XI Lezione - Arabo LAR Giath Rammo @ Libera Accademia Romana
Cómo comían los romanos
1. CÓMO COMÍAN LOS ROMANOS
Trattare della cucina ai tempi dei Romani può comportare delle generalizzazioni. Già
nell'Italia del III/II sec. a.C. si poteva distinguere infatti una cucina dell'Italia centro-
meridionale, influenzata anche dalle civiltà etrusca e greca, e una cucina del Nord, legata alle
tradizioni celtiche.
Inoltre, in ogni età, le popolazioni di mare disponevano con maggior facilità di sale (un
ingrediente molto caro in antichità) e consumavano alimenti che spesso mancavano alle
popolazioni dell'entroterra.
Con l'estendersi poi dei domini nel Mediterraneo e poi in Oriente, la cucina dei latini presentò
grandi varietà di ingredienti, piatti e abitudini gastronomiche: un cittadino romano dell'Egitto
o della Palestina poteva avere un regime dietetico, un atteggiamento verso il cibo, nonché
consuetudini alimentari ben diverse da quelle di un romano della capitale.
Ciò premesso, vediamo in linea generale come si cibavano i Romani:
Lessico [Y]
I pasti della giornata [Z]
Lo svolgimento dei pasti [0]
Gli alimenti [1]
La gastronomia nella letteratura latina [2]
Una curiosità [3]
Lettura di brani in traduzione [4]
Per saperne di più
- Apicio, L'arte culinaria, a cura di G. Carazzali, Bompiani, Milano 1990 (con ampia
introduzione).
- G. Pucci, I consumi alimentari, in Storia di Roma, vol. IV "Caratteri e morfologie", Einaudi,
Torino 1989, pp. 369-388.
- F. Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, trad. it., Roma-Bari 1990, cap. XVI
"Il cibo, i banchetti e i piaceri della sera".
Lessico
cena, -ae pranzo, cena (pasto principale della giornata;
iniziava nel pomeriggio)
cenam facere dare un pranzo
inter cenam durante il pranzo
2. ad cenam invitare invitare a pranzo
convivium, -i convivio, banchetto
coquus, -i cuoco
gustatio, -onis antipasto
ientaculum, -i prima colazione
mensa, -ae tavola
instruere mensas apparecchiare
mensam removere (o tollere) sparecchiare
piatto, portata
secundae mensae dessert
prandium, -i pranzo, pasto (consumato intorno a
mezzogiorno)
symposium, -i banchetto
Stoviglie e utensili
amphora, -ae anfora, vaso (a due manici, per olio, vino
ecc.)
calix, -icis calice, bicchiere
cantharus, -i cantaro, coppa a due anse
catinus, -i piatto fondo, scodella
cochlear, -aris cucchiaio
crater, -eris cratere, brocca (dove si mescolavano vino e
acqua)
culter, -cultri coltello
linteum, -i tovagliolo (di lino)
patella, -ae piatto (per cuocere o servire le vivande)
patina, -ae piatto; padella
poc(u)lum, -i bicchiere, coppa; bevanda
scyphus, -i coppa, tazza
trulla, -ae mestolo
4. panis aterpane nero
panis candidus pane bianco
cibarius panis pane comune
panis nauticusgalletta dei marinai
perna, -ae prosciutto
piscis, -is pesce
placenta, -ae focaccia, torta
poma, -orum frutta
porcus, -i maiale
puls, pultis polenta; farinata
sal, salis sale
sus, suris (m. e f.) maiale; scrofa
Bevande
aqua, -ae acqua
aqua mulsa idromele (acqua con miele)
cervisia, -ae birra
posca, -ae posca (bevanda a base di acqua e vino
scadente)
vinum, -i vino
vinum merum vino puro (senza aggiunta di acqua)
vinum mulsum vino con miele
vino madens ubriaco fradicio
Nota
Benché la cucina al tempo dei romani fosse ben diversa
dalla nostra, moltissimi nomi italiani di cibi e ingredienti
derivano dal latino (e dal greco), come hai potuto vedere
dalla lista che hai appena letto.
Tuttavia un certo numero di termini latini non sono
5. entrati in italiano. Alcuni cibi, infatti, come il garum non
sono più stati utilizzati dopo la fine della civiltà latina.
Oppure si sono imposti altri nomi: è il caso dell'italiano
"cavolo" (lat. brassica) sostantivo che sembra derivare
dal modo in cui in Italia meridionale si denominava
questa pianta, dal greco kaulo/i (nel latino tardo è
attestato caulum). Non si conosce invece l'etimologia di
"sedano" (lat. apium). Il nome "formaggio" deriva dal
francese fromage, nel senso di "cacio messo in forma". Il
sostantivo "birra" deriva dal tedesco Bier.
Cibi entrati in Italia nel Medioevo e soprattutto dopo la
scoperta dell'America presentano nomi non di origine
greco-latina: per es. arancio (dal persiano narang),
patata e mais (entrambi da dialetti delle popolazioni
centro-americane) ecc.
I pasti della giornata
Tre erano i pasti principali. La prima colazione (ientaculum) si consumava nel primo mattino
e comprendeva pane, formaggio, uova, verdure dell'orto, olive, vino puro o con miele. I
bambini potevano mangiare anche biscotti e piccoli dolci.
Intorno a mezzogiorno aveva luogo un secondo pasto veloce (prandium), spesso consumato
in piedi, a base di analoghi alimenti, preparati freddi o caldi.
In epoca arcaica il pane non era usato nel Lazio, ma piuttosto polentine di farro, orzo, miglio,
successivamente di frumento (il mais fu importato dopo la scoperta dell'America). Questa
polenta era chiamata puls e fu alla base dell'alimentazione dei latini per tutta l'epoca antica.
Era preparata facendo bollire nell'acqua o nel latte dei cereali macinati; poteva essere
arricchita con l'aggiunta di lenticchie, fave, ceci. Solo in un secondo tempo si impose l'uso del
pane azzimo, tipo piadina, o lievitato. "La fatidica formula panem et circenses è, almeno sino
al III sec. d.C., metaforica: la plebe non riceveva pane, ma frumento" (G. Pucci, p. 379), il
quale veniva usato per preparare la puls o altri piatti. In età imperiale esistevano comunque
diversissimi tipi di pane: c'era il pane dei poveri, chiamato cibarius, e quello nero (ater) e un
po' indigesto per l'abbondante presenza di crusca; c'era poi il pane bianco (candidus) e
tenero dei ricchi; e ancora quello condito con burro tipico del Nord Italia e della Gallia o
quello dolce, il buccellatum, simile a un biscotto. I contadini e gli operai, e comunque
chiunque svolgesse lavori pesanti, usava pagnotte arricchite con formaggio e miele.
Il pranzo vero e proprio era la cena, che iniziava nel tardo pomeriggio e si protraeva anche
per diverse ore (in certi casi anche per tutta la notte sino al mattino successivo). Durante la
cena si riunivano la famiglia e anche gli amici; essa rappresentava non solo l'occasione di
nutrirsi (come la prima colazione e il prandium), ma un importante momento conviviale e di
piacere. "La cena, a Roma, è uno dei grandi momenti della giornata. I convitati non si
limitano soltanto a mangiare, ma celebrano un rituale sociale, quotidiano, fondamentale alla
coesione della comunità. (…) Ogni sera, l'uomo romano si inserisce in una comunità umana,
famiglia e amici, associazione religiosa, condividendo i piaceri di una cena. Soltanto il celibe
sfortunato, la sera in cui non viene invitato o non invita qualcuno, deve accontentarsi di un
pasto frugale" (F. Dupont, p. 28; p. 287). È questa mentalità che ci aiuta a capire il
significato di componimenti come quello di Catullo rivolto all'amico Fabullo (c. 13) o di tanti
versi oraziani (cfr., ad esempio, Sat. I 6, 115; II 7, 29-35 ecc.).
Lo svolgimento dei pasti
Con l'età imperiale la cena si consumava in stanze apposite, i triclinia, in cui si trovavano dei
divani disposti a ferro di cavallo dove i commensali stavano semisdraiati, appoggiati sul
6. gomito sinistro (la mano destra era libera per mangiare). Per i romani, infatti, sedersi a
tavola era proprio degli zoticoni di campagna o dei provinciali. Al centro della sala stava la
tavola (mensa). Le portate erano servite dagli schiavi sulla tavola centrale e poi offerte ai
convitati. Venivano usati anche carrelli di servizio attraverso i quali i commensali potevano
attingere direttamente ai grandi vassoi di portata. Il convitato aveva a disposizione un piatto
su cui metteva il cibo. Questo, poi, veniva portato alla bocca direttamente con le mani, senza
l'uso di forchette o coltelli. Le porzioni venivano tagliate prima dai servi. Inoltre i romani
amavano i cibi ben cotti e molto teneri, ragion per cui i commensali non usavano i coltelli.
Solo il cucchiaio era indispensabile per i cibi liquidi o semiliquidi. Questo uso durò sino all'età
medioevale.
Il banchetto comprendeva tre momenti principali. Nell'antipasto (gustatio) si servivano cibi
che stuzzicassero l'appetito, accompagnati da vino dolce. Non vi erano i primi piatti, ma,
dopo l'antipasto, si passava direttamente a quelli che per noi sono i secondi: si trattava di
portate a base di verdure, cereali, uova, legumi, carni e pesci. Alla fine c'erano le secundae
mensae, ovvero il dessert, con dolci e frutta. Questo ultimo momento prevedeva brindisi,
giochi, spettacoli di mimi, canto e danza. I convitati venivano inghirlandati e profumati (si
veda il carmen 13 di Catullo) e talvolta invitati anche a intrattenimenti licenziosi. Plinio il
giovane, per esempio, ci informa che le secundae mensae dell'imperatore Traiano erano
"oneste" perché prevedevano solo letture e musica. Ben diverso appare invece il banchetto di
Trimalcione descritto nel Satyricon.
Le cene dei più poveri erano basate sugli stessi alimenti del veloce prandium mattutino.
Gli alimenti
L'alimentazione dei romani era piuttosto simile a quella dei greci, basata sui prodotti tipici del
Mediterraneo, come olio, vino, ortaggi, frutti tipici. Una differenza tra i due popoli riguarda il
cereale alla base della puls: per i greci era l'orzo, per i romani, soprattutto in epoca più
antica, il farro. La maggior parte dei piatti era preparata con alimenti di origine vegetale.
Nella cucina romana avevano largo impiego i cereali, fondamentali per il loro valore nutritivo,
i legumi e gli ortaggi (holera). Non mancavano mai la cipolla e l'aglio per insaporire i piatti. I
frutti più apprezzati erano i fichi, le mele, le pere, le castagne, le mandorle.
La popolazione consumava poca carne. Il tipo di carne più usato era di maiale e di scrofa (le
mammelle di scrofa erano considerate particolarmente prelibate). Anche dai resti
archeologici emerge che l'animale più comune nel Lazio antico, ricco di querce e lecci, era il
maiale. A tavola erano impiegate anche le carni ovine, caprine, nonché la selvaggina (lepri,
fagiani, tordi ecc.). Si mangiavano raramente manzi e vitelli, considerati animali da lavoro o
trasporto. Solo i bovini più vecchi o malati venivano macellati per scopi alimentari; la loro
carne veniva fatta bollire a lungo oppure arrostita. Nei banchetti dei ricchi o alle mense delle
popolazioni di mare si consumava pesce azzurro, come sgombri, orate, acciughe, sarde, e
anche seppie, calamari e molluschi. I pesci provenivano anche da allevamenti (piscinae).
L'apporto di proteine animali era quindi piuttosto scarso e veniva integrato dai grassi
vegetali, in particolare dall'olio di oliva, che era il condimento di base nell'Italia centro-
meridionale (in Gallia Cisalpina si usava in alternativa il burro e il lardo). L'olivo, importato
dalla Grecia, era coltivato già a partire dal VI sec. a.C. in Lazio e in Etruria. La cucina romana
non aveva a disposizione elementi per noi divenuti indispensabili, come il pomodoro, le
patate, gli agrumi, le melanzane.
Anche lo zucchero e la dolcificazione fu spesso un problema per i cuochi romani. Solo pochi
conoscevano il saccharon (zucchero) che veniva importato dall'Oriente ed era carissimo. Per
rendere dolci gli alimenti o le bevande si usava generalmente il miele, i datteri, l'uva passa.
Ma il miele dei romani, poiché gli apicoltori affumicavano le arnie per poterlo estrarre, aveva
un retrogusto particolare. Il miele o prodotti dolcificanti venivano ampiamente usati anche
per le carni e le verdure, che ottenevano così spesso un gusto agro-dolce. Il miele aveva
costi notevoli, quasi pari al migliore olio di frantoio.
7. Anche il sale era un ingrediente piuttosto caro e non sempre disponibile, soprattutto nelle
mense dei più poveri: veniva sostituito con il garum, una salsa salata a base di interiora
fermentate di pesce.
Un altro elemento immancabile nella cucina romana era il vino, usato come bevanda, spesso
allungato con l'acqua, oppure come ingrediente nei più diversi piatti. Il vino era vietato alle
donne e ai giovani. I più poveri, i contadini e i soldati bevevano la posca, un miscuglio di
acqua e vino di scarto che incominciava a inacidirsi. Con questa bevanda era stato bagnato il
panno che il legionario romano passò sulle labbra del Cristo morente non come gesto di
scherno, ma di pietà. La birra (cervisia) invece fu sempre considerata una bevanda da
barbari.
Mentre in epoca arcaica i romani furono in cucina molto frugali, con le conquiste nel
Mediterraneo anche la gastronomia si fece più raffinata ed esotica. Sulle tavole dei ricchi
arrivarono cibi e ricette straniere; si incrementò via via sia il consumo della carne, al posto di
puls e holera, sia quello del vino.
Con l'età imperiale, cibarsi prevalentemente di alimenti vegetali, come era prassi comune
nella Roma delle origini, divenne un ideale di vita da contrapporsi alla luxuria e al degrado
morale dei tempi.
In origine erano le donne della casa a preparare il pasto, successivamente nelle famiglie più
ricche questo compito passò ai cuochi (coqui), alcuni dei quali raggiunsero una notevole
fama tanto da venir contesi dalle famiglie più abbienti. Una delle capacità dei cuochi romani
era quella di saper trasformare i cibi tanto da renderli irriconoscibili. Questo piaceva ai nobili
e ai più ricchi che non amavano i gusti semplici, ma quelli profondamente manipolati che non
permettevano di riconoscere quale fosse l'ingrediente-base del piatto.
Ecco perché i condimenti erano importantissimi: tra gli aromi più usati dai cuochi c'erano il
pepe, il cumino, il ligustico (un tipo di sedano), lo zafferano, lo zenzero, la menta, oltre
all'aglio e alla cipolla. Nel banchetto descritto nel Satyricon i commensali sono spesso stupiti
alla vista e al gusto delle portate preparate con alimenti diversi da quelli che apparivano.
L'estetica di un piatto era molto importante: il bravo cuoco sapeva disporre con straordinaria
creatività i cibi nei piatti di portata.
La gastronomia nella letteratura latina
Nel mondo latino alla gastronomia furono dedicate molte opere, come il De re coquinaria
(L'arte culinaria), un ricettario scritto da un certo Apicio, nel I sec. d.C. Secondo le fonti
Apicio sarebbe stato un ricchissimo romano che avrebbe sperperato tutto il suo patrimonio
nei banchetti e nei piaceri della vita. Secondo Seneca (Consol. Ad Helv. 10, 8-10) "dopo aver
dilapidato in pranzi cento milioni di sesterzi (…), oberato dai debiti, fu costretto a fare i conti,
per la prima volta: calcolò che gli restavano dieci milioni di sesterzi, con i quali avrebbe fatto
la fame. Allora si avvelenò". Si tratta di una notizia ovviamente esagerata (dieci milioni di
sesterzi restavano comunque una bella sommetta…). Essa tuttavia ci illumina sulla
personalità di Apicio e sulle esagerazioni gastronomiche dei romani di età imperiale,
illustrateci anche nel Satyricon e negli epigrammi di Marziale. L'opera di Apicio resta
comunque una testimonianza fondamentale sulla gastronomia romana dell'età di Tiberio.
Una curiosità
Un'ultima curiosità. Secondo alcuni storici moderni, le abitudini culinarie dei ricchi romani
avrebbero causato nei secoli un grave processo di intossicazione, causa di un vero e proprio
avvelenamento della classe dirigente romana. La preparazione di alimenti e la cottura del
vino in pentole di piombo (metallo tossico), il consumo eccessivo di aceto e pepe, l'uso del
papavero, la scarsa attenzione per la ruggine del grano, il consumo di carne tratta da animali
morti per malattia o per vecchiaia, l'eccessiva frollatura delle carni stesse e altri fattori dovuti
8. a trascurata igiene, avrebbero compromesso negli anni la salute dei ricchi romani. "Da
questa intossicazione generale furono immuni i poveri che si erano nutriti e si nutrivano di
alimenti semplici e naturali" (G. Carazzali, p. XXIII).
Lettura di brani in traduzione
Invito a cena
Catullo carmen 13, trad. di F. Della Corte
Ti invito, o mio Fabullo, ad una lauta cena,
fra pochi giorni, se te lo consentono gli dei,
purché sia tu a portarti la cena abbondante e succulenta,
non senza una bella ragazza
e vino e sale e un mucchio di risate.
Se - come dico - sarai tu a portare tutto ciò, ti invito,
bello mio, ad una lauta cena. Purtroppo il borsellino
del tuo Catullo è pieno solo di tele di ragno.
In cambio avrai un'affettuosa accoglienza
E in aggiunta quello che c'è di più attraente e raffinato:
ti offrirò il profumo che Veneri e Amorini
hanno donato alla ragazza del mio cuore.
Tu, o Fabullo, quando lo sentirai, pregherai gli dei
che ti trasformino tutto in un unico naso.
Esagerazioni gastronomiche dei romani
Seneca, Consolazione alla madre Elvia, 10, trad. di A. Traina
Gli dei e le dee maledicano una ghiottoneria che travalica i confini di un tale impero!
Vogliono che si catturi oltre il Fasi (1) gli ingredienti della loro gastronomia, e si
preoccupano di importare dai Parti (2) volatili invece che importare vittorie.
Convogliano da ogni parte tutti i cibi noti al palato più esigente; si trasporta
dall'oceano, ai confini del mondo, ciò che lo stomaco guastato dalle raffinatezze lascia
appena entrare: vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, e non si danno
neppure la pena di digerire le pietanze reperite in ogni angolo della terra.
(1) Fiume del Caucaso, ritenuto confine tra Asia ed Europa. Il riferimento di Seneca è
ai fagiani, phasiani, che presero il nome dal fiume Phasis.
(2) Nemici storici dei romani.
Il garum
9. Plinio il Vecchio, Storia Naturale XXXI 93-94, trad. di I. Garofano
Vi è ancora un altro tipo di liquido squisito, chiamato garum, ottenuto facendo
macerare nel sale gli intestini di pesci e le altre parti che sarebbero da buttar via; il
garum è perciò il marcio di materie in putrefazione. Un tempo si preparava col pesce
che i Greci chiamavano garos; oggi quello più gustoso si fa dal pesce sgombro, nei
vivai di Cartagine Spartaria.
A parte i profumi, non c'è quasi altro liquido che sia divenuto più prezioso di questo:
ha reso famosi anche i popoli. Gli sgombri vengono catturati in Mauritania e a Carteia,
nella Betica, quando vi entrano provenendo dall'Oceano, né servono ad altro. Per il
garum sono rinomate Clazomene e Pompei.
I ricetta: torta di asparagi
Apicio, L'Arte culinaria, IV 2, 5, trad. di G. Carazzali
Prendi gli asparagi ben puliti e schiacciali nel mortaio, innaffiali con l'acqua, fanne una
poltiglia e passala al setaccio. Metti in un piatto i beccafichi svuotati delle interiora.
Pesta nel mortaio 6 scrupoli di pepe, aggiungi il garum e trita bene, poi aggiungi 1
ciato (1) di vino e 1 di passito. Metti nella pentola, dove fai cuocere tutto, 3 once (2)
d'olio. Ungi bene una casseruola e mescolaci 6 uova con garum di vino, vuotaci la
purea di asparagi e metti a cuocere sulla cenere calda. Versaci poi il composto sopra
descritto e distendici i beccafichi. Fai cuocere: insaporisci col pepe e servi.
(1) 1 ciato = 0, 045 l.
(2) 1 oncia = 27, 27 gr.
II ricetta: crema d'orzo
Apicio, L'Arte culinaria, V 5, 1, trad. di G. Carazzali
Mentre lavi, sminuzza l'orzo o la semola che hai messo a mollo il giorno prima. Poi
fallo cuocere a fuoco vivo. Quando bolle, aggiungici una buona quantità d'olio, un
mazzetto di aneto, una cipolla secca, santoreggia e un prosciutto; fai cuocere fino ad
ottenere una crema. Versa: coriandolo fresco, sale, triturali insieme e falli cuocere.
Quando avrà ben bollito, leva il mazzetto e travasa la crema in un'altra pentola,
curando che il fondo non attacchi e non si bruci. Stempera bene e passa al setaccio
nella pentola stessa, sul prosciuttino. Pesta: pepe, ligustico, un po' di puleggio secco,
cumino e sil fritto. Tempera con miele, aceto, mosto cotto e garum. Versa il tutto nella
pentola, sul prosciuttino così da coprirlo bene. Fai bollire dolcemente.
III ricetta: lesso di maialino da latte caldo con salsa di Apicio cruda
Apicio, L'Arte culinaria, VIII 7, 6, trad. di G. Carazzali
Versa nel mortaio: pepe, ligustro, semi di coriandolo, menta, ruta; trita e tempera col
garum. Aggiungi miele e vino e tempera col garum. Innaffia con questa salsa il lesso
ancora caldo e asciugato con un panno pulito; servi.