se non perché
nell‟anima ci sono tutte e tre le cose (presente, passato e futuro)? Essa
infatti attende, porge attenzione e ricorda di modo che ciò che aspetta
diviene prima oggetto dell‟attenzione e poi memoria”. Sant‟Agostino
intuisce che la realtà del tempo è solo nel presente, quindi si rende conto
che è in quest‟ultimo che l‟uomo vive; non vi è propriamente passato ma
solo ricordo, né futuro ma solo anticipazione. Per Sant‟Agostino quindi
non ci sono tre tempi (il passato, il presente e il futuro) ma ci sono tre
presenti: il presente del passato, quello del presente e il presente del
futuro.
Per Bergson, d‟altra parte, la realtà della nostra coscienza si svolge nel
tempo vissuto che egli chiama “durata” e che corrisponde a qualcosa di
reale, cioè a un continuo cambiamento qualitativo di noi stessi.
Secondo Minkowski il tempo vissuto non corrisponde al tempo
oggettivo.
In analisi invece ci si confronta con categorie di tempo diverse da quelle
abituali: l‟inconscio è concepito per definizione come atemporale. Freud
sosteneva che c‟è un‟eternità di alcune situazioni esperienziali depositate
appunto come prive di qualsiasi riferimento temporale e d‟altra parte è
solo il conscio che percepisce la vettorialità del tempo; tutto questo porta
l‟uomo a confrontarsi con il limite e con tutto ciò che in qualche modo
l‟angoscia.
Quindi per le persone che soffrono di disturbi mentali, la concezione del
passato, del presente e del futuro diventa una specie di trappola da cui è
difficile uscire perché per molti di loro l‟unico tempo che si riesce a
percepire è l‟adesso, mentre il passato è affidato alla memoria e il futuro
all‟immaginazione.
È importante però vedere che il presente è allo stesso tempo carico del
passato; questo implica una visione del tempo solo apparentemente
vettoriale (cioè di un tempo che parte da un momento specifico e scorre
in maniera lineare) perché in realtà si tratta di un tempo circolare dove i
frammenti del passato si ripresentano nel presente e si riattualizzano. In
questa dimensione circolare non ci sono né un inizio né una fine, tutto si
svolge in maniera sempre uguale senza possibilità di uscita con un eterno
ritorno su se stesso.
Gli scopi delle terapie sarebbero dunque: rimettere in moto il tempo
rispettando il passato; controllare il presente con terapie cognitivo-
comportamentali; gestire il futuro che è poco rappresentato nel progetto
del paziente. Tutto questo per restituire una coesione, un senso del sé
unitario e una continuità del tempo che questi pazienti inevitabilmente
perdono per avere una fluidificazione di questi tre tempi (passato,
presente e futuro) nell‟accettazione di un unico presente, che poi può
essere un presente nostalgico, progettuale o prospettico.
2. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
d’ansia
2.1 I Disturbi d’Ansia
L‟ansia è un affetto di comune riscontro in vari momenti e situazioni
della vita umana. Può costituire una normale risposta fisiologica, sia
comportamentale che psicologica, di fronte a condizioni obbiettivamente
difficili e consente l‟attivazione di comportamenti utili all‟adattamento.
L‟ansia viene considerata patologica quando disturba il funzionamento
psichico globale determinando una limitazione delle capacità di
adattamento dell‟individuo. Inoltre può manifestarsi senza alcuna
correlazione con apparenti cause esterne scatenanti, ha un‟intensità tale
da provocare un grado di sofferenza non sopportabile e può portare il
soggetto a intraprendere comportamenti di difesa, quali l‟evitamento di
determinate situazioni considerate potenzialmente pericolose. L‟ansia si
accompagna anche a sintomi somatici per il coinvolgimento del sistema
nervoso autonomo, quali iperventilazione, tachicardia, cefalea poliuria,
innalzamento della pressione arteriosa, iperfunzione gastro-enterica,
tensione muscolare e tremori.
L‟ansia patologica in psichiatria è un fenomeno riscontrabile in svariate
situazioni dalle demenze ai disturbi schizofrenici, dalla depressione alla
mania, dai disturbi di personalità a quelli d‟adattamento. Esistono
tuttavia disturbi psicopatologici in cui l‟ansia assume la caratteristica di
“sintomo” tipico intorno alla quale si articolano sindromi specifiche.
2.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi d’Ansia
Secondo il DSM-IV vengono distinte le seguenti categorie di disturbi
d‟ansia:
1. il disturbo di panico (con o senza agorafobia);
2. la fobia specifica;
3. la fobia sociale;
4. il disturbo ossessivo-compulsivo;
5. il disturbo post-traumatico da stress e disturbo acuto da stress;
6. il disturbo d‟ansia generalizzato;
7. il disturbo d‟ansia dovuto a una condizione medica generale;
8. il disturbo d‟ansia indotto da sostanze.
Questo insieme di quadri clinici corrisponde a ciò che un tempo veniva
definito nevrosi, cioè un insieme di disturbi funzionali della psiche in cui
è conservato il riconoscimento della realtà e c‟è la consapevolezza del
proprio stato di malessere (a differenza delle psicosi).
2.3 Teorie eziopatogenetiche
L‟eziologia delle nevrosi ha origine da due ipotesi distinte affermatesi
nella seconda metà dell‟800 che rispecchiano la dicotomia tra gli attuali
orientamenti. Per Beard la nevrosi è legata a cause ambientali; secondo
Morel invece il primum movens sarebbe l‟esistenza di fattori ereditari.
Secondo la psicanalisi di Freud la nevrosi è un conflitto inconscio
dell‟infanzia che poi tende a svilupparsi nella vita adulta; l‟originalità di
questa ipotesi sta nell‟aver individuato che il conflitto psicologico mette
in moto dei meccanismi di difesa il cui scopo è quello di allontanare
dalla coscienza il conflitto stesso relegandolo in una zona non accessibile
della psiche che corrisponde proprio all‟inconscio.
Per quanto riguarda le teorie biologiche, una prima ipotesi chiama in
causa in sistema nervoso autonomo in quanto ci sarebbe un aumentato
tono simpatico che porterebbe poi a un alterato adattamento agli stimoli;
questo è ciò che si osserva infatti in un soggetto affetto da crisi di panico.
Anche il ruolo dei neurotrasmettitori nella genesi dell‟ansia non è da
sottovalutare; quelli chiamati qui in causa sono: la noradrenalina, la
serotonina e l‟acido γ-ammino-idrossi-butirrico (GABA); sono stati
riscontrati valori aumentati di questi neurotrasmettitori in pazienti affetti
da disturbi d‟ansia. Non è da sottovalutare che numerosi recettori
GABAA sono concentrati a livello del sistema limbico, che viene quindi
considerato responsabile dei meccanismi che regolano l‟ansia.
Inoltre esami di tipo funzionale (EEG, PET, SPECT) hanno evidenziato
anomalie a livello della corteccia frontale, occipitale e temporale,
nonché, della regione paraippocampale nel paziente affetto da disturbo di
panico, mentre nel disturbo ossessivo-compulsivo la struttura coinvolta
sembrerebbe essere il nucleo caudato.
Da ultimo, studi genetici hanno rilevato che il paziente affetto da uno dei
disturbi d‟ansia ha almeno un parente affetto da un‟analoga patologia.
2.4 Disturbo di panico
Il disturbo di panico viene descritto come un episodio durante il quale il
soggetto sperimenta una sensazione di catastrofe imminente con paura di
“impazzire”, di perdere il controllo o di morire, accompagnata da diversi
sintomi somatici, quali dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto,
sensazione di soffocamento.
Ogni attacco dura in media dai 20 ai 30 minuti e costringe la persona a
cercare aiuto. Conseguenza di questo è l‟evitamento di determinate
situazioni per paura (ansia anticipatoria sul futuro) che l‟attacco possa
ripresentarsi.
Abitualmente l‟attacco di panico non è innescato da stimoli specifici, ed
è proprio su questo elemento che si fonda la diagnosi di disturbo di
panico: l‟attacco deve essere inaspettato e, durante il mese seguente, il
paziente deve avere la preoccupazione che se ne possa presentare un
altro e inoltre modifica il proprio comportamento in relazione ad esso (ad
esempio attua strategie di evitamento).
L‟esordio della malattia avviene abitualmente nell‟adulto giovane e il
sesso femminile sembra essere quello maggiormente colpito.
La diagnosi differenziale si deve porre con patologie di tipo internistico
(maggiormente quelle dell‟apparato cardiaco e respiratorio).
Comunemente il paziente si reca in Pronto Soccorso col timore che i
sintomi avvertiti (specie se respiratori o cardiaci) indichino una
condizione di grave patologia, che il paziente avverte come
potenzialmente letale. In questa sede, per effettuare una corretta diagnosi
differenziale, devono essere eseguiti gli esami di laboratorio routinari,
l‟ECG e un test tossicologico per l‟identificazione di eventuali sostanze
d‟abuso la cui assunzione o astinenza potrebbe scatenare un attacco di
panico.
Nel disturbo di panico un primo intervento consiste nel rassicurare il
paziente rispetto al fatto che il suo disturbo è ben conosciuto e curabile.
L‟iperventilazione che questi soggetti manifestano non consente di
trattenere la quota necessaria di CO2 che serve per utilizzare l‟ossigeno
in eccesso; si sviluppa così paradossalmente una sensazione di mancanza
d‟aria. Tecniche utili a ridurre l‟iperventilazione sono trattenere il respiro
per 10-15 secondi o respirare dentro e fuori da un sacchetto di carta.
I farmaci comunemente usati nel disturbo di panico sono le
benzodiazepine, gli antidepressivi SSRI (inibitori della ricaptazione della
serotonina) e i triciclici. Le benzodiazepine sono i farmaci maggiormente
indicati nei casi di acuzie. Mentre nei trattamenti a lungo termine si può
ricorrere alle benzodiazepine per un rapido controllo dei sintomi
associandole, però, per esempio agli SSRI. Questi ultimi vengono
introdotti in terapia con una dose minima che poi lentamente va
aumentata fino a raggiungere la dose terapeutica. Dopo 1-3 mesi le
benzodiazepine possono essere progressivamente diminuite e sospese,
mentre va continuata la somministrazione degli SSRI. Questo perché nei
confronti degli ansiolitici è ben documentato il rischio di dipendenza e lo
sviluppo di sintomi d‟astinenza nel caso di improvvise sospensioni.
Nel trattamento a lungo termine del disturbo di panico si è fatto anche
ricorso ai triciclici. Con questi composti la terapia va iniziata a bassi
dosaggi, che poi andranno aumentati in base alla tollerabilità del paziente
e agli effetti collaterali da esso sviluppati, fino a raggiungere la dose
piena.
Negli ultimi tempi un‟efficacia specifica del disturbo di panico è stata
riconosciuta ad altri antidepressivi che agiscono anche su più sistemi
recettoriali: NARI (inibitori selettivi della ricaptazione della
noradrenalina), SNRI (inibitori della ricaptazione della serotonina e della
noradrenalina) e NaSSA (antidepressivi noradrenergici e specificamente
serotoninergici).
In caso di mancanza di risposta allo schema di terapia prospettato si
interviene sostituendo il farmaco impiegato con un altro della medesima
classe e poi eventualmente con uno di una classe diversa.
Nonostante l‟approccio psicofarmacologico sia risultato efficace, esso da
solo non sembra in grado di rispondere a tutte le problematiche che si
presentano: la cronicità del disturbo, la bassa compliance o la resistenza
ai farmaci, la gestione del mantenimento delle terapie, l‟insorgenza di
effetti collaterali, la possibilità di ricadute dopo la sospensione delle
terapie, la vulnerabilità alla riacutizzazione di fronte a nuovi stimoli
stressanti, le pesanti implicazioni sul piano emotivo ed esistenziale.
Ed è per questo motivo che le strategie a lungo termine del trattamento
dei disturbi di panico chiamano in causa il ricorso alla psicoterapia da
sola o in associazione agli psicofarmaci.
2.5 Fobia specifica
La fobia è la paura intensa e persistente di un oggetto o di una situazione
in realtà privi di una reale oggettiva pericolosità. Come conseguenza del
disturbo può quindi strutturarsi un‟ansia anticipatoria con relative
condotte di evitamento e, in casi particolari, l‟ansia può raggiungere la
portata dell‟attacco di panico.
Esistono un numero illimitato di fobie; le più comuni sono le fobie degli
animali, del sangue, delle altezze, dei luoghi chiusi, dello sporco e delle
malattie.
I soggetti colpiti sono consapevoli che la loro reazione sia irragionevole
o eccessiva, ciononostante il disturbo compromette più o meno
significativamente la loro esistenza.
Il DSM-IV suggerisce che per far diagnosi di fobia, nell‟adulto le
manifestazioni fobiche debbano avere una durata minima di almeno 6
mesi.
Le fobie rappresentano i disturbi psichici più comuni.
Dal punto di vista cognitivo-comportamentale la fobia è spiegata come
un cortocircuito che si riattiva ogni qualvolta un oggetto o una
situazione, accoppiati casualmente a una forte emozione, si ripresentano.
La diagnosi differenziale chiama in causa, in ambito neurologico,
disturbi cerebrovascolari e tumori del sistema nervoso centrale nei quali
possono comparire sintomi di questo tipo. Per quel che riguarda invece
le patologie di interesse psichiatrico sono da considerare le fobie
secondarie a uso di sostanze (ad esempio allucinogeni), il disturbo di
panico (che si differenzia dal fatto che in questo c‟è un‟ansia pervasiva e
gli attacchi si ripetono senza fattori scatenanti apparenti), il disturbo
ossessivo-compulsivo (in questo è il pensiero ossessivo a provocare
l‟evitamento) e la schizofrenia (in cui i timori patologici hanno caratteri
bizzarri e vi è mancanza di consapevolezza da parte del paziente).
Il decorso delle fobie infantili di solito è favorevole, non si può dire
altrimenti per quello delle fobie in pazienti adulti in cui questo disturbo
interferisce fortemente sulla loro vita quotidiana, lavorativa e
relazionale.
La cura si fonda principalmente sull‟intervento psicoterapico in quanto il
trattamento con i farmaci ha dato pochi risultati. Per cui nelle
psicoterapie analitiche all‟interno della relazione col terapeuta il paziente
deve rivivere e riconoscere i conflitti e i sentimenti inconsci che lui ha;
nel trattamenti cognitivo-comportamentali vi sono tecniche quali
l‟esposizione “in vivo” o attraverso l‟immaginazione agli oggetti e alle
situazioni temute, che hanno lo scopo di portare a una
desensibilizzazione sistematica.
2.6 Disturbo ossessivo-compulsivo
Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza di
pensieri e/o impulsi coatti (ossessioni) o da comportamenti o azioni
mentali incoercibili (compulsioni o anancasmi). Questi sono ricorrenti,
persistenti, e in certe occasioni, vengono sentiti come intrusivi e
inappropriati. In ogni caso sono fonte di eccessive preoccupazioni e
provocano ansia e disagio. Il soggetto tenta di ignorarli o sopprimerli o
neutralizzarli con altri pensieri e azioni; è quindi consapevole che si
tratta di prodotti della propria mente.
Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali messi in
esecuzione a seguito delle ossessioni; hanno lo scopo di diminuire
l‟ansia o il disagio.
Tra le più comune ossessioni si possono citare pensieri, impulsi,
immagini. Tra le compulsioni si annoverano azioni fisiche (come lavarsi
le mani, mettere in ordine, controllare) e mentali (contare, ripetere parole
o formule).
Ossessioni e compulsioni interferiscono con l‟esistenza quotidiana del
soggetto.
L‟esordio avviene generalmente intorno ai 20 anni. L‟esordio è spesso
improvviso e quasi sempre la sintomatologia inizia dopo un evento
stressante. L‟andamento del disturbo è variabile e solo il 20-30% dei
pazienti evolve verso un migliormamento. Spesso questo genere di
disturbo si accompagna alla depressione o alla fobia sociale.
La diagnosi differenziale la si deve effettuare nei confronti di patologie
non psichiatriche come il disturbo di Gilles de la Tourette e altri disturbi
da tic verbali e motori, in cui tuttavia i movimenti sono meno complessi
e non sono finalizzati a neutralizzare un‟ossessione. Tra i disturbi
psichiatrici con i quali bisogna fare diagnosi differenziale vi sono: le
fobie specifiche o sociali (in esse la preoccupazione concerne una
situazione o un oggetto capaci di provocare ansia), la depressione
maggiore, il disturbo d‟ansia generalizzato (in esso non vi sono
ossessioni, ma preoccupazioni associate ad ansia eccessiva su
circostanze della vita).
Il trattamento di questo disturbo incontra molte difficoltà in quanto un
elevato numero di pazienti non collabora ai programmi terapeutici.
Comunque anche in questo caso i risultati più promettenti sembrano
essere quelli offerti dalla combinazione di una psicoterapia con una
terapia farmacologica. La strategia farmacologica prevede inizialmente
l‟uso di un antidepressivo serotoninergico; se non si ottengono risultati
soddisfacenti si può sostituire con un altro serotoninergico, o se anche
questo risultasse inefficace, è possibile il potenziamento
dell‟antidepressivo con il litio.
2.7 Disturbo d’ansia generalizzato
Nel disturbo d‟ansia generalizzato si evidenziano ansia e preoccupazione
(quest‟ultima associata a sintomi somatici quali irrequietezza, tensione,
irritabilità, difficoltà di concentrazione, vuoti di memoria, facile
affaticabilità e turbe del sonno) eccessive rispetto alle situazioni in cui si
presentano.
Per il DSM-IV queste manifestazioni causano disagio significativo e
devono durare almeno 6 mesi perché si possa fare disgnosi di disturbo
d‟ansia generalizzato.
L‟esordio è più comune nell‟adulto giovane intorno ai 20 anni, ed è più
frequente nel sesso femminile. Nel 2/3 dei casi questo disturbo si associa
ad altre patologie psichiatriche quali: disturbi di panico, fobie o
depressione.
L‟andamento è tendenzialmente cronico ed è comune la progressione
verso un disturbo di panico o la depressione maggiore.
La terapia farmacologica si avvale degli ansiolitici benzodiazepinici.
Purtroppo la somministrazione continua di benzodiazepine può
provocare fenomeni di tolleranza e dipendenza. Una buona alternativa
alle benzodiazepine è rappresentata dal buspirone che non da né
astinenza né effetti collaterali cognitivi e psicomotori, come invece
accade per le benzodiazepine. Però gli effetti del buspirone si
manifestano solo in quei pazienti precedentemente trattati con
benzodiazepine. Da qui abbiamo che l‟impiego di benzodiazepine nelle
prime 2-3 settimane in concomitanza col buspirone e la sospensione
delle prime una volta che il buspirone inizi il suo effetto, può essere una
possibile alternativa.
Le psicoterapie, sia da sole che in associazione con il trattamento
farmacologico, possono dare buoni risultati; le terapie ad orientamento
psicoanalitico più che a ridurre l‟ansia servirebbero a individuare le
cause di cui l‟angoscia è segnale attraverso l‟introspezione; sul piano
degli interventi cognitivo-comportamentali si sono ottenuti risultati
apprezzabili con le tecniche di rilassamento (ad esempio, l‟ipnosi).
2.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi d’Ansia
Le teorie esistenziali ispirate a posizioni filosofiche di autori come
Heidegger e Kierkegaard, vedono l‟angoscia come un sentimento
comune che tutti gli uomini sviluppano in relazione a possibilità
imprevedibili offerte dal futuro.
Ma nel paziente affetto da disturbi dell‟ansia, quest‟ultima implica la
perdita della dimensione del passato e la concentrazione solo sulla
preoccupazione per il futuro e su ciò che esso porterà, è “l‟intolleranza
dell‟incertezza”, così come la definirono degli studiosi canadesi, cioè
l‟incapacità di sopportare la possibilità che nel futuro si possano
verificare dei pericoli inaspettati. Il paziente ansioso quindi rimugina sul
futuro, cioè mette in atto un fenomeno verbale astratto cognitivo, tipico
di questi pazienti, attraverso cui vengono ricordati continuamente eventi
negativi del passato che si teme possano ripresentarsi nel futuro e che
non possano essere adeguatamente tenuti sotto controllo. Da qui
scaturisce il fatto che questi pazienti non riescono ad accettare
adeguatamente il presente.
3. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
borderline
3.1 Disturbo borderline di personalità
Il disturbo borderline rientra nel gruppo dei disturbi della personalità.
Secondo il DSM-IV si definisce Disturbo di Personalità una modalità di
esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto
a quanto ci si potrebbe aspettare dal livello culturale dell‟individuo. Tale
modalità è considerata patologica in quanto pervasiva (cioè si manifesta
frequentemente e non solo in risposta a particolari stimoli o situazioni
scatenanti) e inflessibile; ha esordio nell‟adolescenza o nella prima età
adulta, è stabile nel tempo e determina disagio e compromissione
funzionale. La deviazione dalla norma deve essere marcata e riguardare
almeno due delle seguenti aree: capacità cognitive, affettività, controllo
degli impulsi, bisogno di gratificazione immediata e incapacità di
condurre le relazioni interpersonali.
Il disturbo borderline è definito tale perché è al confine (border) tra
nevrosi e psicosi. È caratterizzato da una grande instabilità affettiva e
dell‟umore, da instabilità delle relazioni con gli oggetti e dell‟immagine
di sé, da rapporti interpersonali contraddistinti da sentimenti esagerati
che oscillano bruscamente dall‟idealizzazione alla svalutazione, con
mancanza di controllo sull‟impulsività e sull‟aggressività.
Interessa l‟1-2% della popolazione generale con una frequenza
d‟insorgenza doppia nel sesso femminile rispetto a quello maschile.
3.2 Teorie eziopatogenetiche
Negli ultimi anni è stata sempre più valorizzata nella patogenesi del
Disturbo Borderline di Personalità la componente ambientale sotto forma
di un‟elevata inadeguatezza della funzione genitoriale, sia da parte della
sola madre (marcata conflittualità nei confronti della crescita del figlio,
o, al contrario, distacco e scarso coinvolgimento durante lo sviluppo
emozionale), sia da parte del solo padre (assenza e trascuratezza nei
confronti delle esigenze del figlio) o da parte di entrambi i genitori
(accadimento deficitario, assenza di uno dei due o entrambi i genitori).
3.3 Trattamento
La prognosi è buona dopo i primi 10 anni, periodo che rappresenta anche
la durata del trattamento. La psicoterapia (cognitivo-comportamentale e
psicodinamica) è il trattamento di scelta, affiancata dalla
psicofarmacologia che si avvale di farmaci quali: SSRI, anti-psicotici
tipici e atipici, benzodiazepine.
Ma lo scopo della terapia che si effettua sul paziente borderline è la
costruzione di un‟istanza terza che dapprima è soltanto esterna e poi
molto lentamente diventa interna e che nei momenti di rottura il
borderline può chiamare in aiuto.
Il decorso di questa patologia prevede l‟evoluzione in Disturbo
Depressivo Maggiore perché dal trauma originario si passa al dolore, che
viene riconosciuto e accettato dal paziente e che aiuta quest‟ultimo ad
uscire dal tempo zero del trauma e lo reintroduce in un tempo che si
sviluppa.
3.4 Aspetti clinici e concezione spazio-temporale nella sofferenza
borderline
Dal punto di vista clinico i soggetti manifestano rapide oscillazioni
dell‟umore con frequenti sentimenti depressivi, sentimenti cronici di
vuoto e di noia che rimandano a una mancanza di un coerente sentimento
d‟identità e che possono indurli da un lato alla promiscuità, per
l‟intolleranza alla solitudine, dall‟altro a cercare aiuto dagli altri
mediante gesti auto lesivi, per il timore continuo di essere abbandonati.
Il bisogno degli altri è talmente intenso che la solitudine comporta un
sentimento di annientamento: ogni abbandono, sia esso reale che
immaginario, è vissuto catastroficamente. L‟elemento cruciale quindi
nella patologia borderline è il collasso del rapporto con l‟oggetto; è come
se a un certo punto il paziente sentisse che l‟oggetto gli sfugge e la
normale dimensione dell‟intersoggettività viene meno.
Il borderline vive una condizione di continua ricaduta in una specie di
buco nero senza tempo, definito “area del trauma”, dove per “trauma” si
intende un evento traumatico avvenuto nel passato e che il paziente
continua a rivivere in eterno secondo le leggi della coazione a ripetere.
Ed è per questo che ogni qual volta il malato borderline incontra nella
relazione con le persone amate qualcosa che gli riattualizza il trauma
originario, riprecipita in un tempo senza tempo, ossia in quell‟area in cui
esiste solamente il trauma che continuamente si ripete. E tutte le volte
che c‟è questa lacerazione o rottura nel trauma originale il soggetto
borderline si dimentica del passato e del futuro perché concepisce solo
un presente sempre uguale dove accade sempre la stessa cosa.
Solo quando il trauma è ricomposto il paziente borderline sembra
riprendere una strada maestra dove il suo tempo assomiglia di più alle
normali metafore del tempo quali: il viaggio, il percorso e l‟itinerario.
Questa successione di eventi tende e ripetersi più volte durante la vita del
paziente e da qui scaturisce la visione di un tempo spezzato nel
borderline.
L‟impulsività che caratterizza questi pazienti porta a una
contrapposizione importante: da un lato ci sono i sentimenti cronici di
vuoto e di disgusto per la propria esistenza, dall‟altro c‟è la ricerca di
stimoli forti attraverso condotte pericolose come l‟abuso di sostanze
stupefacenti, le abbuffate alimentari, la guida spericolata o il dolore
indotto da ferite autoinferte. Molto spesso questi gesti sono la
conseguenza di liti, separazioni o esperienze frustranti. L‟autolesività
serve al paziente a scaricare la rabbia e a cercare di recuperare attraverso
il dolore un maggior senso di coesione e di identità, dato che l‟identità
del paziente borderline viene continuamente interrotta.
Quindi la loro esistenza è caratterizzata da frequenti oscillazioni emotive
che sono espressione di una profonda instabilità affettiva di base
improntata a una dimensione depressiva grave nella quale non sono
infrequenti propositi suicidari portati a conclusione.
4. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
tossicomane
4.1 Disturbi da uso di sostanze psicoattive
Con il termine di uso di sostanze ci si riferisce all‟assunzione di sostanze
psicoattive, indipendentemente dalla frequenza, dall‟intensità e dalle
modalità con le quali la sostanza viene introdotta nell‟organismo.
Il DSM-IV definisce Disturbi correlati a sostanze tutti i disturbi
dipendenti da tale comportamento.
I tassi di prevalenza variano da sostanza a sostanza. Secondo dati
dell‟Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze le
tendenze in atto danno la cannabis come la più diffusa tra le droghe
illegali; al secondo posto vi sono le amfetamine, compresa la MDMA; la
cocaina è data in largo aumento; l‟eroina rimane stabile e si associa
frequentemente a gravi problemi sociali, di salute e psichici.
È chiaro da tempo che le droghe esercitano funzioni definite nella psiche
dei soggetti che ne fanno uso, infatti determinano un effetto di
gratificazione che viene ricercato in particolare da soggetti ipo- o
anedonici, o da persone alla ricerca di sensazioni molto intense; ma
alcuni soggetti usano sostanze per ricercare una funzionalità psichica,
quale ad esempio sollievo dalla depressione, dall‟ansia, da sintomi
collaterali di trattamenti psicofarmacologici; altri soggetti invece
perseguono il miglioramento di performance (come lo stato di veglia e di
attenzione da parte di conduttori di macchinari, l‟aumento delle
prestazioni sportive...).
In alcuni casi l‟uso di sostanze evolve, associandosi a comportamenti che
il DSM-IV definisce Disturbo da abuso di sostanze, in una sindrome
comportamentale caratterizzata da effetti negativi sul piano psicologico,
sociale e relazionale derivanti da una modalità di uso che per frequenza,
intensità e conseguenze trascende i desideri e le aspettative del soggetto.
In un gruppo più ristretto tale sindrome evolve ulteriormente in quella
forma che il DSM-IV definisce Dipendenza da sostanze che dura più di
un anno e che ha il carattere di compulsione, perdita di controllo, a volte
fenomeni fisiopatologici associati all‟uso (“Intossicazione”) o alla
sospensione dell‟uso (“Astinenza”).
4.2 Teorie eziopatogenetiche
I fattori che influenzano la possibile evoluzione dall‟uso alla dipendenza
sono complessi. Zinberg ne ha individuati tre fondamentali: la sostanza,
la persona e l‟ambiente.
La sostanza. Nel DSM-IV sono considerate 11 classi di sostanze
psicoattive: la caffeina, la nicotina e l‟alcool, vengono definite “droghe
domestiche”; la cocaina e le amfetamine, sono gli psicostimolanti; la
cannabis, gli allucinogeni e la fenciclidina, sono i psicodislettici; gli
oppioidi e i sedativi-ipnotoci-tranquillanti, sono i sedativi; infine vi sono
gli inalanti, definiti anche “le droghe dei poveri”.
Ogni classe di sostanze ha una precisa caratterizzazione farmacologica e
un definitivo profilo recettoriale sul quale agire al posto del ligando
naturale (tipica è l‟azione degli oppioidi esogeni sul sistema delle
endorfine). Ogni sostanza è attiva su diversi sistemi neuronali ed
extracerebrali, producendo un corteo di effetti vari.
La persona. Le caratteristiche biologiche della struttura genetica della
persona sono prominenti nello sviluppo all‟attitudine all‟uso di sostanze.
I fattori ereditari sarebbero molteplici e da qui ne risulterebbe una
vulnerabilità clinico-comportamentale consistente in un‟inclinazione ad
evolvere lungo il percorso dall‟uso, all‟abuso, alla dipendenza.
L‟ambiente. In questo sono racchiuse diverse figure: la famiglia, il
piccolo gruppo e la società intesa come ambiente storico che determina il
quadro culturale. L‟ambiente è considerato un fattore che influenza i
comportamenti dei singoli soggetti.
Ovviamente non è da sottovalutare la visione d‟insieme dei tre elementi
che interagiscono e si influenzano l‟un l‟altro.
4.3 Classificazione e Diagnosi secondo il DSM-IV
Il DSM-IV comprende sotto la dicitura Disturbi Correlati a Sostanze i
seguenti sottocapitoli:
1. Disturbi da uso di sostanze, Abuso e Dipendenza;
2. Disturbi indotti da sostanze, Intossicazione e Astinenza da
sostanze.
I criteri diagnostici per la Dipendenza da sostanze secondo il DSM-IV
sono:
modalità patologica d‟uso che conduce a menomazione o disagio
clinicamente significativo della durata di 12 o più mesi, e che
mostri almeno tre delle condizioni seguenti: tolleranza, astinenza,
uso in quantità maggiori e più a lungo desiderato, desiderio e vani
tentativi di smettere, riduzione/interruzione di attività dovuta alla
grande quantità di tempo impiegata per trovare la sostanza.
Per Tolleranza si intende:
un marcato bisogno di aumentare la quantità di sostanza per
raggiungere l‟intossicazione o l‟effetto voluto;
un marcato calo dell‟effetto dovuto all‟uso continuativo del
medesimo dosaggio.
Per astinenza si intende:
lo sviluppo di una sindrome caratteristica per quella determinata
sostanza, a seguito di sospensione o riduzione della dose.
I criteri diagnostici per l‟Abuso sono:
modalità patologica d‟uso che conduce a menomazione o disagio
clinicamente significativo entro i 12 mesi e che rispetta almeno
una delle seguenti condizioni: uso che causa incapacità nel ruolo,
uso ricorrente in situazioni rischiose, problemi legali, uso
nonostante i problemi.
4.4 Neurobiologia dell’uso di sostanze
Allo stato attuale degli studi si ritiene che l‟effetto biologico comune di
tutte le sostanze psicoattive (con l‟eccezione degli allucinogeni) consista
nella liberazione di dopamina nella parte corticale del nucleo accumbens
dei neuroni dopaminergici meso-limbici.
Tale fenomeno è il correlato biologico delle sensazioni di piacere
derivanti dall‟uso di sostanze. La liberazione in eccesso di dopamina nei
valli sinaptici del nucleo accumbens viene determinata attraverso
meccanismi che differiscono da sostanza a sostanza: nel caso della
cocaina il meccanismo prevalente è quello dell‟inibizione della
ricaptazione della dopamina dal vallo sinaptico a livello del nucleo
accumbens; nel caso degli oppioidi il meccanismo prevalente è quello
dell‟inibizione a livello mesencefalico del neurone GABA-ergico che
esercita una funzione di controllo inibitorio sul neurone meso-limbico,
che viene così liberato dal controllo.
Naturalmente ogni sostanza determina la sensazione di piacere ricercata
attraverso l‟attivazione di questo circuito neuronale (definito circuito
della ricompensa) ma ha anche altri punti di attacco nel SNC; gli effetti
combinati configurano nell‟insieme la sindrome specifica che ne
caratterizza l‟assunzione.
È evidente quindi che le sostanze psicoattive nel sistema cerebrale della
ricompensa agiscono interagendo con le sostanze fisiologiche che
mediano le sensazioni di piacere collegate alle funzioni vitali: cibo,
sesso, esplorazione. Questo spiega le molte interazioni comportamentali
tra uso di sostanze e tali funzioni fisiologiche.
I potenti effetti della sostituzione di sostanze chimiche estremamente più
efficaci introdotte dall‟esterno, senza limiti biologici, a sostanze naturali
prodotte in misura fisiologica dietro stimoli naturali scanditi nel tempo
produce la rivoluzione neurologica e comportamentale che è la
tossicodipendenza. L‟uso di sostanze psicoattive produce una memoria
biologica che diventa un fattore di mantenimento della stessa all‟origine
del carattere cronico e recidivante del disturbo.
4.5 Trattamento
Negli anni si sono generate diverse visioni “terapeutiche” basate sul fatto
che i disturbi da dipendenza non sono disturbi da curare bensì sono
comportamenti da correggere. Da qui si sono sviluppate forme
d‟internamento mascherate da trattamento o trattamenti coatti. Se poi si
considera anche che il trattamento delle dipendenze dispone di molte
terapie, per esempio per la dipendenza da oppioidi gli agonisti, gli
antagonisti e gli antiastinenziali configurano un quadro importante di
possibilità d‟intervento, è facile comprendere che l‟affermazione del
concetto di tossicodipendenza come malattia è problematico.
Secondo la più recente impostazione motivazionale, i problemi
comportamentali possono essere affrontati tenendo conto della
disposizione verso la risoluzione di tale problema che il soggetto
manifesta momento dopo momento, e che varia nel tempo sotto la
pressione della frattura interiore in presenza di un‟adeguata fiducia nella
riuscita (autoefficacia). L‟effetto congiunto di frattura interiore e
autoefficacia spinge il soggetto verso un ciclo di cambiamento
comportamentale definito in stadi, processi e livelli.
Però non è da sottovalutare che la natura recidivante della
tossicodipendenza impone una speciale attenzione al problema della
ricaduta, la cui prevenzione è parte integrante del trattamento. La
ricaduta si ha in quei soggetti che per tutta la vita, anche quando non si
fanno più da 20 o 30 anni, hanno delle dislocazioni spazio-temporali (i
flashback) di situazioni ideo percettive affettive connesse all‟esperienza
drogastica pregressa che si inseriscono violentemente come pensieri
imposti all‟interno del loro stato di coscienza.
In definitiva nel trattamento delle dipendenze c‟è la collaborazione tra le
farmacoterapie specifiche per ogni sostanza, le psicoterapie e gli
interventi educazionali.
4.6 Concezione spazio-temporale nella sofferenza tossicomane
Spesso si parla di doppia diagnosi o di comorbilità psichiatrica nei
tossicomani. Le sostanze creano un effetto tunnel nel soggetto, cioè lo
mettono al riparo dalla propria vulnerabilità tanto da farlo avanzare in
zone dell‟esperienza estremamente minate di cui il soggetto non si
accorge; ma quando per azione catabolica le sostanze vengono
degradate, il soggetto si trova in una condizione spersonalizzante,
disgregata, discontinua e fa un‟esperienza distonica di se stesso e del
mondo che lo circonda. Per cui le sostanze modificano e alterano la
struttura del tempo e dello spazio vissuti del tossicomane.
La dipendenza da sostanze è considerata una malattia a decorso cronico e
recidivante, derivante dall‟assunzione prolungata di sostanze psicoattive,
caratterizzata da un impulso difficilmente controllabile a ripetere tale
assunzione e sostenuto da un desiderio irresistibile (craving) da cui
derivano comportamenti mirati a soddisfare l‟impulso (drug-seeking
behavior). Quindi inizialmente c‟è il momento del craving che è il
momento del desiderio di un oltre e di un altrove; poi c‟è il flash che è il
momento orgastico per eccellenza, il per sempre, il dovunque, il
dappertutto perché i confini dello spazio si squarciano e l‟io e il mondo
si fondono per diventare un‟unica cosa; quindi segue lo sballo, che è
connotato dalla particolare situazione dell‟adesso-altrove, cioè il
soggetto è presente nell‟istante ma è dislocato altrove da un punto di
vista spaziale; in seguito c‟è l‟astinenza che è il mai più, la paura del
nessun dove, che corrisponde allo stato lucido del soggetto e si sviluppa
la concezione di essere nulla in un luogo inesistente se non si sta con la
sostanza; infine c‟è il viraggio psicotico come perdita, spesso definitiva,
dell‟ubi consistant, cioè del dove io esisto.
La condizione peculiare del tossicomane è quella di uno scollamento e di
un collasso spazio-temporale: ad esempio, se lo si prende in una fase di
astinenza e di craving il soggetto è fisicamente in un posto ma con la
testa è allora, cioè è completamente immerso, clivato, in un‟altra
dimensione temporale che corrisponde a quella nostalgica del desiderio
della sostanza o dell‟acquisto della sostanza; oppure quando è nella
situazione dello sballo vive il presente ma al tempo stesso è altrove
perché si nutre di questa multi locazione che la sostanza gli da. Il
risultato di questo scollamento dello spazio sul tempo è una condizione
che non si può più definire come essere nel mondo ma essere nel nulla.
Quindi l‟altrove adesso è lo sballo, il qui e allora diventa il craving e
l‟essere qui ora è la lucidità.
Nell‟astinenza è chiaro che per il soggetto la temporalità della mancanza
è dilaniante perché c‟è la nostalgia del già vissuto e dell‟appena finito, e
al tempo stesso c‟è lo struggente desiderio del non ancora; in questo
senso il vissuto temporale dell‟astinenza coaugula il passato e il futuro
nell‟allora come desiderio incoercibile, ma privando completamente di
senso l‟essere qui. Questo conduce alla colliquazione del tempo.
Inoltre il tossicomane fa esperienza non solo di un tempo colliquato ma
anche di uno spazio colliquato, definito tale perché colliqua lo spazio del
“tra”, che è il luogo della possibilità intersoggettiva dell‟incontro.
Quindi la natura più intima della dipendenza è appunto il craving che
diventa la molla che spinge il soggetto verso questa ricerca di spazio e
tempo fusionali e tutta l‟esperienza del soggetto e tutta la sua coscienza
diventano finalizzate alla consumazione della sostanza.
Le conseguenze dell‟uso dipendente di sostanze sul piano sociale e sulla
salute di questi soggetti crescono col progresso dell‟uso. Lo stile di vita
“centrato sulla ricerca della sostanza” apre numerose contraddizioni
nella vita della persona, che negli stadi iniziali tenderà ad usarla in
misura tale da tenere sotto controllo il disagio derivante da tale
situazione; potrà poi accadere che proprio questo disagio, unito
all‟aspirazione di conseguire obiettivi di cambiamento, inneschi i
processi che portano poi al trattamento.
5. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
depressiva
5.1 I Disturbi dell’umore
I disturbi dell‟umore consistono in entità nosografico-cliniche che si
propongono nell‟arco dell‟esistenza come “periodi”, “fasi” o “episodi”,
il cui quadro clinico è caratteristicamente dominato da variazioni
abnormi del tono dell‟umore.
L‟umore è quell‟aspetto dell‟attività psichica che conferisce coloritura
affettiva a ciò che viene vissuto e che si esprime attraverso un continuum
tra i due poli opposti rappresentati dall‟allegria e dalla tristezza, dal
piacere e dal dispiacere, dalla gioia e dal dolore.
Sentimenti di tristezza, demoralizzazione e lutto sono esperienze
universalmente vissute in quanto consustanziali con l‟esistenza stessa.
Con il termine di Depressione si fa riferimento a un‟alterazione
patologica dell‟umore che, sebbene non sia sempre agevolmente
distinguibile dalla tristezza, dalla demoralizzazione e dalla condizione di
lutto di cui normalmente un soggetto fa esperienza durante l‟arco della
vita, in genere si propone come uno stato di sofferenza soggettiva intensa
che tende a protrarsi nel tempo e a non apparire congrua rispetto agli
avvenimenti e situazioni di stress che solitamente precedono e
precipitano l‟insorgenza della depressione stessa.
5.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi dell’Umore
La classificazione dei Disturbi dell‟umore del DSM-IV è la seguente:
Disturbi depressivi (“depressione unipolare”) che comprendono:
disturbo depressivo maggiore;
disturbo distimico;
disturbo depressivo non altrimenti specificato.
Disturbi bipolari che comprendono:
disturbo bipolare I;
disturbo bipolare II;
disturbo ciclotimico;
disturbo bipolare non altrimenti specificato.
Il gruppo dei disturbi depressivi si distingue da quello dei disturbi
bipolari per l‟assenza in anamnesi di episodi maniacali, misti o
ipomaniacali; quindi per poter definire un disturbo bipolare c‟è bisogno
della presenza in anamnesi di episodi maniacali, misti o ipomaniacali.
La prevalenza nel corso della vita di Disturbi dell‟umore varia dal 2% al
25%, con una prevalenza dell‟1-6,5% per il Disturbo Bipolare e del 2,6-
5,5% per gli uomini e del 6-11,8% per le donne per il Disturbo
Depressivo Maggiore.
5.3 Teorie eziopatogenetiche
Fattori biologici e psicosociali eterogenei interagiscono tra loro
nell‟insorgenza e nello sviluppo dei Disturbi dell‟Umore. I fattori
biologici e genetici infatti condizionano la risposta di un individuo agli
eventi di stress (psicosociali e biologici) così come eventi e situazioni di
stress possono condizionare l‟espressione genica.
Fondamentale è stata la ricerca di Caspi che ha dimostrato cosa accade
nell‟interazione tra gene e ambiente. Caspi ha studiato l‟evoluzione della
depressione legata agli eventi stressanti e ha notato che man mano che il
numero degli eventi stressanti aumenta, aumenta anche la possibilità di
sviluppare una depressione. Ma l‟elemento fondamentale di questa
ricerca è la scoperta che un singolo polimorfismo genetico nel
trasportatore della serotonina con variante allelica short short risulta
essere penalizzante per il soggetto mentre una variante allelica del tipo
long long lo protegge dal rischio di ricadute depressive.
Un ulteriore passo avanti nelle ipotesi eziologiche della depressione si è
avuto grazie all‟osservazione che nell‟animale da esperimento un
trattamento prolungato con farmaci antidepressivi provoca una
desensibilizzazione dei recettori per le monoammine, in particolare del
recettore β adrenergico e del recettore serotoninergico; da qui si potrebbe
dire che alla base della depressione c‟è un‟alterata sensibilità di questi
recettori, i quali per tornare all‟omeostasi perduta devono andare
incontro a un processo di desensibilizzazione.
Per quanto riguarda i fattori di stress psicosociali, questi possono attivare
l‟asse ipotalamo-ipofisi-surrene per la produzione di cortisolo, il cui
aumento determina nell‟organismo del soggetto una serie di importanti
disregolazioni. Ad esempio l‟ippocampo, normalmente coinvolto
nell‟apprendimento, nella memoria, nel controllo dell‟umore e delle
emozioni, è un‟area fondamentale nel controllo dell‟attività ipotalamo-
ipofisi-surrene ed è stato dimostrato che in soggetti affetti da disturbi
dell‟umore esso vada incontro a una riduzione di volume; l‟entità della
riduzione sarà direttamente proporzionale alla durata dell‟episodio
depressivo, per cui quanto più tempo il soggetto depresso rimane senza
trattamento farmacologico, tanto maggiore sarà l‟entità della riduzione
del volume ippocampale.
I disturbi dell‟umore possono essere anche considerati delle malattie
sistemiche a causa di numerose disfunzioni di organi e apparati che essi
determinano. Ad esempio la depressione porta a un aumento di mortalità
in corso di malattie organiche, questo è stato dimostrato nello stroke,
nell‟infarto, nel cancro, nel diabete, ecc.; determina alterazioni
autonomiche, come una maggiore attivazione del sistema simpatico, per
questo motivo i soggetti depressi muoiono più frequentemente a causa di
una fibrillazione miocardica; si ha una iperaggregazione piastrinica
dovuta a meccanismi di up regulation; vi sono squilibri del sistema
immunitario che possono anche precedere l‟evoluzione del disturbo
psichico. Da qui il ruolo determinante delle citochine in quanto si è visto
che l‟infiammazione e la patogenesi dei disturbi dell‟umore si embricano
in maniera molto particolare.
5.4 Disturbo Depressivo Maggiore
È caratterizzato dalla comparsa di uno o più episodi depressivi maggiori,
senza episodi maniacali o ipomaniacali, con intervalli liberi di buon
compenso psichico.
Nel DSM-IV sono contemplate le seguenti specificazioni relative
all‟episodio depressivo in atto o più recente: gravità (lieve, moderato,
grave), manifestazioni psicotiche, grado di remissione, cronicità,
manifestazioni catatoniche, melanconiche, atipiche, esordio nel
postpartum.
Il rischio di ammalare di disturbo depressivo maggiore è del 10-25% per
la donna e del 5-12% per l‟uomo: fattori biologici, psicologici e sociali
interagiscono tra loro con peso e significato di volta in volta variabili nel
condizionare l‟epoca d‟insorgenza, le caratteristiche del decorso e
l‟evoluzione.
La possibilità che l‟episodio depressivo maggiore si manifesti una sola
volta nell‟arco della vita è del 15% dei casi, con esordio intorno ai 55-60
anni.
Di fronte a un primo episodio depressivo occorre tenere conto che il
paziente potrà, in circa l‟80% dei casi, andare incontro ad ulteriori fasi di
malattia come la bipolarità. Indicatori di un possibile sviluppo in tal
senso sono l‟insorgenza prima dei 30 anni, la familiarità per i disturbi
bipolari, il rallentamento psicomotorio, l‟ipersonnia, i sintomi psicotici.
La gravità del disturbo dipenderà dalla gravità, dalla durata e dalla
frequenza dei singoli episodi.
Il rischio suicidiario aumenta con l‟età.
Le manifestazioni cliniche interessano l‟umore, la psicomotricità, le
funzioni cognitive e quelle somato-vegetative. Fra i sintomi sono da
annoverare l‟abbassamento del tono dell‟umore (con sentimenti di
tristezza, dolore morale, disperazione) che non è influenzabile da
interventi esterni di incoraggiamento o consolazione, perdita di interesse
e piacere (anedonia), tendenza al pianto, riduzione della capacità di
concentrazione e della memoria, alterazioni psicomotorie (rallentamento)
fra i quali la riduzione della produzione ideica polarizzata soprattutto su
temi di colpa, di autoaccusa, di povertà e di rovina, alterazioni
vegetativo-somatiche (insonnia con difficoltà all‟addormentamento o
risveglio precoce, diminuzione dell‟appetito); possono coesistere ansia e
preoccupazione per possibili eventi negativi e somatizzazioni diffuse.
L‟episodio depressivo maggiore si può anche associare a sintomi
psicotici quali deliri e/o allucinazioni o a sintomi catatonici quali
l‟immobilità, posture inappropriate e movimenti stereotipati.
Il decorso della malattia è estremamente variabile: un primo episodio
comporta un rischio del 40-50% che se ne ripeta un altro, dopo tre
episodi depressivi il rischio di una ricorrenza sale al 90%. Ogni nuovo
episodio tende a manifestarsi più precocemente e bruscamente, con
sintomi più gravi di quelli del precedente episodio.
Numerosi fattori aumentano il rischio di ricorrenza: la presenza di
sintomi depressivi residui, la sospensione, specie se brusca, di un
trattamento efficace; il numero di ricadute precedenti, l‟elevata
emotività, la presenza contemporanea di patologie mediche o di altre
patologie psichiatriche.
La diagnosi differenziale la si deve fare con la demenza e con il disturbo
dell‟umore secondario a patologie somatiche.
Il trattamento di questi pazienti si basa essenzialmente sulla
farmacoterapia, ma ha un posto degno di rilevanza anche la psicoterapia,
e deve essere instaurato il più tempestivamente possibile per l‟intensità
della sofferenza del paziente, il grave rischio suicidiario e quello di
sviluppare complicanze .
I farmaci di prima scelta sono gli inibitori selettivi del reuptake della
serotonina (SSRI) o della noradrenalina o attivi sia sulla serotonina che
sulla noradrenalina.
Di seconda scelta sono invece gli antidepressivi triciclici e gli inibitori
delle monoaminoossidasi.
Il trattamento si articola in tre fasi:
I fase, iniziale: in un periodo di circa 3-10 gg si deve raggiungere
la dose piena in rapporto alla tollerabilità del paziente, tenendo
conto che l‟effetto terapeutico comincia a manifestarsi dopo 14-21
gg di terapia a dose piena, che va mantenuta per 3 mesi.
II fase, di mantenimento: necessaria per evitare la ricaduta; è da
protrarsi per 6-8 mesi.
III fase, di prevenzione delle recidive: di lunga e varia durata
L‟associazione di un antipsicotico e di un antidepressivo porta ad un
miglioramento nel 70-80% dei pazienti.
I pazienti che non hanno risposto al trattamento con un determinato
farmaco devono essere trattati con altro antidepressivo con un profilo
farmacodinamico diverso.
La psicoterapia si sarebbe dimostrata più rapida nel migliorare il
rapporto sociale di questi soggetti, nel diminuire l‟ideazione suicidiaria,
nel migliorare il sonno e l‟appetito.
Diversi possono essere gli approcci psicoterapici: la terapia cognitiva si
occupa dell‟individuazione e del cambiamento delle convinzioni che
interferiscono con un buon funzionamento psichico, la terapia
comportamentale sposta il centro dell‟attenzione lontano dall‟esperienza
soggettiva del paziente per individuare e rimuovere gli elementi
patologici dei comportamenti appresi, la terapia interpersonale si occupa
di analizzare e risolvere i conflitti dei pazienti nelle loro relazioni
interpersonali, la terapia psicodinamica breve si basa sulla concezione
che la sintomatologia depressiva si riduce nel momento in cui il paziente
impara un nuovo modo di fronteggiare i conflitti interni.
5.5 Disturbo Distimico
È caratterizzato da un umore depresso per la maggior parte del giorno,
quasi tutti i giorni, per almeno 2 anni senza intervalli liberi di durata
maggiore dei 2 mesi; inoltre sintomatologicamente vi sono: iporessia o
iperfagia, insonnia o ipersonnia, ridotta energia e astenia, bassa
autostima, scarsa capacità di concentrazione o difficoltà a prendere
decisioni, sentimenti di disperazione.
I sintomi causano disagio clinico significativo o compromissione della
vita sociale e lavorativa del soggetto.
La prevalenza di sviluppare un disturbo distimico è del 6% ed è doppia
nelle donne rispetto agli uomini.
L‟esordio è precoce e insidioso.
La diagnosi differenziale viene posta con il disturbo depressivo maggiore
rispetto al quale i sintomi sono meno gravi e di durata prolungata per
anni, e con un disturbo dell‟umore dovuto a una condizione medica
generale dove la sintomatologia psichica è conseguenza degli effetti
fisiologici diretti della malattia (di solito cronica).
5.6 Disturbo Bipolare I
Per fare diagnosi di Disturbo Bipolare I è sufficiente un solo episodio di
mania o episodio misto il quale indica che il soggetto è a rischio di
sviluppare anche episodi depressivi.
Spesso si associano comportamenti violenti, abuso d‟alcool, suicidio,
compromissione del rendimento lavorativo.
La prevalenza di questa patologia è compresa tra 0,4-1,6%; l‟esordio è
più probabile nell‟età compresa tra i 15 e 40 anni.
Esiste una grande variabilità di decorso, con periodi di latenza tra un
periodo e l‟altro anche molto lunghi in alcuni casi e molto brevi in altri,
questo fino alla “rapida ciclicità”.
La terapia prevede l‟uso di antidepressivi e sali di litio. Nel caso di
risultati inefficienti è consigliabile potenziare l‟azione del litio con
carbamazepina o valproato sodico che hanno dato un buon effetto
antimaniacale e stabilizzante dell‟umore.
5.7 Disturbo Bipolare II
In tale disturbo vengono inclusi i pazienti che alternano episodi
depressivi maggiori con uno o più episodi ipomaniacali.
I sintomi causano disagio significativo e compromissione della vita
sociale e lavorativa.
La prevalenza del disturbo bipolare II è dello 0,5%. Presenta una discreta
familiarità e comorbidità con il disturbo bipolare I e con quello deressivo
maggiore.
Il quadro clinico dell‟episodio depressivo maggiore dei pazienti con
disturbo bipolare II è di gravità minore.
La terapia è sovrapponibile a quella per il disturbo bipolare I.
5.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi dell’umore
Nella psicopatologa dei disturbi dell‟umore, in particolare in quella della
depressione, il punto centrale della considerazione spazio-temporale è la
sensazione di un blocco in cui il futuro viene disabitato dalla speranza e
fa sì che il tempo si arresti. In fondo la parola “disperazione” nasce da
una perdita di speranza, cioè le persone non riescono più a infuturarsi
nella maniera positiva con cui ognuno cerca di sopravvivere.
Quindi c‟è l‟arresto del motus spei, cioè del moto che si dà alla speranza,
perché non ci sono progetti e ogni cosa appare impossibile. In questa
situazione s‟inserisce un passato che viene desertificato da qualsiasi
aspetto positivo e viene invece abitato solo dalla colpa e dalla vergogna
che può esserci per l‟accaduto, cioè per ciò che è successo e che non si
sarebbe voluto compiere, o per l‟inaccaduto, cioè per ciò che non si è
avuto il coraggio di fare, oppure per l‟accadimento stesso dell‟esistenza.
Quindi i temi cognitivi del paziente depresso sono focalizzati su una
perdita avvenuta in passato, su “un fallimento di scopi”. Questa perdita è
vista come un‟inadeguatezza delle qualità personali a colpe, violazioni di
norme morali, abbandono o perdita di figure rassicuranti.
Qui è evidente che le prospettive dell‟avvenire sono chiuse e c‟è quindi
lo sviluppo dell‟idea della rovina e della catastrofe di un mondo non più
vivibile. È in questa situazione di rovellio interiore e di rimuginio che
avviene un‟intenzionalità autodistruttiva molto forte, che non solo
coinvolge il paziente ma anche tutte le persone a lui più care e che
portano a episodi definiti “suicidi altruisti”, definiti tali perché non sono
dati da un‟aggressività specifica verso queste persone ma sono dovuti al
desiderio di sottrarle al dolore del mondo e a quella rovina a cui
sarebbero ineluttabilmente destinati.
Un altro aspetto molto importante e da tener presente nella depressione è
il passato. Il passato è destoricizzato, non ha più alcun significato se non
quello della dimensione temporale che diventa poi assente perché
impedisce al paziente ogni rincorsa verso l‟avvenire e lo immobilizza.
Anche qui c‟è questa situazione del non poter vivere che può portare il
soggetto al suicidio.
Inoltre c‟è anche un‟alterazione della relazione temporale di
sincronizzazione tra il tempo del soggetto e il tempo dell‟ambiente, in
cui il tempo flusso si arresta e la dimensione temporale diventa qualcosa
appartenente a un mondo non più condivisibile. È come se queste
persone si fossero fermate in un preciso momento che poi diventa eterno
ed essendo pieno di colpe, di rovina, di indegnità, diventa una tortura
senza fine per il paziente.
Fra l‟altro questo è un tempo non più abitato e che non permette
un‟evoluzione dell‟individuo, il quale diventa passivo e impotente di
fronte ai cambiamenti che gli avvengono intorno e di cui non ne
comprende la velocità, a cui non sa adeguarsi e che gli si impongono in
un rapporto di non partecipazione.
6. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza
psicotica
6.1 Il disturbo schizofrenico
La schizofrenia è una malattia psichiatrica caratterizzata da un decorso
superiore ai sei mesi (tendenzialmente cronico o recidivante), dalla
persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e
dell'affettività.
La prevalenza del disturbo schizofrenico va dallo 0,1 all‟1% con
un‟incidenza variabile da 0,1 a 0,7%; il rischio di contrarre il disturbo si
attesta all‟incirca all‟1%. Non vengono rilevate significative differenze
correlate al sesso per quanto riguarda prevalenza e incidenza, mentre ci
sono differenze tra i due sessi nell‟età d‟insorgenza della patologia: nelle
donne sembra essere più tardiva (25-35 anni) rispetto agli uomini (15-24
anni).
La schizofrenia rappresenta un campo dei disturbi mentali in cui si
esprime la radicale complessità e multi determinazione dell‟alterazione
mentale patologica. I progressi sviluppati in due secoli di osservazione
clinica e di studi scientifici hanno consentito di dimostrare che fattori di
diversa natura concorrono al determinismo di questa manifestazione
emblematica della patologia del comportamento dell‟uomo. In essa
infatti confluiscono fattori biologici, psicologici, sociali la cui
concomitanza espone l‟individuo alla probabilità di esprimere questa
patologia incidendo significativamente sulla eterogeneità della
espressività psicopatologica e del decorso. Uno degli psichiatri biologici
più accreditati degli anni ‟90 ha scritto a riguardo che la schizofrenia è
una malattia del cervello che si esprime clinicamente come una malattia
delle mente e che le cause che la determinano sono una combinazione di
fattori genetici ereditari e di fattori esterni non-genetici che alterano la
regolazione e l‟espressione dei geni che regolano il funzionamento del
cervello oppure provocano direttamente un danno cerebrale.
Teorie biologiche
La prima ipotesi biochimica afferma che la schizofrenia deriva da
un‟alterazione in eccesso dell‟attività neurotrasmettitoriale
dopaminergica cerebrale. Numerose ricerche hanno evidenziato una
correlazione positiva tra un‟elevata concentrazione plasmatica di ac.
Omovanillico, metabolita della dopamina, e gravità dei sintomi psicotici
e tra miglioramento clinico e riduzione della sua concentrazione.
A tutt‟oggi non è ancora del tutto chiarito se la iperfunzione
dopaminergica riguardi un eccessivo rilascio di dopamina e/o un eccesso
di recettori dopaminergici. L‟ipotesi attuale è che i recettori D2 non
possano da soli spiegare i sintomi della schizofrenia.
I limiti dell‟ipotesi dopaminergica e la convinzione che non esiste un
unico disturbo schizofrenico, hanno condotto a prendere in
considerazione il coinvolgimento di altri neurotrasmettitori la cui
alterazione condurrebbe a manifestazioni psicopatologiche analoghe. A
questo proposito è stato dimostrato che è possibile produrre
manifestazioni psicotiche analoghe sia utilizzando l‟LSD che agisce a
livello serotoninergico, sia l‟anfetamina che aumenta l‟attività
dopaminergica. Attualmente vengono presi in considerazione la
serotonina e soprattutto i recettori 5-HT2 inibitori, presenti soprattutto
nella corteccia frontale e nel sistema striatale.
Il coinvolgimento della trasmissione serotoninergica nella schizofrenia
viene, a tutt‟oggi, preso in considerazione soprattutto relativamente ad
alcune manifestazioni cliniche del disturbo; esiste tra i ricercatori
accordo sul riscontro dell‟aumento di 5-HT nel sangue e nelle piastrine
in concomitanza con anomalie morfologiche cerebrali (aumento di
volume dei ventricoli cerebrali) in pazienti con schizofrenia cronica e
ipersensitività recettoriale 5-HT2 e della prevalenza di anomalie del
sistema serotoninergico in forme cliniche con preponderante espressività
di sintomi negativi; viene fatta l‟ipotesi che una riduzione del tono
serotoninergico potrebbe tradursi in una diminuzione della modulazione
inibitoria esercitata sulle strutture dopaminergiche sottocorticali e in una
modificazione della reattività dei recettori D2 corticali.
Il sistema noradrenergico viene oggi preso in considerazione a causa
delle crescenti ricerche che tendono a confermare la sua azione
modulatrice sul funzionamento del sistema dopaminergico.
Attualmente viene anche ipotizzato il coinvolgimento del GABA nei
meccanismi fisiopatologici della schizofrenia; è stata infatti osservata
una riduzione dei neuroni GABAergici nell‟ippocampo con la possibile
conseguente riduzione dell‟inibizione sull‟attività dopaminergica e
noradrenergica.
Recenti studi hanno posto in evidenza anche il coinvolgimento dei
recettori NMDA e del possibile ruolo del glutammato.
Vanno infine ricordate le ricerche relative al coinvolgimento dei
neuropeptidi cerebrali oppioidi (endorfine) che postulano nel disturbo
schizofrenico un‟anomalia della neuro modulazione endorfinica e più
precisamente di una prevalenza dell‟attività cerebrale di tipo β
endorfinico.
Già all‟inizio del „900 fu rilevato l‟aumento della prevalenza del disturbo
tra i fratelli dei pazienti schizofrenici. Nonostante i numerosi studi in
campo e i modelli ipotizzati (a singolo gene o oligogenici o poligenici) i
risultati sono ancora insufficienti e controversi. Cioè alcuni ipotizzano
una trasmissione ereditaria monogenica dominate, altri monogenica
recessiva, altri credono che il gene di suscettibilità alla schizofrenia sia
situato sul cromosoma X. Nelle ricerche più recenti sono stati segnalati
numerosi loci posti su diversi cromosomi.
Nonostante il numero crescente di studi brain-imaging che dimostrano
diversi tipi di anomalie cerebrali presenti negli schizofrenici
(allargamento ventricolare, patologia del sistema limbico, del talamo, dei
gangli della base e della corteccia) non vi sono ancora evidenze
conclusive circa la presenza di una patoanatomia caratteristica per tutti i
pazienti.
Teorie sociali
Fra le teorie sociali proposte tipica è quella della figura della madre
schizofrenogenetica: donna autoritaria, fredda, invadente o al contrario
iperprotettiva, troppo indulgente, portata a generare confusione tra la
propria identità e quella del figlio; o quella della figura del padre
schizofrenogenetico: personalità passiva, immatura, assente, indifferente
e inadeguata al proprio ruolo.
Teoria della vulnerabilità
La teoria della vulnerabilità per i disturbi schizofrenici nasce sul modello
naturalistico diatesi-stress-adattamento con l‟intento di comprendere in
un unico processo eziopatogenetico la multi determinazione bio-psico-
sociale del disturbo e nel contempo sottolineare il peso dei fattori
psicosociali e familiari non soltanto nel determinismo del disturbo ma
anche nel suo decorso.
Secondo Zubin le manifestazioni schizofreniche insorgono quando
eventi stressanti ambientali e/o biochimici danno una stimolazione
soprasoglia per il soggetto vulnerabile.
Secondo il modello di Huber la vulnerabilità schizofrenica è dovuta al
disturbo cognitivo fondamentale che riguarda un disturbo (deficit) di
ricezione e elaborazione delle informazioni sotteso da un‟alterazione
neurofisiologica e neurotrasmettitoriale del lobo limbico. Da qui l‟idea
che i sintomi di base sarebbero correlati strettamente al deficit di
processazione.
Maggini afferma che gli schizofrenici per gran parte della loro vita
conservano la capacità di percepire e riconoscere i propri deficit (sintomi
di base) e di mantenere nei loro confronti un atteggiamento critico
elaborando strategie compensatorie adattative e di evitamento di quelle
situazioni che li provocano. Quando si verificano degli stress esterni o
interni questi sintomi si intensificano e si sviluppa una seconda fase del
disturbo in cui la discrepanza tra capacità di processazione e sovra
stimolazione psichica genera inizialmente esperienze di estraneità e di
perplessità e poi l‟esperienza psichica, vissuta con angoscia e irritazione;
questa è la fase spesso osservata nella clinica come prodromica
all‟esplosione della sintomatologia psicotica; è una fase reversibile se le
condizioni di sovra stimolazione recedono, altrimenti essa condurrà alla
terza fase di vera e propria manifestazione psicotica.
Teorie psicodinamiche
Per Melanie Klein la schizofrenia ha origine da una condizione di
insufficiente elaborazione o di mancato superamento della posizione
schizoparanoide che caratterizza fisiologicamente la dimensione
relazionale con la madre per un certo periodo di tempo ed è regolata da
meccanismi di scissione, proiezione e identificazione proiettiva necessari
per arginare le angosce distruttive primitive esistenti in ogni bambino; il
mancato superamento di questa posizione conduce alla persistenza
dell‟esperienze di sé e del mondo circostante dominati da atmosfere
persecutorie, alla carenza della capacità di differenziare il proprio sé dal
mondo circostante e alla ridotta capacità di sviluppare un Io in grado di
integrare le funzioni di pensiero realistico e l‟esperienza di sé distinta dal
mondo esterno. In questa concezione l‟ambiente materno non sembra
avere una particolare importanza nell‟influire sul destino del processo
evolutivo della posizione schizoparanoide che appare maggiormente
venir ricondotta a fattori innati.
Winnicott al contrario sottolineò l‟insostituibile ruolo della qualità del
sostegno materno nel consentire all‟Io nascente di sviluppare il processo
della sua integrazione. Per questo autore la schizofrenia rappresentava il
risultato di cure materne insufficientemente buone che avevano costretto
il bambino a confrontarsi con l‟angoscia di disintegrazione, lasciandolo
in balia di una eccedenza degli impulsi distruttivi e nella necessità di
continuare a utilizzare le difese schizoparanoidi per sopravvivere.
Bion ha parlato a questo proposito del fallimento della funzione materna
di contenimento delle angosce distruttive e di frammentazione.
Nella classificazione del DSM-IV sono stati differenziati in relazione
alla sintomatologia predominante i seguenti sottotipi:
tipo paranoide: caratterizzato dalla presenza di uno o più deliri e
da allucinazioni uditive;
tipo disorganizzato: caratterizzato soprattutto da eloquio
disorganizzato, comportamento disorganizzato, affettività
appiattita;
tipo catatonico: il quadro clinico è dominato da almeno due dei
seguenti sintomi: arresto motorio, eccessiva attività motoria
(apparentemente senza scopo e non influenzata da stimoli esterni),
negativismo estremo o mutacismo, peculiarità del movimento
volontario, come evidenziato dalla tendenza alla postura fissa
(assunzione volontaria di posture inadeguate o bizzarre), da
movimenti stereotipati, da smorfie, ecolalia o eco prassia;
tipo indifferenziato;
tipo residuo: non sono presenti rilevanti deliri e allucinazioni,
eloquio disorganizzato e comportamento, ma vi sono sintomi
negativi in forma attenuata.
Allo stato attuale delle conoscenze è assai improbabile credere che esista
un‟entità unitaria di questo disturbo; da qui la mancata identificazione di
un pattern sintomatologico tipico e un percorso d‟evoluzione
caratteristico.
Quindi si possono distinguere tre dimensioni o cluster sintomatologici
correlati con un‟area disfunzionale:
1) distorsione della realtà e disorganizzazione del pensiero:
comprende i c.d. sintomi positivi o produttivi, cioè le
allucinazioni, i deliri, i disturbi formali positivi del pensiero e il
comportamento bizzarro;
2) impoverimento affettivo: è rappresentato dai sintomi negativi:
appiattimento affettivo, abulia-apatia, anedonia-asocialità;
3) deficit neuropsicologici: deficit della working memory, deficit del
mantenimento dell‟attenzione, deficit delle funzioni esecutive.
Il trattamento dei disturbi schizofrenici comprende interventi di diverso
tipo che devono essere integrati tra loro per rispondere alla
multideterminazione del disturbo. La farmacoterapia deve essere
modificata in base alle differenti espressività che il disturbo assume nello
stesso paziente lungo le diverse fasi del decorso.
I farmaci d‟elezione usati nel trattamento di questi disturbi sono i
neurolettici; attualmente vengono usati neurolettici di nuova generazione
(c.d. atipici per differenziarli dai primi neurolettici denominati tipici) che
pur mantenendo l‟azione antidopaminergica hanno anche un‟azione sui
recettori 5-HT2 inibendoli, questo determina un aumento dell‟attività
dopaminergica cerebrale corticale con una conseguente riduzione dei
sintomi negativi e una comparsa minore o addirittura l‟assenza degli
effetti collaterali extrapiramidali.
La scelta del tipo di neurolettico dipenderà dalla sintomatologia in atto
osservata, per cui la prevalenza dei sintomi produttivi richiederà l‟uso di
un neurolettico tipico mentre quella dei sintomi negativi o di entrambi
indicherà l‟utilizzazione di un neurolettico atipico con azione sia
antidopaminergica che di blocco sui recettori 5-HT2.
Oggi si ritiene che la terapia della schizofrenia non possa prescindere da
interventi psicoterapeutici individuali indirizzati soprattutto a sostenere
la relazione terapeutica e a favorirne la continuità e la stabilità, a
comprendere le angosce psicotiche che vengono comunicate e a fornire
un sostegno esterno di supporto alla vulnerabilità di base del paziente. Si
consiglia il trattamento psicoterapeutico istituzionale integrato, in esso il
psicoterapeuta deve cercare di comprendere gli stati emotivi del paziente
e quelli suscitati nelle figure terapeutiche di riferimento al fine di
modulare gli interventi psichiatrici disponibili.
Accanto all‟intervento psicoterapeutico integrato sono previsti anche
programmi di acquisizione di abilità sociali svolti nei centri diurni o
nelle comunità terapeutiche residenziali, tutto questo consente di ridurre
gli stress psicosociali e di rifornire percorsi di reinserimento sociale e
lavorativo protetto graduale.
6.2 Altri Disturbi Psicotici
Vengono compresi in questa categoria disturbi psicotici che per la loro
espressività fenomenologica, per decorso e prognosi, non soddisfano i
criteri della schizofrenia e devono essere distinti dai disturbi dell‟umore
con sintomi psicotici.
Seguendo la classificazione del DSM-IV vi sono:
disturbi deliranti;
disturbo psicotico breve;
disturbo psicotico condiviso;
disturbi psicotici dovuti a una concomitante condizione medica
generale;
disturbi psicotici indotti da sostanze.
In letteratura sono stati descritti diversi lavori che cercano di giungere a
modelli neurobiologici per spiegare il fenomeno delle allucinazioni. Un
modello conclusivo vede il sistema limbico come il luogo dove nasce
l‟esperienza del delirio, cioè quello stato emotivo che predispone al
delirio prima ancora di dargli un contenuto. Il rapporto limbico
temporale è quello che probabilmente entra in gioco nel fenomeno
dell‟esperienza allucinatoria, per poi converge in quelle aree cerebrali
con cui si pensa, con cui si organizza l‟esperienza primaria in un
contenuto e quindi si da anche un tema al delirio.
Non si sa ancora con certezza se esiste un rapporto tra deficit cognitivo e
contenuto, ma qualora questo esistesse si potrebbe ipotizzare di
intervenire farmacologicamente su di esso modulando o bloccando
quella che è l‟attività dopaminergica a livello limbico. Più difficile è
pensare come si potrebbe intervenire a livello fronto-corticale dove
entrano in gioco alterazioni disfunzionali del sistema dopaminergico in
rapporto col sistema glutammatergico e serotoninergico.
Per quanto riguarda il rapporto fra il deficit funzionale di base del
cervello, il suo contenuto semplificativo e il contenuto dell‟esperienza
psicotica, ci si interroga molto per capire quale di questi elementi venga
prima, se c‟è prima il deficit e poi il delirio o il contrario. Probabilmente
si ha prima la disfunzione cognitiva e poi il delirio, ed è probabile che il
deficit cognitivo dia certamente forma ma anche contenuto
all‟esperienza psicotica. Questo da luce su quella che è la natura e il
decorso della malattia perché sono andamenti non paralleli (la
psicopatologia ha un suo decorso e il deficit ne ha un altro), ma
certamente l‟uno influenza l‟altro.
Disturbo Delirante
Si calcola che il disturbo delirante rappresenti circa l‟1-4% di tutti i
ricoveri psichiatrici.
Esordisce di solito in età adulta con una prevalenza leggermente
maggiore per il sesso femminile.
I criteri diagnostici del DSM-IV riguardo questa forma di psicosi sono:
deliri non bizzarri (cioè concernenti situazioni che ricorrono nella vita
reale) che durano almeno un mese, il comportamento non è
eccessivamente stravagante, gli episodi di alterazione dell‟umore hanno
durata pari a quella dei periodi deliranti (quindi breve), il disturbo non è
dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione
medica generale.
In base al contenuto delirante prevalente viene specificato il tipo
delirante: tipo erotomanico, tipo di grandezza, tipo di gelosia, tipo di
persecuzione, tipo somatico, tipo misto.
Esistono osservazioni della possibile evoluzione del disturbo delirante in
un disturbo schizofrenico o della comparsa in esso di manifestazioni
psicotiche acute episodiche.
È necessario considerare anche forme psicopatologiche in cui il delirio
cronico appare molto bizzarro e sono presenti turbe allucinatorie uditive.
Si tratta qui di quadri clinici intermedi tra il disturbo schizofrenico e il
disturbo delirante perché soddisfano in parte i criteri diagnostici di
entrambe le categorie. Questo particolare quadro va sotto il nome di
parafrenia.
L‟intervento terapeutico risulta complesso: il deficit della
consapevolezza di malattia e la buona conservazione della personalità e
delle funzioni cognitive, difficilmente conducono il paziente dallo
psichiatra, e comunque comportano una bassa collaborazione.
Il trattamento psicofarmacologico indicato è di tipo neurolettico, per
quanto non si possa escludere in alcuni casi anche l‟uso di antidepressivi.
Disturbo Psicotico Breve
Le psicosi acute sono forme eterogenee, sul piano etiopatogenetico e
strutturale, tenute insieme da caratteristiche comuni di espressività
sintomatologica e di decorso.
Il loro inquadramento e la loro interpretazione sono da sempre
controversi e problematici. Ancora non si capisce se siano entità
morbose autonome o forme particolari di una sindrome psicotica più
estensiva, o se siano varianti dei disturbi bipolari o della schizofrenia.
Il loro ordinamento diagnostico resta pertanto ancora un problema
aperto.
Oltre alle manifestazioni sintomatologiche che richiamano le grandi
psicosi (deliri e allucinazioni) e le fanno apparire in qualche modo ad
esse collegate, è stato dato un significato diagnostico patognomonico al
particolare livello di destrutturazione della coscienza presente in questi
casi sotto forma di stati confuso onirici.
È utile ricordare le seguenti tipologie diagnostiche:
psicosi schizofreniformi;
psicosi reattive o psicogene;
bouffées deliranti acute.
Tutte queste sono forme cliniche caratterizzate da sintomatologia
delirante-allucinatoria con turbe particolari dello stato di coscienza e da
esordio acuto, spesso concomitante ad eventi ambientali ed esistenziali
di particolare significato emotivo che si manifestano in persone senza
palesi caratteristiche di personalità premorbosa di tipo schizoide o
schizotimico, e che hanno una durata limitata nel tempo con evoluzione
favorevole in restitutio ad integrum.
I criteri diagnostici del DSM-IV per il Disturbo Psicotico Breve sono:
presenza di uno dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloqui
disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico;
la durata di un episodio del disturbo è di almeno un giorno, ma
meno di un mese, con successivo pieno ritorno al livello di
funzionamento premorboso;
il disturbo non è meglio giustificato da un Disturbo dell‟ Umore
con manifestazioni psicotiche, da un Disturbo Schizoaffettivo, da
Schizofrenia, non è dovuto agli effetti fisiologici indotti da una
sostanza o da una condizione medica generale;
con insorgenza nel post-partum, se l‟insorgenza avviene entro 4
settimane dal parto.
Una volta escluse condizioni psicotiche derivanti da sofferenza del
sistema nervoso centrale, gli interventi psichiatrici per queste sindromi,
spesso condotti in situazioni d‟urgenza, comprendono il trattamento
psicofarmacologico (soprattutto neurolettico, ma anche esteso ai
regolatori dell‟umore nonché agli antidepressivi), l‟accudimento
somatico per i bisogni vitali più o meno compromessi e infine un
adeguato sostegno psicoterapeutico in grado di contenere
costruttivamente le angosce deliranti nel periodo di stato e a offrire
quando sia possibile un‟elaborazione costruttiva dell‟esperienza
trascorsa a guarigione avvenuta. Talvolta l‟uscita dalle psicosi avviene
con meccanismi analoghi a quelli del risveglio dal sonno per cui
intervengono attivamente meccanismi di repressione e di diniego; in
questi casi, con la guarigione dalle psicosi termina anche il trattamento e
il rapporto terapeutico.
6.3 La concezione spazio-temporale nei Disturbi Psicotici
La persona con disturbi psicotici ha un disturbo fisso della stima del
tempo. Un contributo che cerca di spiegare questo concetto è dato dal
modello della dismetria. La dismetria cognitiva riesce a spiegare una
serie di problemi clinici caratterizzati dalla mancanza di fluidità dello
scorrere del tempo e dalla frammentazione dell‟esperienza. Essa si fonda
sul fatto che alcune zone del cervello non si connettono sincronicamente
portando a una difficoltà a programmare il futuro, a capire il presente
perché manca il passato, a fare discorsi logici; questa è la cosiddetta
“disorganizzazione della psicopatologia”. La dismetria induce un
disturbo nelle componenti sequenziali delle attività mentali.
Quindi nelle psicosi c‟è la completa perdita della realtà temporale perché
tutto si mischia; per cui le vite di questi pazienti si individuano come
dimensioni falcidiate da un vivere puntiforme nel presente perché il
tempo ha una velocità enorme che porta quasi ad una sorta di
frammentazione.
In questa visione rientra la concezione del presente destorificato tipico
dell‟esperienza psicotica. La destorificazione del presente avvalora l‟idea
di come l‟esperienza vissuta dello spazio si trasformi contestualmente, il
vicino e il lontano perdono autonomia e significato, tutti gli spazi si
appiattiscono, lo spazio esterno transita facilmente senza ostacoli in uno
spazio interno e viceversa. Questa spirale imprevedibile di permeabilità
senza precisi confini, questa coartazione dello spazio esistenziale, questa
fuga verso un dove o un altrove che non c‟è più, costituisce la
costellazione più importante della sofferenza psicotica.
Una caratteristica tipica dei disturbi psicotici è la presenza di
allucinazioni. Spesso questi pazienti fanno riferimento alla casa; la
metafora della casa è introdotta nel discorso come allusiva al mondo
interno, ad esempio si parla di tetti che hanno delle infiltrazioni, di
intonaci che si screpolano o di case ormai irrimediabilmente non
restaurabili, cioè che non hanno un futuro di accrescimento. Da qui la
forte accentuazione nell‟idea della spazialità.
Straus apre un livello di ragionamento che si basa sul fatto che ciò che si
vede nel declinarsi di un vissuto allucinatorio è un mutato rapporto tra
l‟io e l‟altro; quindi non c‟è più un interno e un esterno, ma c‟è questo
flusso tra coscienza e mondo, le cose appaiono, si odono o si toccano al
di là di quella che è la specificità dei sensi nel declinarsi di queste
relazioni e di questa intersoggettività.
Un‟importante revisione del problema è stata fatta dalla psicanalisi. Il
modello freudiano della soddisfazione allucinatoria, del fatto che
l‟allucinazione rappresenti un ritorno di qualcosa di rimosso, del fatto
che nel meccanismo dispercettivo sia attivo qualcosa che ha a che vedere
con la regressione, sta nel fatto che questo meccanismo coglie nella
nuova relazione tra il soggetto e il mondo una dinamica basata sulla
conflittualità, in realtà più esplicativa per le nevrosi che non per le
allucinazioni.
Le cose cambiano significativamente con la revisione fatta da Bion. In
questa revisione è presente l‟idea dell‟identità come risultato di una
strutturazione progressiva, e come molteplicità, quindi a un io come
gruppalità; questa situazione di molteplicità dell‟identità permette di
capire come la spiegazione di vissuti allucinatori sia qualcosa che deve
tener conto non solo di una sorta di frammentazione ma anche di una
dislocazione rispetto alla centralità del soggetto medesimo. C‟è
un‟immagine di Bion molto precisa di allucinazioni all‟interno di una
seduta analitica: un paziente che parla con il suo deux peliches ma parla
anche con l‟analista. Nella lettura dell‟evento allucinatorio c‟è sempre il
problema di capire se i due registri convivono o se sono due registri che
nel momento in cui sono attivi si escludono momentaneamente. Questo
perché Freud sostiene che il registro della dispercezione è diverso da
quello dell‟esperienza percettiva quotidiana, e il relè che indurrebbe il
passaggio da un registro a un altro è la valorizzazione nel percorso
dell‟allucinazione negativa. L‟allucinazione negativa apre la possibilità
di comprendere il momento in cui il mondo della percezione quotidiana,
dell‟esperienza quotidiana, viene sostituito dal mondo delle presenze
allucinatorie. Ecco l‟importanza di questa situazione allucinatoria
nell‟aspetto della spazialità, perché lo specifico di certi vissuti
allucinatori risiede proprio in quest‟opporsi a una scansione temporale e
storica del soggetto.
C‟è una corrispondenza in parallelo tra la comparsa del fenomeno
allucinatorio e il carico esistenziale di angoscia; questa situazione
strutturale, proprio come una struttura architettonica, viene attivata per
un sovraccarico della dinamica complessiva del funzionamento del
soggetto.
Inoltre è stata notata un‟anomalia correlata tra la memoria temporale e
quella spaziale: tanto maggiore è il deficit di memoria spaziale, tanto più
lo sarà quello di memoria temporale.
Per cui oltre ai sintomi negativi, positivi e affettivi c‟è la dimensione
disorganizzativa che porta il paziente ad avere delle vere e proprie
difficoltà oggettive, in quanto la sua esperienza del passato è deficitaria,
non riesce bene a collegare mediante la working memory il passato breve
con il presente, ogni cosa gli appare nuova, ha l‟angoscia per la novità, il
presente è confuso e nello stesso tempo non riesce a viverlo pienamente
perché attaccato da interferenze esterne o interne, il futuro non esiste
perché non ha la capacità di programmarlo.
Conclusioni
A partire dall‟esplorazione della dimensione spazio-temporale in ambito
fenomenologico perlustrata da diversi autori italiani, in auge nell‟ambito
della psicopatologia nostrana, si sono voluti mettere in risalto aspetti
salienti non solo teorico-filosofici, del resto la dimensione spazio-
temporale è stata sempre indagata sotto un profilo filosofico fin dai
tempi antichi, ma anche clinico-esperienziali.
Queste due dimensioni, spaziale e temporale, nella pratica quotidiana
vengono esplorate contemporaneamente perché si ritiene che un paziente
che è disorientato nel tempo lo sarà anche nello spazio e viceversa.
Sin dai tempi antichi filosofi, medici e psichiatri hanno scandagliato con
maggior curiosità e attenzione la dimensione temporale rispetto a quella
spaziale, come se modificazioni della sfera temporale fossero più
rilevanti ai fini clinici, o forse solo più eclatanti anche ad un occhio
meno esperto. Da qui le classiche considerazioni del tempo rallentato,
accelerato o frammentato in cui il passato, il presente e il futuro si
fondono per creare nel paziente psichiatrico uno stato patologico di
confusione.
Tutto questo però non ci giustifica dal tralasciare le modificazioni che
avvengono nella dimensione spaziale, meno visibili ma anch‟esse
necessarie, in quanto lo spazio del paziente psichiatrico è intriso di tanti
piccoli significati e destrutturazioni che possono essere un corollario o
un‟anticipazione di una serie di sintomi.
Oggigiorno il problema della concezione dello spazio nel paziente
psichiatrico sta tornando a galla, infatti gli studi a riguardo nelle riviste
scientifiche del settore sono molteplici.
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  • 1. UNIVERSITA‟ DEGLI STUDI “G.d‟ANNUNZIO” CHIETI-PESCARA FACOLTA‟ DI MEDICINA E CHIRURGIA Tesi di laurea La dimensione spazio-temporale in psicopatologia Laureanda: Relatore: Fabiola Sarchione Chiar.mo Prof. Filippo Maria Ferro Anno Accademico 2010/2011
  • 2. Ai miei genitori e a mia nonna, che mi hanno sostenuta e incoraggiata in questi sei lunghi e faticosi anni di studio.
  • 3. INDICE Premessa Capitolo 1: La dimensione spazio-temporale in fenomenologia pag. 1 1.1 La concezione dello spazio pag. 1 1.2 La concezione del tempo pag. 4 Capitolo 2: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza d‟ansia pag. 7 2.1 I Disturbi d‟Ansia pag. 7 2.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi d‟Ansia pag. 8 2.3 Teorie eziopatogenetiche pag. 8 2.4 Disturbo di panico pag. 9 2.5 Fobia specifica pag. 12 2.6 Disturbo ossessivo-complusivo pag. 13 2.7 Disturbo d‟ansia generalizzato pag. 15 2.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi d‟Ansia pag. 16 Capitolo 3: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza borderline pag. 18 3.1 Disturbo borderline di personalità pag. 18 3.2 Teorie eziopatogenetiche pag. 19 3.3 Trattamento pag. 19 3.4 Aspetti clinici e concezione spazio-temporale nella sofferenza borderline pag. 20 Capitolo 4: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza tossicomane pag. 22 4.1 Disturbi da uso di sostanze psicoattive pag. 22 4.2 Teorie eziopatogenetiche pag. 23
  • 4. 4.3 Classificazione e Diagnosi secondo il DSM-IV pag. 24 4.4 Neurobiologia dell‟uso di sostanze pag. 25 4.5 Trattamento pag. 26 4.6 Concezione spazio-temporale nella sofferenza tossicomane pag. 27 Capitolo 5: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza depressiva pag. 30 5.1 I Disturbi dell‟umore pag. 30 5.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi dell‟Umore pag. 30 5.3 Teorie eziopatogenetiche pag. 31 5.4 Disturbo Depressivo Maggiore pag. 33 5.5 Disturbo Distimico pag. 36 5.6 Disturbo Bipolare I pag. 37 5.7 Disturbo Bipolare II pag. 37 5.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi dell‟umore pag. 38 Capitolo 6: La dimensione spazio-temporale nella sofferenza psicotica pag. 40 6.1 Il disturbo schizofrenico pag. 40 6.2 Altri Disturbi Psicotici pag. 47 6.3 La concezione spazio-temporale nei Disturbi Psicotici pag. 52 Conclusioni pag. 56 Bibliografia pag. 59
  • 5. Premessa Le pagine seguenti di questa tesi di laurea prevedono come argomento di trattazione un aspetto molto particolare riscontrato in soggetti affetti da patologie dell‟area psichiatrica, vale a dire la loro dimensione spazio- temporale, ossia il modo in cui loro vivono, occupano, interpretano il tempo e lo spazio che gli si presentano innanzi. L‟interesse che ha condotto alla scelta di quest‟argomento è scaturito, grazie all‟aiuto prestatomi dal Professor Filippo Maria Ferro, dall‟osservazione pratica sperimentata in prima persona frequentando la Clinica Psichiatrica della singolare interpretazione che i pazienti fanno del vissuto temporale e spaziale, e dalla lettura di relazioni a riguardo redatti dai più illustri studiosi e psichiatri dello scenario italiano. Scandagliare questo tema è indispensabile perché i soggetti possono andare incontro all‟evoluzione di un gran numero di disturbi psichiatrici da cui scaturisce una vasta gamma di modi di rapportarsi a queste due categorie esistenziali; da qui l‟importanza per il medico di conoscere le varie interpretazioni dello spazio e del tempo in relazione ai diversi quadri morbosi, non solo per intraprendere il trattamento più appropriato per quel determinato paziente ma anche per approcciarsi nella maniera più adeguata alla sua sofferenza. Tanti illustri studiosi e filosofi nell‟arco degli anni si sono interrogati sul significato delle parole “tempo” e “spazio”, prima collegandolo alla vita abituale e quotidiana, e poi alla vita vissuta dal paziente, sia esso malato di una patologia somatica sia esso malato di una patologia mentale. Da qui le diverse declinazioni dello spazio come un essere con, un essere qui, un esser là, ma anche un esser tra. Il medico deve sapersi orientare in queste declinazioni spaziali perché esse gli permettono di creare un
  • 6. rapporto d‟intersoggettività col paziente, così come deve sapere entrare nella sua abitazione, nel suo spazio vitale, dove è insito tutto il suo vissuto. Il tempo ovviamente non è qui inteso come il tempo arido scandito dalle lancette dell‟orologio, bensì come il tempo vissuto; un tempo dove un singolo minuto vissuto intensamente (che sia un vissuto di gioia o di sofferenza fisica o mentale non fa differenza) può sembrare eterno, così come un‟intera giornata può “volare via” quando la si vive spensieratamente senza rendersi conto delle ore che passano. Quindi il passato, il presente e il futuro perdono le loro rigide coordinate temporali. Questo è vero in misura maggiore nelle persone malate dove questa semplice tripletta (passato, presente e futuro) può diventare una specie di trappola da cui è difficile uscire, perché c‟è un continuo rievocare il passato o gettarsi nel futuro, dimenticandosi che il tempo da vivere è il presente. Per scandagliare il tema della dimensione spazio-temporale in psicopatologia sono stati consultati manuali di psichiatria e relazioni esposte in convegni di psichiatria tenuti dai più celebri psichiatri italiani. Quindi per ogni disturbo preso in considerazione sono state riportate non solo le caratteristiche tipiche, quali la classificazione secondo il DSM- IV, la clinica e il trattamento specifico, ma soprattutto è stato approfondito l‟aspetto peculiare di questa tesi, cioè la visione riguardante lo spazio e il tempo vissuti da questi soggetti e che risulterà essere differente da una patologia all‟altra.
  • 7. 1. La dimensione spazio-temporale in fenomenologia Fin dai tempi antichi, scienziati e filosofi si sono interrogati su quale potesse essere la corretta interpretazione di questi due parametri fondamentali: lo spazio e il tempo. Kant li definì come “forme a priori della conoscenza”, dal momento che essi risultavano essere né reali né irreali, né finiti né infiniti, né oggettivi né soggettivi; quindi sono il modo con cui la mente dell‟uomo inquadra la realtà. È rimarchevole notare come delle attività della mente possano essere misurate in modo così preciso; nel caso del tempo si può apprezzare sia il miliardesimo di secondo che l‟anno luce. Pur essendo due parametri nettamente differenti fra loro, infatti un conto è considerare lo spazio e un conto è considerare il tempo, essi vengono valutati contemporaneamente come se fossero implicitamente intersecati fra loro, e se un soggetto è disorientato lo sarà sia nel tempo che nello spazio. Il vissuto della dimensione spazio-temporale riguarda tutti gli individui, sia gli individui sani che le persone affette da malattie psichiatriche. 1.1 La concezione dello spazio La vita vissuta dall‟uomo non viene vista solo come un insieme di eventi cronologicamente connessi l‟uno con l‟altro o come semplice anamnesi, ma è vista come storia interiore di vita, cioè come vita vissuta dall‟uomo; da qui la concezione dell‟uomo visto come “homo viator”, viandante, camminatore. Il qui ora della vita, si costituisce sempre mediante un da dove? e un verso dove?
  • 8. Esserci, significa essere qui ma contemporaneamente anche essere là; negli ultimi decenni si è affermata la terminologia esser dentro (che sarebbe il qui) ed esser fuori (che sarebbe il là). Quindi esser qui-esser dentro, esser là-esser fuori, significa: esser qui dove si occupa uno spazio ma contemporaneamente essere anche là, là dove c‟è un interesse, dove si pone lo sguardo o dove arriva la presa. Poi c‟è l‟inter essere, cioè un essere tra. Ecco quindi che lo spazio consta di un esser qui, di un esser là e di un essere tra. È in questo contesto che si colloca la sempre più attuale problematica del contatto interpersonale che si instaura tra psichiatra e paziente; ci deve essere una modulazione della distanza spaziale che si frappone fra il medico e il paziente, il quale può andare incontro al medico, può gettargli le braccia al collo per la disperazione, ma si può anche chiudere in sé e quindi chiudersi all‟incontro; vedi il segno del cappuccio o segno del lenzuolo, cioè quando in corsia un paziente si presenta all‟osservazione con il lenzuolo tirato fin sul volto, quello è un modo che lui ha per far capire che non vuole esser contattato, che non vuole che si entri nel suo lebensraum, cioè nel suo spazio vitale. Da qui la considerazione che lo spazio vissuto è visto anche come modulatore dei rapporti interpersonali, i quali non sono legati a leggi rigide di prossemica ma sono qualcosa di ondivago e oscillante. Questo approccio allo spazio vissuto come modulatore dei rapporti interpersonali porta poi al concetto di territorio, ossia il luogo dove bisogna vedere il paziente; il territorio ha però in sé il rischio di rinnovare un escludersi del rapporto interpersonale. Da un punto di vista generale, lo spazio può essere definito stretto, angusto, o largo, che autorizza, cioè, l‟intervallo del fra, del fra noi,
  • 9. dell‟essere tra. Questo essere tra è ricco di diverse declinazioni esistentive, infatti può essere il tra che c‟è tra due persone contendenti, tra due persone che si odiano, ma è anche il tra di due persone che si incontrano per discutere e divertirsi. Ma lo spazio è anche classificabile come lo spazio vissuto del singolo, lo spazio del territorio e lo spazio pubblico. Lo spazio pubblico non è semplicemente riducibile a quello che può essere lo spazio pubblico di una piazza, ma è uno spazio pubblico nel quale si viene coinvolti; concetto questo mirabilmente inteso da Hannah Arendt che concepisce lo spazio pubblico al contempo sia pubblico che intriso di una privatezza radicale insopprimibile. Poi ci sono gli spazi del gruppo, ossia gli “spazi coseici”, del cum sé, cioè dei sé che stanno insieme. Ma il concetto di spazialità è legato anche a un verbo fondamentale che è abitare. “L‟uomo è il pastore dell‟essere” diceva Heidegger; però, l‟uomo non è solo l‟essere che delimita il proprio territorio ma è anche colui che lo abita e che in esso vive da solo o con, ma anche quando è solo è sempre con qualcuno ossia è con una presenza assente. La spazialità è implicita nel luogo d‟abitazione, che a sua volta si identifica con colui che lo vive: se non si entra nella casa del paziente, nella sua abitazione, nel suo vissuto, non si può cogliere bene chi realmente esso sia perché lui rimane distaccato, inoltre si possono cogliere determinate cose che altrimenti non sarebbero immaginabili. Quindi il concetto di spazialità vissuta implicita nei luoghi dell‟abitazione, nel dimorare, nel dimorare accanto a qualcuno, negli ambienti di lavoro, nell‟ospedale, nella scuola, nel carcere... Però prima dell‟abitare nell‟uomo, nel pre uomo c‟è la tana. In quest‟ultima non c‟è una distinzione spaziale o temporale perché si ritma
  • 10. sui bisogni della vita, del giorno e della notte, su alternarsi che sono geobiologici. Quindi la tana consente lo spostamento nell‟abitare tramite la corporeità, il corpo vissuto. Poi si passa a un abitare wohnen, diceva Martin Heidegger, cioè a un abitare con, a un co-abitare, ad esser viandanti insieme nel percorso della vita che è un percorso spazio-temporale. Tutto questo rientra nel concetto di spazio vitale. Lo spazio vitale non è di per sé solo ma consente la costituzione dello spazio intersoggettivo. Diversi possono essere gli spazi vitali. Ad esempio c‟è lo spazio vitale dell‟allettato che è rappresentato solo dal letto, in quanto questo paziente a causa di degenerazioni fisiche non dispone più di una propria libertà di movimento e non può più alzarsi dal letto. In questo caso lo spazio è molto intenso perché è pieno di proibizioni (“questo non mi è consentito”) ed è pieno di appetizioni (“come desidererei poter...”). Da qui l‟importanza della riconquista: in uno spazio piccolo che si può riacquistare c‟è intrinseco tutto uno spazio grande promettente. Quindi la sola concezione del “si potrebbe” è fondamentale. 1.2 La concezione del tempo Da sempre c‟è l‟impressione di una contrapposizione fra il tempo arido della lancetta e il modo in cui viene vissuto il tempo. La percezione del tempo, è noto, essere diversa in base all‟età. Infatti il tempo vissuto quando si è giovani è diverso da quello vissuto quando si è adulti: nei giovani il tempo corre molto lento perché si ha fretta di arrivare da qualche parte, negli adulti il tempo corre troppo in fretta perché si ha la percezione che la vita possa finire e si ha la percezione che il tempo non basti mai.
  • 11. Il tempo si può suddividere in un tempo oggettivo, che scorre con mezzi meccanici e senza il controllo dell‟uomo, e un tempo soggettivo, che è concepito e misurato solo dalla coscienza, quindi dal sé. Già Aristotele nel trattato “Sull‟anima” aveva accennato a questa distinzione, ma per lui solo il tempo oggettivo era importante. Sant‟Agostino scrisse: “Come si assottiglia e si consuma il futuro che ancora non esiste? Come cresce il passato che non c‟è più, se non perché nell‟anima ci sono tutte e tre le cose (presente, passato e futuro)? Essa infatti attende, porge attenzione e ricorda di modo che ciò che aspetta diviene prima oggetto dell‟attenzione e poi memoria”. Sant‟Agostino intuisce che la realtà del tempo è solo nel presente, quindi si rende conto che è in quest‟ultimo che l‟uomo vive; non vi è propriamente passato ma solo ricordo, né futuro ma solo anticipazione. Per Sant‟Agostino quindi non ci sono tre tempi (il passato, il presente e il futuro) ma ci sono tre presenti: il presente del passato, quello del presente e il presente del futuro. Per Bergson, d‟altra parte, la realtà della nostra coscienza si svolge nel tempo vissuto che egli chiama “durata” e che corrisponde a qualcosa di reale, cioè a un continuo cambiamento qualitativo di noi stessi. Secondo Minkowski il tempo vissuto non corrisponde al tempo oggettivo. In analisi invece ci si confronta con categorie di tempo diverse da quelle abituali: l‟inconscio è concepito per definizione come atemporale. Freud sosteneva che c‟è un‟eternità di alcune situazioni esperienziali depositate appunto come prive di qualsiasi riferimento temporale e d‟altra parte è solo il conscio che percepisce la vettorialità del tempo; tutto questo porta l‟uomo a confrontarsi con il limite e con tutto ciò che in qualche modo l‟angoscia.
  • 12. Quindi per le persone che soffrono di disturbi mentali, la concezione del passato, del presente e del futuro diventa una specie di trappola da cui è difficile uscire perché per molti di loro l‟unico tempo che si riesce a percepire è l‟adesso, mentre il passato è affidato alla memoria e il futuro all‟immaginazione. È importante però vedere che il presente è allo stesso tempo carico del passato; questo implica una visione del tempo solo apparentemente vettoriale (cioè di un tempo che parte da un momento specifico e scorre in maniera lineare) perché in realtà si tratta di un tempo circolare dove i frammenti del passato si ripresentano nel presente e si riattualizzano. In questa dimensione circolare non ci sono né un inizio né una fine, tutto si svolge in maniera sempre uguale senza possibilità di uscita con un eterno ritorno su se stesso. Gli scopi delle terapie sarebbero dunque: rimettere in moto il tempo rispettando il passato; controllare il presente con terapie cognitivo- comportamentali; gestire il futuro che è poco rappresentato nel progetto del paziente. Tutto questo per restituire una coesione, un senso del sé unitario e una continuità del tempo che questi pazienti inevitabilmente perdono per avere una fluidificazione di questi tre tempi (passato, presente e futuro) nell‟accettazione di un unico presente, che poi può essere un presente nostalgico, progettuale o prospettico.
  • 13. 2. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza d’ansia 2.1 I Disturbi d’Ansia L‟ansia è un affetto di comune riscontro in vari momenti e situazioni della vita umana. Può costituire una normale risposta fisiologica, sia comportamentale che psicologica, di fronte a condizioni obbiettivamente difficili e consente l‟attivazione di comportamenti utili all‟adattamento. L‟ansia viene considerata patologica quando disturba il funzionamento psichico globale determinando una limitazione delle capacità di adattamento dell‟individuo. Inoltre può manifestarsi senza alcuna correlazione con apparenti cause esterne scatenanti, ha un‟intensità tale da provocare un grado di sofferenza non sopportabile e può portare il soggetto a intraprendere comportamenti di difesa, quali l‟evitamento di determinate situazioni considerate potenzialmente pericolose. L‟ansia si accompagna anche a sintomi somatici per il coinvolgimento del sistema nervoso autonomo, quali iperventilazione, tachicardia, cefalea poliuria, innalzamento della pressione arteriosa, iperfunzione gastro-enterica, tensione muscolare e tremori. L‟ansia patologica in psichiatria è un fenomeno riscontrabile in svariate situazioni dalle demenze ai disturbi schizofrenici, dalla depressione alla mania, dai disturbi di personalità a quelli d‟adattamento. Esistono tuttavia disturbi psicopatologici in cui l‟ansia assume la caratteristica di “sintomo” tipico intorno alla quale si articolano sindromi specifiche.
  • 14. 2.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi d’Ansia Secondo il DSM-IV vengono distinte le seguenti categorie di disturbi d‟ansia: 1. il disturbo di panico (con o senza agorafobia); 2. la fobia specifica; 3. la fobia sociale; 4. il disturbo ossessivo-compulsivo; 5. il disturbo post-traumatico da stress e disturbo acuto da stress; 6. il disturbo d‟ansia generalizzato; 7. il disturbo d‟ansia dovuto a una condizione medica generale; 8. il disturbo d‟ansia indotto da sostanze. Questo insieme di quadri clinici corrisponde a ciò che un tempo veniva definito nevrosi, cioè un insieme di disturbi funzionali della psiche in cui è conservato il riconoscimento della realtà e c‟è la consapevolezza del proprio stato di malessere (a differenza delle psicosi). 2.3 Teorie eziopatogenetiche L‟eziologia delle nevrosi ha origine da due ipotesi distinte affermatesi nella seconda metà dell‟800 che rispecchiano la dicotomia tra gli attuali orientamenti. Per Beard la nevrosi è legata a cause ambientali; secondo Morel invece il primum movens sarebbe l‟esistenza di fattori ereditari. Secondo la psicanalisi di Freud la nevrosi è un conflitto inconscio dell‟infanzia che poi tende a svilupparsi nella vita adulta; l‟originalità di questa ipotesi sta nell‟aver individuato che il conflitto psicologico mette in moto dei meccanismi di difesa il cui scopo è quello di allontanare dalla coscienza il conflitto stesso relegandolo in una zona non accessibile della psiche che corrisponde proprio all‟inconscio.
  • 15. Per quanto riguarda le teorie biologiche, una prima ipotesi chiama in causa in sistema nervoso autonomo in quanto ci sarebbe un aumentato tono simpatico che porterebbe poi a un alterato adattamento agli stimoli; questo è ciò che si osserva infatti in un soggetto affetto da crisi di panico. Anche il ruolo dei neurotrasmettitori nella genesi dell‟ansia non è da sottovalutare; quelli chiamati qui in causa sono: la noradrenalina, la serotonina e l‟acido γ-ammino-idrossi-butirrico (GABA); sono stati riscontrati valori aumentati di questi neurotrasmettitori in pazienti affetti da disturbi d‟ansia. Non è da sottovalutare che numerosi recettori GABAA sono concentrati a livello del sistema limbico, che viene quindi considerato responsabile dei meccanismi che regolano l‟ansia. Inoltre esami di tipo funzionale (EEG, PET, SPECT) hanno evidenziato anomalie a livello della corteccia frontale, occipitale e temporale, nonché, della regione paraippocampale nel paziente affetto da disturbo di panico, mentre nel disturbo ossessivo-compulsivo la struttura coinvolta sembrerebbe essere il nucleo caudato. Da ultimo, studi genetici hanno rilevato che il paziente affetto da uno dei disturbi d‟ansia ha almeno un parente affetto da un‟analoga patologia. 2.4 Disturbo di panico Il disturbo di panico viene descritto come un episodio durante il quale il soggetto sperimenta una sensazione di catastrofe imminente con paura di “impazzire”, di perdere il controllo o di morire, accompagnata da diversi sintomi somatici, quali dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di soffocamento. Ogni attacco dura in media dai 20 ai 30 minuti e costringe la persona a cercare aiuto. Conseguenza di questo è l‟evitamento di determinate
  • 16. situazioni per paura (ansia anticipatoria sul futuro) che l‟attacco possa ripresentarsi. Abitualmente l‟attacco di panico non è innescato da stimoli specifici, ed è proprio su questo elemento che si fonda la diagnosi di disturbo di panico: l‟attacco deve essere inaspettato e, durante il mese seguente, il paziente deve avere la preoccupazione che se ne possa presentare un altro e inoltre modifica il proprio comportamento in relazione ad esso (ad esempio attua strategie di evitamento). L‟esordio della malattia avviene abitualmente nell‟adulto giovane e il sesso femminile sembra essere quello maggiormente colpito. La diagnosi differenziale si deve porre con patologie di tipo internistico (maggiormente quelle dell‟apparato cardiaco e respiratorio). Comunemente il paziente si reca in Pronto Soccorso col timore che i sintomi avvertiti (specie se respiratori o cardiaci) indichino una condizione di grave patologia, che il paziente avverte come potenzialmente letale. In questa sede, per effettuare una corretta diagnosi differenziale, devono essere eseguiti gli esami di laboratorio routinari, l‟ECG e un test tossicologico per l‟identificazione di eventuali sostanze d‟abuso la cui assunzione o astinenza potrebbe scatenare un attacco di panico. Nel disturbo di panico un primo intervento consiste nel rassicurare il paziente rispetto al fatto che il suo disturbo è ben conosciuto e curabile. L‟iperventilazione che questi soggetti manifestano non consente di trattenere la quota necessaria di CO2 che serve per utilizzare l‟ossigeno in eccesso; si sviluppa così paradossalmente una sensazione di mancanza d‟aria. Tecniche utili a ridurre l‟iperventilazione sono trattenere il respiro per 10-15 secondi o respirare dentro e fuori da un sacchetto di carta.
  • 17. I farmaci comunemente usati nel disturbo di panico sono le benzodiazepine, gli antidepressivi SSRI (inibitori della ricaptazione della serotonina) e i triciclici. Le benzodiazepine sono i farmaci maggiormente indicati nei casi di acuzie. Mentre nei trattamenti a lungo termine si può ricorrere alle benzodiazepine per un rapido controllo dei sintomi associandole, però, per esempio agli SSRI. Questi ultimi vengono introdotti in terapia con una dose minima che poi lentamente va aumentata fino a raggiungere la dose terapeutica. Dopo 1-3 mesi le benzodiazepine possono essere progressivamente diminuite e sospese, mentre va continuata la somministrazione degli SSRI. Questo perché nei confronti degli ansiolitici è ben documentato il rischio di dipendenza e lo sviluppo di sintomi d‟astinenza nel caso di improvvise sospensioni. Nel trattamento a lungo termine del disturbo di panico si è fatto anche ricorso ai triciclici. Con questi composti la terapia va iniziata a bassi dosaggi, che poi andranno aumentati in base alla tollerabilità del paziente e agli effetti collaterali da esso sviluppati, fino a raggiungere la dose piena. Negli ultimi tempi un‟efficacia specifica del disturbo di panico è stata riconosciuta ad altri antidepressivi che agiscono anche su più sistemi recettoriali: NARI (inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina), SNRI (inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina) e NaSSA (antidepressivi noradrenergici e specificamente serotoninergici). In caso di mancanza di risposta allo schema di terapia prospettato si interviene sostituendo il farmaco impiegato con un altro della medesima classe e poi eventualmente con uno di una classe diversa. Nonostante l‟approccio psicofarmacologico sia risultato efficace, esso da solo non sembra in grado di rispondere a tutte le problematiche che si
  • 18. presentano: la cronicità del disturbo, la bassa compliance o la resistenza ai farmaci, la gestione del mantenimento delle terapie, l‟insorgenza di effetti collaterali, la possibilità di ricadute dopo la sospensione delle terapie, la vulnerabilità alla riacutizzazione di fronte a nuovi stimoli stressanti, le pesanti implicazioni sul piano emotivo ed esistenziale. Ed è per questo motivo che le strategie a lungo termine del trattamento dei disturbi di panico chiamano in causa il ricorso alla psicoterapia da sola o in associazione agli psicofarmaci. 2.5 Fobia specifica La fobia è la paura intensa e persistente di un oggetto o di una situazione in realtà privi di una reale oggettiva pericolosità. Come conseguenza del disturbo può quindi strutturarsi un‟ansia anticipatoria con relative condotte di evitamento e, in casi particolari, l‟ansia può raggiungere la portata dell‟attacco di panico. Esistono un numero illimitato di fobie; le più comuni sono le fobie degli animali, del sangue, delle altezze, dei luoghi chiusi, dello sporco e delle malattie. I soggetti colpiti sono consapevoli che la loro reazione sia irragionevole o eccessiva, ciononostante il disturbo compromette più o meno significativamente la loro esistenza. Il DSM-IV suggerisce che per far diagnosi di fobia, nell‟adulto le manifestazioni fobiche debbano avere una durata minima di almeno 6 mesi. Le fobie rappresentano i disturbi psichici più comuni. Dal punto di vista cognitivo-comportamentale la fobia è spiegata come un cortocircuito che si riattiva ogni qualvolta un oggetto o una situazione, accoppiati casualmente a una forte emozione, si ripresentano.
  • 19. La diagnosi differenziale chiama in causa, in ambito neurologico, disturbi cerebrovascolari e tumori del sistema nervoso centrale nei quali possono comparire sintomi di questo tipo. Per quel che riguarda invece le patologie di interesse psichiatrico sono da considerare le fobie secondarie a uso di sostanze (ad esempio allucinogeni), il disturbo di panico (che si differenzia dal fatto che in questo c‟è un‟ansia pervasiva e gli attacchi si ripetono senza fattori scatenanti apparenti), il disturbo ossessivo-compulsivo (in questo è il pensiero ossessivo a provocare l‟evitamento) e la schizofrenia (in cui i timori patologici hanno caratteri bizzarri e vi è mancanza di consapevolezza da parte del paziente). Il decorso delle fobie infantili di solito è favorevole, non si può dire altrimenti per quello delle fobie in pazienti adulti in cui questo disturbo interferisce fortemente sulla loro vita quotidiana, lavorativa e relazionale. La cura si fonda principalmente sull‟intervento psicoterapico in quanto il trattamento con i farmaci ha dato pochi risultati. Per cui nelle psicoterapie analitiche all‟interno della relazione col terapeuta il paziente deve rivivere e riconoscere i conflitti e i sentimenti inconsci che lui ha; nel trattamenti cognitivo-comportamentali vi sono tecniche quali l‟esposizione “in vivo” o attraverso l‟immaginazione agli oggetti e alle situazioni temute, che hanno lo scopo di portare a una desensibilizzazione sistematica. 2.6 Disturbo ossessivo-compulsivo Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza di pensieri e/o impulsi coatti (ossessioni) o da comportamenti o azioni mentali incoercibili (compulsioni o anancasmi). Questi sono ricorrenti, persistenti, e in certe occasioni, vengono sentiti come intrusivi e
  • 20. inappropriati. In ogni caso sono fonte di eccessive preoccupazioni e provocano ansia e disagio. Il soggetto tenta di ignorarli o sopprimerli o neutralizzarli con altri pensieri e azioni; è quindi consapevole che si tratta di prodotti della propria mente. Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali messi in esecuzione a seguito delle ossessioni; hanno lo scopo di diminuire l‟ansia o il disagio. Tra le più comune ossessioni si possono citare pensieri, impulsi, immagini. Tra le compulsioni si annoverano azioni fisiche (come lavarsi le mani, mettere in ordine, controllare) e mentali (contare, ripetere parole o formule). Ossessioni e compulsioni interferiscono con l‟esistenza quotidiana del soggetto. L‟esordio avviene generalmente intorno ai 20 anni. L‟esordio è spesso improvviso e quasi sempre la sintomatologia inizia dopo un evento stressante. L‟andamento del disturbo è variabile e solo il 20-30% dei pazienti evolve verso un migliormamento. Spesso questo genere di disturbo si accompagna alla depressione o alla fobia sociale. La diagnosi differenziale la si deve effettuare nei confronti di patologie non psichiatriche come il disturbo di Gilles de la Tourette e altri disturbi da tic verbali e motori, in cui tuttavia i movimenti sono meno complessi e non sono finalizzati a neutralizzare un‟ossessione. Tra i disturbi psichiatrici con i quali bisogna fare diagnosi differenziale vi sono: le fobie specifiche o sociali (in esse la preoccupazione concerne una situazione o un oggetto capaci di provocare ansia), la depressione maggiore, il disturbo d‟ansia generalizzato (in esso non vi sono ossessioni, ma preoccupazioni associate ad ansia eccessiva su circostanze della vita).
  • 21. Il trattamento di questo disturbo incontra molte difficoltà in quanto un elevato numero di pazienti non collabora ai programmi terapeutici. Comunque anche in questo caso i risultati più promettenti sembrano essere quelli offerti dalla combinazione di una psicoterapia con una terapia farmacologica. La strategia farmacologica prevede inizialmente l‟uso di un antidepressivo serotoninergico; se non si ottengono risultati soddisfacenti si può sostituire con un altro serotoninergico, o se anche questo risultasse inefficace, è possibile il potenziamento dell‟antidepressivo con il litio. 2.7 Disturbo d’ansia generalizzato Nel disturbo d‟ansia generalizzato si evidenziano ansia e preoccupazione (quest‟ultima associata a sintomi somatici quali irrequietezza, tensione, irritabilità, difficoltà di concentrazione, vuoti di memoria, facile affaticabilità e turbe del sonno) eccessive rispetto alle situazioni in cui si presentano. Per il DSM-IV queste manifestazioni causano disagio significativo e devono durare almeno 6 mesi perché si possa fare disgnosi di disturbo d‟ansia generalizzato. L‟esordio è più comune nell‟adulto giovane intorno ai 20 anni, ed è più frequente nel sesso femminile. Nel 2/3 dei casi questo disturbo si associa ad altre patologie psichiatriche quali: disturbi di panico, fobie o depressione. L‟andamento è tendenzialmente cronico ed è comune la progressione verso un disturbo di panico o la depressione maggiore. La terapia farmacologica si avvale degli ansiolitici benzodiazepinici. Purtroppo la somministrazione continua di benzodiazepine può provocare fenomeni di tolleranza e dipendenza. Una buona alternativa
  • 22. alle benzodiazepine è rappresentata dal buspirone che non da né astinenza né effetti collaterali cognitivi e psicomotori, come invece accade per le benzodiazepine. Però gli effetti del buspirone si manifestano solo in quei pazienti precedentemente trattati con benzodiazepine. Da qui abbiamo che l‟impiego di benzodiazepine nelle prime 2-3 settimane in concomitanza col buspirone e la sospensione delle prime una volta che il buspirone inizi il suo effetto, può essere una possibile alternativa. Le psicoterapie, sia da sole che in associazione con il trattamento farmacologico, possono dare buoni risultati; le terapie ad orientamento psicoanalitico più che a ridurre l‟ansia servirebbero a individuare le cause di cui l‟angoscia è segnale attraverso l‟introspezione; sul piano degli interventi cognitivo-comportamentali si sono ottenuti risultati apprezzabili con le tecniche di rilassamento (ad esempio, l‟ipnosi). 2.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi d’Ansia Le teorie esistenziali ispirate a posizioni filosofiche di autori come Heidegger e Kierkegaard, vedono l‟angoscia come un sentimento comune che tutti gli uomini sviluppano in relazione a possibilità imprevedibili offerte dal futuro. Ma nel paziente affetto da disturbi dell‟ansia, quest‟ultima implica la perdita della dimensione del passato e la concentrazione solo sulla preoccupazione per il futuro e su ciò che esso porterà, è “l‟intolleranza dell‟incertezza”, così come la definirono degli studiosi canadesi, cioè l‟incapacità di sopportare la possibilità che nel futuro si possano verificare dei pericoli inaspettati. Il paziente ansioso quindi rimugina sul futuro, cioè mette in atto un fenomeno verbale astratto cognitivo, tipico di questi pazienti, attraverso cui vengono ricordati continuamente eventi
  • 23. negativi del passato che si teme possano ripresentarsi nel futuro e che non possano essere adeguatamente tenuti sotto controllo. Da qui scaturisce il fatto che questi pazienti non riescono ad accettare adeguatamente il presente.
  • 24. 3. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza borderline 3.1 Disturbo borderline di personalità Il disturbo borderline rientra nel gruppo dei disturbi della personalità. Secondo il DSM-IV si definisce Disturbo di Personalità una modalità di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare dal livello culturale dell‟individuo. Tale modalità è considerata patologica in quanto pervasiva (cioè si manifesta frequentemente e non solo in risposta a particolari stimoli o situazioni scatenanti) e inflessibile; ha esordio nell‟adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio e compromissione funzionale. La deviazione dalla norma deve essere marcata e riguardare almeno due delle seguenti aree: capacità cognitive, affettività, controllo degli impulsi, bisogno di gratificazione immediata e incapacità di condurre le relazioni interpersonali. Il disturbo borderline è definito tale perché è al confine (border) tra nevrosi e psicosi. È caratterizzato da una grande instabilità affettiva e dell‟umore, da instabilità delle relazioni con gli oggetti e dell‟immagine di sé, da rapporti interpersonali contraddistinti da sentimenti esagerati che oscillano bruscamente dall‟idealizzazione alla svalutazione, con mancanza di controllo sull‟impulsività e sull‟aggressività. Interessa l‟1-2% della popolazione generale con una frequenza d‟insorgenza doppia nel sesso femminile rispetto a quello maschile.
  • 25. 3.2 Teorie eziopatogenetiche Negli ultimi anni è stata sempre più valorizzata nella patogenesi del Disturbo Borderline di Personalità la componente ambientale sotto forma di un‟elevata inadeguatezza della funzione genitoriale, sia da parte della sola madre (marcata conflittualità nei confronti della crescita del figlio, o, al contrario, distacco e scarso coinvolgimento durante lo sviluppo emozionale), sia da parte del solo padre (assenza e trascuratezza nei confronti delle esigenze del figlio) o da parte di entrambi i genitori (accadimento deficitario, assenza di uno dei due o entrambi i genitori). 3.3 Trattamento La prognosi è buona dopo i primi 10 anni, periodo che rappresenta anche la durata del trattamento. La psicoterapia (cognitivo-comportamentale e psicodinamica) è il trattamento di scelta, affiancata dalla psicofarmacologia che si avvale di farmaci quali: SSRI, anti-psicotici tipici e atipici, benzodiazepine. Ma lo scopo della terapia che si effettua sul paziente borderline è la costruzione di un‟istanza terza che dapprima è soltanto esterna e poi molto lentamente diventa interna e che nei momenti di rottura il borderline può chiamare in aiuto. Il decorso di questa patologia prevede l‟evoluzione in Disturbo Depressivo Maggiore perché dal trauma originario si passa al dolore, che viene riconosciuto e accettato dal paziente e che aiuta quest‟ultimo ad uscire dal tempo zero del trauma e lo reintroduce in un tempo che si sviluppa.
  • 26. 3.4 Aspetti clinici e concezione spazio-temporale nella sofferenza borderline Dal punto di vista clinico i soggetti manifestano rapide oscillazioni dell‟umore con frequenti sentimenti depressivi, sentimenti cronici di vuoto e di noia che rimandano a una mancanza di un coerente sentimento d‟identità e che possono indurli da un lato alla promiscuità, per l‟intolleranza alla solitudine, dall‟altro a cercare aiuto dagli altri mediante gesti auto lesivi, per il timore continuo di essere abbandonati. Il bisogno degli altri è talmente intenso che la solitudine comporta un sentimento di annientamento: ogni abbandono, sia esso reale che immaginario, è vissuto catastroficamente. L‟elemento cruciale quindi nella patologia borderline è il collasso del rapporto con l‟oggetto; è come se a un certo punto il paziente sentisse che l‟oggetto gli sfugge e la normale dimensione dell‟intersoggettività viene meno. Il borderline vive una condizione di continua ricaduta in una specie di buco nero senza tempo, definito “area del trauma”, dove per “trauma” si intende un evento traumatico avvenuto nel passato e che il paziente continua a rivivere in eterno secondo le leggi della coazione a ripetere. Ed è per questo che ogni qual volta il malato borderline incontra nella relazione con le persone amate qualcosa che gli riattualizza il trauma originario, riprecipita in un tempo senza tempo, ossia in quell‟area in cui esiste solamente il trauma che continuamente si ripete. E tutte le volte che c‟è questa lacerazione o rottura nel trauma originale il soggetto borderline si dimentica del passato e del futuro perché concepisce solo un presente sempre uguale dove accade sempre la stessa cosa. Solo quando il trauma è ricomposto il paziente borderline sembra riprendere una strada maestra dove il suo tempo assomiglia di più alle normali metafore del tempo quali: il viaggio, il percorso e l‟itinerario.
  • 27. Questa successione di eventi tende e ripetersi più volte durante la vita del paziente e da qui scaturisce la visione di un tempo spezzato nel borderline. L‟impulsività che caratterizza questi pazienti porta a una contrapposizione importante: da un lato ci sono i sentimenti cronici di vuoto e di disgusto per la propria esistenza, dall‟altro c‟è la ricerca di stimoli forti attraverso condotte pericolose come l‟abuso di sostanze stupefacenti, le abbuffate alimentari, la guida spericolata o il dolore indotto da ferite autoinferte. Molto spesso questi gesti sono la conseguenza di liti, separazioni o esperienze frustranti. L‟autolesività serve al paziente a scaricare la rabbia e a cercare di recuperare attraverso il dolore un maggior senso di coesione e di identità, dato che l‟identità del paziente borderline viene continuamente interrotta. Quindi la loro esistenza è caratterizzata da frequenti oscillazioni emotive che sono espressione di una profonda instabilità affettiva di base improntata a una dimensione depressiva grave nella quale non sono infrequenti propositi suicidari portati a conclusione.
  • 28. 4. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza tossicomane 4.1 Disturbi da uso di sostanze psicoattive Con il termine di uso di sostanze ci si riferisce all‟assunzione di sostanze psicoattive, indipendentemente dalla frequenza, dall‟intensità e dalle modalità con le quali la sostanza viene introdotta nell‟organismo. Il DSM-IV definisce Disturbi correlati a sostanze tutti i disturbi dipendenti da tale comportamento. I tassi di prevalenza variano da sostanza a sostanza. Secondo dati dell‟Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze le tendenze in atto danno la cannabis come la più diffusa tra le droghe illegali; al secondo posto vi sono le amfetamine, compresa la MDMA; la cocaina è data in largo aumento; l‟eroina rimane stabile e si associa frequentemente a gravi problemi sociali, di salute e psichici. È chiaro da tempo che le droghe esercitano funzioni definite nella psiche dei soggetti che ne fanno uso, infatti determinano un effetto di gratificazione che viene ricercato in particolare da soggetti ipo- o anedonici, o da persone alla ricerca di sensazioni molto intense; ma alcuni soggetti usano sostanze per ricercare una funzionalità psichica, quale ad esempio sollievo dalla depressione, dall‟ansia, da sintomi collaterali di trattamenti psicofarmacologici; altri soggetti invece perseguono il miglioramento di performance (come lo stato di veglia e di attenzione da parte di conduttori di macchinari, l‟aumento delle prestazioni sportive...). In alcuni casi l‟uso di sostanze evolve, associandosi a comportamenti che il DSM-IV definisce Disturbo da abuso di sostanze, in una sindrome
  • 29. comportamentale caratterizzata da effetti negativi sul piano psicologico, sociale e relazionale derivanti da una modalità di uso che per frequenza, intensità e conseguenze trascende i desideri e le aspettative del soggetto. In un gruppo più ristretto tale sindrome evolve ulteriormente in quella forma che il DSM-IV definisce Dipendenza da sostanze che dura più di un anno e che ha il carattere di compulsione, perdita di controllo, a volte fenomeni fisiopatologici associati all‟uso (“Intossicazione”) o alla sospensione dell‟uso (“Astinenza”). 4.2 Teorie eziopatogenetiche I fattori che influenzano la possibile evoluzione dall‟uso alla dipendenza sono complessi. Zinberg ne ha individuati tre fondamentali: la sostanza, la persona e l‟ambiente. La sostanza. Nel DSM-IV sono considerate 11 classi di sostanze psicoattive: la caffeina, la nicotina e l‟alcool, vengono definite “droghe domestiche”; la cocaina e le amfetamine, sono gli psicostimolanti; la cannabis, gli allucinogeni e la fenciclidina, sono i psicodislettici; gli oppioidi e i sedativi-ipnotoci-tranquillanti, sono i sedativi; infine vi sono gli inalanti, definiti anche “le droghe dei poveri”. Ogni classe di sostanze ha una precisa caratterizzazione farmacologica e un definitivo profilo recettoriale sul quale agire al posto del ligando naturale (tipica è l‟azione degli oppioidi esogeni sul sistema delle endorfine). Ogni sostanza è attiva su diversi sistemi neuronali ed extracerebrali, producendo un corteo di effetti vari. La persona. Le caratteristiche biologiche della struttura genetica della persona sono prominenti nello sviluppo all‟attitudine all‟uso di sostanze. I fattori ereditari sarebbero molteplici e da qui ne risulterebbe una
  • 30. vulnerabilità clinico-comportamentale consistente in un‟inclinazione ad evolvere lungo il percorso dall‟uso, all‟abuso, alla dipendenza. L‟ambiente. In questo sono racchiuse diverse figure: la famiglia, il piccolo gruppo e la società intesa come ambiente storico che determina il quadro culturale. L‟ambiente è considerato un fattore che influenza i comportamenti dei singoli soggetti. Ovviamente non è da sottovalutare la visione d‟insieme dei tre elementi che interagiscono e si influenzano l‟un l‟altro. 4.3 Classificazione e Diagnosi secondo il DSM-IV Il DSM-IV comprende sotto la dicitura Disturbi Correlati a Sostanze i seguenti sottocapitoli: 1. Disturbi da uso di sostanze, Abuso e Dipendenza; 2. Disturbi indotti da sostanze, Intossicazione e Astinenza da sostanze. I criteri diagnostici per la Dipendenza da sostanze secondo il DSM-IV sono: modalità patologica d‟uso che conduce a menomazione o disagio clinicamente significativo della durata di 12 o più mesi, e che mostri almeno tre delle condizioni seguenti: tolleranza, astinenza, uso in quantità maggiori e più a lungo desiderato, desiderio e vani tentativi di smettere, riduzione/interruzione di attività dovuta alla grande quantità di tempo impiegata per trovare la sostanza. Per Tolleranza si intende: un marcato bisogno di aumentare la quantità di sostanza per raggiungere l‟intossicazione o l‟effetto voluto; un marcato calo dell‟effetto dovuto all‟uso continuativo del medesimo dosaggio.
  • 31. Per astinenza si intende: lo sviluppo di una sindrome caratteristica per quella determinata sostanza, a seguito di sospensione o riduzione della dose. I criteri diagnostici per l‟Abuso sono: modalità patologica d‟uso che conduce a menomazione o disagio clinicamente significativo entro i 12 mesi e che rispetta almeno una delle seguenti condizioni: uso che causa incapacità nel ruolo, uso ricorrente in situazioni rischiose, problemi legali, uso nonostante i problemi. 4.4 Neurobiologia dell’uso di sostanze Allo stato attuale degli studi si ritiene che l‟effetto biologico comune di tutte le sostanze psicoattive (con l‟eccezione degli allucinogeni) consista nella liberazione di dopamina nella parte corticale del nucleo accumbens dei neuroni dopaminergici meso-limbici. Tale fenomeno è il correlato biologico delle sensazioni di piacere derivanti dall‟uso di sostanze. La liberazione in eccesso di dopamina nei valli sinaptici del nucleo accumbens viene determinata attraverso meccanismi che differiscono da sostanza a sostanza: nel caso della cocaina il meccanismo prevalente è quello dell‟inibizione della ricaptazione della dopamina dal vallo sinaptico a livello del nucleo accumbens; nel caso degli oppioidi il meccanismo prevalente è quello dell‟inibizione a livello mesencefalico del neurone GABA-ergico che esercita una funzione di controllo inibitorio sul neurone meso-limbico, che viene così liberato dal controllo. Naturalmente ogni sostanza determina la sensazione di piacere ricercata attraverso l‟attivazione di questo circuito neuronale (definito circuito della ricompensa) ma ha anche altri punti di attacco nel SNC; gli effetti
  • 32. combinati configurano nell‟insieme la sindrome specifica che ne caratterizza l‟assunzione. È evidente quindi che le sostanze psicoattive nel sistema cerebrale della ricompensa agiscono interagendo con le sostanze fisiologiche che mediano le sensazioni di piacere collegate alle funzioni vitali: cibo, sesso, esplorazione. Questo spiega le molte interazioni comportamentali tra uso di sostanze e tali funzioni fisiologiche. I potenti effetti della sostituzione di sostanze chimiche estremamente più efficaci introdotte dall‟esterno, senza limiti biologici, a sostanze naturali prodotte in misura fisiologica dietro stimoli naturali scanditi nel tempo produce la rivoluzione neurologica e comportamentale che è la tossicodipendenza. L‟uso di sostanze psicoattive produce una memoria biologica che diventa un fattore di mantenimento della stessa all‟origine del carattere cronico e recidivante del disturbo. 4.5 Trattamento Negli anni si sono generate diverse visioni “terapeutiche” basate sul fatto che i disturbi da dipendenza non sono disturbi da curare bensì sono comportamenti da correggere. Da qui si sono sviluppate forme d‟internamento mascherate da trattamento o trattamenti coatti. Se poi si considera anche che il trattamento delle dipendenze dispone di molte terapie, per esempio per la dipendenza da oppioidi gli agonisti, gli antagonisti e gli antiastinenziali configurano un quadro importante di possibilità d‟intervento, è facile comprendere che l‟affermazione del concetto di tossicodipendenza come malattia è problematico. Secondo la più recente impostazione motivazionale, i problemi comportamentali possono essere affrontati tenendo conto della disposizione verso la risoluzione di tale problema che il soggetto
  • 33. manifesta momento dopo momento, e che varia nel tempo sotto la pressione della frattura interiore in presenza di un‟adeguata fiducia nella riuscita (autoefficacia). L‟effetto congiunto di frattura interiore e autoefficacia spinge il soggetto verso un ciclo di cambiamento comportamentale definito in stadi, processi e livelli. Però non è da sottovalutare che la natura recidivante della tossicodipendenza impone una speciale attenzione al problema della ricaduta, la cui prevenzione è parte integrante del trattamento. La ricaduta si ha in quei soggetti che per tutta la vita, anche quando non si fanno più da 20 o 30 anni, hanno delle dislocazioni spazio-temporali (i flashback) di situazioni ideo percettive affettive connesse all‟esperienza drogastica pregressa che si inseriscono violentemente come pensieri imposti all‟interno del loro stato di coscienza. In definitiva nel trattamento delle dipendenze c‟è la collaborazione tra le farmacoterapie specifiche per ogni sostanza, le psicoterapie e gli interventi educazionali. 4.6 Concezione spazio-temporale nella sofferenza tossicomane Spesso si parla di doppia diagnosi o di comorbilità psichiatrica nei tossicomani. Le sostanze creano un effetto tunnel nel soggetto, cioè lo mettono al riparo dalla propria vulnerabilità tanto da farlo avanzare in zone dell‟esperienza estremamente minate di cui il soggetto non si accorge; ma quando per azione catabolica le sostanze vengono degradate, il soggetto si trova in una condizione spersonalizzante, disgregata, discontinua e fa un‟esperienza distonica di se stesso e del mondo che lo circonda. Per cui le sostanze modificano e alterano la struttura del tempo e dello spazio vissuti del tossicomane.
  • 34. La dipendenza da sostanze è considerata una malattia a decorso cronico e recidivante, derivante dall‟assunzione prolungata di sostanze psicoattive, caratterizzata da un impulso difficilmente controllabile a ripetere tale assunzione e sostenuto da un desiderio irresistibile (craving) da cui derivano comportamenti mirati a soddisfare l‟impulso (drug-seeking behavior). Quindi inizialmente c‟è il momento del craving che è il momento del desiderio di un oltre e di un altrove; poi c‟è il flash che è il momento orgastico per eccellenza, il per sempre, il dovunque, il dappertutto perché i confini dello spazio si squarciano e l‟io e il mondo si fondono per diventare un‟unica cosa; quindi segue lo sballo, che è connotato dalla particolare situazione dell‟adesso-altrove, cioè il soggetto è presente nell‟istante ma è dislocato altrove da un punto di vista spaziale; in seguito c‟è l‟astinenza che è il mai più, la paura del nessun dove, che corrisponde allo stato lucido del soggetto e si sviluppa la concezione di essere nulla in un luogo inesistente se non si sta con la sostanza; infine c‟è il viraggio psicotico come perdita, spesso definitiva, dell‟ubi consistant, cioè del dove io esisto. La condizione peculiare del tossicomane è quella di uno scollamento e di un collasso spazio-temporale: ad esempio, se lo si prende in una fase di astinenza e di craving il soggetto è fisicamente in un posto ma con la testa è allora, cioè è completamente immerso, clivato, in un‟altra dimensione temporale che corrisponde a quella nostalgica del desiderio della sostanza o dell‟acquisto della sostanza; oppure quando è nella situazione dello sballo vive il presente ma al tempo stesso è altrove perché si nutre di questa multi locazione che la sostanza gli da. Il risultato di questo scollamento dello spazio sul tempo è una condizione che non si può più definire come essere nel mondo ma essere nel nulla.
  • 35. Quindi l‟altrove adesso è lo sballo, il qui e allora diventa il craving e l‟essere qui ora è la lucidità. Nell‟astinenza è chiaro che per il soggetto la temporalità della mancanza è dilaniante perché c‟è la nostalgia del già vissuto e dell‟appena finito, e al tempo stesso c‟è lo struggente desiderio del non ancora; in questo senso il vissuto temporale dell‟astinenza coaugula il passato e il futuro nell‟allora come desiderio incoercibile, ma privando completamente di senso l‟essere qui. Questo conduce alla colliquazione del tempo. Inoltre il tossicomane fa esperienza non solo di un tempo colliquato ma anche di uno spazio colliquato, definito tale perché colliqua lo spazio del “tra”, che è il luogo della possibilità intersoggettiva dell‟incontro. Quindi la natura più intima della dipendenza è appunto il craving che diventa la molla che spinge il soggetto verso questa ricerca di spazio e tempo fusionali e tutta l‟esperienza del soggetto e tutta la sua coscienza diventano finalizzate alla consumazione della sostanza. Le conseguenze dell‟uso dipendente di sostanze sul piano sociale e sulla salute di questi soggetti crescono col progresso dell‟uso. Lo stile di vita “centrato sulla ricerca della sostanza” apre numerose contraddizioni nella vita della persona, che negli stadi iniziali tenderà ad usarla in misura tale da tenere sotto controllo il disagio derivante da tale situazione; potrà poi accadere che proprio questo disagio, unito all‟aspirazione di conseguire obiettivi di cambiamento, inneschi i processi che portano poi al trattamento.
  • 36. 5. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza depressiva 5.1 I Disturbi dell’umore I disturbi dell‟umore consistono in entità nosografico-cliniche che si propongono nell‟arco dell‟esistenza come “periodi”, “fasi” o “episodi”, il cui quadro clinico è caratteristicamente dominato da variazioni abnormi del tono dell‟umore. L‟umore è quell‟aspetto dell‟attività psichica che conferisce coloritura affettiva a ciò che viene vissuto e che si esprime attraverso un continuum tra i due poli opposti rappresentati dall‟allegria e dalla tristezza, dal piacere e dal dispiacere, dalla gioia e dal dolore. Sentimenti di tristezza, demoralizzazione e lutto sono esperienze universalmente vissute in quanto consustanziali con l‟esistenza stessa. Con il termine di Depressione si fa riferimento a un‟alterazione patologica dell‟umore che, sebbene non sia sempre agevolmente distinguibile dalla tristezza, dalla demoralizzazione e dalla condizione di lutto di cui normalmente un soggetto fa esperienza durante l‟arco della vita, in genere si propone come uno stato di sofferenza soggettiva intensa che tende a protrarsi nel tempo e a non apparire congrua rispetto agli avvenimenti e situazioni di stress che solitamente precedono e precipitano l‟insorgenza della depressione stessa. 5.2 Classificazione del DSM-IV dei Disturbi dell’Umore La classificazione dei Disturbi dell‟umore del DSM-IV è la seguente: Disturbi depressivi (“depressione unipolare”) che comprendono: disturbo depressivo maggiore;
  • 37. disturbo distimico; disturbo depressivo non altrimenti specificato. Disturbi bipolari che comprendono: disturbo bipolare I; disturbo bipolare II; disturbo ciclotimico; disturbo bipolare non altrimenti specificato. Il gruppo dei disturbi depressivi si distingue da quello dei disturbi bipolari per l‟assenza in anamnesi di episodi maniacali, misti o ipomaniacali; quindi per poter definire un disturbo bipolare c‟è bisogno della presenza in anamnesi di episodi maniacali, misti o ipomaniacali. La prevalenza nel corso della vita di Disturbi dell‟umore varia dal 2% al 25%, con una prevalenza dell‟1-6,5% per il Disturbo Bipolare e del 2,6- 5,5% per gli uomini e del 6-11,8% per le donne per il Disturbo Depressivo Maggiore. 5.3 Teorie eziopatogenetiche Fattori biologici e psicosociali eterogenei interagiscono tra loro nell‟insorgenza e nello sviluppo dei Disturbi dell‟Umore. I fattori biologici e genetici infatti condizionano la risposta di un individuo agli eventi di stress (psicosociali e biologici) così come eventi e situazioni di stress possono condizionare l‟espressione genica. Fondamentale è stata la ricerca di Caspi che ha dimostrato cosa accade nell‟interazione tra gene e ambiente. Caspi ha studiato l‟evoluzione della depressione legata agli eventi stressanti e ha notato che man mano che il numero degli eventi stressanti aumenta, aumenta anche la possibilità di sviluppare una depressione. Ma l‟elemento fondamentale di questa
  • 38. ricerca è la scoperta che un singolo polimorfismo genetico nel trasportatore della serotonina con variante allelica short short risulta essere penalizzante per il soggetto mentre una variante allelica del tipo long long lo protegge dal rischio di ricadute depressive. Un ulteriore passo avanti nelle ipotesi eziologiche della depressione si è avuto grazie all‟osservazione che nell‟animale da esperimento un trattamento prolungato con farmaci antidepressivi provoca una desensibilizzazione dei recettori per le monoammine, in particolare del recettore β adrenergico e del recettore serotoninergico; da qui si potrebbe dire che alla base della depressione c‟è un‟alterata sensibilità di questi recettori, i quali per tornare all‟omeostasi perduta devono andare incontro a un processo di desensibilizzazione. Per quanto riguarda i fattori di stress psicosociali, questi possono attivare l‟asse ipotalamo-ipofisi-surrene per la produzione di cortisolo, il cui aumento determina nell‟organismo del soggetto una serie di importanti disregolazioni. Ad esempio l‟ippocampo, normalmente coinvolto nell‟apprendimento, nella memoria, nel controllo dell‟umore e delle emozioni, è un‟area fondamentale nel controllo dell‟attività ipotalamo- ipofisi-surrene ed è stato dimostrato che in soggetti affetti da disturbi dell‟umore esso vada incontro a una riduzione di volume; l‟entità della riduzione sarà direttamente proporzionale alla durata dell‟episodio depressivo, per cui quanto più tempo il soggetto depresso rimane senza trattamento farmacologico, tanto maggiore sarà l‟entità della riduzione del volume ippocampale. I disturbi dell‟umore possono essere anche considerati delle malattie sistemiche a causa di numerose disfunzioni di organi e apparati che essi determinano. Ad esempio la depressione porta a un aumento di mortalità in corso di malattie organiche, questo è stato dimostrato nello stroke,
  • 39. nell‟infarto, nel cancro, nel diabete, ecc.; determina alterazioni autonomiche, come una maggiore attivazione del sistema simpatico, per questo motivo i soggetti depressi muoiono più frequentemente a causa di una fibrillazione miocardica; si ha una iperaggregazione piastrinica dovuta a meccanismi di up regulation; vi sono squilibri del sistema immunitario che possono anche precedere l‟evoluzione del disturbo psichico. Da qui il ruolo determinante delle citochine in quanto si è visto che l‟infiammazione e la patogenesi dei disturbi dell‟umore si embricano in maniera molto particolare. 5.4 Disturbo Depressivo Maggiore È caratterizzato dalla comparsa di uno o più episodi depressivi maggiori, senza episodi maniacali o ipomaniacali, con intervalli liberi di buon compenso psichico. Nel DSM-IV sono contemplate le seguenti specificazioni relative all‟episodio depressivo in atto o più recente: gravità (lieve, moderato, grave), manifestazioni psicotiche, grado di remissione, cronicità, manifestazioni catatoniche, melanconiche, atipiche, esordio nel postpartum. Il rischio di ammalare di disturbo depressivo maggiore è del 10-25% per la donna e del 5-12% per l‟uomo: fattori biologici, psicologici e sociali interagiscono tra loro con peso e significato di volta in volta variabili nel condizionare l‟epoca d‟insorgenza, le caratteristiche del decorso e l‟evoluzione. La possibilità che l‟episodio depressivo maggiore si manifesti una sola volta nell‟arco della vita è del 15% dei casi, con esordio intorno ai 55-60 anni.
  • 40. Di fronte a un primo episodio depressivo occorre tenere conto che il paziente potrà, in circa l‟80% dei casi, andare incontro ad ulteriori fasi di malattia come la bipolarità. Indicatori di un possibile sviluppo in tal senso sono l‟insorgenza prima dei 30 anni, la familiarità per i disturbi bipolari, il rallentamento psicomotorio, l‟ipersonnia, i sintomi psicotici. La gravità del disturbo dipenderà dalla gravità, dalla durata e dalla frequenza dei singoli episodi. Il rischio suicidiario aumenta con l‟età. Le manifestazioni cliniche interessano l‟umore, la psicomotricità, le funzioni cognitive e quelle somato-vegetative. Fra i sintomi sono da annoverare l‟abbassamento del tono dell‟umore (con sentimenti di tristezza, dolore morale, disperazione) che non è influenzabile da interventi esterni di incoraggiamento o consolazione, perdita di interesse e piacere (anedonia), tendenza al pianto, riduzione della capacità di concentrazione e della memoria, alterazioni psicomotorie (rallentamento) fra i quali la riduzione della produzione ideica polarizzata soprattutto su temi di colpa, di autoaccusa, di povertà e di rovina, alterazioni vegetativo-somatiche (insonnia con difficoltà all‟addormentamento o risveglio precoce, diminuzione dell‟appetito); possono coesistere ansia e preoccupazione per possibili eventi negativi e somatizzazioni diffuse. L‟episodio depressivo maggiore si può anche associare a sintomi psicotici quali deliri e/o allucinazioni o a sintomi catatonici quali l‟immobilità, posture inappropriate e movimenti stereotipati. Il decorso della malattia è estremamente variabile: un primo episodio comporta un rischio del 40-50% che se ne ripeta un altro, dopo tre episodi depressivi il rischio di una ricorrenza sale al 90%. Ogni nuovo episodio tende a manifestarsi più precocemente e bruscamente, con sintomi più gravi di quelli del precedente episodio.
  • 41. Numerosi fattori aumentano il rischio di ricorrenza: la presenza di sintomi depressivi residui, la sospensione, specie se brusca, di un trattamento efficace; il numero di ricadute precedenti, l‟elevata emotività, la presenza contemporanea di patologie mediche o di altre patologie psichiatriche. La diagnosi differenziale la si deve fare con la demenza e con il disturbo dell‟umore secondario a patologie somatiche. Il trattamento di questi pazienti si basa essenzialmente sulla farmacoterapia, ma ha un posto degno di rilevanza anche la psicoterapia, e deve essere instaurato il più tempestivamente possibile per l‟intensità della sofferenza del paziente, il grave rischio suicidiario e quello di sviluppare complicanze . I farmaci di prima scelta sono gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) o della noradrenalina o attivi sia sulla serotonina che sulla noradrenalina. Di seconda scelta sono invece gli antidepressivi triciclici e gli inibitori delle monoaminoossidasi. Il trattamento si articola in tre fasi: I fase, iniziale: in un periodo di circa 3-10 gg si deve raggiungere la dose piena in rapporto alla tollerabilità del paziente, tenendo conto che l‟effetto terapeutico comincia a manifestarsi dopo 14-21 gg di terapia a dose piena, che va mantenuta per 3 mesi. II fase, di mantenimento: necessaria per evitare la ricaduta; è da protrarsi per 6-8 mesi. III fase, di prevenzione delle recidive: di lunga e varia durata L‟associazione di un antipsicotico e di un antidepressivo porta ad un miglioramento nel 70-80% dei pazienti.
  • 42. I pazienti che non hanno risposto al trattamento con un determinato farmaco devono essere trattati con altro antidepressivo con un profilo farmacodinamico diverso. La psicoterapia si sarebbe dimostrata più rapida nel migliorare il rapporto sociale di questi soggetti, nel diminuire l‟ideazione suicidiaria, nel migliorare il sonno e l‟appetito. Diversi possono essere gli approcci psicoterapici: la terapia cognitiva si occupa dell‟individuazione e del cambiamento delle convinzioni che interferiscono con un buon funzionamento psichico, la terapia comportamentale sposta il centro dell‟attenzione lontano dall‟esperienza soggettiva del paziente per individuare e rimuovere gli elementi patologici dei comportamenti appresi, la terapia interpersonale si occupa di analizzare e risolvere i conflitti dei pazienti nelle loro relazioni interpersonali, la terapia psicodinamica breve si basa sulla concezione che la sintomatologia depressiva si riduce nel momento in cui il paziente impara un nuovo modo di fronteggiare i conflitti interni. 5.5 Disturbo Distimico È caratterizzato da un umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, per almeno 2 anni senza intervalli liberi di durata maggiore dei 2 mesi; inoltre sintomatologicamente vi sono: iporessia o iperfagia, insonnia o ipersonnia, ridotta energia e astenia, bassa autostima, scarsa capacità di concentrazione o difficoltà a prendere decisioni, sentimenti di disperazione. I sintomi causano disagio clinico significativo o compromissione della vita sociale e lavorativa del soggetto. La prevalenza di sviluppare un disturbo distimico è del 6% ed è doppia nelle donne rispetto agli uomini.
  • 43. L‟esordio è precoce e insidioso. La diagnosi differenziale viene posta con il disturbo depressivo maggiore rispetto al quale i sintomi sono meno gravi e di durata prolungata per anni, e con un disturbo dell‟umore dovuto a una condizione medica generale dove la sintomatologia psichica è conseguenza degli effetti fisiologici diretti della malattia (di solito cronica). 5.6 Disturbo Bipolare I Per fare diagnosi di Disturbo Bipolare I è sufficiente un solo episodio di mania o episodio misto il quale indica che il soggetto è a rischio di sviluppare anche episodi depressivi. Spesso si associano comportamenti violenti, abuso d‟alcool, suicidio, compromissione del rendimento lavorativo. La prevalenza di questa patologia è compresa tra 0,4-1,6%; l‟esordio è più probabile nell‟età compresa tra i 15 e 40 anni. Esiste una grande variabilità di decorso, con periodi di latenza tra un periodo e l‟altro anche molto lunghi in alcuni casi e molto brevi in altri, questo fino alla “rapida ciclicità”. La terapia prevede l‟uso di antidepressivi e sali di litio. Nel caso di risultati inefficienti è consigliabile potenziare l‟azione del litio con carbamazepina o valproato sodico che hanno dato un buon effetto antimaniacale e stabilizzante dell‟umore. 5.7 Disturbo Bipolare II In tale disturbo vengono inclusi i pazienti che alternano episodi depressivi maggiori con uno o più episodi ipomaniacali. I sintomi causano disagio significativo e compromissione della vita sociale e lavorativa.
  • 44. La prevalenza del disturbo bipolare II è dello 0,5%. Presenta una discreta familiarità e comorbidità con il disturbo bipolare I e con quello deressivo maggiore. Il quadro clinico dell‟episodio depressivo maggiore dei pazienti con disturbo bipolare II è di gravità minore. La terapia è sovrapponibile a quella per il disturbo bipolare I. 5.8 La concezione spazio-temporale nei Disturbi dell’umore Nella psicopatologa dei disturbi dell‟umore, in particolare in quella della depressione, il punto centrale della considerazione spazio-temporale è la sensazione di un blocco in cui il futuro viene disabitato dalla speranza e fa sì che il tempo si arresti. In fondo la parola “disperazione” nasce da una perdita di speranza, cioè le persone non riescono più a infuturarsi nella maniera positiva con cui ognuno cerca di sopravvivere. Quindi c‟è l‟arresto del motus spei, cioè del moto che si dà alla speranza, perché non ci sono progetti e ogni cosa appare impossibile. In questa situazione s‟inserisce un passato che viene desertificato da qualsiasi aspetto positivo e viene invece abitato solo dalla colpa e dalla vergogna che può esserci per l‟accaduto, cioè per ciò che è successo e che non si sarebbe voluto compiere, o per l‟inaccaduto, cioè per ciò che non si è avuto il coraggio di fare, oppure per l‟accadimento stesso dell‟esistenza. Quindi i temi cognitivi del paziente depresso sono focalizzati su una perdita avvenuta in passato, su “un fallimento di scopi”. Questa perdita è vista come un‟inadeguatezza delle qualità personali a colpe, violazioni di norme morali, abbandono o perdita di figure rassicuranti. Qui è evidente che le prospettive dell‟avvenire sono chiuse e c‟è quindi lo sviluppo dell‟idea della rovina e della catastrofe di un mondo non più vivibile. È in questa situazione di rovellio interiore e di rimuginio che
  • 45. avviene un‟intenzionalità autodistruttiva molto forte, che non solo coinvolge il paziente ma anche tutte le persone a lui più care e che portano a episodi definiti “suicidi altruisti”, definiti tali perché non sono dati da un‟aggressività specifica verso queste persone ma sono dovuti al desiderio di sottrarle al dolore del mondo e a quella rovina a cui sarebbero ineluttabilmente destinati. Un altro aspetto molto importante e da tener presente nella depressione è il passato. Il passato è destoricizzato, non ha più alcun significato se non quello della dimensione temporale che diventa poi assente perché impedisce al paziente ogni rincorsa verso l‟avvenire e lo immobilizza. Anche qui c‟è questa situazione del non poter vivere che può portare il soggetto al suicidio. Inoltre c‟è anche un‟alterazione della relazione temporale di sincronizzazione tra il tempo del soggetto e il tempo dell‟ambiente, in cui il tempo flusso si arresta e la dimensione temporale diventa qualcosa appartenente a un mondo non più condivisibile. È come se queste persone si fossero fermate in un preciso momento che poi diventa eterno ed essendo pieno di colpe, di rovina, di indegnità, diventa una tortura senza fine per il paziente. Fra l‟altro questo è un tempo non più abitato e che non permette un‟evoluzione dell‟individuo, il quale diventa passivo e impotente di fronte ai cambiamenti che gli avvengono intorno e di cui non ne comprende la velocità, a cui non sa adeguarsi e che gli si impongono in un rapporto di non partecipazione.
  • 46. 6. La dimensione spazio-temporale nella sofferenza psicotica 6.1 Il disturbo schizofrenico La schizofrenia è una malattia psichiatrica caratterizzata da un decorso superiore ai sei mesi (tendenzialmente cronico o recidivante), dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività. La prevalenza del disturbo schizofrenico va dallo 0,1 all‟1% con un‟incidenza variabile da 0,1 a 0,7%; il rischio di contrarre il disturbo si attesta all‟incirca all‟1%. Non vengono rilevate significative differenze correlate al sesso per quanto riguarda prevalenza e incidenza, mentre ci sono differenze tra i due sessi nell‟età d‟insorgenza della patologia: nelle donne sembra essere più tardiva (25-35 anni) rispetto agli uomini (15-24 anni). La schizofrenia rappresenta un campo dei disturbi mentali in cui si esprime la radicale complessità e multi determinazione dell‟alterazione mentale patologica. I progressi sviluppati in due secoli di osservazione clinica e di studi scientifici hanno consentito di dimostrare che fattori di diversa natura concorrono al determinismo di questa manifestazione emblematica della patologia del comportamento dell‟uomo. In essa infatti confluiscono fattori biologici, psicologici, sociali la cui concomitanza espone l‟individuo alla probabilità di esprimere questa patologia incidendo significativamente sulla eterogeneità della espressività psicopatologica e del decorso. Uno degli psichiatri biologici più accreditati degli anni ‟90 ha scritto a riguardo che la schizofrenia è una malattia del cervello che si esprime clinicamente come una malattia
  • 47. delle mente e che le cause che la determinano sono una combinazione di fattori genetici ereditari e di fattori esterni non-genetici che alterano la regolazione e l‟espressione dei geni che regolano il funzionamento del cervello oppure provocano direttamente un danno cerebrale. Teorie biologiche La prima ipotesi biochimica afferma che la schizofrenia deriva da un‟alterazione in eccesso dell‟attività neurotrasmettitoriale dopaminergica cerebrale. Numerose ricerche hanno evidenziato una correlazione positiva tra un‟elevata concentrazione plasmatica di ac. Omovanillico, metabolita della dopamina, e gravità dei sintomi psicotici e tra miglioramento clinico e riduzione della sua concentrazione. A tutt‟oggi non è ancora del tutto chiarito se la iperfunzione dopaminergica riguardi un eccessivo rilascio di dopamina e/o un eccesso di recettori dopaminergici. L‟ipotesi attuale è che i recettori D2 non possano da soli spiegare i sintomi della schizofrenia. I limiti dell‟ipotesi dopaminergica e la convinzione che non esiste un unico disturbo schizofrenico, hanno condotto a prendere in considerazione il coinvolgimento di altri neurotrasmettitori la cui alterazione condurrebbe a manifestazioni psicopatologiche analoghe. A questo proposito è stato dimostrato che è possibile produrre manifestazioni psicotiche analoghe sia utilizzando l‟LSD che agisce a livello serotoninergico, sia l‟anfetamina che aumenta l‟attività dopaminergica. Attualmente vengono presi in considerazione la serotonina e soprattutto i recettori 5-HT2 inibitori, presenti soprattutto nella corteccia frontale e nel sistema striatale. Il coinvolgimento della trasmissione serotoninergica nella schizofrenia viene, a tutt‟oggi, preso in considerazione soprattutto relativamente ad alcune manifestazioni cliniche del disturbo; esiste tra i ricercatori
  • 48. accordo sul riscontro dell‟aumento di 5-HT nel sangue e nelle piastrine in concomitanza con anomalie morfologiche cerebrali (aumento di volume dei ventricoli cerebrali) in pazienti con schizofrenia cronica e ipersensitività recettoriale 5-HT2 e della prevalenza di anomalie del sistema serotoninergico in forme cliniche con preponderante espressività di sintomi negativi; viene fatta l‟ipotesi che una riduzione del tono serotoninergico potrebbe tradursi in una diminuzione della modulazione inibitoria esercitata sulle strutture dopaminergiche sottocorticali e in una modificazione della reattività dei recettori D2 corticali. Il sistema noradrenergico viene oggi preso in considerazione a causa delle crescenti ricerche che tendono a confermare la sua azione modulatrice sul funzionamento del sistema dopaminergico. Attualmente viene anche ipotizzato il coinvolgimento del GABA nei meccanismi fisiopatologici della schizofrenia; è stata infatti osservata una riduzione dei neuroni GABAergici nell‟ippocampo con la possibile conseguente riduzione dell‟inibizione sull‟attività dopaminergica e noradrenergica. Recenti studi hanno posto in evidenza anche il coinvolgimento dei recettori NMDA e del possibile ruolo del glutammato. Vanno infine ricordate le ricerche relative al coinvolgimento dei neuropeptidi cerebrali oppioidi (endorfine) che postulano nel disturbo schizofrenico un‟anomalia della neuro modulazione endorfinica e più precisamente di una prevalenza dell‟attività cerebrale di tipo β endorfinico. Già all‟inizio del „900 fu rilevato l‟aumento della prevalenza del disturbo tra i fratelli dei pazienti schizofrenici. Nonostante i numerosi studi in campo e i modelli ipotizzati (a singolo gene o oligogenici o poligenici) i risultati sono ancora insufficienti e controversi. Cioè alcuni ipotizzano
  • 49. una trasmissione ereditaria monogenica dominate, altri monogenica recessiva, altri credono che il gene di suscettibilità alla schizofrenia sia situato sul cromosoma X. Nelle ricerche più recenti sono stati segnalati numerosi loci posti su diversi cromosomi. Nonostante il numero crescente di studi brain-imaging che dimostrano diversi tipi di anomalie cerebrali presenti negli schizofrenici (allargamento ventricolare, patologia del sistema limbico, del talamo, dei gangli della base e della corteccia) non vi sono ancora evidenze conclusive circa la presenza di una patoanatomia caratteristica per tutti i pazienti. Teorie sociali Fra le teorie sociali proposte tipica è quella della figura della madre schizofrenogenetica: donna autoritaria, fredda, invadente o al contrario iperprotettiva, troppo indulgente, portata a generare confusione tra la propria identità e quella del figlio; o quella della figura del padre schizofrenogenetico: personalità passiva, immatura, assente, indifferente e inadeguata al proprio ruolo. Teoria della vulnerabilità La teoria della vulnerabilità per i disturbi schizofrenici nasce sul modello naturalistico diatesi-stress-adattamento con l‟intento di comprendere in un unico processo eziopatogenetico la multi determinazione bio-psico- sociale del disturbo e nel contempo sottolineare il peso dei fattori psicosociali e familiari non soltanto nel determinismo del disturbo ma anche nel suo decorso. Secondo Zubin le manifestazioni schizofreniche insorgono quando eventi stressanti ambientali e/o biochimici danno una stimolazione soprasoglia per il soggetto vulnerabile.
  • 50. Secondo il modello di Huber la vulnerabilità schizofrenica è dovuta al disturbo cognitivo fondamentale che riguarda un disturbo (deficit) di ricezione e elaborazione delle informazioni sotteso da un‟alterazione neurofisiologica e neurotrasmettitoriale del lobo limbico. Da qui l‟idea che i sintomi di base sarebbero correlati strettamente al deficit di processazione. Maggini afferma che gli schizofrenici per gran parte della loro vita conservano la capacità di percepire e riconoscere i propri deficit (sintomi di base) e di mantenere nei loro confronti un atteggiamento critico elaborando strategie compensatorie adattative e di evitamento di quelle situazioni che li provocano. Quando si verificano degli stress esterni o interni questi sintomi si intensificano e si sviluppa una seconda fase del disturbo in cui la discrepanza tra capacità di processazione e sovra stimolazione psichica genera inizialmente esperienze di estraneità e di perplessità e poi l‟esperienza psichica, vissuta con angoscia e irritazione; questa è la fase spesso osservata nella clinica come prodromica all‟esplosione della sintomatologia psicotica; è una fase reversibile se le condizioni di sovra stimolazione recedono, altrimenti essa condurrà alla terza fase di vera e propria manifestazione psicotica. Teorie psicodinamiche Per Melanie Klein la schizofrenia ha origine da una condizione di insufficiente elaborazione o di mancato superamento della posizione schizoparanoide che caratterizza fisiologicamente la dimensione relazionale con la madre per un certo periodo di tempo ed è regolata da meccanismi di scissione, proiezione e identificazione proiettiva necessari per arginare le angosce distruttive primitive esistenti in ogni bambino; il mancato superamento di questa posizione conduce alla persistenza dell‟esperienze di sé e del mondo circostante dominati da atmosfere
  • 51. persecutorie, alla carenza della capacità di differenziare il proprio sé dal mondo circostante e alla ridotta capacità di sviluppare un Io in grado di integrare le funzioni di pensiero realistico e l‟esperienza di sé distinta dal mondo esterno. In questa concezione l‟ambiente materno non sembra avere una particolare importanza nell‟influire sul destino del processo evolutivo della posizione schizoparanoide che appare maggiormente venir ricondotta a fattori innati. Winnicott al contrario sottolineò l‟insostituibile ruolo della qualità del sostegno materno nel consentire all‟Io nascente di sviluppare il processo della sua integrazione. Per questo autore la schizofrenia rappresentava il risultato di cure materne insufficientemente buone che avevano costretto il bambino a confrontarsi con l‟angoscia di disintegrazione, lasciandolo in balia di una eccedenza degli impulsi distruttivi e nella necessità di continuare a utilizzare le difese schizoparanoidi per sopravvivere. Bion ha parlato a questo proposito del fallimento della funzione materna di contenimento delle angosce distruttive e di frammentazione. Nella classificazione del DSM-IV sono stati differenziati in relazione alla sintomatologia predominante i seguenti sottotipi: tipo paranoide: caratterizzato dalla presenza di uno o più deliri e da allucinazioni uditive; tipo disorganizzato: caratterizzato soprattutto da eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato, affettività appiattita; tipo catatonico: il quadro clinico è dominato da almeno due dei seguenti sintomi: arresto motorio, eccessiva attività motoria (apparentemente senza scopo e non influenzata da stimoli esterni), negativismo estremo o mutacismo, peculiarità del movimento volontario, come evidenziato dalla tendenza alla postura fissa
  • 52. (assunzione volontaria di posture inadeguate o bizzarre), da movimenti stereotipati, da smorfie, ecolalia o eco prassia; tipo indifferenziato; tipo residuo: non sono presenti rilevanti deliri e allucinazioni, eloquio disorganizzato e comportamento, ma vi sono sintomi negativi in forma attenuata. Allo stato attuale delle conoscenze è assai improbabile credere che esista un‟entità unitaria di questo disturbo; da qui la mancata identificazione di un pattern sintomatologico tipico e un percorso d‟evoluzione caratteristico. Quindi si possono distinguere tre dimensioni o cluster sintomatologici correlati con un‟area disfunzionale: 1) distorsione della realtà e disorganizzazione del pensiero: comprende i c.d. sintomi positivi o produttivi, cioè le allucinazioni, i deliri, i disturbi formali positivi del pensiero e il comportamento bizzarro; 2) impoverimento affettivo: è rappresentato dai sintomi negativi: appiattimento affettivo, abulia-apatia, anedonia-asocialità; 3) deficit neuropsicologici: deficit della working memory, deficit del mantenimento dell‟attenzione, deficit delle funzioni esecutive. Il trattamento dei disturbi schizofrenici comprende interventi di diverso tipo che devono essere integrati tra loro per rispondere alla multideterminazione del disturbo. La farmacoterapia deve essere modificata in base alle differenti espressività che il disturbo assume nello stesso paziente lungo le diverse fasi del decorso. I farmaci d‟elezione usati nel trattamento di questi disturbi sono i neurolettici; attualmente vengono usati neurolettici di nuova generazione (c.d. atipici per differenziarli dai primi neurolettici denominati tipici) che
  • 53. pur mantenendo l‟azione antidopaminergica hanno anche un‟azione sui recettori 5-HT2 inibendoli, questo determina un aumento dell‟attività dopaminergica cerebrale corticale con una conseguente riduzione dei sintomi negativi e una comparsa minore o addirittura l‟assenza degli effetti collaterali extrapiramidali. La scelta del tipo di neurolettico dipenderà dalla sintomatologia in atto osservata, per cui la prevalenza dei sintomi produttivi richiederà l‟uso di un neurolettico tipico mentre quella dei sintomi negativi o di entrambi indicherà l‟utilizzazione di un neurolettico atipico con azione sia antidopaminergica che di blocco sui recettori 5-HT2. Oggi si ritiene che la terapia della schizofrenia non possa prescindere da interventi psicoterapeutici individuali indirizzati soprattutto a sostenere la relazione terapeutica e a favorirne la continuità e la stabilità, a comprendere le angosce psicotiche che vengono comunicate e a fornire un sostegno esterno di supporto alla vulnerabilità di base del paziente. Si consiglia il trattamento psicoterapeutico istituzionale integrato, in esso il psicoterapeuta deve cercare di comprendere gli stati emotivi del paziente e quelli suscitati nelle figure terapeutiche di riferimento al fine di modulare gli interventi psichiatrici disponibili. Accanto all‟intervento psicoterapeutico integrato sono previsti anche programmi di acquisizione di abilità sociali svolti nei centri diurni o nelle comunità terapeutiche residenziali, tutto questo consente di ridurre gli stress psicosociali e di rifornire percorsi di reinserimento sociale e lavorativo protetto graduale.
  • 54. 6.2 Altri Disturbi Psicotici Vengono compresi in questa categoria disturbi psicotici che per la loro espressività fenomenologica, per decorso e prognosi, non soddisfano i criteri della schizofrenia e devono essere distinti dai disturbi dell‟umore con sintomi psicotici. Seguendo la classificazione del DSM-IV vi sono: disturbi deliranti; disturbo psicotico breve; disturbo psicotico condiviso; disturbi psicotici dovuti a una concomitante condizione medica generale; disturbi psicotici indotti da sostanze. In letteratura sono stati descritti diversi lavori che cercano di giungere a modelli neurobiologici per spiegare il fenomeno delle allucinazioni. Un modello conclusivo vede il sistema limbico come il luogo dove nasce l‟esperienza del delirio, cioè quello stato emotivo che predispone al delirio prima ancora di dargli un contenuto. Il rapporto limbico temporale è quello che probabilmente entra in gioco nel fenomeno dell‟esperienza allucinatoria, per poi converge in quelle aree cerebrali con cui si pensa, con cui si organizza l‟esperienza primaria in un contenuto e quindi si da anche un tema al delirio. Non si sa ancora con certezza se esiste un rapporto tra deficit cognitivo e contenuto, ma qualora questo esistesse si potrebbe ipotizzare di intervenire farmacologicamente su di esso modulando o bloccando quella che è l‟attività dopaminergica a livello limbico. Più difficile è pensare come si potrebbe intervenire a livello fronto-corticale dove
  • 55. entrano in gioco alterazioni disfunzionali del sistema dopaminergico in rapporto col sistema glutammatergico e serotoninergico. Per quanto riguarda il rapporto fra il deficit funzionale di base del cervello, il suo contenuto semplificativo e il contenuto dell‟esperienza psicotica, ci si interroga molto per capire quale di questi elementi venga prima, se c‟è prima il deficit e poi il delirio o il contrario. Probabilmente si ha prima la disfunzione cognitiva e poi il delirio, ed è probabile che il deficit cognitivo dia certamente forma ma anche contenuto all‟esperienza psicotica. Questo da luce su quella che è la natura e il decorso della malattia perché sono andamenti non paralleli (la psicopatologia ha un suo decorso e il deficit ne ha un altro), ma certamente l‟uno influenza l‟altro. Disturbo Delirante Si calcola che il disturbo delirante rappresenti circa l‟1-4% di tutti i ricoveri psichiatrici. Esordisce di solito in età adulta con una prevalenza leggermente maggiore per il sesso femminile. I criteri diagnostici del DSM-IV riguardo questa forma di psicosi sono: deliri non bizzarri (cioè concernenti situazioni che ricorrono nella vita reale) che durano almeno un mese, il comportamento non è eccessivamente stravagante, gli episodi di alterazione dell‟umore hanno durata pari a quella dei periodi deliranti (quindi breve), il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale. In base al contenuto delirante prevalente viene specificato il tipo delirante: tipo erotomanico, tipo di grandezza, tipo di gelosia, tipo di persecuzione, tipo somatico, tipo misto.
  • 56. Esistono osservazioni della possibile evoluzione del disturbo delirante in un disturbo schizofrenico o della comparsa in esso di manifestazioni psicotiche acute episodiche. È necessario considerare anche forme psicopatologiche in cui il delirio cronico appare molto bizzarro e sono presenti turbe allucinatorie uditive. Si tratta qui di quadri clinici intermedi tra il disturbo schizofrenico e il disturbo delirante perché soddisfano in parte i criteri diagnostici di entrambe le categorie. Questo particolare quadro va sotto il nome di parafrenia. L‟intervento terapeutico risulta complesso: il deficit della consapevolezza di malattia e la buona conservazione della personalità e delle funzioni cognitive, difficilmente conducono il paziente dallo psichiatra, e comunque comportano una bassa collaborazione. Il trattamento psicofarmacologico indicato è di tipo neurolettico, per quanto non si possa escludere in alcuni casi anche l‟uso di antidepressivi. Disturbo Psicotico Breve Le psicosi acute sono forme eterogenee, sul piano etiopatogenetico e strutturale, tenute insieme da caratteristiche comuni di espressività sintomatologica e di decorso. Il loro inquadramento e la loro interpretazione sono da sempre controversi e problematici. Ancora non si capisce se siano entità morbose autonome o forme particolari di una sindrome psicotica più estensiva, o se siano varianti dei disturbi bipolari o della schizofrenia. Il loro ordinamento diagnostico resta pertanto ancora un problema aperto. Oltre alle manifestazioni sintomatologiche che richiamano le grandi psicosi (deliri e allucinazioni) e le fanno apparire in qualche modo ad
  • 57. esse collegate, è stato dato un significato diagnostico patognomonico al particolare livello di destrutturazione della coscienza presente in questi casi sotto forma di stati confuso onirici. È utile ricordare le seguenti tipologie diagnostiche: psicosi schizofreniformi; psicosi reattive o psicogene; bouffées deliranti acute. Tutte queste sono forme cliniche caratterizzate da sintomatologia delirante-allucinatoria con turbe particolari dello stato di coscienza e da esordio acuto, spesso concomitante ad eventi ambientali ed esistenziali di particolare significato emotivo che si manifestano in persone senza palesi caratteristiche di personalità premorbosa di tipo schizoide o schizotimico, e che hanno una durata limitata nel tempo con evoluzione favorevole in restitutio ad integrum. I criteri diagnostici del DSM-IV per il Disturbo Psicotico Breve sono: presenza di uno dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloqui disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico; la durata di un episodio del disturbo è di almeno un giorno, ma meno di un mese, con successivo pieno ritorno al livello di funzionamento premorboso; il disturbo non è meglio giustificato da un Disturbo dell‟ Umore con manifestazioni psicotiche, da un Disturbo Schizoaffettivo, da Schizofrenia, non è dovuto agli effetti fisiologici indotti da una sostanza o da una condizione medica generale; con insorgenza nel post-partum, se l‟insorgenza avviene entro 4 settimane dal parto.
  • 58. Una volta escluse condizioni psicotiche derivanti da sofferenza del sistema nervoso centrale, gli interventi psichiatrici per queste sindromi, spesso condotti in situazioni d‟urgenza, comprendono il trattamento psicofarmacologico (soprattutto neurolettico, ma anche esteso ai regolatori dell‟umore nonché agli antidepressivi), l‟accudimento somatico per i bisogni vitali più o meno compromessi e infine un adeguato sostegno psicoterapeutico in grado di contenere costruttivamente le angosce deliranti nel periodo di stato e a offrire quando sia possibile un‟elaborazione costruttiva dell‟esperienza trascorsa a guarigione avvenuta. Talvolta l‟uscita dalle psicosi avviene con meccanismi analoghi a quelli del risveglio dal sonno per cui intervengono attivamente meccanismi di repressione e di diniego; in questi casi, con la guarigione dalle psicosi termina anche il trattamento e il rapporto terapeutico. 6.3 La concezione spazio-temporale nei Disturbi Psicotici La persona con disturbi psicotici ha un disturbo fisso della stima del tempo. Un contributo che cerca di spiegare questo concetto è dato dal modello della dismetria. La dismetria cognitiva riesce a spiegare una serie di problemi clinici caratterizzati dalla mancanza di fluidità dello scorrere del tempo e dalla frammentazione dell‟esperienza. Essa si fonda sul fatto che alcune zone del cervello non si connettono sincronicamente portando a una difficoltà a programmare il futuro, a capire il presente perché manca il passato, a fare discorsi logici; questa è la cosiddetta “disorganizzazione della psicopatologia”. La dismetria induce un disturbo nelle componenti sequenziali delle attività mentali. Quindi nelle psicosi c‟è la completa perdita della realtà temporale perché tutto si mischia; per cui le vite di questi pazienti si individuano come
  • 59. dimensioni falcidiate da un vivere puntiforme nel presente perché il tempo ha una velocità enorme che porta quasi ad una sorta di frammentazione. In questa visione rientra la concezione del presente destorificato tipico dell‟esperienza psicotica. La destorificazione del presente avvalora l‟idea di come l‟esperienza vissuta dello spazio si trasformi contestualmente, il vicino e il lontano perdono autonomia e significato, tutti gli spazi si appiattiscono, lo spazio esterno transita facilmente senza ostacoli in uno spazio interno e viceversa. Questa spirale imprevedibile di permeabilità senza precisi confini, questa coartazione dello spazio esistenziale, questa fuga verso un dove o un altrove che non c‟è più, costituisce la costellazione più importante della sofferenza psicotica. Una caratteristica tipica dei disturbi psicotici è la presenza di allucinazioni. Spesso questi pazienti fanno riferimento alla casa; la metafora della casa è introdotta nel discorso come allusiva al mondo interno, ad esempio si parla di tetti che hanno delle infiltrazioni, di intonaci che si screpolano o di case ormai irrimediabilmente non restaurabili, cioè che non hanno un futuro di accrescimento. Da qui la forte accentuazione nell‟idea della spazialità. Straus apre un livello di ragionamento che si basa sul fatto che ciò che si vede nel declinarsi di un vissuto allucinatorio è un mutato rapporto tra l‟io e l‟altro; quindi non c‟è più un interno e un esterno, ma c‟è questo flusso tra coscienza e mondo, le cose appaiono, si odono o si toccano al di là di quella che è la specificità dei sensi nel declinarsi di queste relazioni e di questa intersoggettività. Un‟importante revisione del problema è stata fatta dalla psicanalisi. Il modello freudiano della soddisfazione allucinatoria, del fatto che l‟allucinazione rappresenti un ritorno di qualcosa di rimosso, del fatto
  • 60. che nel meccanismo dispercettivo sia attivo qualcosa che ha a che vedere con la regressione, sta nel fatto che questo meccanismo coglie nella nuova relazione tra il soggetto e il mondo una dinamica basata sulla conflittualità, in realtà più esplicativa per le nevrosi che non per le allucinazioni. Le cose cambiano significativamente con la revisione fatta da Bion. In questa revisione è presente l‟idea dell‟identità come risultato di una strutturazione progressiva, e come molteplicità, quindi a un io come gruppalità; questa situazione di molteplicità dell‟identità permette di capire come la spiegazione di vissuti allucinatori sia qualcosa che deve tener conto non solo di una sorta di frammentazione ma anche di una dislocazione rispetto alla centralità del soggetto medesimo. C‟è un‟immagine di Bion molto precisa di allucinazioni all‟interno di una seduta analitica: un paziente che parla con il suo deux peliches ma parla anche con l‟analista. Nella lettura dell‟evento allucinatorio c‟è sempre il problema di capire se i due registri convivono o se sono due registri che nel momento in cui sono attivi si escludono momentaneamente. Questo perché Freud sostiene che il registro della dispercezione è diverso da quello dell‟esperienza percettiva quotidiana, e il relè che indurrebbe il passaggio da un registro a un altro è la valorizzazione nel percorso dell‟allucinazione negativa. L‟allucinazione negativa apre la possibilità di comprendere il momento in cui il mondo della percezione quotidiana, dell‟esperienza quotidiana, viene sostituito dal mondo delle presenze allucinatorie. Ecco l‟importanza di questa situazione allucinatoria nell‟aspetto della spazialità, perché lo specifico di certi vissuti allucinatori risiede proprio in quest‟opporsi a una scansione temporale e storica del soggetto.
  • 61. C‟è una corrispondenza in parallelo tra la comparsa del fenomeno allucinatorio e il carico esistenziale di angoscia; questa situazione strutturale, proprio come una struttura architettonica, viene attivata per un sovraccarico della dinamica complessiva del funzionamento del soggetto. Inoltre è stata notata un‟anomalia correlata tra la memoria temporale e quella spaziale: tanto maggiore è il deficit di memoria spaziale, tanto più lo sarà quello di memoria temporale. Per cui oltre ai sintomi negativi, positivi e affettivi c‟è la dimensione disorganizzativa che porta il paziente ad avere delle vere e proprie difficoltà oggettive, in quanto la sua esperienza del passato è deficitaria, non riesce bene a collegare mediante la working memory il passato breve con il presente, ogni cosa gli appare nuova, ha l‟angoscia per la novità, il presente è confuso e nello stesso tempo non riesce a viverlo pienamente perché attaccato da interferenze esterne o interne, il futuro non esiste perché non ha la capacità di programmarlo.
  • 62. Conclusioni A partire dall‟esplorazione della dimensione spazio-temporale in ambito fenomenologico perlustrata da diversi autori italiani, in auge nell‟ambito della psicopatologia nostrana, si sono voluti mettere in risalto aspetti salienti non solo teorico-filosofici, del resto la dimensione spazio- temporale è stata sempre indagata sotto un profilo filosofico fin dai tempi antichi, ma anche clinico-esperienziali. Queste due dimensioni, spaziale e temporale, nella pratica quotidiana vengono esplorate contemporaneamente perché si ritiene che un paziente che è disorientato nel tempo lo sarà anche nello spazio e viceversa. Sin dai tempi antichi filosofi, medici e psichiatri hanno scandagliato con maggior curiosità e attenzione la dimensione temporale rispetto a quella spaziale, come se modificazioni della sfera temporale fossero più rilevanti ai fini clinici, o forse solo più eclatanti anche ad un occhio meno esperto. Da qui le classiche considerazioni del tempo rallentato, accelerato o frammentato in cui il passato, il presente e il futuro si fondono per creare nel paziente psichiatrico uno stato patologico di confusione. Tutto questo però non ci giustifica dal tralasciare le modificazioni che avvengono nella dimensione spaziale, meno visibili ma anch‟esse necessarie, in quanto lo spazio del paziente psichiatrico è intriso di tanti piccoli significati e destrutturazioni che possono essere un corollario o un‟anticipazione di una serie di sintomi. Oggigiorno il problema della concezione dello spazio nel paziente psichiatrico sta tornando a galla, infatti gli studi a riguardo nelle riviste scientifiche del settore sono molteplici.