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Le comunità di cura




Convinto come sono che i soggetti mobilitati negli Stati generali del sociale,
svoltisi a Milano a dicembre, siano i depositari veri di una conoscenza sociale
del mutamento, ho avuto l’opportunità di poter seguire con l’AA.ster i lavori
della 2 giorni. Occasione in cui, chiamata dai nuovi inquilini di Palazzo
Marino, la Milano del sociale ha discusso dello stato di salute della città. I
risultati dell’indagine sono una buona occasione per ascoltare le domande
della comunità della cura ambrosiana. Oltre 2000 tra cooperative sociali,
fondazioni, volontariato, pezzi della macchina comunale, sindacati e
rappresentanti dell’impresa hanno discusso di welfare e metropoli.
Organizzati per tavoli tematici, operatori, volontari, famiglie hanno affrontato i
nodi della città dentro la crisi, dalle migrazioni alla disabilità, dagli anziani alla
casa fino ai buchi in bilancio e al loro impatto su una Milano che ha bisogno
di ripensarsi come metropoli della qualità della vita oltre che dell’economia
globale. Non è stato un passaggio scontato, dentro una crisi fiscale dello
stato nazionale che minaccia di travolgere un welfare municipale già fiaccato
dal ciclo neoliberista. Al di là dell’impatto destrutturante della crisi, tuttavia, la
vera novità della due giorni milanese è che la città c’è. Una tenuta del tessuto
cittadino di cui, a dire il vero, si era già avuta testimonianza immediatamente
a ridosso dell’esplosione della crisi con l’istituzione del Fondo Famiglia
Lavoro del Cardinal Tettamanzi all’inizio del 2009. Una città che nella due
giorni si è espressa attraverso la voce collettiva di una intelligenza sociale
che ha nel proprio DNA il problema dell’inclusione. Un popolo della cura
fortemente femminilizzato (oltre il 70 %) trasversale alla distinzione tra
pubblico e privato e articolato tra operatori della cooperazione sociale (27,2
%), dei servizi comunali (24,5 %), del micro-associazionismo di mutuo aiuto
(16,0 %) e delle fondazioni (10,1 %). Una élite della cura, visto che il 40 %
dirige le attività delle organizzazioni sociali presenti. In grado di rivendicare il
ruolo di garante della coesione sociale in una città in transizione da sempre
troppo innamorata della sua immagine di capitale dell’individualismo
competitivo. Anche da questo osservatorio si capisce come Milano sia un
grande laboratorio del fare società dentro la crisi. Perché Milano come tutti i
grandi centri del capitalismo globale è sempre più spazio di insediamento
delle élite dei flussi e luogo di atterraggio delle migrazioni globali. Si
globalizza dall’alto e dal basso. Con un corpo intermedio che soffre si sfarina
e si trasforma. Da qui bisogna ripartire. Nel triennio che separa la
deflagrazione della grande crisi dai giorni nostri non abbiamo assistito a un
deragliamento sociale, né alla moltiplicazione abnorme degli esclusi. Ma è un
fatto che Milano è oggi la città più diseguale del paese, in cui il reddito è più
concentrato nelle mani di pochi, in cui la transizione ha logorato la società
solida con pieno accesso agli istituti del welfare che aveva fatto da armatura
alla città industriale. Bloccando gli ascensori sociali e frammentando spazi
urbani, stili di vita, segmenti di composizione sociale. E’ il compromesso tra
mercato e coesione sociale che rischia di saltare, trasformando le certezze
del ceto medio in vulnerabilità, estendendo l’area dei working poors e di chi
vulnerabile lo è già. Evidenziando impietosamente i buchi del sistema di
protezione sociale ereditato dal fordismo. Una transizione che si riflette in
modo chiaro nell’agenda delle questioni che la comunità di cura milanese
propone riguardo il welfare che verrà. Casa, lavoro e servizi sono le priorità
sociali. Problemi dal sapore antico i cui protagonisti sono però cambiati. Il
primo problema di Milano è dunque, per il 40,8 %, la questione del caro-casa
e della casa popolare che non c’è. Un tema che tocca non solo gli esclusi ma
quei ceti medi e medio-bassi che oggi non sono più in grado di reggere
l’ascesa dei valori immobiliari. Nella comunità della cura milanese si
confrontano due sensibilità: quella del sindacalismo storico che mette
l’accento sulla priorità della casa popolare pubblica per i ceti più poveri e
quella del Terzo Settore che allarga il discorso dalla casa pubblica all’abitare,
all’housing, al mix sociale, mettendo l’accento sulla domanda abitativa della
“zona grigia” della società milanese (soggetti troppo ricchi per la casa
popolare e troppo poveri per accedere al mercato), sulla necessità di creare
reti di quartiere, mettendo in discussione il potere della rendita, vero dominus
della città. Con un intreccio interessante tra soggetti della cura e giovani
professionisti come nel progetto Zona Officine Creative dove la cooperativa
offre spazi per fare impresa e i creativi offrono progetti per il quartiere. Casa
e lavoro si diceva. Il 39 % indica disoccupazione giovanile e precarietà del
lavoro come le priorità del welfare metropolitano per contrastare i due
processi che più hanno logorato redditi e status dei milanesi. Poco meno
(38,9 %) mette invece l’accento sul bisogno di asili nido e servizi per
conciliare tempi di vita e tempi di lavoro in una metropoli dove il sostegno
della famiglia allargata è ridotto al lumicino. Anche per quanto riguarda le
priorità generali per la città welfare (54,4 %), inquinamento (40,2 %) e lavoro
che non c’è (37,9 %), ovvero la questione sociale, stanno largamente davanti
a “legge e ordine” (11,3 %). Per realizzare un’agenda ci vogliono strutture e
istituzioni. E allora, quale modello di welfare hanno in mente i soggetti della
cura? Un modello forte senza dubbio in cui il “pubblico” non arretra ma anzi
dovrebbe ampliare il suo ruolo (54,4 %) insieme con un sociale più forte
(42,7 %). Un welfare mix dunque presidiato da ente locale, stato e no-profit
inaccessibile al privato profit (solo 12,1 % sostiene che dovrebbe essercene
di più). Su tutti i temi, dalla salute alla famiglia, dall’immigrazione alla non
autosufficienza, dalla pensione alla casa fino alla salute mentale, stato
centrale e enti locali per oltre il 70 % dei partecipanti devono rimanere i
titolari della responsabilità del benessere dei cittadini. Verrebbe da dire che
se la “Big Society” è una delle opzioni in gioco, questa deve mantenere al
centro una concezione di pubblico sostanziale, non eterea o di facciata. Una
visione che sembra uscire dall’egemonia di quel “liberismo comunitario” che
ha improntato di sé l’ascesa del privato-sociale lombardo nel corso degli
ultimi decenni e che invece sembra indicare una rete di pratiche di
mutualismo e autorganizzazione sociale improntate ad un pensiero
comunitaristico-libertario di stampo metropolitano. Anche le indicazioni alla
nuova amministrazione su come far fronte al dilemma debito-welfare
appaiono molto nette. Il no alla riduzione dei servizi (solo lo 0,9 % la giudica
una via percorribile per far fronte alle difficoltà di bilancio del comune) fa il
paio con la contrarietà ad incentivare il ricorso ai servizi di mercato (4,2 %) e
poco favore c’è anche per aumenti della fiscalità generale (12,5 %) o per la
compartecipazione degli utenti ai costi (13,3 %). E dunque che fare?
Razionalizzare i servizi tagliando l’inutile e potenziando l’utile rendere più
efficiente la macchina comunale è la ricetta (51,4 %), seguita dall’invito a non
“svicolare” dal mandato ricevuto: per quanto il comune non abbia spese
militari da tagliare, il 30,7 % indica come soluzione “spostare risorse nel
bilancio da altre destinazioni”. In breve assumersi la responsabilità della
scelta politica. Gli anglosassoni la chiamerebbero “accountability” da parte di
una società civile che ha smesso di relazionarsi alla politica con eccessiva
sudditanza. Insomma emerge una richiesta di protagonismo che non parte
da toni rancorosi o passatisti ma che richiama alla necessità di considerare la
crisi fiscale del pubblico una occasione non per tagliare ma per tentare nuovi
approcci che hanno una base solida da cui partire: quel capitale sociale di
reti inter-organizzative, trasversali alla tradizionale divisione tra pubblico e
privato, che in questi anni a Milano sono cresciute già socializzate alle
politiche delle risorse scarse. Un know-how dell’intreccio di cui sarebbe utile
riconoscere l’importanza.




                                                Aldo Bonomi

                                                bonomi@aaster.it
Grafici:

 Grafico 1: In tema di welfare, quali ritiene che dovrebbero essere le priorità di intervento per la città di Milano?

*Percentuali superiori a 100 perché possibili più di una risposta.

Grafico 2: In generale quali ritiene che siano oggi le priorità di intervento per la città di Milano?

*Percentuali superiori a 100 perché possibili più di una risposta.



Grafico 3: Come dovrebbe essere organizzato il welfare futuro di Milano?

*Percentuali superiori a 100 perché possibili più risposte.

Grafico 4: Quale tra i seguenti provvedimenti dovrebbe rappresentare la scelta strategica da parte dell’ente
locale?



*Percentuali superiori a 100 perché possibili più risposte.

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  • 1. Le comunità di cura Convinto come sono che i soggetti mobilitati negli Stati generali del sociale, svoltisi a Milano a dicembre, siano i depositari veri di una conoscenza sociale del mutamento, ho avuto l’opportunità di poter seguire con l’AA.ster i lavori della 2 giorni. Occasione in cui, chiamata dai nuovi inquilini di Palazzo Marino, la Milano del sociale ha discusso dello stato di salute della città. I risultati dell’indagine sono una buona occasione per ascoltare le domande della comunità della cura ambrosiana. Oltre 2000 tra cooperative sociali, fondazioni, volontariato, pezzi della macchina comunale, sindacati e rappresentanti dell’impresa hanno discusso di welfare e metropoli. Organizzati per tavoli tematici, operatori, volontari, famiglie hanno affrontato i nodi della città dentro la crisi, dalle migrazioni alla disabilità, dagli anziani alla casa fino ai buchi in bilancio e al loro impatto su una Milano che ha bisogno di ripensarsi come metropoli della qualità della vita oltre che dell’economia globale. Non è stato un passaggio scontato, dentro una crisi fiscale dello stato nazionale che minaccia di travolgere un welfare municipale già fiaccato dal ciclo neoliberista. Al di là dell’impatto destrutturante della crisi, tuttavia, la vera novità della due giorni milanese è che la città c’è. Una tenuta del tessuto cittadino di cui, a dire il vero, si era già avuta testimonianza immediatamente a ridosso dell’esplosione della crisi con l’istituzione del Fondo Famiglia Lavoro del Cardinal Tettamanzi all’inizio del 2009. Una città che nella due giorni si è espressa attraverso la voce collettiva di una intelligenza sociale che ha nel proprio DNA il problema dell’inclusione. Un popolo della cura fortemente femminilizzato (oltre il 70 %) trasversale alla distinzione tra pubblico e privato e articolato tra operatori della cooperazione sociale (27,2 %), dei servizi comunali (24,5 %), del micro-associazionismo di mutuo aiuto (16,0 %) e delle fondazioni (10,1 %). Una élite della cura, visto che il 40 % dirige le attività delle organizzazioni sociali presenti. In grado di rivendicare il
  • 2. ruolo di garante della coesione sociale in una città in transizione da sempre troppo innamorata della sua immagine di capitale dell’individualismo competitivo. Anche da questo osservatorio si capisce come Milano sia un grande laboratorio del fare società dentro la crisi. Perché Milano come tutti i grandi centri del capitalismo globale è sempre più spazio di insediamento delle élite dei flussi e luogo di atterraggio delle migrazioni globali. Si globalizza dall’alto e dal basso. Con un corpo intermedio che soffre si sfarina e si trasforma. Da qui bisogna ripartire. Nel triennio che separa la deflagrazione della grande crisi dai giorni nostri non abbiamo assistito a un deragliamento sociale, né alla moltiplicazione abnorme degli esclusi. Ma è un fatto che Milano è oggi la città più diseguale del paese, in cui il reddito è più concentrato nelle mani di pochi, in cui la transizione ha logorato la società solida con pieno accesso agli istituti del welfare che aveva fatto da armatura alla città industriale. Bloccando gli ascensori sociali e frammentando spazi urbani, stili di vita, segmenti di composizione sociale. E’ il compromesso tra mercato e coesione sociale che rischia di saltare, trasformando le certezze del ceto medio in vulnerabilità, estendendo l’area dei working poors e di chi vulnerabile lo è già. Evidenziando impietosamente i buchi del sistema di protezione sociale ereditato dal fordismo. Una transizione che si riflette in modo chiaro nell’agenda delle questioni che la comunità di cura milanese propone riguardo il welfare che verrà. Casa, lavoro e servizi sono le priorità sociali. Problemi dal sapore antico i cui protagonisti sono però cambiati. Il primo problema di Milano è dunque, per il 40,8 %, la questione del caro-casa e della casa popolare che non c’è. Un tema che tocca non solo gli esclusi ma quei ceti medi e medio-bassi che oggi non sono più in grado di reggere l’ascesa dei valori immobiliari. Nella comunità della cura milanese si confrontano due sensibilità: quella del sindacalismo storico che mette l’accento sulla priorità della casa popolare pubblica per i ceti più poveri e quella del Terzo Settore che allarga il discorso dalla casa pubblica all’abitare, all’housing, al mix sociale, mettendo l’accento sulla domanda abitativa della
  • 3. “zona grigia” della società milanese (soggetti troppo ricchi per la casa popolare e troppo poveri per accedere al mercato), sulla necessità di creare reti di quartiere, mettendo in discussione il potere della rendita, vero dominus della città. Con un intreccio interessante tra soggetti della cura e giovani professionisti come nel progetto Zona Officine Creative dove la cooperativa offre spazi per fare impresa e i creativi offrono progetti per il quartiere. Casa e lavoro si diceva. Il 39 % indica disoccupazione giovanile e precarietà del lavoro come le priorità del welfare metropolitano per contrastare i due processi che più hanno logorato redditi e status dei milanesi. Poco meno (38,9 %) mette invece l’accento sul bisogno di asili nido e servizi per conciliare tempi di vita e tempi di lavoro in una metropoli dove il sostegno della famiglia allargata è ridotto al lumicino. Anche per quanto riguarda le priorità generali per la città welfare (54,4 %), inquinamento (40,2 %) e lavoro che non c’è (37,9 %), ovvero la questione sociale, stanno largamente davanti a “legge e ordine” (11,3 %). Per realizzare un’agenda ci vogliono strutture e istituzioni. E allora, quale modello di welfare hanno in mente i soggetti della cura? Un modello forte senza dubbio in cui il “pubblico” non arretra ma anzi dovrebbe ampliare il suo ruolo (54,4 %) insieme con un sociale più forte (42,7 %). Un welfare mix dunque presidiato da ente locale, stato e no-profit inaccessibile al privato profit (solo 12,1 % sostiene che dovrebbe essercene di più). Su tutti i temi, dalla salute alla famiglia, dall’immigrazione alla non autosufficienza, dalla pensione alla casa fino alla salute mentale, stato centrale e enti locali per oltre il 70 % dei partecipanti devono rimanere i titolari della responsabilità del benessere dei cittadini. Verrebbe da dire che se la “Big Society” è una delle opzioni in gioco, questa deve mantenere al centro una concezione di pubblico sostanziale, non eterea o di facciata. Una visione che sembra uscire dall’egemonia di quel “liberismo comunitario” che ha improntato di sé l’ascesa del privato-sociale lombardo nel corso degli ultimi decenni e che invece sembra indicare una rete di pratiche di mutualismo e autorganizzazione sociale improntate ad un pensiero
  • 4. comunitaristico-libertario di stampo metropolitano. Anche le indicazioni alla nuova amministrazione su come far fronte al dilemma debito-welfare appaiono molto nette. Il no alla riduzione dei servizi (solo lo 0,9 % la giudica una via percorribile per far fronte alle difficoltà di bilancio del comune) fa il paio con la contrarietà ad incentivare il ricorso ai servizi di mercato (4,2 %) e poco favore c’è anche per aumenti della fiscalità generale (12,5 %) o per la compartecipazione degli utenti ai costi (13,3 %). E dunque che fare? Razionalizzare i servizi tagliando l’inutile e potenziando l’utile rendere più efficiente la macchina comunale è la ricetta (51,4 %), seguita dall’invito a non “svicolare” dal mandato ricevuto: per quanto il comune non abbia spese militari da tagliare, il 30,7 % indica come soluzione “spostare risorse nel bilancio da altre destinazioni”. In breve assumersi la responsabilità della scelta politica. Gli anglosassoni la chiamerebbero “accountability” da parte di una società civile che ha smesso di relazionarsi alla politica con eccessiva sudditanza. Insomma emerge una richiesta di protagonismo che non parte da toni rancorosi o passatisti ma che richiama alla necessità di considerare la crisi fiscale del pubblico una occasione non per tagliare ma per tentare nuovi approcci che hanno una base solida da cui partire: quel capitale sociale di reti inter-organizzative, trasversali alla tradizionale divisione tra pubblico e privato, che in questi anni a Milano sono cresciute già socializzate alle politiche delle risorse scarse. Un know-how dell’intreccio di cui sarebbe utile riconoscere l’importanza. Aldo Bonomi bonomi@aaster.it
  • 5. Grafici: Grafico 1: In tema di welfare, quali ritiene che dovrebbero essere le priorità di intervento per la città di Milano? *Percentuali superiori a 100 perché possibili più di una risposta. Grafico 2: In generale quali ritiene che siano oggi le priorità di intervento per la città di Milano? *Percentuali superiori a 100 perché possibili più di una risposta. Grafico 3: Come dovrebbe essere organizzato il welfare futuro di Milano? *Percentuali superiori a 100 perché possibili più risposte. Grafico 4: Quale tra i seguenti provvedimenti dovrebbe rappresentare la scelta strategica da parte dell’ente locale? *Percentuali superiori a 100 perché possibili più risposte.