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Francesco Terracina intervista Salvatore Petrucci
Ideatore del sito web costituzionalmenteorientati.it

T – Tu sei uno dei fondatori, nel 1996 a Palermo, del comitato Dossetti per la Costituzione. In
questo Paese si muovono energie per difendere Carta fondamentale, penso alla trasmissione di
Benigni del 17 dicembre scorso, al movimento per presentare una lista che si richiami alla
Costituzione. Quando un Paese si ritrova a difendere su più fronti i principi cardine
dell’ordinamento democratico, significa che esiste un pericolo.
P – Il giorno dopo l’appassionata trasmissione di Benigni sulla Costituzione, ero in auto e seguivo
una trasmissione radiofonica che commentava l’evento del giorno prima. A un certo punto, un
ascoltatore ha riportato il commento di un giovane che, in sostanza, apprezzava l’intervento di
Benigni, definendolo poetico. Ma diceva che, di fatto, l’attore aveva messo in scena dei sogni,
poiché la realtà è diversa e la Costituzione è un libro dei miraggi: essa è fuori dalla realtà
quotidiana fatta, diceva il giovane, e a ragione, di emarginazione, d’incertezza sul futuro, di
precarietà, di soprusi, di un potere slegato dalle necessità e dagli interessi della gente comune. A
quel giovane, la Costituzione resta estranea, non parla che di qualche buona intenzione castrata
dalla realtà.

T- Perché quel ragazzo, e con lui parecchi cittadini, hanno quest’idea della Costituzione?
P – Tu, proprio ora, nel nostro discorrere, hai definito la Costituzione “legge fondamentale”.
Questo spiega una delle ragioni per cui la Costituzione è in crisi, specialmente per chi è nato in un
tempo successivo a quello in cui fu pensata e redatta. Se la Costituzione è avvertita solo come
Legge, seppur primaria, sovrana direi, si spiega bene la sua crisi, il logoramento dovuto al tempo
che passa, la diffidenza che circonda una legge da parte di chi avverte di essere escluso o, peggio,
sente di subirla. Quel giovane sentiva il peso di una condizione di crisi, di carenza di prospettive, di
inutilità. Questa condizione di malessere che interessa non solo lui ma quasi tutti, è causata da
qualcuno e da qualcosa. Diciamo pure che c’è un potere, che influenza e detta le regole
dell’economia, ma anche della vita di ogni giorno, che l’ha generata. Ecco, la Costituzione, per
storia e definizione, è limite al potere, in quanto il potere tende a comprimere i nostri diritti ed
influenza la nostra vita.
Costituzione equivale a limite del potere. L’idea e la storia delle costituzioni ci portano a questa
semplice definizione. La Costituzione è la legge, la legge fondamentale intorno alla quale gravitano
l’ordinamento e le relazioni tra le persone e gli enti, che nasce come limite al potere, ai poteri,
riconoscendo ed attribuendo ai cittadini diritti. E’ questo lo scopo di tutte le costituzioni.
La crisi della quale si parla e che investe cittadini, società ed istituzioni nel complesso, è dovuta
allo straripamento di alcuni poteri. Della casta politico-partitica che vive in una dimensione a parte
a spese della cittadinanza che ne viene soffocata. Della casta dei poteri finanziari, di un certo
capitalismo che genera le crisi in funzione di un maggior lucro e della crescita del suo potere. Della
schiera, seppur disordinata, dei camerieri al servizio del ricco padrone di turno. Ecco, una
costituzione serve a limitare tali poteri, per far vivere i cittadini nella libertà e in democrazia, che
non è concepibile come dittatura della maggioranza, né è solo una forma di governo, ma invece è
il terreno dove si concretizza l’eguaglianza sostanziale e dove il singolo può sviluppare tutte le sue
capacità. Oggi questa impalcatura della Costituzione è in crisi.

T – L’attualità della Costituzione ancor oggi consisterebbe nella sua funzione di limite del potere.
Di fatto, però, il potere riesce a eluderla, negando ai cittadini, soprattutto ai deboli, quei diritti che
la Carta tutela.
P – Potremmo dire che il “matrimonio” con la Costituzione ha qualche oppositore, qualche don
Rodrigo.

T - Società e costituzione come due corpi estranei.
P- Che qualcosa e alcuni hanno interesse a tenere separati.

T – Un problema serio per un “partigiano integralista” della Carta.
P- Vorrei chiarire meglio sul mio asserito radicalismo. Non è proprio così, anche perché non credo
in una costituzione immobile. Il mio supposto integralismo attiene ai valori, ai principi, alla cultura,
al progetto di convivenza che fanno della Costituzione qualcosa di più di una legge. Se si considera
solo l’aspetto normativo, ciò che la legge dice di fare o non fare, ci si dovrebbe rassegnare alla
possibilità di continue torsioni della Costituzione dalla sua funzione fondamentale di limite del
potere, così diventandone invece un’arma formidabile. In sostanza, se si accetta che la
costituzione sia solo una legge, allora avrebbe ragione chi sostiene, soprattutto per suo esclusivo
tornaconto, che essa, come ogni legge, è “naturalmente” modificabile, emendabile, abrogabile,
seppure con una procedura più complessa dal normale corso. La Costituzione è come un
organismo vivente. Se ne tocchi gli organi vitali, la ammazzi. Se la riempi di sedativi o di
allucinogeni, ne uccidi lo spirito.

T - Si può parlare di spirito della costituzione?
P - Comunemente si dice che ciò che è vivente ha uno spirito. Ciò che è materia inerte, non
avrebbe spirito. Dire che la Costituzione ha un suo spirito può significare intanto che non è morta,
che ha energia e forza vitale, che la sua funzione perdura ed ha una ragion d’essere. Ma c’è un
altro aspetto. Per alcuni giuristi “spirito della costituzione” è un concetto inutile, come
costituirebbe nonsenso parlare di armonia della Costituzione. Per cercare una risposta alla
domanda, bisogna intendersi su ciò che definiamo costituzione e distinguere tra Costituzione e
leggi costituzionali. Quando parlavo di costituzione come limite del potere, non mi riferivo
direttamente alle singole disposizioni normative ma a qualcosa di più. Quel qualcosa lo possiamo
approssimare a ciò che intendiamo per spirito della costituzione. Un qualcosa che è anche il filo
conduttore che regge l’impianto e lega ogni singola disposizione che si trova nella Costituzione. Un
qualcosa che non è concetto o astrazione, ma che presuppone un vissuto. Quando parliamo di
libertà e diritti di libertà nella costituzione, richiamiamo fatti negativi e una storia in cui la libertà
personale veniva negata. Quando parliamo di democrazia, ci riferiamo a una pregressa storia e a
modelli autoritari o di negazione della stessa. Quando convintamente citiamo l’art. 1, “l’Italia è
una repubblica democratica”, vogliamo richiamare la forma di stato - che non è né monarchia, né
principato - e un modello più avanzato di quello statalista: ma nello steso tempo implicitamente
richiamiamo le vicende e le lotte attraverso cui si è poi giunto alle affermazioni della Costituzione.
Scindere la costituzione dalla storia, astrarla dalla sua ratio è farne una semplice “carta”.
Avrebbero ragione quei detrattori che, fin dai primi anni, la definirono opera letteraria, piena di
poesia e di buoni propositi, ma inattuabile.

T- Detrattori o no, la costituzione è legge e va fatta rispettare anche da chi esercita il potere.
P - A tale proposito, è nelle cose la necessità di una autorità che presieda a tale scopo. Un’autorità
terza, autonoma e indipendente dal potere

T - Quell’ordine giudiziario o magistratura che qualcuno vorrebbe non indipendente.
P - Un disegno, incostituzionale, che è un chiaro sintomo di mire autoritarie. Come è un chiaro
esempio di ciò che prima dicevo a proposito dell’unitarietà della costituzione, nel senso che se si
interviene, con legge costituzionale, a modificare il regime di autonomia ed indipendenza della
magistratura, non viene colpita solo quella parte, ma è attaccata e manomessa tutta l’impalcatura
costituzionale.

T - Oltre che limite al potere, la costituzione è un disegno, un progetto di società. Ma la società è
cambiata, non è più quella immaginata dai costituenti più di sessanta anni fa.
P - Un tale argomento ha una certa suggestione, ma è tendenzioso oltreché insidioso.
Lì per lì mi viene in mente una similitudine. Anche la Bibbia, libro che è “guida” di miliardi di
persone, sarebbe inattuale. E’ stato scritto o ispirato in un’epoca del tutto diversa dalla nostra.
Cosa può dire quel contesto rurale, di carovanieri, di dei falsi e bugiardi, di un dio irascibile e
vendicativo, oggi? E la stessa promessa di salvezza, sostegno spirituale dei fedeli, che senso ha
oggi? Diciamo che al di là delle storie, più o meno verisimili riportate in quel libro, ciò che resiste è
il suo spirito, condiviso, condivisibile o meno che sia.

T- Costituzione come piano di salvezza?
P - Direi come progetto di vita sociale che contiene prospettive di “salvezza” contro i mali che
hanno inciso nella vicenda umana. Come la guerra, la miseria, la diseguaglianza materiale, la
schiavitù, la discordia, la dittatura, la soggezione ai più forti. Un progetto che include e non
esclude, tranne ovviamente ciò che va contro i valori e principi insiti ed espliciti soprattutto a
quelli relativi alla persona. E guardando al futuro, a quei valori ancora non manifesti, purché si
collochino, appunto, nello spirito della Costituzione.

T – Una Carta aperta, dunque, anche al futuro, a situazioni o contesti che ai tempi in cui la
costituzione fu scritta non erano di attualità.
P - Certo, faccio due esempi. Il primo. Oggi è molto sentita la questione ambientale. Nella
Costituzione non c’è un esplicito riferimento ad essa. Certamente se ne occupa sotto l’aspetto del
diritto alla salute della persona. La distruzione del territorio, la cementificazione sconsiderata, la
distruzione dell’ecosistema sono fattori della questione ambientale.
T - Che dice la Costituzione a proposito?
P - La Costituzione non contempla un articolo di riferimento diretto. Ma leggiamo l’articolo nove,
primo comma: “ La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e
tecnica”; il secondo comma: la Repubblica “tutela il paesaggio, il patrimonio storico e artistico
della Nazione”. Non solo le cose si legano, ma convergono tutte verso un centro: la persona. Ci
sono due termini che ci faranno scoprire il principio costituzionale della tutela ambientale: cultura
e paesaggio. L’individuo coltiva, diremmo oggi, raccoglie input, li elabora in valori che ne
sollecitano e ne arricchiscono la sensibilità. E’ il processo di formazione intellettuale dell’individuo
dove ricerca, paesaggio, patrimonio artistico sono aspetti della realtà oggetto del diritto alla
cultura, che la Costituzione considera in modo unitario. In questa realtà esterna all’individuo, c’è
pure l’ambiente, non solo come spazio in cui vive, come habitat ma anche come fattore di
armonizzazione estetico–artistico per lo sviluppo della persona.

T – Quale significato ha il termine “paesaggio” nella Costituzione?
P – La ricerca del significato che la Costituzione ha voluto imprimere alla parola ”paesaggio”, ci
offre ancora una volta l’occasione per evidenziare la vista lunga, la dinamicità e allo stesso tempo
la stabilità della nostra carta fondamentale che non è una cosa in sé, un noumeno, ma cammina e
progredisce con l’uomo e ne alimenta, nutrendosene, le facoltà intellettive. Il paesaggio dell’art. 9
non è pietrificato al momento in cui la Costituzione vide la luce, né si riferisce ai quadri che la
natura realizza, né è esclusivamente ancorato e dipendente dalle “bellezze naturali”. Il senso di
una disposizione normativa si evolve con l’evolversi storico della realtà sociale, si plasma a nuove
esigenze, a nuove sensibilità, purché nel rispetto dei diritti della persona umana, come previsti e
sottesi dalla Costituzione

T - Ritorna lo spirito della Costituzione
P - Già! Per completare l’analisi sull’articolo 9 dal quale abbiamo tratto il discorso sull’ambiente,
possiamo osservare che il Costituente adopera la parola sviluppo, non limitandosi a dire “la
Repubblica promuove la cultura”. Il termine sviluppo dà il senso del dinamico, della crescita, di ciò
che si muove e va avanti, dell’espansione, del futuro come universo che si apre e si moltiplica e
non si chiude verso l’annichilimento. Cultura è anche conoscenza, informazione. Quale garanzia di
effettività del diritto al conoscere, al sapere se gli strumenti della conoscenza, dell’informazione
sono monopolizzati? Come si può esser “sovrani” se non si ha conoscenza, informazione adeguata
di quanto deve essere l’oggetto di un giudizio per potere operare la scelta migliore? Come si può
essere sovrani se i cittadini sono avvolti da false rappresentazioni, dalla disinformazione, se
vengono storditi dalla ripetizione della menzogna che vuole accreditarsi come verità?
Quell’articolo 9 posto là dov’è va oltre il costituire la c.d. costituzione culturale: pur
preannunciando e comprendendo gli articoli successivi, il 33 (l’arte e la scienza sono libere e libero
ne è l’insegnamento) e l’art. 34 (la scuola è aperta a tutti), va oltre e ci parla d’altro. Ci parla di
nazione, di popolo in movimento, quindi, non solo come generazione attuale. Un popolo che ha
una storia alle spalle ed una nuova ne scrive. Ci parla della nostra Storia che è la storia dell’unità
d’Italia, delle centinaia di ragazzi mandati a morire, carne da cannone, nelle trincee. E’ storia di
lavoratori e delle loro lotte, è storia di ombre e di riscatti, di dittatura e di resistenza, di liberazione.
E’ storia di uomini che col lavoro, con la loro scienza hanno onorato il Paese in tutto il mondo.
Quante considerazioni, quanti spunti nascono dalla lettura della nostra Costituzione, corpo
normativo, di principi, di valori, di spirito vivente.
Nel contesto di questa dinamica, per altro talune volte rintracciabile nella giurisprudenza
costituzionale, non si può quindi negare che l’ambiente rientri nella previsione costituzionale, anzi,
che sia un diritto fondamentale della persona umana e come tale massimamente tutelato.
Per comprendere come respira e si pone la Costituzione a riguardo di talune tematiche, utilizzando
il discorso sull’ambiente, procedo con una enfatizzazione. Posso dire che quello all’ambiente è un
diritto tanto rafforzato a salvaguardia della sopravvivenza della persona, dell’umanità intera che è
come se la natura stessa acquisisca una soggettività ed una conseguente tutela al fine di impedire
all’Uomo di distruggere se stesso distruggendo la natura. E’ questa un’immagine iperbolica che
spero renda il concetto.

T - Una visione francescana o pan naturalista che è al limite di una forzatura interpretativa.
P – Il tuo riferimento è molto suggestivo. Ma voglio dire che, tenuta ferma la centralità e la ragione
della tutela del diritto fondamentale della persona, il dato costituzionale può colorarsi del tono di
sensibilità culturali, ed etiche, differenti, e attraverso queste non solo rispettato in quanto legge,
ma pienamente condiviso, fatto proprio nella quotidianità.

T - Il secondo esempio?
P - I diritti delle persone con orientamento sessuale diverso. Omosessuali, transgenders. Non c’è
una previsione specifica nella Costituzione. Ma come negarli, emarginarli, escluderli, limitare la
loro sfera affettiva senza incorrere nella violazione del diritto tutelato dai principi fondamentali?

T - Insomma, descrivi un quadro idilliaco, fatto di principi che in modo del tutto naturale difendono
i diritti delle persone.
P - La situazione non è affatto tranquilla. E’ di guerra, una guerra mossa alla Costituzione.
Col “tradimento” di chi doveva rispettarla, farla rispettare e attuarla. I politici: parlamentari,
consiglieri comunali e regionali, amministratori, dirigenti e quadri di partito.
Prendo lo spunto da ciò che hai qualificato “naturale”. Quando parliamo di diritti tutelati al
massimo livello dalla Costituzione, tali diritti alcuni li definiscono naturali. Non voglio scendere sul
campo dell’esistenza o meno della naturalità dei diritti. Ma non dimentichiamoci che anche i diritti
“naturali” sono il frutto di una evoluzione resa possibile da conflitti, lotte, rivoluzioni, guerre. E poi,
non ci sono stati nella storia dei criminali che intesero far passare come naturale il loro dominio su
altri popoli? I criminali del Terzo reich, che fecero? Pensiamo alla schiavitù, talvolta morbida, altre
volte durissima nel civile mondo ellenico romano, pur giustificata da uno, per molti aspetti
rivoluzionario, come Paolo di Tarso: non era considerato naturale il diritto del dominus? E oggi non
si sottende una tale naturalità nei diritti del mercato? Non si tende a far passare come naturale la
speculazione finanziaria? La pretesa di pochi di arricchirsi a scapito dei tanti?
Il vero è che i diritti sono conquiste e che c’è sempre qualcuno che li osteggia; che c’è una legge e
contemporaneamente un progetto in cui libertà, democrazia, eguaglianza, solidarietà sono poste a
fondamento delle regole della comunità da esso prefigurata. La Costituzione. Ed è anche vero che
questa è sotto attacco da molte parti. Da chi ha interessi particolari e dal sistema economico
imperante, supportato da una particolare ideologia.

T – Pensi alla “moda” neoliberista?
P - Quando la politica si appropria di una ideologia per servirsene e per motivare il proprio operato,
allora sono guai seri.

T - Il discorso del rapporto tra ideologia e legge ci porterebbe lontano. Mi sembra di capire che tu
attribuisci alla Costituzione anche un ruolo di difesa dall’ideologismo. Ma non c’è una influenza
ideologica nella nostra Costituzione?
P - E’ un dato innegabile che la Carta riprese filoni culturali presenti nell’Assemblea costituente. A
quel consesso concorsero partiti di varia ispirazione: cristiana, liberale, socialista. Tra i padri
costituenti, i cristiano democratici Dossetti e La Pira, i comunisti Terracini e Togliatti, i socialisti
Nenni e Saragat, i liberali Croce ed Einaudi, gli azionisti Calamandrei e Parri. Ma non si può certo
dire che ci sia una disposizione che rappresenti una particolare ideologia, né, tanto più, che la
Costituzione sia incline all’ideologismo. Pensare una cosa del genere significherebbe non aver
compreso né la lettera, né lo spirito della Costituzione. L’unica ideologia, diciamo, rintracciabile in
essa è l’assoluto impegno di non cadere mai più nella barbarie, non solo in quella nazifascista, sia
chiaro.

T - Tra gli scenari di barbarie e di regresso possiamo comprendere la disoccupazione. Nel 2012, nel
mondo monitorato da studi statistici, i disoccupati sono stati 202 milioni pari a un tasso del 6,1%,
in crescita rispetto all’anno precedente. In Italia ci attestiamo all’11% circa, ma la disoccupazione
giovanile interessa il 37% dei giovani, rispetto al 27,5% dell’anno prima. Dai dati ad oggi aggiornati
si ricava che hanno abbassato le saracinesche 35 imprese al giorno. Alla fine di giugno 2012, i
fallimenti in Italia hanno sfiorato le 46.400 unità. La produzione industriale è in caduta libera, il
7,3% in meno rispetto al 2011. Secondo recenti indagini, più della metà delle famiglie italiane
dichiara già adesso di riuscire a pagare appena le spese senza potersi permettere ulteriori lussi, mentre
circa il 10% non ha un reddito sufficiente nemmeno per l’indispensabile. Nel 2013 per la metà delle
famiglie italiane la situazione è destinata a peggiorare. Dati da fare paura. Alcuni, senza mezzi
termini, hanno attaccato la Costituzione perché sarebbe di ostacolo alla crescita economica.
Ricordo la polemica sull’articolo 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in
contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

P – Facciamo un discorso all’incontrario. E’ possibile ipotizzare un’attività economica espletata in
modo tale da arrecare danno alla libertà, alla dignità delle persone, alla sicurezza? Ovvero, per
riprendere il discorso sull’ambiente: un’attività che prosciughi i laghi, invada il mare, sciolga i
ghiacciai, spiani le montagne, distrugga i monumenti antichi, bruci le biblioteche? Ovvero, ancora,
che nel lavoro schiavizzi i prestatori d’opera? Altra cosa sono gli eccessivi adempimenti burocratici,
i “laccioli” che ritardano l’attività ed altro di similare. Ma che c’entra la Costituzione che pone un
principio e non entra nelle procedure? Chi vuole la modifica dell’art. 41, se in buona fede, non sa
di cosa si tratti: se è in malafede, vuole altro. E fra quest’altro c’è anche la propaganda
elettoralistica. Fumo negli occhi.

T – L’art. 41 è salvo.
P- Penso che l’obiettivo dei riformatori sia un altro. Ritorniamo all’utilità sociale dell’iniziativa
economica privata che poi fa il paio con la funzione sociale della proprietà, richiamata nel
successivo art. 42. Cogliamone qualche aspetto per tentare di capire dove i “riformatori” vogliano
andare a parare. Funzione sociale per produrre reddito, ricchezza e distribuirla. Lavoro e capitale
funzionali alla produzione di reddito. Fino a qualche tempo addietro il binomio era indiscusso. Poi,
l’interesse del capitale, supportato da nuove teorie economiche prodotte nei laboratori delle
università statunitensi, tese a comprimere il lavoro. Il binomio divenne monomio con la
conseguenza che la questione della distribuzione della ricchezza e del reddito è stata espunta
dall’analisi economica oggi dominante. Dobbiamo poi considerare il notevole spostamento
dell’economia verso la finanziarizzazione.

T - il cosidetto finanzcapitalismo.
P - Occorre intendersi. Credo che sia meritevole di attenzione l’idea di alcuni economisti che
ritengono che sempre di capitalismo si tratta. Col finanzcapitalismo si è determinata una svolta
epocale. La sua natura è quella di essere potere e non più di avere potere negoziato con i governi
e gli altri attori socioeconomici. Il finanzcapitalismo ha imposto le sue regole, prima di tutte quella
di non averne. Appoggiato da un sintema di comunicazione e di propaganda massivo, si è proposto
come la via per la felicità. Il timbro della sua filosofia è ideologico. La sua pratica è totalitaria in
quanto non riconosce la diversità che anzi espunge. Chi non si inquadra è fuori gioco. Il solo
orizzonte cognitivo dell’ideologia neoliberista è il mercato. Il sistema si regge anche per la
cloroformizzazione delle menti, per aver istallato nella gente la coscienza dell’ineludibile.
Parafrasando il titolo di un opuscoletto edito dalla rivista Concilium a metà degli anni novanta del
secolo scorso, si vuol far credere che al di fuori del (di questo) mercato non ci sia salvezza.
Poi, quando parliamo di finanzcapitalismo, non ci deve sfuggire la sussistenza e l’importanza
dell’apparato. Un insieme che serve - adopero le brillanti espressioni di Luciano Gallino - a
massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile sia dal maggior
numero di essere umani, sia dagli ecosistemi.
Ogni momento ed aspetto dell’esistenza diventa obiettivo strategico del sistema che, appunto per
alimentarsi, deve fagocitare tutto il possibile, anche le coscienze, deformandole verso una vera e
propria mutazione antropologica. Le grandi holding companies, banche comprese, la cosiddetta
finanza ombra, gli investitori istituzionali costituiscono la struttura operativa del sistema. È chiaro
a questo punto che la funzione sociale è di ostacolo per il sistema. Il diritto stesso, che dovrebbe
tendere alla giustizia, ne viene modificato. Diventa il diritto del potere, cioè l’antidiritto.

T - Un sistema che però è in crisi e non trova le soluzioni per uscirne. Non ti pare un controsenso
operare politiche restrittive in un momento di recessione? Non viene intaccato il principio
costituzionale di solidarietà?
P - Certamente. Questo lo affermano economisti premi Nobel, come Krugman e Stigliz e, in
generale, la scuola keynesiana. Ma è un controsenso interessato che si veste di ideologia. C’è un
fatto che è accaduto nel corso del 2012, passato inosservato, sotto silenzio, nascosto da forze
politiche e istituzionali che a parole si richiamano alla Costituzione. Si tratta di una legge
costituzionale approvata dal Parlamento col voto contrario di pochi parlamentari, attraverso la
quale la Costituzione, diciamo, è diventata ideologica.

T - Vediamo se sbaglio: l’obbligo del pareggio di bilancio, la riforma dell’art. 81 della Costituzione
approvata definitivamente nell’aprile scorso.
P - Cioè l’assassinio della sovranità consumato in nome di un principio ideologico, di una teoria
macroeconomica. A riguardo della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, c’è da chiedersi
come mai ben cinque premi Nobel per l’economia abbiano rivolto un pressante richiamo al
presidente Obama affinché non venisse inserito nella costituzione statunitense. La mia idea è che
con il pareggio di bilancio in costituzione si vuole limitare al minimo l’attività dello Stato. Quello
che è ancora più strano è che i parlamentari autori del vincolo in Costituzione non siamo stati
anche promotori di un limite costituzionale esplicito alla pressione fiscale.

T – Perché esplicito?
P – Perché invero l’art. 53, quello sulla capacità contributiva, lo pone. Questo argomento
meriterebbe un discorso a parte. C’è ancora da domandarsi se i fautori del pareggio di bilancio non
si muovano contro la possibilità per lo Stato di far il ricorso al credito per finanziare infrastrutture,
istruzione, ricerca, sviluppo, sanità e tutela dell’ambiente. Costoro, guarda caso, sono invece
favorevoli alle vendite dei beni demaniali e pubblici. Mi chiedo, ancora, chi ci guadagnerà e chi ci
perderà da questa operazione. Quali saranno i nuovi posizionamenti della ricchezza? Quale sarà il
destino dei beni comuni sui quali si è espresso il popolo italiano attraverso il referendum del 2011?
Non si tratta di una legge con un forte odore di incostituzionalità?

T – Cosa determinerebbe una legge costituzionale contro la Costituzione? Che legittimità avrebbe
un Parlamento che agisse contro la Costituzione?
P – Tu stai ponendo una serie di questioni tutte di notevole rilievo, alle quali non si possono dare,
almeno in questa sede, risposte secche. Vediamo un po’ di trovare un filo conduttore tra le
domande che prima ponevo e le tue ultime. Se è vero che le limitazioni imposte dal pareggio di
bilancio in costituzione, come hanno rilevato i cinque Nobel ai quali mi riferivo - per inciso sono
Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin, Robert Solow - ed altri economisti
incideranno negativamente sulla produzione e distribuzione di ricchezza è chiaro che qualche
fascia sociale verrà penalizzata e che non saranno certamente i componenti di queste fasce
sfavorite ad avere la possibilità di acquistare il patrimonio pubblico che “qualcuno” vuole
smantellare. Appare anche chiaro che uno Stato che non possa intervenire nei settori della
istruzione, ricerca, tutela ambientale, beni comuni e in settori strategici per una nazione viene a
produrre una naturale selezione sociale. Ciò contrasterebbe con i principi fondamentali posti
dall’art. 2 della Costituzione che costituisce “la chiave di volta dell’intero sistema costituzionale” e
dall’art. 3 che, ponendo il principio di eguaglianza, imprime un canone generale di coerenza che
diventa struttura di tutto l’ordinamento.
Ebbene, se una legge di rango costituzionale viene a ledere tali cardini fondamentali, oltre ad
essere, beninteso, soggetta anch’essa al sindacato di costituzionalità, viene a creare una situazione
di rottura della Costituzione.

T - Vuoi dire che la legge che ha immesso in Costituzione il pareggio di bilancio può essere
soggetta al giudizio della Corte costituzionale? E che significa rottura della Costituzione?
P – Il parere concorde dei costituzionalisti è che anche una legge di riforma della Costituzione può
essere impugnata avanti alla Consulta. Il nostro è un colloquio politico, tra cittadini comuni. Non è
la sede, né mi sento di affrontare questioni dottrinarie che investono vari aspetti della
Costituzione, compresa quella della rottura. Userò una similitudine per rendere il concetto. Un
edificio poggia su pilastri che lo sostengono e ne consentono lo sviluppo in verticale. Se uno o
alcuni pilastri cedono, l’edificio si rompe e viene giù. Anche la Costituzione poggia su principi che
se vengono demoliti provocano la rottura, compromettendo l’intero edificio.

T - Ma chi e come può provocare la rottura?
P – A parte il caso eclatante di colpo di stato, i cui autori di norma sospendono la costituzione e le
garanzie costituzionali - è sempre la prima cosa che fanno i golpisti - i soggetti che possono
provocare la rottura sono coloro che hanno il potere legislativo, cioè, i parlamentari che approvino
leggi di riforma costituzionale in contrasto con la Costituzione. La costituzione vigente pone dei
limiti che il legislatore non può valicare. In maniera esplicita, come stabilito dall’art. 139, la forma
repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale. Ma costituiscono altrettanto limiti
alla revisione costituzionale i principi nei quali si esprimono i fini politici fondamentali della
Repubblica: diritti umani, sovranità popolare, equilibrio fra i poteri, principi solidaristico, di
eguaglianza, di tutela del lavoro sono limiti che il legislatore, neppure in sede di revisione
costituzionale, può oltrepassare. Se dovesse farlo, rompe la Costituzione.
Considera pure, che gli elementi di rottura possono essere graduali, occultati nel tempo in modo
impercettibile, sicché la loro somma provoca una effettiva torsione, un mutamento in senso
contrario alla Costituzione.

T - Le leggi le fa il parlamento. Perché hai usato la parola “parlamentari”?
P - Per evitare l’astrattezza. In casi gravi, come questo di cui stiamo discorrendo, l’astrattezza
tende a nascondere la responsabilità di chi ha giurato fedeltà alla Costituzione, mentre l’ha
manomessa o disapplicata. Ma c’è un altro fatto che mi ha determinato. E’ da venti anni che,
marcatamente da una parte politica, si parla di revisione della Costituzione. L’altra parte non è che
si sia opposta in maniera decisa. Qualche volta è sembrato che cedesse alle lusinghe di
promuovere addirittura una nuova costituente. Ciò denota la qualità – pessima – del personale
politico che ci ha governato. Anziché attuarla, hanno cercato di smontare la Costituzione. In
qualche caso ci sono riusciti, in altri si ripromettono di farlo, vedi “giustizia”, “libertà di stampa”.
T - Tu sostieni che il pareggio di bilancio in Costituzione leda i principi sui quali la nostra Carta si
basa. Il fatto dimostrerebbe la pochezza della nostra classe politica, prona ai dettami dei nuovi
potentati economico-finanziari. Ma allora, non c’è più speranza per la Costituzione? Il prossimo 24
febbraio andremo ad eleggere un parlamento di nominati dalle segreterie partitiche che
probabilmente non si faranno scrupolo di continuare quell’opera subdola di introdurre elementi di
rottura che andranno di fatto a demolire ancora di più la Carta, se non addirittura a costituirsi in
legislatore costituente, con un orecchio ai diktat del sistema economico imperante.
P - Non credo, anzi, spero che non arrivino a tanto. Quanto al che fare vorrei utilizzare una
intuizione o metafora del prof. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale.
Zagrebelsky richiama gli operatori di pace che nel Vangelo vengono chiamati figli di Dio. Essi
vivono e operano in un mondo in cui la discordia, la guerra l’ingiustizia, la negazione dei diritti
elementari hanno spesso il predominio sulla pace, la concordia, la giustizia. In sostanza, mi
premetto una licenza estrapolando l’intuizione dell’illustre giurista, occorre essere operatori della
Costituzione; in tanti, in quanti più possibile. Ciò non significa essere divulgatori, predicatori della
Costituzione, non solo quello, ma agire nel quotidiano, nei vari settori del sociale alla luce dei
valori e dei principi presenti nella nostra Carta.
In un contesto in cui corrisponde a verità il fatto che ci sono ingiustizie, arroganza del potere e dei
potenti, corruzione etica, negazione del diritto ad una vita dignitosa e al bene essere e ad un
pizzico di felicità, è altrettanto vero che esiste un progetto opposto alle predette negatività,
adottato come Legge fondamentale tutt’ora vigente e vigorosa e rigogliosa. Chi vuol essere
operatore della Costituzione saprà che, al fine di conservarla e preservarla, non basta cogliere il
suo aspetto di legge e la forza coercitiva di cui gode in quanto tale. Sa altrettanto che, almeno nei
suoi fondamentali, la Costituzione deve entrare nelle menti e nei cuori della gente, anche, se
vogliamo, come adesione di convenienza; deve scorrere nel tessuto sociale diventando linfa per
un esercizio quotidiano dei valori che incarna. Con la consapevolezza che non viviamo in una
dimensione di concordia ma, al contrario, come ho già detto, in una situazione di “guerra” mossa
contro la nostra Carta e tutto ciò che essa esprime. C’è bisogno di raccontare un’epopea, quella
della costituzione repubblicana quando i padri vararono un battello capace di navigare sui mari
tempestosi della storia e di affrontare i venti dei rigurgiti tempestosi della barbarie. C’è bisogno di
meditare sui motivi per cui quell’epoca di fondazione è stata avvolta da ombre e la sorgente della
Repubblica è stata inquinata e le sue acque feconde deviate nella palude del personalismo, del
privilegio, della partitocrazia che spesso, nutrendosene, ha alimentato il malaffare e la criminalità.
C’è quindi bisogno di un’altra epica, quella della (ri)costituzione, della rigenerazione. E fra gli
operatori della Costituzione              c’è     chi, come        me, ha        messo      su  il   sito
www.costituzionalmenteorientati.it. Oggi qualcuno vorrebbe riformare la Costituzione, rivedere
quegli articoli che sono i pilastri sui quali si fonda tutto l’impianto della nostra Carta fondamentale.
Gli articoli 1, 41, il titolo IV Magistratura sono sotto tiro. Come si è giunto a tanto? Molteplici sono
le cause, ma c’è anche che la Costituzione non è diventata cultura del quotidiano. Ecco, il
proposito del sito è che la Costituzione diventi cultura e pratica quotidiana; che il nostro agire sia
guidato dai valori, dai principi, dallo spirito della Costituzione. Anche così si contribuisce a
realizzare l’unità di popolo, la concordia civile, la Repubblica democratica.
T - Questo mi sembra un lavoro di lungo periodo, ma nel contingente? C’è un partito che più degli
altri si richiama, come programma politico ed elettorale, alla Carta?
P- Nei mesi scorsi si è parlato di proporre una lista Alleanza per la Costituzione che avrebbe dovuto
rappresentare, oltre che un’espressione elettorale chiaramente ispirata alla difesa e alla
attuazione della Carta, la risultante di varie esigenze che sono affiorate nel panorama delle
amministrazioni locali, seriamente messe in difficoltà dai provvedimenti governativi e dalle
politiche di fiscal compact che sta alla base del pareggio di bilancio. Si è parlato di un partito dei
sindaci, con i nomi di Orlando, Pisapia, De Magistris ed altri. Il dibattito politico, invece, sarà
ridotto a propaganda, alle fortune dei soliti partiti, dei soliti nomi, dei soliti cliché. Tutto ci
ricondurrà alla politica romana. Credo che sia stata ancora una volta sprecata un’occasione per
fare innanzi tutto chiarezza, per individuare qual è l’oggetto della politica oggi, nel contingente,
per individuare le reali cause della crisi economica e politica attuale e proporre politiche nuove.
Per cambiare il paradigma della politica romanocentrica, e fare politica dal basso.

T – A parte Pisapia, gli altri due nomi che hai fatto sono confluiti nella lista di Ingroia, Rivoluzione
civile. Può essere questa il partito della Costituzione?
P - Mi sembra un richiamo un po’ giacobino, che non so quanto possa essere efficace.
Si tratta di una lista, non di un soggetto “collaudato”. Pare che, con buona pace delle premesse,
Ingroia si troverà in compagnia di consumati “politici”. Era inevitabile, appunto perché la lista non
rappresenta un nuovo movimento. Se andrà bene, sarà una forza di “vecchia” opposizione.

T – La politica romanocentrica è un po’ il bersaglio di tutte le “periferie”. Cosa vuol dire fare
politica dal basso?
P - Focalizziamo la nostra attenzione sulla città come luogo ove si svolge la vita reale delle persone.
E’ ovvio che il sistema, ogni tipo di sistema politico ed economico, influenza la vita della città, sia in
positivo che in negativo. La città fa parte di un contesto più grande, ma vive di una sua specificità
che è anche quella della aderenza, del contatto materiale del cittadino col territorio ove vive. Non
so se rendo l’idea. Ciò che intendiamo per globalizzazione tende invece all’appiattimento dei valori
che legano la persona al proprio spazio di vita. La città per essa è solo un agglomerato di cose e
persone, un punto di mercato. Poco importa se nella concezione della globalizzazione è insito il
rischio di avere città senza cittadini. La città è spiazzata rispetto alle virtuali piazze di affari o ai
non luoghi di un meta-potere inafferrabile e indistinguibile.
Il neoliberismo, che ha travolto il welfare e messo in discussione diritti in precedenza conquistati,
spinge i governi a praticare politiche restrittive ed oppressive che rendono non fruibili diritti e
servizi sociali. Le amministrazioni cittadine non hanno più mezzi sufficienti per riuscire a fare
fronte alle esigenze delle comunità municipali, mentre il ricorso ad imposte, tasse, entrate di vario
genere inique e vessatorie riesce solo a creare nuove difficoltà.
Nel quadro costituzionale la città democratica assume un ruolo rilevante per la tenuta dell’insieme,
rispetto al quale non sono la stessa cosa città le cui politiche sono orientate verso il sociale, e città
le cui politiche prediligono il mercato. Quest’ultima tipologia rientra nel paradigma neoliberista la
cui ideologia di sfruttamento considera spazio e risorse locali come beni da trasformare in prodotti
di mercato, di cui promuovere il consumo senza attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale.
Seguendo questo orientamento, ne consegue che ogni servizio, anche essenziale e di pubblica
utilità, debba essere privatizzato, con imposizione di tariffe che prevedono il conseguimento di
profitto, magari fatto passare per remunerazione del capitale impiegato.
Proprio rispetto ai così detti beni comuni si è sviluppata una coscienza politica diffusa, si sono
svolte campagne che hanno visto tanti sindaci in prima linea. Via via è maturata l’esigenza di
concepire nuovi modelli dello stare insieme, di fare e praticare economia legata al territorio. E’
come se si stesse costruendo, più o meno consapevolmente, una trincea, una linea di
demarcazione rispetto alla totalitaria way of life liberista. Un processo questo che potrebbe
evolvere verso la città democratica, la cui affermazione dipende dalla capacità delle singole
municipalità di costituirsi in rete, in forza politica dal basso. Un processo, questo, che potrà avere
successo se le municipalità sapranno far emergere e valorizzare gli apporti di creatività, inventiva,
energia delle persone. La politica nella città non potrà più essere limitata e rinchiusa dentro gli
angusti ambiti dei consigli, delle giunte, delle segreterie dei partiti e delle loro correnti o
sottogruppi, ovvero “governata” da burocrati di buona volontà.
Il dato caratteristico degli ultimi lustri è l’allontanamento e la disaffezione della gente verso la
politica. Corruzione, costi degli apparati, eccessi e travalicamento dei partiti, personalizzazione,
indecenti leggi elettorali sono certamente ragioni, direi istintive, del disamoramento. Ma la
ragione principale e strutturale della crisi della politica è che essa è stata espunta dal parlamento e
dai consigli rappresentativi. Le assemblee sono state utilizzate per dare forma normativa a
decisioni prese altrove, nell’interesse di altri. Di un imprenditore sceso in campo per la necessità di
tutelare le sue aziende e per rendersi al di sopra della legge. Di chi detiene le leve dell’economia e
del potere effettivo. Di chi senza alcun titolo democratico, impone leggi e regolamenti di valenza
generale, molto distanti, non solo geograficamente, dai luoghi reali dove i destinatari vivono.
Il “territorio”, spazio del concreto, deve “prendere per le corna” il sistema così come si è
organizzato e calarlo nel fiume ove scorre l’esistenza delle persone e dei bisogni del loro vivere.
L’organizzazione produttiva corrente ha creato nuovi luoghi, spazi virtuali che incombono e si
impongono sugli spazi reali venendo a descrivere una nuova geografia immateriale, cinica, dove le
persone sono numeri, elementi marginali di statistiche, considerate al più come consumatori. La
città come luogo pulsante di vita viene emarginata, esclusa. Sulle persone gravano i dogmi
sloganisti del sistema: innovare (ovviamente sulla via della logica liberista), competere,
mobilizzarsi, precarizzarsi.

T – Ma il sistema ha i suoi punti di forza proprio sulla competitività e la mobilità
P – Il premio nobel Paul Krugman, che certamente non è un pericoloso comunista, qualifica la
competitività una ipotesi sbagliata. Una ossessione pericolosa. Una minaccia per il sistema
economico internazionale. Se poi la competitività viene riferita alle economie nazionali, è
addirittura una parola senza significato.

T- Solo che i nostri politici, che riempiono i loro discorsi sulla necessità della competitività, non se
ne sono resi conto o non condividono le tesi di Krugman, ammesso che sappiano chi è: sembrano
comunque aver abdicato al lavoro come fondamento della comunità, come diritto fondamentale.
P - O, chissà, si accompagnano agli scettici della Costituzione. A coloro che, in favore delle ragioni
dell’economia globalizzata, hanno retrocesso di fatto il lavoro, da necessità/diritto a mera
eventualità. Il “principio lavorista” ha avuto nel tempo non pochi denigratori che l’hanno
qualificato come declamazione ridondante, retorica. Certo è che, a parte l’art. 1 (… fondata sul
lavoro), i successivi secondo comma dell’art. 3 (è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana), art. 4 (la Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto), art. 36
(il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa), per
ricordarne alcuni, rimarcano il lavoro, ed il corrispondente diritto, come struttura della Repubblica.

T - Che la politica, a parte le necessità della propaganda, ha messo in secondo piano.
P - Certamente la politica, ma non solo essa. Nel tempo, quando si è parlato di lavoro, si è messo al
centro della narrazione quello operaio, quello dipendente in genere. Come se potessero non
essere considerati “ lavoratori” nel senso della costituzione, tutti quegli altri che traggono dalla
loro attività lavorativa i mezzi di sostentamento per sé e le loro famiglie.

T - Ti riferisci ai professionisti, agli artigiani, ai piccoli imprenditori, ai contadini, a chi deve
inventarsi un lavoro per campare.
P - Vorrei dire agli emarginati dalla globalizzazione neoliberista. Per questi non varrebbe, ad
esempio, l’art. 36, quello della retribuzione sufficiente per una libera e dignitosa esistenza. Ma
ritengo che, anche alla luce degli articoli 2 e 3, questa sia una lettura falsata della Costituzione, che
non ne interpreta correttamente lo spirito e che limita quel respiro e quella propensione al futuro
di cui prima abbiamo discorso.

T - Credo di capire che per te tutti questi temi non sarebbero presenti nell’attuale dibattito politico,
neanche in vista delle prossime elezioni.
P - Mesi addietro venne fuori un disegno di alternativa, ispirato alla Costituzione, che però non ha
avuto seguito. Nulla è cambiato.

T - Un marcato pessimismo.
P - Certo non c’è da stare allegri. Ma la venatura di pessimismo e di rammarico viene superata se
solo rivolgo il pensiero all’impegno che attende gli operatori della Costituzione. Ce ne sono molti,
e tantissimi ce ne potranno essere. Occorre metterli in rete, accomunati dall’ethos che promana
dalla Costituzione che essi hanno dentro, nell’anima, perché ne hanno compreso lo spirito. E
chissà se una Alleanza popolare per la Costituzione, con protagonisti non compromessi nell’opera
di “disattivazione” della stessa e nei termini che ci siamo detti nel corso della nostra discussione,
non possa vedere prossimamente la luce come soggetto politico e sotto qualsivoglia forma.

T - In conclusione una speranza?
P - Sono restio ad utilizzare slogan che spesso sono quantomeno fuorvianti. Ma ce n’è uno che mi
sembra appropriato: Don’t give up. Non mollare. A patto che, oltre all’auspicio, si concepisca e si
attui una pratica per un nuovo modo di intendere e di essere polis, secondo i valori e i principi
della nostra meravigliosa Costituzione.

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  • 1. Francesco Terracina intervista Salvatore Petrucci Ideatore del sito web costituzionalmenteorientati.it T – Tu sei uno dei fondatori, nel 1996 a Palermo, del comitato Dossetti per la Costituzione. In questo Paese si muovono energie per difendere Carta fondamentale, penso alla trasmissione di Benigni del 17 dicembre scorso, al movimento per presentare una lista che si richiami alla Costituzione. Quando un Paese si ritrova a difendere su più fronti i principi cardine dell’ordinamento democratico, significa che esiste un pericolo. P – Il giorno dopo l’appassionata trasmissione di Benigni sulla Costituzione, ero in auto e seguivo una trasmissione radiofonica che commentava l’evento del giorno prima. A un certo punto, un ascoltatore ha riportato il commento di un giovane che, in sostanza, apprezzava l’intervento di Benigni, definendolo poetico. Ma diceva che, di fatto, l’attore aveva messo in scena dei sogni, poiché la realtà è diversa e la Costituzione è un libro dei miraggi: essa è fuori dalla realtà quotidiana fatta, diceva il giovane, e a ragione, di emarginazione, d’incertezza sul futuro, di precarietà, di soprusi, di un potere slegato dalle necessità e dagli interessi della gente comune. A quel giovane, la Costituzione resta estranea, non parla che di qualche buona intenzione castrata dalla realtà. T- Perché quel ragazzo, e con lui parecchi cittadini, hanno quest’idea della Costituzione? P – Tu, proprio ora, nel nostro discorrere, hai definito la Costituzione “legge fondamentale”. Questo spiega una delle ragioni per cui la Costituzione è in crisi, specialmente per chi è nato in un tempo successivo a quello in cui fu pensata e redatta. Se la Costituzione è avvertita solo come Legge, seppur primaria, sovrana direi, si spiega bene la sua crisi, il logoramento dovuto al tempo che passa, la diffidenza che circonda una legge da parte di chi avverte di essere escluso o, peggio, sente di subirla. Quel giovane sentiva il peso di una condizione di crisi, di carenza di prospettive, di inutilità. Questa condizione di malessere che interessa non solo lui ma quasi tutti, è causata da qualcuno e da qualcosa. Diciamo pure che c’è un potere, che influenza e detta le regole dell’economia, ma anche della vita di ogni giorno, che l’ha generata. Ecco, la Costituzione, per storia e definizione, è limite al potere, in quanto il potere tende a comprimere i nostri diritti ed influenza la nostra vita. Costituzione equivale a limite del potere. L’idea e la storia delle costituzioni ci portano a questa semplice definizione. La Costituzione è la legge, la legge fondamentale intorno alla quale gravitano l’ordinamento e le relazioni tra le persone e gli enti, che nasce come limite al potere, ai poteri, riconoscendo ed attribuendo ai cittadini diritti. E’ questo lo scopo di tutte le costituzioni. La crisi della quale si parla e che investe cittadini, società ed istituzioni nel complesso, è dovuta allo straripamento di alcuni poteri. Della casta politico-partitica che vive in una dimensione a parte a spese della cittadinanza che ne viene soffocata. Della casta dei poteri finanziari, di un certo capitalismo che genera le crisi in funzione di un maggior lucro e della crescita del suo potere. Della schiera, seppur disordinata, dei camerieri al servizio del ricco padrone di turno. Ecco, una costituzione serve a limitare tali poteri, per far vivere i cittadini nella libertà e in democrazia, che non è concepibile come dittatura della maggioranza, né è solo una forma di governo, ma invece è
  • 2. il terreno dove si concretizza l’eguaglianza sostanziale e dove il singolo può sviluppare tutte le sue capacità. Oggi questa impalcatura della Costituzione è in crisi. T – L’attualità della Costituzione ancor oggi consisterebbe nella sua funzione di limite del potere. Di fatto, però, il potere riesce a eluderla, negando ai cittadini, soprattutto ai deboli, quei diritti che la Carta tutela. P – Potremmo dire che il “matrimonio” con la Costituzione ha qualche oppositore, qualche don Rodrigo. T - Società e costituzione come due corpi estranei. P- Che qualcosa e alcuni hanno interesse a tenere separati. T – Un problema serio per un “partigiano integralista” della Carta. P- Vorrei chiarire meglio sul mio asserito radicalismo. Non è proprio così, anche perché non credo in una costituzione immobile. Il mio supposto integralismo attiene ai valori, ai principi, alla cultura, al progetto di convivenza che fanno della Costituzione qualcosa di più di una legge. Se si considera solo l’aspetto normativo, ciò che la legge dice di fare o non fare, ci si dovrebbe rassegnare alla possibilità di continue torsioni della Costituzione dalla sua funzione fondamentale di limite del potere, così diventandone invece un’arma formidabile. In sostanza, se si accetta che la costituzione sia solo una legge, allora avrebbe ragione chi sostiene, soprattutto per suo esclusivo tornaconto, che essa, come ogni legge, è “naturalmente” modificabile, emendabile, abrogabile, seppure con una procedura più complessa dal normale corso. La Costituzione è come un organismo vivente. Se ne tocchi gli organi vitali, la ammazzi. Se la riempi di sedativi o di allucinogeni, ne uccidi lo spirito. T - Si può parlare di spirito della costituzione? P - Comunemente si dice che ciò che è vivente ha uno spirito. Ciò che è materia inerte, non avrebbe spirito. Dire che la Costituzione ha un suo spirito può significare intanto che non è morta, che ha energia e forza vitale, che la sua funzione perdura ed ha una ragion d’essere. Ma c’è un altro aspetto. Per alcuni giuristi “spirito della costituzione” è un concetto inutile, come costituirebbe nonsenso parlare di armonia della Costituzione. Per cercare una risposta alla domanda, bisogna intendersi su ciò che definiamo costituzione e distinguere tra Costituzione e leggi costituzionali. Quando parlavo di costituzione come limite del potere, non mi riferivo direttamente alle singole disposizioni normative ma a qualcosa di più. Quel qualcosa lo possiamo approssimare a ciò che intendiamo per spirito della costituzione. Un qualcosa che è anche il filo conduttore che regge l’impianto e lega ogni singola disposizione che si trova nella Costituzione. Un qualcosa che non è concetto o astrazione, ma che presuppone un vissuto. Quando parliamo di libertà e diritti di libertà nella costituzione, richiamiamo fatti negativi e una storia in cui la libertà personale veniva negata. Quando parliamo di democrazia, ci riferiamo a una pregressa storia e a modelli autoritari o di negazione della stessa. Quando convintamente citiamo l’art. 1, “l’Italia è una repubblica democratica”, vogliamo richiamare la forma di stato - che non è né monarchia, né
  • 3. principato - e un modello più avanzato di quello statalista: ma nello steso tempo implicitamente richiamiamo le vicende e le lotte attraverso cui si è poi giunto alle affermazioni della Costituzione. Scindere la costituzione dalla storia, astrarla dalla sua ratio è farne una semplice “carta”. Avrebbero ragione quei detrattori che, fin dai primi anni, la definirono opera letteraria, piena di poesia e di buoni propositi, ma inattuabile. T- Detrattori o no, la costituzione è legge e va fatta rispettare anche da chi esercita il potere. P - A tale proposito, è nelle cose la necessità di una autorità che presieda a tale scopo. Un’autorità terza, autonoma e indipendente dal potere T - Quell’ordine giudiziario o magistratura che qualcuno vorrebbe non indipendente. P - Un disegno, incostituzionale, che è un chiaro sintomo di mire autoritarie. Come è un chiaro esempio di ciò che prima dicevo a proposito dell’unitarietà della costituzione, nel senso che se si interviene, con legge costituzionale, a modificare il regime di autonomia ed indipendenza della magistratura, non viene colpita solo quella parte, ma è attaccata e manomessa tutta l’impalcatura costituzionale. T - Oltre che limite al potere, la costituzione è un disegno, un progetto di società. Ma la società è cambiata, non è più quella immaginata dai costituenti più di sessanta anni fa. P - Un tale argomento ha una certa suggestione, ma è tendenzioso oltreché insidioso. Lì per lì mi viene in mente una similitudine. Anche la Bibbia, libro che è “guida” di miliardi di persone, sarebbe inattuale. E’ stato scritto o ispirato in un’epoca del tutto diversa dalla nostra. Cosa può dire quel contesto rurale, di carovanieri, di dei falsi e bugiardi, di un dio irascibile e vendicativo, oggi? E la stessa promessa di salvezza, sostegno spirituale dei fedeli, che senso ha oggi? Diciamo che al di là delle storie, più o meno verisimili riportate in quel libro, ciò che resiste è il suo spirito, condiviso, condivisibile o meno che sia. T- Costituzione come piano di salvezza? P - Direi come progetto di vita sociale che contiene prospettive di “salvezza” contro i mali che hanno inciso nella vicenda umana. Come la guerra, la miseria, la diseguaglianza materiale, la schiavitù, la discordia, la dittatura, la soggezione ai più forti. Un progetto che include e non esclude, tranne ovviamente ciò che va contro i valori e principi insiti ed espliciti soprattutto a quelli relativi alla persona. E guardando al futuro, a quei valori ancora non manifesti, purché si collochino, appunto, nello spirito della Costituzione. T – Una Carta aperta, dunque, anche al futuro, a situazioni o contesti che ai tempi in cui la costituzione fu scritta non erano di attualità. P - Certo, faccio due esempi. Il primo. Oggi è molto sentita la questione ambientale. Nella Costituzione non c’è un esplicito riferimento ad essa. Certamente se ne occupa sotto l’aspetto del diritto alla salute della persona. La distruzione del territorio, la cementificazione sconsiderata, la distruzione dell’ecosistema sono fattori della questione ambientale.
  • 4. T - Che dice la Costituzione a proposito? P - La Costituzione non contempla un articolo di riferimento diretto. Ma leggiamo l’articolo nove, primo comma: “ La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”; il secondo comma: la Repubblica “tutela il paesaggio, il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Non solo le cose si legano, ma convergono tutte verso un centro: la persona. Ci sono due termini che ci faranno scoprire il principio costituzionale della tutela ambientale: cultura e paesaggio. L’individuo coltiva, diremmo oggi, raccoglie input, li elabora in valori che ne sollecitano e ne arricchiscono la sensibilità. E’ il processo di formazione intellettuale dell’individuo dove ricerca, paesaggio, patrimonio artistico sono aspetti della realtà oggetto del diritto alla cultura, che la Costituzione considera in modo unitario. In questa realtà esterna all’individuo, c’è pure l’ambiente, non solo come spazio in cui vive, come habitat ma anche come fattore di armonizzazione estetico–artistico per lo sviluppo della persona. T – Quale significato ha il termine “paesaggio” nella Costituzione? P – La ricerca del significato che la Costituzione ha voluto imprimere alla parola ”paesaggio”, ci offre ancora una volta l’occasione per evidenziare la vista lunga, la dinamicità e allo stesso tempo la stabilità della nostra carta fondamentale che non è una cosa in sé, un noumeno, ma cammina e progredisce con l’uomo e ne alimenta, nutrendosene, le facoltà intellettive. Il paesaggio dell’art. 9 non è pietrificato al momento in cui la Costituzione vide la luce, né si riferisce ai quadri che la natura realizza, né è esclusivamente ancorato e dipendente dalle “bellezze naturali”. Il senso di una disposizione normativa si evolve con l’evolversi storico della realtà sociale, si plasma a nuove esigenze, a nuove sensibilità, purché nel rispetto dei diritti della persona umana, come previsti e sottesi dalla Costituzione T - Ritorna lo spirito della Costituzione P - Già! Per completare l’analisi sull’articolo 9 dal quale abbiamo tratto il discorso sull’ambiente, possiamo osservare che il Costituente adopera la parola sviluppo, non limitandosi a dire “la Repubblica promuove la cultura”. Il termine sviluppo dà il senso del dinamico, della crescita, di ciò che si muove e va avanti, dell’espansione, del futuro come universo che si apre e si moltiplica e non si chiude verso l’annichilimento. Cultura è anche conoscenza, informazione. Quale garanzia di effettività del diritto al conoscere, al sapere se gli strumenti della conoscenza, dell’informazione sono monopolizzati? Come si può esser “sovrani” se non si ha conoscenza, informazione adeguata di quanto deve essere l’oggetto di un giudizio per potere operare la scelta migliore? Come si può essere sovrani se i cittadini sono avvolti da false rappresentazioni, dalla disinformazione, se vengono storditi dalla ripetizione della menzogna che vuole accreditarsi come verità? Quell’articolo 9 posto là dov’è va oltre il costituire la c.d. costituzione culturale: pur preannunciando e comprendendo gli articoli successivi, il 33 (l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento) e l’art. 34 (la scuola è aperta a tutti), va oltre e ci parla d’altro. Ci parla di nazione, di popolo in movimento, quindi, non solo come generazione attuale. Un popolo che ha una storia alle spalle ed una nuova ne scrive. Ci parla della nostra Storia che è la storia dell’unità d’Italia, delle centinaia di ragazzi mandati a morire, carne da cannone, nelle trincee. E’ storia di lavoratori e delle loro lotte, è storia di ombre e di riscatti, di dittatura e di resistenza, di liberazione.
  • 5. E’ storia di uomini che col lavoro, con la loro scienza hanno onorato il Paese in tutto il mondo. Quante considerazioni, quanti spunti nascono dalla lettura della nostra Costituzione, corpo normativo, di principi, di valori, di spirito vivente. Nel contesto di questa dinamica, per altro talune volte rintracciabile nella giurisprudenza costituzionale, non si può quindi negare che l’ambiente rientri nella previsione costituzionale, anzi, che sia un diritto fondamentale della persona umana e come tale massimamente tutelato. Per comprendere come respira e si pone la Costituzione a riguardo di talune tematiche, utilizzando il discorso sull’ambiente, procedo con una enfatizzazione. Posso dire che quello all’ambiente è un diritto tanto rafforzato a salvaguardia della sopravvivenza della persona, dell’umanità intera che è come se la natura stessa acquisisca una soggettività ed una conseguente tutela al fine di impedire all’Uomo di distruggere se stesso distruggendo la natura. E’ questa un’immagine iperbolica che spero renda il concetto. T - Una visione francescana o pan naturalista che è al limite di una forzatura interpretativa. P – Il tuo riferimento è molto suggestivo. Ma voglio dire che, tenuta ferma la centralità e la ragione della tutela del diritto fondamentale della persona, il dato costituzionale può colorarsi del tono di sensibilità culturali, ed etiche, differenti, e attraverso queste non solo rispettato in quanto legge, ma pienamente condiviso, fatto proprio nella quotidianità. T - Il secondo esempio? P - I diritti delle persone con orientamento sessuale diverso. Omosessuali, transgenders. Non c’è una previsione specifica nella Costituzione. Ma come negarli, emarginarli, escluderli, limitare la loro sfera affettiva senza incorrere nella violazione del diritto tutelato dai principi fondamentali? T - Insomma, descrivi un quadro idilliaco, fatto di principi che in modo del tutto naturale difendono i diritti delle persone. P - La situazione non è affatto tranquilla. E’ di guerra, una guerra mossa alla Costituzione. Col “tradimento” di chi doveva rispettarla, farla rispettare e attuarla. I politici: parlamentari, consiglieri comunali e regionali, amministratori, dirigenti e quadri di partito. Prendo lo spunto da ciò che hai qualificato “naturale”. Quando parliamo di diritti tutelati al massimo livello dalla Costituzione, tali diritti alcuni li definiscono naturali. Non voglio scendere sul campo dell’esistenza o meno della naturalità dei diritti. Ma non dimentichiamoci che anche i diritti “naturali” sono il frutto di una evoluzione resa possibile da conflitti, lotte, rivoluzioni, guerre. E poi, non ci sono stati nella storia dei criminali che intesero far passare come naturale il loro dominio su altri popoli? I criminali del Terzo reich, che fecero? Pensiamo alla schiavitù, talvolta morbida, altre volte durissima nel civile mondo ellenico romano, pur giustificata da uno, per molti aspetti rivoluzionario, come Paolo di Tarso: non era considerato naturale il diritto del dominus? E oggi non si sottende una tale naturalità nei diritti del mercato? Non si tende a far passare come naturale la speculazione finanziaria? La pretesa di pochi di arricchirsi a scapito dei tanti? Il vero è che i diritti sono conquiste e che c’è sempre qualcuno che li osteggia; che c’è una legge e contemporaneamente un progetto in cui libertà, democrazia, eguaglianza, solidarietà sono poste a fondamento delle regole della comunità da esso prefigurata. La Costituzione. Ed è anche vero che
  • 6. questa è sotto attacco da molte parti. Da chi ha interessi particolari e dal sistema economico imperante, supportato da una particolare ideologia. T – Pensi alla “moda” neoliberista? P - Quando la politica si appropria di una ideologia per servirsene e per motivare il proprio operato, allora sono guai seri. T - Il discorso del rapporto tra ideologia e legge ci porterebbe lontano. Mi sembra di capire che tu attribuisci alla Costituzione anche un ruolo di difesa dall’ideologismo. Ma non c’è una influenza ideologica nella nostra Costituzione? P - E’ un dato innegabile che la Carta riprese filoni culturali presenti nell’Assemblea costituente. A quel consesso concorsero partiti di varia ispirazione: cristiana, liberale, socialista. Tra i padri costituenti, i cristiano democratici Dossetti e La Pira, i comunisti Terracini e Togliatti, i socialisti Nenni e Saragat, i liberali Croce ed Einaudi, gli azionisti Calamandrei e Parri. Ma non si può certo dire che ci sia una disposizione che rappresenti una particolare ideologia, né, tanto più, che la Costituzione sia incline all’ideologismo. Pensare una cosa del genere significherebbe non aver compreso né la lettera, né lo spirito della Costituzione. L’unica ideologia, diciamo, rintracciabile in essa è l’assoluto impegno di non cadere mai più nella barbarie, non solo in quella nazifascista, sia chiaro. T - Tra gli scenari di barbarie e di regresso possiamo comprendere la disoccupazione. Nel 2012, nel mondo monitorato da studi statistici, i disoccupati sono stati 202 milioni pari a un tasso del 6,1%, in crescita rispetto all’anno precedente. In Italia ci attestiamo all’11% circa, ma la disoccupazione giovanile interessa il 37% dei giovani, rispetto al 27,5% dell’anno prima. Dai dati ad oggi aggiornati si ricava che hanno abbassato le saracinesche 35 imprese al giorno. Alla fine di giugno 2012, i fallimenti in Italia hanno sfiorato le 46.400 unità. La produzione industriale è in caduta libera, il 7,3% in meno rispetto al 2011. Secondo recenti indagini, più della metà delle famiglie italiane dichiara già adesso di riuscire a pagare appena le spese senza potersi permettere ulteriori lussi, mentre circa il 10% non ha un reddito sufficiente nemmeno per l’indispensabile. Nel 2013 per la metà delle famiglie italiane la situazione è destinata a peggiorare. Dati da fare paura. Alcuni, senza mezzi termini, hanno attaccato la Costituzione perché sarebbe di ostacolo alla crescita economica. Ricordo la polemica sull’articolo 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. P – Facciamo un discorso all’incontrario. E’ possibile ipotizzare un’attività economica espletata in modo tale da arrecare danno alla libertà, alla dignità delle persone, alla sicurezza? Ovvero, per riprendere il discorso sull’ambiente: un’attività che prosciughi i laghi, invada il mare, sciolga i ghiacciai, spiani le montagne, distrugga i monumenti antichi, bruci le biblioteche? Ovvero, ancora, che nel lavoro schiavizzi i prestatori d’opera? Altra cosa sono gli eccessivi adempimenti burocratici, i “laccioli” che ritardano l’attività ed altro di similare. Ma che c’entra la Costituzione che pone un
  • 7. principio e non entra nelle procedure? Chi vuole la modifica dell’art. 41, se in buona fede, non sa di cosa si tratti: se è in malafede, vuole altro. E fra quest’altro c’è anche la propaganda elettoralistica. Fumo negli occhi. T – L’art. 41 è salvo. P- Penso che l’obiettivo dei riformatori sia un altro. Ritorniamo all’utilità sociale dell’iniziativa economica privata che poi fa il paio con la funzione sociale della proprietà, richiamata nel successivo art. 42. Cogliamone qualche aspetto per tentare di capire dove i “riformatori” vogliano andare a parare. Funzione sociale per produrre reddito, ricchezza e distribuirla. Lavoro e capitale funzionali alla produzione di reddito. Fino a qualche tempo addietro il binomio era indiscusso. Poi, l’interesse del capitale, supportato da nuove teorie economiche prodotte nei laboratori delle università statunitensi, tese a comprimere il lavoro. Il binomio divenne monomio con la conseguenza che la questione della distribuzione della ricchezza e del reddito è stata espunta dall’analisi economica oggi dominante. Dobbiamo poi considerare il notevole spostamento dell’economia verso la finanziarizzazione. T - il cosidetto finanzcapitalismo. P - Occorre intendersi. Credo che sia meritevole di attenzione l’idea di alcuni economisti che ritengono che sempre di capitalismo si tratta. Col finanzcapitalismo si è determinata una svolta epocale. La sua natura è quella di essere potere e non più di avere potere negoziato con i governi e gli altri attori socioeconomici. Il finanzcapitalismo ha imposto le sue regole, prima di tutte quella di non averne. Appoggiato da un sintema di comunicazione e di propaganda massivo, si è proposto come la via per la felicità. Il timbro della sua filosofia è ideologico. La sua pratica è totalitaria in quanto non riconosce la diversità che anzi espunge. Chi non si inquadra è fuori gioco. Il solo orizzonte cognitivo dell’ideologia neoliberista è il mercato. Il sistema si regge anche per la cloroformizzazione delle menti, per aver istallato nella gente la coscienza dell’ineludibile. Parafrasando il titolo di un opuscoletto edito dalla rivista Concilium a metà degli anni novanta del secolo scorso, si vuol far credere che al di fuori del (di questo) mercato non ci sia salvezza. Poi, quando parliamo di finanzcapitalismo, non ci deve sfuggire la sussistenza e l’importanza dell’apparato. Un insieme che serve - adopero le brillanti espressioni di Luciano Gallino - a massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero di essere umani, sia dagli ecosistemi. Ogni momento ed aspetto dell’esistenza diventa obiettivo strategico del sistema che, appunto per alimentarsi, deve fagocitare tutto il possibile, anche le coscienze, deformandole verso una vera e propria mutazione antropologica. Le grandi holding companies, banche comprese, la cosiddetta finanza ombra, gli investitori istituzionali costituiscono la struttura operativa del sistema. È chiaro a questo punto che la funzione sociale è di ostacolo per il sistema. Il diritto stesso, che dovrebbe tendere alla giustizia, ne viene modificato. Diventa il diritto del potere, cioè l’antidiritto. T - Un sistema che però è in crisi e non trova le soluzioni per uscirne. Non ti pare un controsenso operare politiche restrittive in un momento di recessione? Non viene intaccato il principio costituzionale di solidarietà?
  • 8. P - Certamente. Questo lo affermano economisti premi Nobel, come Krugman e Stigliz e, in generale, la scuola keynesiana. Ma è un controsenso interessato che si veste di ideologia. C’è un fatto che è accaduto nel corso del 2012, passato inosservato, sotto silenzio, nascosto da forze politiche e istituzionali che a parole si richiamano alla Costituzione. Si tratta di una legge costituzionale approvata dal Parlamento col voto contrario di pochi parlamentari, attraverso la quale la Costituzione, diciamo, è diventata ideologica. T - Vediamo se sbaglio: l’obbligo del pareggio di bilancio, la riforma dell’art. 81 della Costituzione approvata definitivamente nell’aprile scorso. P - Cioè l’assassinio della sovranità consumato in nome di un principio ideologico, di una teoria macroeconomica. A riguardo della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, c’è da chiedersi come mai ben cinque premi Nobel per l’economia abbiano rivolto un pressante richiamo al presidente Obama affinché non venisse inserito nella costituzione statunitense. La mia idea è che con il pareggio di bilancio in costituzione si vuole limitare al minimo l’attività dello Stato. Quello che è ancora più strano è che i parlamentari autori del vincolo in Costituzione non siamo stati anche promotori di un limite costituzionale esplicito alla pressione fiscale. T – Perché esplicito? P – Perché invero l’art. 53, quello sulla capacità contributiva, lo pone. Questo argomento meriterebbe un discorso a parte. C’è ancora da domandarsi se i fautori del pareggio di bilancio non si muovano contro la possibilità per lo Stato di far il ricorso al credito per finanziare infrastrutture, istruzione, ricerca, sviluppo, sanità e tutela dell’ambiente. Costoro, guarda caso, sono invece favorevoli alle vendite dei beni demaniali e pubblici. Mi chiedo, ancora, chi ci guadagnerà e chi ci perderà da questa operazione. Quali saranno i nuovi posizionamenti della ricchezza? Quale sarà il destino dei beni comuni sui quali si è espresso il popolo italiano attraverso il referendum del 2011? Non si tratta di una legge con un forte odore di incostituzionalità? T – Cosa determinerebbe una legge costituzionale contro la Costituzione? Che legittimità avrebbe un Parlamento che agisse contro la Costituzione? P – Tu stai ponendo una serie di questioni tutte di notevole rilievo, alle quali non si possono dare, almeno in questa sede, risposte secche. Vediamo un po’ di trovare un filo conduttore tra le domande che prima ponevo e le tue ultime. Se è vero che le limitazioni imposte dal pareggio di bilancio in costituzione, come hanno rilevato i cinque Nobel ai quali mi riferivo - per inciso sono Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin, Robert Solow - ed altri economisti incideranno negativamente sulla produzione e distribuzione di ricchezza è chiaro che qualche fascia sociale verrà penalizzata e che non saranno certamente i componenti di queste fasce sfavorite ad avere la possibilità di acquistare il patrimonio pubblico che “qualcuno” vuole smantellare. Appare anche chiaro che uno Stato che non possa intervenire nei settori della istruzione, ricerca, tutela ambientale, beni comuni e in settori strategici per una nazione viene a produrre una naturale selezione sociale. Ciò contrasterebbe con i principi fondamentali posti dall’art. 2 della Costituzione che costituisce “la chiave di volta dell’intero sistema costituzionale” e
  • 9. dall’art. 3 che, ponendo il principio di eguaglianza, imprime un canone generale di coerenza che diventa struttura di tutto l’ordinamento. Ebbene, se una legge di rango costituzionale viene a ledere tali cardini fondamentali, oltre ad essere, beninteso, soggetta anch’essa al sindacato di costituzionalità, viene a creare una situazione di rottura della Costituzione. T - Vuoi dire che la legge che ha immesso in Costituzione il pareggio di bilancio può essere soggetta al giudizio della Corte costituzionale? E che significa rottura della Costituzione? P – Il parere concorde dei costituzionalisti è che anche una legge di riforma della Costituzione può essere impugnata avanti alla Consulta. Il nostro è un colloquio politico, tra cittadini comuni. Non è la sede, né mi sento di affrontare questioni dottrinarie che investono vari aspetti della Costituzione, compresa quella della rottura. Userò una similitudine per rendere il concetto. Un edificio poggia su pilastri che lo sostengono e ne consentono lo sviluppo in verticale. Se uno o alcuni pilastri cedono, l’edificio si rompe e viene giù. Anche la Costituzione poggia su principi che se vengono demoliti provocano la rottura, compromettendo l’intero edificio. T - Ma chi e come può provocare la rottura? P – A parte il caso eclatante di colpo di stato, i cui autori di norma sospendono la costituzione e le garanzie costituzionali - è sempre la prima cosa che fanno i golpisti - i soggetti che possono provocare la rottura sono coloro che hanno il potere legislativo, cioè, i parlamentari che approvino leggi di riforma costituzionale in contrasto con la Costituzione. La costituzione vigente pone dei limiti che il legislatore non può valicare. In maniera esplicita, come stabilito dall’art. 139, la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale. Ma costituiscono altrettanto limiti alla revisione costituzionale i principi nei quali si esprimono i fini politici fondamentali della Repubblica: diritti umani, sovranità popolare, equilibrio fra i poteri, principi solidaristico, di eguaglianza, di tutela del lavoro sono limiti che il legislatore, neppure in sede di revisione costituzionale, può oltrepassare. Se dovesse farlo, rompe la Costituzione. Considera pure, che gli elementi di rottura possono essere graduali, occultati nel tempo in modo impercettibile, sicché la loro somma provoca una effettiva torsione, un mutamento in senso contrario alla Costituzione. T - Le leggi le fa il parlamento. Perché hai usato la parola “parlamentari”? P - Per evitare l’astrattezza. In casi gravi, come questo di cui stiamo discorrendo, l’astrattezza tende a nascondere la responsabilità di chi ha giurato fedeltà alla Costituzione, mentre l’ha manomessa o disapplicata. Ma c’è un altro fatto che mi ha determinato. E’ da venti anni che, marcatamente da una parte politica, si parla di revisione della Costituzione. L’altra parte non è che si sia opposta in maniera decisa. Qualche volta è sembrato che cedesse alle lusinghe di promuovere addirittura una nuova costituente. Ciò denota la qualità – pessima – del personale politico che ci ha governato. Anziché attuarla, hanno cercato di smontare la Costituzione. In qualche caso ci sono riusciti, in altri si ripromettono di farlo, vedi “giustizia”, “libertà di stampa”.
  • 10. T - Tu sostieni che il pareggio di bilancio in Costituzione leda i principi sui quali la nostra Carta si basa. Il fatto dimostrerebbe la pochezza della nostra classe politica, prona ai dettami dei nuovi potentati economico-finanziari. Ma allora, non c’è più speranza per la Costituzione? Il prossimo 24 febbraio andremo ad eleggere un parlamento di nominati dalle segreterie partitiche che probabilmente non si faranno scrupolo di continuare quell’opera subdola di introdurre elementi di rottura che andranno di fatto a demolire ancora di più la Carta, se non addirittura a costituirsi in legislatore costituente, con un orecchio ai diktat del sistema economico imperante. P - Non credo, anzi, spero che non arrivino a tanto. Quanto al che fare vorrei utilizzare una intuizione o metafora del prof. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale. Zagrebelsky richiama gli operatori di pace che nel Vangelo vengono chiamati figli di Dio. Essi vivono e operano in un mondo in cui la discordia, la guerra l’ingiustizia, la negazione dei diritti elementari hanno spesso il predominio sulla pace, la concordia, la giustizia. In sostanza, mi premetto una licenza estrapolando l’intuizione dell’illustre giurista, occorre essere operatori della Costituzione; in tanti, in quanti più possibile. Ciò non significa essere divulgatori, predicatori della Costituzione, non solo quello, ma agire nel quotidiano, nei vari settori del sociale alla luce dei valori e dei principi presenti nella nostra Carta. In un contesto in cui corrisponde a verità il fatto che ci sono ingiustizie, arroganza del potere e dei potenti, corruzione etica, negazione del diritto ad una vita dignitosa e al bene essere e ad un pizzico di felicità, è altrettanto vero che esiste un progetto opposto alle predette negatività, adottato come Legge fondamentale tutt’ora vigente e vigorosa e rigogliosa. Chi vuol essere operatore della Costituzione saprà che, al fine di conservarla e preservarla, non basta cogliere il suo aspetto di legge e la forza coercitiva di cui gode in quanto tale. Sa altrettanto che, almeno nei suoi fondamentali, la Costituzione deve entrare nelle menti e nei cuori della gente, anche, se vogliamo, come adesione di convenienza; deve scorrere nel tessuto sociale diventando linfa per un esercizio quotidiano dei valori che incarna. Con la consapevolezza che non viviamo in una dimensione di concordia ma, al contrario, come ho già detto, in una situazione di “guerra” mossa contro la nostra Carta e tutto ciò che essa esprime. C’è bisogno di raccontare un’epopea, quella della costituzione repubblicana quando i padri vararono un battello capace di navigare sui mari tempestosi della storia e di affrontare i venti dei rigurgiti tempestosi della barbarie. C’è bisogno di meditare sui motivi per cui quell’epoca di fondazione è stata avvolta da ombre e la sorgente della Repubblica è stata inquinata e le sue acque feconde deviate nella palude del personalismo, del privilegio, della partitocrazia che spesso, nutrendosene, ha alimentato il malaffare e la criminalità. C’è quindi bisogno di un’altra epica, quella della (ri)costituzione, della rigenerazione. E fra gli operatori della Costituzione c’è chi, come me, ha messo su il sito www.costituzionalmenteorientati.it. Oggi qualcuno vorrebbe riformare la Costituzione, rivedere quegli articoli che sono i pilastri sui quali si fonda tutto l’impianto della nostra Carta fondamentale. Gli articoli 1, 41, il titolo IV Magistratura sono sotto tiro. Come si è giunto a tanto? Molteplici sono le cause, ma c’è anche che la Costituzione non è diventata cultura del quotidiano. Ecco, il proposito del sito è che la Costituzione diventi cultura e pratica quotidiana; che il nostro agire sia guidato dai valori, dai principi, dallo spirito della Costituzione. Anche così si contribuisce a realizzare l’unità di popolo, la concordia civile, la Repubblica democratica.
  • 11. T - Questo mi sembra un lavoro di lungo periodo, ma nel contingente? C’è un partito che più degli altri si richiama, come programma politico ed elettorale, alla Carta? P- Nei mesi scorsi si è parlato di proporre una lista Alleanza per la Costituzione che avrebbe dovuto rappresentare, oltre che un’espressione elettorale chiaramente ispirata alla difesa e alla attuazione della Carta, la risultante di varie esigenze che sono affiorate nel panorama delle amministrazioni locali, seriamente messe in difficoltà dai provvedimenti governativi e dalle politiche di fiscal compact che sta alla base del pareggio di bilancio. Si è parlato di un partito dei sindaci, con i nomi di Orlando, Pisapia, De Magistris ed altri. Il dibattito politico, invece, sarà ridotto a propaganda, alle fortune dei soliti partiti, dei soliti nomi, dei soliti cliché. Tutto ci ricondurrà alla politica romana. Credo che sia stata ancora una volta sprecata un’occasione per fare innanzi tutto chiarezza, per individuare qual è l’oggetto della politica oggi, nel contingente, per individuare le reali cause della crisi economica e politica attuale e proporre politiche nuove. Per cambiare il paradigma della politica romanocentrica, e fare politica dal basso. T – A parte Pisapia, gli altri due nomi che hai fatto sono confluiti nella lista di Ingroia, Rivoluzione civile. Può essere questa il partito della Costituzione? P - Mi sembra un richiamo un po’ giacobino, che non so quanto possa essere efficace. Si tratta di una lista, non di un soggetto “collaudato”. Pare che, con buona pace delle premesse, Ingroia si troverà in compagnia di consumati “politici”. Era inevitabile, appunto perché la lista non rappresenta un nuovo movimento. Se andrà bene, sarà una forza di “vecchia” opposizione. T – La politica romanocentrica è un po’ il bersaglio di tutte le “periferie”. Cosa vuol dire fare politica dal basso? P - Focalizziamo la nostra attenzione sulla città come luogo ove si svolge la vita reale delle persone. E’ ovvio che il sistema, ogni tipo di sistema politico ed economico, influenza la vita della città, sia in positivo che in negativo. La città fa parte di un contesto più grande, ma vive di una sua specificità che è anche quella della aderenza, del contatto materiale del cittadino col territorio ove vive. Non so se rendo l’idea. Ciò che intendiamo per globalizzazione tende invece all’appiattimento dei valori che legano la persona al proprio spazio di vita. La città per essa è solo un agglomerato di cose e persone, un punto di mercato. Poco importa se nella concezione della globalizzazione è insito il rischio di avere città senza cittadini. La città è spiazzata rispetto alle virtuali piazze di affari o ai non luoghi di un meta-potere inafferrabile e indistinguibile. Il neoliberismo, che ha travolto il welfare e messo in discussione diritti in precedenza conquistati, spinge i governi a praticare politiche restrittive ed oppressive che rendono non fruibili diritti e servizi sociali. Le amministrazioni cittadine non hanno più mezzi sufficienti per riuscire a fare fronte alle esigenze delle comunità municipali, mentre il ricorso ad imposte, tasse, entrate di vario genere inique e vessatorie riesce solo a creare nuove difficoltà. Nel quadro costituzionale la città democratica assume un ruolo rilevante per la tenuta dell’insieme, rispetto al quale non sono la stessa cosa città le cui politiche sono orientate verso il sociale, e città le cui politiche prediligono il mercato. Quest’ultima tipologia rientra nel paradigma neoliberista la cui ideologia di sfruttamento considera spazio e risorse locali come beni da trasformare in prodotti di mercato, di cui promuovere il consumo senza attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale.
  • 12. Seguendo questo orientamento, ne consegue che ogni servizio, anche essenziale e di pubblica utilità, debba essere privatizzato, con imposizione di tariffe che prevedono il conseguimento di profitto, magari fatto passare per remunerazione del capitale impiegato. Proprio rispetto ai così detti beni comuni si è sviluppata una coscienza politica diffusa, si sono svolte campagne che hanno visto tanti sindaci in prima linea. Via via è maturata l’esigenza di concepire nuovi modelli dello stare insieme, di fare e praticare economia legata al territorio. E’ come se si stesse costruendo, più o meno consapevolmente, una trincea, una linea di demarcazione rispetto alla totalitaria way of life liberista. Un processo questo che potrebbe evolvere verso la città democratica, la cui affermazione dipende dalla capacità delle singole municipalità di costituirsi in rete, in forza politica dal basso. Un processo, questo, che potrà avere successo se le municipalità sapranno far emergere e valorizzare gli apporti di creatività, inventiva, energia delle persone. La politica nella città non potrà più essere limitata e rinchiusa dentro gli angusti ambiti dei consigli, delle giunte, delle segreterie dei partiti e delle loro correnti o sottogruppi, ovvero “governata” da burocrati di buona volontà. Il dato caratteristico degli ultimi lustri è l’allontanamento e la disaffezione della gente verso la politica. Corruzione, costi degli apparati, eccessi e travalicamento dei partiti, personalizzazione, indecenti leggi elettorali sono certamente ragioni, direi istintive, del disamoramento. Ma la ragione principale e strutturale della crisi della politica è che essa è stata espunta dal parlamento e dai consigli rappresentativi. Le assemblee sono state utilizzate per dare forma normativa a decisioni prese altrove, nell’interesse di altri. Di un imprenditore sceso in campo per la necessità di tutelare le sue aziende e per rendersi al di sopra della legge. Di chi detiene le leve dell’economia e del potere effettivo. Di chi senza alcun titolo democratico, impone leggi e regolamenti di valenza generale, molto distanti, non solo geograficamente, dai luoghi reali dove i destinatari vivono. Il “territorio”, spazio del concreto, deve “prendere per le corna” il sistema così come si è organizzato e calarlo nel fiume ove scorre l’esistenza delle persone e dei bisogni del loro vivere. L’organizzazione produttiva corrente ha creato nuovi luoghi, spazi virtuali che incombono e si impongono sugli spazi reali venendo a descrivere una nuova geografia immateriale, cinica, dove le persone sono numeri, elementi marginali di statistiche, considerate al più come consumatori. La città come luogo pulsante di vita viene emarginata, esclusa. Sulle persone gravano i dogmi sloganisti del sistema: innovare (ovviamente sulla via della logica liberista), competere, mobilizzarsi, precarizzarsi. T – Ma il sistema ha i suoi punti di forza proprio sulla competitività e la mobilità P – Il premio nobel Paul Krugman, che certamente non è un pericoloso comunista, qualifica la competitività una ipotesi sbagliata. Una ossessione pericolosa. Una minaccia per il sistema economico internazionale. Se poi la competitività viene riferita alle economie nazionali, è addirittura una parola senza significato. T- Solo che i nostri politici, che riempiono i loro discorsi sulla necessità della competitività, non se ne sono resi conto o non condividono le tesi di Krugman, ammesso che sappiano chi è: sembrano comunque aver abdicato al lavoro come fondamento della comunità, come diritto fondamentale. P - O, chissà, si accompagnano agli scettici della Costituzione. A coloro che, in favore delle ragioni
  • 13. dell’economia globalizzata, hanno retrocesso di fatto il lavoro, da necessità/diritto a mera eventualità. Il “principio lavorista” ha avuto nel tempo non pochi denigratori che l’hanno qualificato come declamazione ridondante, retorica. Certo è che, a parte l’art. 1 (… fondata sul lavoro), i successivi secondo comma dell’art. 3 (è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana), art. 4 (la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto), art. 36 (il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa), per ricordarne alcuni, rimarcano il lavoro, ed il corrispondente diritto, come struttura della Repubblica. T - Che la politica, a parte le necessità della propaganda, ha messo in secondo piano. P - Certamente la politica, ma non solo essa. Nel tempo, quando si è parlato di lavoro, si è messo al centro della narrazione quello operaio, quello dipendente in genere. Come se potessero non essere considerati “ lavoratori” nel senso della costituzione, tutti quegli altri che traggono dalla loro attività lavorativa i mezzi di sostentamento per sé e le loro famiglie. T - Ti riferisci ai professionisti, agli artigiani, ai piccoli imprenditori, ai contadini, a chi deve inventarsi un lavoro per campare. P - Vorrei dire agli emarginati dalla globalizzazione neoliberista. Per questi non varrebbe, ad esempio, l’art. 36, quello della retribuzione sufficiente per una libera e dignitosa esistenza. Ma ritengo che, anche alla luce degli articoli 2 e 3, questa sia una lettura falsata della Costituzione, che non ne interpreta correttamente lo spirito e che limita quel respiro e quella propensione al futuro di cui prima abbiamo discorso. T - Credo di capire che per te tutti questi temi non sarebbero presenti nell’attuale dibattito politico, neanche in vista delle prossime elezioni. P - Mesi addietro venne fuori un disegno di alternativa, ispirato alla Costituzione, che però non ha avuto seguito. Nulla è cambiato. T - Un marcato pessimismo. P - Certo non c’è da stare allegri. Ma la venatura di pessimismo e di rammarico viene superata se solo rivolgo il pensiero all’impegno che attende gli operatori della Costituzione. Ce ne sono molti, e tantissimi ce ne potranno essere. Occorre metterli in rete, accomunati dall’ethos che promana dalla Costituzione che essi hanno dentro, nell’anima, perché ne hanno compreso lo spirito. E chissà se una Alleanza popolare per la Costituzione, con protagonisti non compromessi nell’opera di “disattivazione” della stessa e nei termini che ci siamo detti nel corso della nostra discussione, non possa vedere prossimamente la luce come soggetto politico e sotto qualsivoglia forma. T - In conclusione una speranza? P - Sono restio ad utilizzare slogan che spesso sono quantomeno fuorvianti. Ma ce n’è uno che mi sembra appropriato: Don’t give up. Non mollare. A patto che, oltre all’auspicio, si concepisca e si
  • 14. attui una pratica per un nuovo modo di intendere e di essere polis, secondo i valori e i principi della nostra meravigliosa Costituzione.