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Pane, patate 

e tradizione
20 giugno 2015
16.45 - 17.45
Aula del futuro
Future Food District
Ordine interventi
Claudia Bersani, Area politiche sociali di Novacoop
prof. Battista Saiu, curatore Museo dell’uomo di Ginevra - La
ritualità del pane ieri e oggi
dott. Luca Ciurleo, antropologo culturale - Pani tipici e patate
ossolane
Ordine interventi
Anna Maria Francini - azienda agricola Francini, Druogno - La
reintroduzione della patata di montagna in Ossola
Dott. Samuel Piana, agenzia di web marketing territoriale
Landexplorer - Turismo enogastronomico
Giuseppe Possa, critico d’arte, curatore del blog PQlascintilla -
La tradizione artistica vigezzina
Claudia Bersani
Area Politiche sociali Novacoop
Il pane
prof. Battista Saiu
Si dice che la Sardegna ha un «cuore di pane»: l’isola è
divenuta celebre ben al di là delle frontiere italiane
poiché ancor oggi le donne utilizzano per ogni tipo di
pane una farina
particolare, una tecnica di lavorazione diversa ed una
attenzione particolare in ogni istante della lavorazione.
La produzione ed il consumo del pane segnano
fisicamente e simbolicamente il passare del tempo.
Il solo scambio di questo alimento cementa l’alleanza fra
i vivi ed i morti.
Per gli sponsali, la celebrazione di una prima
messa, in onore di un santo particolarmente
venerato o in ricorrenze eccezionali, in tutta la
Sardegna, vengono realizzati pani artistici, rituali,
cerimoniali e votivi. Numerosissime le forme,
peculiari di una vita che riversa in esse la fantasia
di un intero popolo: plasmato da mani sapienti, il
pane si trasforma in corone, rami, cestini, fiori,
foglie, uccelli; simboli di antica e nuova religiosità,
ereditata e tramandata attraverso l’oralità, il gesto
e la parola.
Per i Sardi, il pane e l'arte della panificazione
sono gli archivi, il tesoro della loro scienza e
della loro religione,
della loro teogonia (la narrazione mitologica
dell'origine degli dèi e della loro discendenza) e
della loro cosmologia (la scienza che ricerca e
studia le leggi costitutive dell'universo), dei fatti
antichi dei loro padri e degli eventi della loro
storia, la eco del loro cuore, l'immagine della
vita domestica nella gioia e nel dolore,
accanto al letto nuziale ed alla tomba.
In questi giorni,
la Regione Autonoma della Sardegna si
candida al riconoscimento UNESCO
del pane tipico isolano,
forte di uno studio europeo che assegna
all’Isola l’80% dei pani tipici italiani.
Pane dei morti
Pane de sas animas
Orani (Nuoro)
Il culto dei morti in Sardegna è corredato di pani propri.
Diversi quelli preparati in occasione della ricorrenza dei defunti e
nell’immediatezza della morte, tutti genericamente detti pane de sas animas,
pane delle anime; fatti di semola, hanno forma ovale o rotonda, di focaccia, o
pasta dura.
Ad Orani (Nuoro), quando il morto è ancora caldo, osteso in casa, le forme del
pane sono spianate, decorate con tre piccoli smerli equidistanti lungo la
circonferenza.
Prima di dargli la forma, la massaia si fa il segno della croce sussurrando
preghiere e invocazioni, modella la pasta soltanto con le mani, senza l’uso di
attrezzi metallici, incidendo con le unghie, conchiglie o steli di paglia.
Dopo la cottura è il primo pane ad essere offerto ai poveri,
est su primu chi ch’essit, è il primo che esce (di casa).
Se ne distribuisce uno a più famiglie povere; a volte, la distribuzione dura un
anno e spesso si protrae oltre nel tempo.
Si dice che se qualche persona dimentica di prepararlo, non adempie al voto,
allora i morti appaiono, ritornano in sogno per chiedere quanto dovuto.
Ad Orani, Ottana, Sarule, Orgosolo ed altre località del Centro-Nord
della Sardegna, si producono specialissimi pani distribuiti dai parenti del
defunto prima del funerale,
nella trigesima e nell’anniversario della morte;
in alcuni casi, la distribuzione avviene in altri tempi,
dopo aver sognato il trapassato che chiede di riconciliarsi con i vivi coi
quali aveva avuto dissapori.
“Nel caso di morto ammazzato, tutti i forni del paese vengono accesi,
compreso quello del parroco.
Anche quello di chi normalmente non panifica, deve essere attivato
gettando, dopo averlo mondato dalla brace, un pugno di farina nel forno
caldo in modo da far sentire l’odore di pane, indicando a chi deve di
panificare, di compiere il dovere dovuto al morto, per la pace nell’aldilà
e la riconciliazione nell’aldiqua”.[1]


[1] Testimonianza di Gonario Manconi di Orani, raccolta a Biella in occasione della
mostra del Pane (1999).
Anche in questi casi,
la consegna de su pane de sas animas
è fatta al calar delle tenebre,
da persone imbacuccate per non essere riconosciute.
Generalmente vengono consegnati tre pani.
A volte, su pane de sas animas può assumere forme elaborate;
altre ancora, mancando il tempo per panificare,
il pane ricevuto può essere spezzato in due o più parti per essere
offerto al nemico con il quale si deve fare pace.
Chi riceve il pane non sa chi sia l’offerente che vuole riconciliarsi
con lui.
Dal gesto, sa solo che è un nemico che vuole riappacificarsi nel
nome del morto,
invitandolo a far pace, a sua volta, con i suoi nemici.
In queste località,
quando in paese c’è il morto in casa,
bisogna lasciare la porta socchiusa e se, alla sera,
si sente bussare, si è certi che chi batte alla porta può essere un
nemico che vuole e deve riconciliarsi attraverso
su pane de anima,
per lasciare andare il morto in pace:
invito potente alla riconciliazione, alla ricomposizione sociale.
Sas animas, le anime,
sono un altro tipo di spianata preparata ad Orani (Nuoro), per la tavola dei
morti, caratterizzate da due tagli ortogonali diametralmente opposti, fatti a
rotella sulla pasta cruda, destinate ad essere frazionate come offerta alla
questua del 2 novembre.
In questa occasione vengono anche realizzati pani a forma di testa di
bovide, con corna all’ingiù: sono sas corroncias, le corna,
il pane per la tavola dei morti di Pozzomaggiore,
simili ad altri pane de animas, realizzati a Borore (Nuoro)
e a Quartucciu (Cagliari), riproducenti le figure zoomorfe
presenti in certi menhir, le pietre fitte della Sardegna centrale
e sulle pareti delle “domus de janas”, sepolcri scavati nella roccia,
diffusi a migliaia in tutta l’Isola, risalenti al V-IV millennio a.C., in cui sono
spesso scolpite protomi taurine e cervine, diritte e capovolte.
A Sindia (Nuoro), il pane della
tavola dei morti
è detto cuccuru mortu, la testa
da morto;
forrotula, focaccia con buco
centrale, a Bonorva (Sassari);
arenadeddas, melegrane, a
Quartucciu (Cagliari);
covazza de ria, focaccia
allungata, a Tresnuraghes
(Oristano),
in alcuni casi donati ancora
come “assolta”, obolo, a parenti
ed amici, ai poveri e ai bambini
questuanti nel Giorno della
commemorazione dei defunti.
Pane nuziale
Pane de s’affidu
A Nuoro,
presso il “Museo della vita
e delle Tradizioni popolari
Sarde”, sono custoditi pani
raccolti negli anni Sessanta del
Novecento dalla Cattedra di
Storia delle Tradizioni popolari
della Facoltà di Lettere e
Filosofia di Cagliari.
Realizzati con le migliori farine,
i pani nuziali
e quelli del fidanzamento
che precede le nozze,
allora come oggi,
dovevano uscire dal forno
ancora bianchi
A Lodè, è presente su mandatiu,
‘ciò che bisogna portare’,
realizzato in occasione del fidanzamento,
portato dalla futura sposa al padrino e alla madrina.
Tre sono i pani, realizzati per su mandatiu,
detti sas tres Marias, le tre Marie;
diversa la foggia a seconda del destinatario:
smerlato, quasi raggiato come un piccolo sole,
con uno o più fori al centro del pane, per il padrino;
senza fori e con frastagliature più piccole, quasi una luna piena, per la
madrina.
Il terzo per il paraninfo o per chi ha favorito il matrimonio.
A Pozzomaggiore, il matrimonio tradizionale avviene ancora entro le mura
domestiche con la madre, la parente anziana o la madrina, se la promessa
sposa è orfana,[1] per il rito del grano.
Sulla soglia della casa paterna,
“su un inginocchiatoio formato da cuscini con federe bianche si inginocchia
lo sposo o la sposa con gli occhi rivolti verso il mare più vicino.
Davanti si colloca la madre sacerdotessa che, mentre pronuncia la formula
augurale, lascia cadere lentamente sul capo della fanciulla, segnando una o
più croci, manciate di grano miste a fiori.”
[1] Enzo Espa, Benedizioni nuziali sarde dei parlanti la lingua sarda-logudorese, Presso
l’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Sassari, Memorie del seminario di Storia
della Filosofia della Facoltà di Magistero, 3, Sassari 1977, p. 24, a Sorso (Sassari), se la
sposa è orfana, il rituale vuole che si aggiungano dei versi che chiamino alla presenza i
genitori trapassati, p. es.: “babbu tou da inue est”.
A Romana (Sassari), la ragazza,
al momento dell’augurio,
cinge il suo capo con sa còtzula, una focaccia di semola,
che poi spezza e spartisce tra i commensali.[1]
Analoghe corone, su pane de isposos, il pane degli sposi,
si riscontrano in altre località, quali Cheremule (Sassari),
Olmedo (Sassari), Villagrande Strisaili (Ogliastra).


[1] Enzo Espa, Benedizioni nuziali sarde dei parlanti la lingua sarda-
logudorese, presso l’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Sassari,
Memorie del seminario di Storia della Filosofia della Facoltà di Magistero,
3, Sassari 1977, p.13.
A Pozzomaggiore (Sassari), le corone vengono portate in testa da
ragazze impuberi, in coppia, presso la soglia della casa degli
sposi, in piedi su una sedia.
Gettano il grano sugli invitati che escono dalla porta spalancata,
poi, il piatto viene gettato a terra con forza, ridotto in frantumi
davanti ai piedi del festeggiato.
Lungo il percorso verso la chiesa, il gesto, accompagnato da
formule bene augurali, viene ripetuto dalle donne del vicinato, che
si sporgono a benedire, ripetendo il fragoroso atto delle stoviglie
rotte.
Lo spaccare il piatto, oltre che all’offerta irripetibile, rimanda alla
rottura simbolica dell’imene che, di lì a poco, deve avvenire sul
talamo nuziale.
Pani che, portati in testa,
nella simbologia del matrimonio,
ereditano e tramandano segni di fertilità ed abbondanza risalenti
ai culti di antiche divinità:
il capo cinto da un cercine di fronde verdi
o di un semplice nastro o corda era distintivo
della disponibilità alla ìerodulia,
la copula sacra nei culti babilonesi,
fenici e punici, al servizio di Astarte.
Erodoto e Strabone ci riferiscono di antiche usanze
che dovevano precedere le nozze:[1]
“una legge babilonese, dettata da un oracolo, obbligava tutte le donne, nate
nel paese, a presentarsi una volta nella loro vita al tempio di Venere ed
abbandonarsi agli amplessi di uno straniero.
A Heliopoli le donne si prostituivano in onore di Venere.
Facevano lo stesso in Lidia pria del matrimonio.
In Cipro, pria di celebrare l’unione matrimoniale, le promesse spose andavano
il giorno indicato sulle rive del mare ad offrire il sacrificio della loro verginità
prostituendosi”.
Altre donne ricche si facevano portare, in carri coperti, nel recinto sacro che
circondava il tempio di Militta.
“Militta non è d’essa, d’altro canto, la dea di tutti i popoli, la suprema
generatrice? Perciò Erodoto la chiama Venere.
[1] Fabio Mora, Religione e Religioni nelle storie di Erodoto, Edizioni Universitarie Jaca,
Milano 1985, p. 240. Erodoto, 1,55, Strabone, I, 199 XVI, riportato da Melchiorre Gioja,
Filosofia della statistica, presso Giovanni Pirotta, Milano 1826, p. 282 – cfr. anche Ferrara
Pignatelli 1991, p. 94
Pane nuziale
lucidato/scottato
de iscadda/ischedda
Pani a forma di corona o diadema, con nomi diversi a seconda delle zone,
sono presenti in moltissimi matrimoni sardi.
L’uso di incoronare, come eredità del mondo antico, si manifesta
attraverso rituali che segnano momenti importanti della vita, oppure feste
o semplici banchetti.
In passato, diversi elementi potevano essere usati per cingere il capo:
serti di alloro, di ulivo o mirto, per i maschi; ghirlande di fiori,
particolarmente rose, per le fanciulle; fiori d’arancio nel caso delle spose
saracene
per i Cristiani, il fiore d’arancio nelle ghirlande nuziali significa purezza,
castità e verginità; nel mondo greco, è un emblema di Diana, perché le
arance erano ritenute le mele d’oro delle Esperidi.
Una cascata di fiori d’arancio caratterizza su pane de s'affidu di
Pozzomaggiore, dove sono presenti anche altri elementi, tra cui piccole calle,
fiori della famiglia delle Araceæ, con lo spadice eretto, ben evidente;[1] sas
melas, melegrane; alcune pigne, rappresentazione dell’esaltazione della
potenza vitale e glorificazione della fecondità, rappresentazione dell’eterno
ritorno della vegetazione e, in generale, della vita; due paia uccelli, immagine
plastica rafforzata della futura coppia accanto al nido in cui procreare.


[1] La calla, nelle sue molte varietà coltivate e selvatiche, è presente in Europa, Africa Settentrionale ed Asia
Occidentale. Conosciuto da Egizi, Ebrei e Greci come “fuoco, calore”. Il nome scientifico deriva dalla
particolare caratteristica catabolica, consistente nella maggiore temperatura - da 5°C a 15°C - che si registra
all’interno dell’infiorescenza, grazie alla forma paraboloide, sempre rivolta a Sud, che favorisce la
concentrazione dei raggi solari lungo l’asta dello spadice.
La pianta, utilizzata in medicina popolare per curare reumatismi e far ricrescere i capelli, è velenosa in ogni
sua parte. Con la cottura perde parte del suo potere venefico: resi commestibili, i rizomi venivano mangiati.
L’Arum viene ancora utilizzato a Pozzomaggiore (SS) per preparare sas cogones de berdas, focacce dolci di
ciccioli: la pasta, edulcorata con uvetta, viene distesa su foglie di tataruju, cavolo o calla prima di essere
infornata. L’impiego, già citato da Aristotele, colloca sas cogones de berdas nell’universo folclorico europeo,
caratterizzato, nei riti di inizio anno, dallo scambio materiale-immateriale di dono-controdono: antiche
cerimonie di rinascita e propiziazione di salute e abbondanza.
Nell’abbigliamento tradizionale, sebbene un po’ irritanti per la pelle, rizomi di Arum ridotti in polvere e
mescolati a farina erano impiegati per inamidare gli indumenti.
Sempre a Pozzomaggiore, il pane nuziale che viene posto sulla tavola dei
commensali è detto de iscadda, lucidato o de ischedda, scottato. A seconda del
variare della lettera ‘a’ in ‘e’, si rimanda a diversa esegesi.[1] Entrambe le accezioni
contemplano la tecnica dell’esposizione del pane a metà cottura al vapore acqueo
per essere nuovamente infornato, ottenendo una superficie lucidata.[2]


[1] Salvatore Dedola, Pani della Sardegna, cit., pp. 267-268: “Letteralmente significa
‘pane con forfora’, dal logudorese scatta, iscadda ‘forfora’. L’etimologia riposerebbe
nell’assiro ‘sikkatu(m), ‘unghia, tassello, picchetto, spina’. Ischeddare significa
‘rimanere scottato, scaltrirsi dall’esempio altrui, apprendere a spese altrui, con la
differenza che nel lemma relativo al pane is- non è privativo ma rafforzativo: is- +
accadico ‘hadû(m) ‘essere gioioso, Rallegrarsi (di un’azione): come dire ‘rafforzare
un’azione gioiosa’.
[2] Paolo Piquereddu (coordinamento), Pani, tradizioni e prospettive della
panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2005, p. 207, sono riprodotte immagini di
pani provenienti da Lodè, Bonorva, Thiesi e Chiaramonti,
Con su pane de iscadda si indica il pane lucidato, alquanto
piatto, generalmente rotondo, modellato per occasioni
festive importanti come Pasqua e matrimonio.
Le forme circolari, diffusissime, possono essere più o meno
frastagliate, se indicano il sole; in questo particolare caso,
oltre a raggi, sono presenti intagli; se rappresentano la
luna, la circonferenza risulta più lineare, liscia, omogenea,
con pochi semplici festoni di dimensioni ridotte, il centro
liscio, a volte con qualche timbratura per evitare che il pane
si gonfi, ma senza decorazioni con pasta riportata.
“Nella maggior parte delle tradizioni il Sole è il Padre
universale e la Luna la Madre.
Il sole e la pioggia sono le primarie forze fertilizzanti, di
conseguenza lo sposo è il sole e la sposa è la luna, il Padre è
il Cielo e la Madre è la Terra.
Il sole e la luna, assieme, rappresentano il potere maschile e
quello femminile in congiunzione.
Simboli del sole sono la ruota, il disco, il cerchio ruotanti con
un punto centrale, il cerchio radiante, la svastica, i raggi sia
diritti sia ondulati che rappresentano la luce e il calore del
sole.”
Nel mondo contadino, la migliore annata agraria si ha quando i calendari
lunare e solare coincidono e si sovrappongono all’equinozio di primavera.
Avviene, allora, il matrimonio del Sole con la Luna, con il primo che entra
nella costellazione dell’Ariete, mentre la Luna piena, “fecondata”, ne
riflette i raggi luminosi.[1]
A Thiesi (Sassari), viene fatto su poddine, a forma di mezzaluna, una
spianata preparata con sa podda, fior di farina, martellata in superficie con
la punta delle dita per far sì che, durante la cottura, lo strato superiore si
separi da quello inferiore.
Tagliato con la rotella in due mezze lune dal bordo ondulato, veniva
donato dagli sposi ai convenuti, che lo portavano a casa in segno bene
augurale.[2]


[1] Battista Saiu Pinna, Il vestito della Luna, Sinnos n. 2, Biella 2008, p. 18. Secondo i
dettami del Concilio di Nicea (325), la Pasqua cristiana, non deve mai coincidere con
quella degli Ebrei e cadere la domenica successiva al formarsi della prima Luna piena
dell’equinozio di primavera, computata non con il sistema giudaico in modo che non
possa mai essere anticipata all’equinozio. A Pasqua il simulacro nero della Mater
dolorosa, nella catarsi del lutto, diventa la Turris eburnea che si illumina di luce con la
resurrezione di Gesù.
[2] Pani. Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna. Iisso Edizioni,
Nuoro 2005, pp. 155 e 157
A Chiaramonti (Sassari), su pane ischeddadu, assume lungo la
circonferenza motivo a testina di uccello, animale simbolo universale del
rapporto tra cielo e terra, messaggero degli dèi, tra ciò che sta in alto e
l’uomo, che sta in basso sulla terra.
Oltre alla vasta gamma tondeggiante, il pane festivo diventa fronda,
mannello di spighe,[3] fascio di fiori, come nei pani portati in chiesa
all’offertorio in occasione di alcune feste, a Terralba e a Villaurbana.
Particolarmente raffinati i cosiddetti su coccoi pintau, a Villaurbana e a
Tramatza; coccoi e pane de isposos, a Dorgali, a Settimo San Pietro e a
Paulilatino.
Universalmente diffusa la forma a cuore, utilizzata in più occasioni.
Molto particolari i pani a forma di borsetta presenti a Ossi (Sassari), a
Orune (Nuoro), a Urzulei (Ogliastra), a Bitti (Nuoro), a Lodè (Nuoro), a
Quartu Sant’Elena (Cagliari), a Borore, a Sedilo, a Noragugume
(Nuoro) e a Busachi.
A Pozzomaggiore, borse, borsette e cestini, rigorosamente fatti in
iscadda, di aspetto diverso a seconda della maestria delle panificatrici,
rimandano al “potere femminile di contenere e luogo di conservazione,
quindi vita e salute; preservare quel che è prezioso o ritenuto tale”.
In iscadda si fanno cuori, colombe, rondini e cavallini, a
Pozzomaggiore, ed in altre località del circondario; Pozzomaggiore,
inoltre, condivide con Bonorva un particolare tipo di pane a forma di
scarpetta muliebre, immancabilmente presente sul desco nuziale.
Con il suo significato ambivalente, la scarpa denota “libertà poiché lo
schiavo andava a piedi scalzi; anche controllo, poiché il controllo delle
scarpe equivale al controllo della persona; quindi detenere la scarpa
della sposa, stabilisce il possesso di quest’ultima da parte dello
sposo”.
Ad Atzara, è in vigore l’usanza di donare un paio di scarpe nuove al
paraninfo, il mediatore che favorisce il matrimonio.[1]
Si tratta di una consuetudine che trova riscontro nella Bibbia, nel libro di
Rut, là dove si afferma che ”una volta in Israele esisteva questa vecchia
usanza relativa al diritto di riscatto o della permuta, per convalidare ogni
atto: uno si toglieva il sandalo e lo dava all’altro; era questo il modo di
attestare in Israele”.[2]
Il ruolo della calzatura passa dal possesso della terra, al possesso, anche
in senso copulativo, della futura sposa: “Quando acquisterai il campo dalla
mano di Noemi, nell’atto stesso tu acquisterai anche Rut, la Maobita”.[3]


[1] Testimonianza di Domenico Corongiu e Maria Giuseppa Serra, nati nel 1946 ad
Atzara (Nuoro), sposi nell’ottobre 1968 a Genova, grazie dal sensale Antonio De Melas,
detto - presagio nel nome - “Pilleddu”, nomina sunt omina.
[2] La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma 1974, Rut 4,7,. p. 229.
[3] La Sacra Bibbia, ibidem, Rut 4,5,. p. 229.
Claudio Eliano, rètore romano del III secolo, autore di un’opera in greco
(Sulla natura degli animali), racconta di un’aquila che rubò un sandalo a
Rodope, mentre faceva il bagno, per portarlo al faraone che, colpito dalla
finezza del piede, fece ricercare la giovane, che ritrovata, diventò sua sposa.
Alle vicende della giovane si sarebbe ispirato Charles Perrault per scrivere la
fiaba di Cenerentola, in cui, come nell’antico racconto, comporta una
identificazione della scarpa con la persona.
Nelle canzoni alpine di veglia, la ragazza da corteggiare viene identificata
con le scarpette, generalmente di colore rosso.
Analogamente, in Sardegna, “s’iscarpitta de comare, andat bene a su pe
meu”, la scarpina di comare, va bene al mio piede.[1]
“Alcuni interpreti fanno di questo simbolo di identificazione un simbolo
sessuale, o quantomeno del desiderio sessuale risvegliato dal piede. Coloro
che considerano il piede come un simbolo fallico vedranno facilmente nella
calzatura un simbolo vaginale e, fra i due, un problema di adattamento
capace di generare angoscia”.


[1] “Tumba su ballu per deu/Tumbalu e lassalu andare/S'iscarpitta de comare/Anda bene
a su pe' meu/Dìlliri di dìlliri di dèlla/Dìghirirì di dilliri di della liròi, Cerca il ballo per dio/
Cercalo e lascialo andare/La scarpetta di comare/Va bene al piede mio/Dìlliri di dìlliri di
dèlla/Dìghirirì di dilliri di della liròi”i.
I piedi non stanno mai fermi,
difficilmente comodi nelle scarpe,
mossi da eterna inquietudine,
alla ricerca di stabilità;
sono base e appoggio alla terra, alla materia, alla Mater, la Madre-terra,
generatrice e custode di tutte le cose.
Oggi, la “materia” rimane un concetto arido, disumano puramente
intellettuale, privo per noi di qualunque significato psichico.
Quanto diversa era l’antica immagine della materia - la Grande Madre -,
capace di abbracciare e di esprimere il profondo significato emotivo della
Madre Terra!” [1]


[1] Carl Gustav Jung, l’uomo e i suoi simboli, Tea, Milano 2005, p. 76.
Pani tipici 

e patate ossolane
dott. Luca Ciurleo
I pani tradizionali ossolani
Dal Credenzin al Pan ad Pasquetta
I “pani di credenza”
• Credenzin, crescenzin, carsantin,
pupin, crescianzin o anche
crescenza
• Si tratta degli avanzi della
panificazione arricchiti con gli
“avanzi di credenza”
• Zucchero, frutta secca, mele,
burro
I “pani di credenza”
Oggi vengono utilizzati come
pani speciali (antipasto), un
tempo erano veri e propri dolci
• Torta “vigezzina”
• Utilizzo degli avanzi di pane
ammollati nel latte ed arricchiti di
prodotti vari di credenza
Il pan ad Pasquetta
Giosio, frazione di Montecrestese
Ogni anno si prepara il pane in
occasione di Pasquetta, il lunedì
dell’Angelo
Festa organizzata dal gruppo di
frazionisti “Qui da Gios”
Il pan ad Pasquetta
Pane nero di segale cotto nel
forno a legna della frazione
I fondi ricavati servono per
restaurare le zone storiche della
frazione (forno, torchio…)
Gli “amiasc”
Sfoglie di acqua e farina
Somiglianze con la miaccia valsesiana o con il testo romagnolo,
preparati sul fuoco utilizzando una piastra rovente di ferro
Conosciuti anche come stinchett o runditt
Diffusi in tutto l’arco alpino
Il forno del pane
A Montecrestese in frazione Pontetto si è deciso, su volontà dei
frazionisti, di restaurare il forno frazionale, allestendo un piccolo
museo etnografico (di vecchia concezione), con reperti donati
dalla popolazione
La panificazione
Importanza della panificazione, una volta all’anno, a cura del
panificio Conti di Coimo, come da tradizione
Si inizia alle 4 del mattino con la preparazione dell’impasto e la
sua conservazione nella madia, dove lievita per alcune ore, e
viene cotto nel forno precedentemente scaldato
Ricostruita la “panera”, con tanto di graticcio
Il forno, come da tradizione, viene acceso giorni prima, per
portarlo in temperatura
Il pane di Altoggio
Festa patronale di san Giovanni
Nel 2013 nasce il Pane di
Altoggio, ideato dal panificio
Meneghello di Crodo
Alla base una pasta madre di
oltre 120 anni
Il pane di Altoggio
Ingredienti: 100% di farina
integrale macinata a pietra e
cotto nel forno a legna frazionale
Ricetta inventata da Germano
Meneghello
Il Pan Sagra
A Montecrestese si svolge da 21 anni la Sagra della Patata
Inventato il “Pan Sagra” a base di patate
Una storia di successi
ed insuccessi…
L’arrivo della patata
Importata dal Nuovo mondo, la sua coltivazione fu, in un primo
momento, osteggiata: era vista più come pianta ornamentale che
come alimento
Alimento coltivato e mangiato dagli indios, popoli su cui si
dibatteva se fossero figli “di Dio o del demonio”
Grande diffidenza verso il tubero
L’arrivo della patata
Ancora nel 1777, con la grande carestia, i contadini preferivano
morire di fame che cibarsi di patate
Inizialmente si consumavano bollite, ancora calde,
semplicemente spellate e salate
Problema della mancata selezione delle sementi: la polpa era
acida ed acquosa
L’arrivo della patata
XVIII secolo, Germania e Francia
Prima introdotta nelle diete dei nobili, quindi in quelle delle fasce
più povere, in risposta anche alla carestia
Napoleone Bonaparte la utilizzò come derrata alimentare e
farina da panificazione poiché meno deteriorabile e più
facilmente trasportabile rispetto al frumento
L’arrivo della patata
Antoine Parmentier, Versailles
1813: era in atto una vera e propria opera di proselitismo nei
confronti di questo tubero
In poco tempo riuscirono ad entrare prepotentemente nella
dieta, scalfendo anche il primato di legumi, castagne e polenta
1816-17: grande carestia
La nomenclatura
Inizialmente si utilizzò un calco della dizione francese: pomo di
terra
Si passò al termine di origine spagnola: patata
Il termine dialettale con cui erano conosciuti era “tartifole”
L’influenza economica
Grande redditività della patata: un campo coltivato a frumento
poteva sfamare una famiglia, uno coltivato a patate ne poteva
sfamare tre!
Non si necessitavano grandi appezzamenti di terreno
pianeggiante, così anche i territori montani, inizialmente
considerati poveri, diventarono improvvisamente redditizi
San Giovanni Bosco le definì “una miniera d’oro”
La patata in Ossola
La sua coltivazione 

in Ossola
2008: coltivati 45 ettari per un raccolto di poco inferiore ai 3.500
quintali
Un tempo fu però particolarmente importante e coltivata da
quasi tutte le famiglie negli orti per autosussistenza
La sua coltivazione 

in Ossola
Stefano Calpini, 1880, Indagine sull’agricoltura ossolana:
«In Ossola non si coltiva che la patata (solanum tuberosum) […].
Il nostro terreno siliceo è adattissimo per tal genere di pianta. Le
patate poi che vengono raccolte nel nostro circondario al disopra
(sic!) dei 600, 700, 800 metri sul livello del mare sono
squisitissime, e sono degne di menzione speciale, pella loro
straordinaria bontà, quelle che si coltivano in Valle Vigezzo ed a
Trasquera. […] Sebbene in Ossola sia un prodotto importante
quello della patata, pure sarebbe suscettibile di molto maggiore
sviluppo questa coltura se fosse meglio trattata»
La sua coltivazione 

in Ossola
Stefano Calpini, 1880, Indagine sull’agricoltura ossolana:
«sfortunatamente i nostri contadini hanno ancora il vieto
sistema di seminare in volata i pezzetti di tubero, e per di più in
un terreno leggermente smosso, invece di disporre i semi in fila
regolari in modo che fra pianta e pianta non vi sia uno spazio
minore di centimetri cinquanta e di disporli in un terreno
vangato a maggiore profondità»
La sua coltivazione 

in Ossola
Secondo Albertazzi venivano coltivate due varietà di patata:
Quelle bianche, «molto grosse e maturano d’agosto e sono i più
dolci»
Quelle rosse, che «si cavano in ottobre prima della brina, che le
fa sfracellare, sono più piccole, ma men dolci e più consistenti.
Coltivate a dovere rendono molto»
La sua coltivazione 

in Ossola
Ad introdurre la coltivazione della patata in Ossola fu, secondo la
leggenda, Caterina Pollini vedova Besana, che, alla morte del
marito, portò a Coimo, al curato, i cosiddetti “tartiful dal priu”
Tra Sette ed Ottocento si coltivavano a Malesco, Agaro,
Formazza, Salecchio, nelle valli Anzasca ed Antrona ed a
Montecrestese
La sua coltivazione 

in Ossola
Nel 1845 la coltivazione della patata era già una realtà
produttiva molto importante per l’Ossola
Secondo Carlo Cavalli, nel suo “Cenni statistici della Valle
Vigezzo”, «i pomi di terra ossieno patate forniscono il principale
alimento degli agricoltori… la loro coltura è già estesa e
produttiva in Vigezzo»
La sua coltivazione 

in Ossola
Goffredo Casalis:
«Le patate vi forniscono il principale alimento degli agricoltori. Vi
sono esse di una squisita qualità, di color giallo citrino,
sommamente farinacee e asciutte, così che bollite
semplicemente nell'acqua non solo riescono un cibo a tutti
gradito ma eziandio molto nutriente. L'esperienza dimostrò
infatti che le famiglie le quali si alimentano esclusivamente di
patate sono le più vegete, le più robuste ed in questo novero si
puonno comprendere i tre quinti degli abitanti del mandamento».
La sua coltivazione 

in Ossola
Goffredo Casalis:
«Ella è cosa notabile che la specie delle patate della val Vigezzo
non si vegga in nessuna parte d'Italia e che trasportata fuori dal
suolo della valle degenera presto in una specie molto inferiore,
assai meno grata e nutriente perdendo le principali qualità, cioè
il farinaceo e l’asciutto».
Da “Dizionario Geografico, Storico, Statistico, Commerciale Degli
Stati Sardi"
La reintroduzione della
patata 

di montagna
Anna Maria Francini

Azienda Agricola Francini
Druogno (Val Vigezzo)
Turismo
enogastronomico in
Piemonte e nel VCO
Dott. Samuel Piana
Landexplorer founder
quando il cibo diventa una motivazione per la scoperta del territorio
Turismo: una parola dai molti
significati
Con questa parola spesso ci si sofferma sulla definizione data
dal WTO e cioè l’importanza della motivazione non economica ed
il tempo trascorso..ma si tralascia che cos’è il turismo in pratica:
UN FLUSSO MOTIVATO
per intercettare questo flusso la destinazione presenta le sue
eccellenze
l’Italia annovera tra le eccellenze più ricercate proprio il
“mangiare e bere bene”
Turismo: una parola dai molti
significati
Il turismo non è un settore economico!
Il flusso motivato di persone ha diverse esigenze che creano
aspetti di economia diversa - quindi il turismo è intersettoriale!
La società postmoderna ha cambiato il modo di vivere i momenti
di svago: da momenti liberi di massa a momenti di “relax”
individuali
Il turismo è un fenomeno dinamico e complesso da monitorare:
anni ’50 4S: Sea, Sand, Sun, Sex - oggi le 3L: Leisure, Landscape,
Learning - futuro 4E (Environment and clean nature, Educational
tourism, Event and mega Event, entertainment and fun)
Internet ha cambiato profondamente il modo di approcciarsi alla
destinazione
Tutta l’offerta turistica deve indirizzarsi a presentare al visitatore
il genius loci della destinazione!
Qualche dato
Il turismo, in generale, ha saputo reggere meglio alla crisi
economica internazionale: il 2008 è stato l’anno con più crescita
di arrivi e permanenze sul territorio (il Piemonte è traino) nel
2009 c’è flessione, ma nel 2012 sia ENIT sia WTO descrivono una
crescita del 4% di arrivi di turisti stranieri sul 2011
La crescita del turismo è stata più forte nelle economie
emergenti
L’Italia si posiziona al 5° posto come percezione ed aspettative
turistiche, al 7° come destinazione
Qualche dato-turismo
piemontese
Il turismo in Piemonte cresce in maniera quasi esponenziale anche
se in modo disomogeneo
Torino e provincia +51% assieme a Langhe e Monferrato +130% di
presenze tra il 2004 ed il 2013
L’Alto Piemonte (Vercelli, Biella, Novara e Verbania) dal 2004 al 2013
ha una crescita di presenze del 35,80% con Biella e Vercelli con
delta negativo (-10% e -2,50%) VCO cresce in 10 anni del solo 20%!
L’Alto Piemonte rappresenta: 1/4 del territorio piemontese, 1/5 dei
residenti e solo 1/3 del mercato turistico (nel 2004 eravamo al
primo posto!)
Turismo enogastronomico:
definizione
È una tipologia di turismo, nata sostanzialmente negli anni ’90, che
vede il turista disposto a spostarsi dalla propria località di residenza
al fine di raggiungere e comprendere la cultura di una destinazione
nota per una produzione agroalimentare di pregio, entrare in
contatto diretto con il produttore visitare l’area destinata alla
elaborazione della materia prima e al successivo confezionamento,
degustare in loco ed eventualmente approvvigionarsi personalmente
delle specificità!
Turismo enogastronomico:
definizione
N.B.: se manca uno dei momenti individuati nella definizione appena
accennata non ci troviamo più nel filone del “turismo
enogastronomici” bensì nel filone più ampio del turismo rurale!
Identikit del turista
enogastronomico
il turista enogastronomico: denominato anche “gastronauta" o
“foodtrotter” (Croce e Perri)
30-50 anni, cultura medio-alta, si muovono in famiglia o con
amici (niente viaggi organizzati)
si muovono nel fine settimana (preferibilmente di sabato!),
viaggi di breve raggio
aspetto gastronomico o evento gastronomico è il primo punto
della loro agenda di incontro con il territorio!
Qualche dato
Il turismo enogastronomico (fonte Coldiretti) vale 5 MILIARDI
Made in Italy Food: 172 prodotti (DOP/IGP)
469 vini a denominazione DOC/DOCG/IGT
284 varietà d’olio, 42 varietà di pane
4396 prodotti tradizionali regionali
…e ancora…
1438 tipi diversi di pane, pasta e biscotti
1304 verdure fresche e lavorate
764 salami, prosciutti, carni fresche ed insaccati di diverso genere
472 formaggi
174 prodotti composti o prodotti di gastronomia
…e ancora…
159 tra bevande analcoliche, liquori e distillati
155 prodotti di origine animale (miele e lattiero-caseari escluso il
burro)
147 preparazioni di pesci, molluschi e crostacei
4698 sono le specialità alimentari prodotti in Italia
Agriturismo: strumento per lo sviluppo
del turismo enogastronomico
Se il turismo enogastronomico ha avuto grande sviluppo grazie
al riconoscimento delle “strade del vino”, anni ’90, come primo
sviluppo della tipologia di turismo
Solo con la legge n. 730 del 1985 (rivista nel 2006) “Disciplina
dell’agriturismo” si è giunti ai primi veri e propri pernottamenti
in aree di interesse enogastronomico
Enogastronomia ed immagine
del Piemonte
La stampa estera definisce il Piemonte come una destinazione:
emergente, raffinata, variegata e dall’ottimo rapporto qualità
prezzo
Uno dei motivi più gettonati per venire a visitare il Piemonte è
l’Enogastronomia con ben il 43,82%!
e nel VCO?
Nel VCO il turismo enogastronomico potrebbe essere uno dei punti
di sviluppo per le aree lontane dai laghi (80% del territorio
provinciale)
i PAT (prodotti agroalimentari tradizionali - 25 anni, lavorazione
tradizionale) del VCO sono 34
14 derivanti dalla trasformazione della carne
6 formaggi
e nel VCO?
2 prodotti caseari diversi dal formaggio
1 miele distinto nelle varie denominazioni
1 preparazione ittica
8 prodotti da forno
1 produzione vegetale
1 bevanda alcolica
La sagra come sostegno e
presentazione di prodotti di nicchia
Il VCO ha diverse produzioni agroalimentari purtroppo segnate
da quantità esigue
Le Sagre possono essere una soluzione o un “rimedio” alla
difficoltà di distribuzione dei prodotti
Ricordiamo però l’importanza per il turista enogastronomici di
poter visitare e comprare in loco i prodotti - quindi no a sagre di
sola promozione del prodotto!
Maggiore integrazione tra
produttori e filiera turistica
Visto le produzioni esigue oltre alle sagre ed ai mercati a KM 0 è
importante una integrazione con filiere complementari ristoranti
e alberghi
“Serate di Gola” manifestazione della CCIAA del VCO negli ultimi
anni sta dimostrando l’importanza di queste integrazioni
Manca ancora un sistema di distribuzione efficace ed efficiente!
La tradizione artistica
Vigezzina
Giuseppe Possa
La Valle dei pittori…
Una delle vallate maggiormente turistiche del Vco è senza
dubbio la Vigezzo, che ha saputo sfruttare la sua “tradizione” a
livello turistico
Turismo estivo ed invernale
La Valle degli spazzacamini
Invenzione dell’acqua di Colonia, acque minerali
La Valle dei pittori
Carlo Fornara
Mucche al pascolo
Francesco Giorgis “Pantona”
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Gian Maria Rastellini
Stalla
Carlo Fornara
Senza titolo
Enrico Cavalli
Natura morta
Dario Giorgis
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Alfredo Belcastro
Pascolo in val Vigezzo
Carlo Mattei
Natura morta
Conclusioni
Pane, patate 

e tradizione
20 giugno 2015
16.45 - 17.45
Aula del futuro
Future Food District

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EXPO 2015 - Pane Patate e Tradizioni protagoniste al Future Food District COOP

  • 1. Pane, patate 
 e tradizione 20 giugno 2015 16.45 - 17.45 Aula del futuro Future Food District
  • 2. Ordine interventi Claudia Bersani, Area politiche sociali di Novacoop prof. Battista Saiu, curatore Museo dell’uomo di Ginevra - La ritualità del pane ieri e oggi dott. Luca Ciurleo, antropologo culturale - Pani tipici e patate ossolane
  • 3. Ordine interventi Anna Maria Francini - azienda agricola Francini, Druogno - La reintroduzione della patata di montagna in Ossola Dott. Samuel Piana, agenzia di web marketing territoriale Landexplorer - Turismo enogastronomico Giuseppe Possa, critico d’arte, curatore del blog PQlascintilla - La tradizione artistica vigezzina
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  • 8. Si dice che la Sardegna ha un «cuore di pane»: l’isola è divenuta celebre ben al di là delle frontiere italiane poiché ancor oggi le donne utilizzano per ogni tipo di pane una farina particolare, una tecnica di lavorazione diversa ed una attenzione particolare in ogni istante della lavorazione. La produzione ed il consumo del pane segnano fisicamente e simbolicamente il passare del tempo. Il solo scambio di questo alimento cementa l’alleanza fra i vivi ed i morti.
  • 9.
  • 10. Per gli sponsali, la celebrazione di una prima messa, in onore di un santo particolarmente venerato o in ricorrenze eccezionali, in tutta la Sardegna, vengono realizzati pani artistici, rituali, cerimoniali e votivi. Numerosissime le forme, peculiari di una vita che riversa in esse la fantasia di un intero popolo: plasmato da mani sapienti, il pane si trasforma in corone, rami, cestini, fiori, foglie, uccelli; simboli di antica e nuova religiosità, ereditata e tramandata attraverso l’oralità, il gesto e la parola.
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  • 24. Per i Sardi, il pane e l'arte della panificazione sono gli archivi, il tesoro della loro scienza e della loro religione, della loro teogonia (la narrazione mitologica dell'origine degli dèi e della loro discendenza) e della loro cosmologia (la scienza che ricerca e studia le leggi costitutive dell'universo), dei fatti antichi dei loro padri e degli eventi della loro storia, la eco del loro cuore, l'immagine della vita domestica nella gioia e nel dolore, accanto al letto nuziale ed alla tomba.
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  • 36. In questi giorni, la Regione Autonoma della Sardegna si candida al riconoscimento UNESCO del pane tipico isolano, forte di uno studio europeo che assegna all’Isola l’80% dei pani tipici italiani.
  • 37. Pane dei morti Pane de sas animas Orani (Nuoro)
  • 38. Il culto dei morti in Sardegna è corredato di pani propri. Diversi quelli preparati in occasione della ricorrenza dei defunti e nell’immediatezza della morte, tutti genericamente detti pane de sas animas, pane delle anime; fatti di semola, hanno forma ovale o rotonda, di focaccia, o pasta dura. Ad Orani (Nuoro), quando il morto è ancora caldo, osteso in casa, le forme del pane sono spianate, decorate con tre piccoli smerli equidistanti lungo la circonferenza. Prima di dargli la forma, la massaia si fa il segno della croce sussurrando preghiere e invocazioni, modella la pasta soltanto con le mani, senza l’uso di attrezzi metallici, incidendo con le unghie, conchiglie o steli di paglia. Dopo la cottura è il primo pane ad essere offerto ai poveri, est su primu chi ch’essit, è il primo che esce (di casa). Se ne distribuisce uno a più famiglie povere; a volte, la distribuzione dura un anno e spesso si protrae oltre nel tempo. Si dice che se qualche persona dimentica di prepararlo, non adempie al voto, allora i morti appaiono, ritornano in sogno per chiedere quanto dovuto.
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  • 40. Ad Orani, Ottana, Sarule, Orgosolo ed altre località del Centro-Nord della Sardegna, si producono specialissimi pani distribuiti dai parenti del defunto prima del funerale, nella trigesima e nell’anniversario della morte; in alcuni casi, la distribuzione avviene in altri tempi, dopo aver sognato il trapassato che chiede di riconciliarsi con i vivi coi quali aveva avuto dissapori. “Nel caso di morto ammazzato, tutti i forni del paese vengono accesi, compreso quello del parroco. Anche quello di chi normalmente non panifica, deve essere attivato gettando, dopo averlo mondato dalla brace, un pugno di farina nel forno caldo in modo da far sentire l’odore di pane, indicando a chi deve di panificare, di compiere il dovere dovuto al morto, per la pace nell’aldilà e la riconciliazione nell’aldiqua”.[1] 
 [1] Testimonianza di Gonario Manconi di Orani, raccolta a Biella in occasione della mostra del Pane (1999).
  • 41.
  • 42. Anche in questi casi, la consegna de su pane de sas animas è fatta al calar delle tenebre, da persone imbacuccate per non essere riconosciute. Generalmente vengono consegnati tre pani. A volte, su pane de sas animas può assumere forme elaborate; altre ancora, mancando il tempo per panificare, il pane ricevuto può essere spezzato in due o più parti per essere offerto al nemico con il quale si deve fare pace. Chi riceve il pane non sa chi sia l’offerente che vuole riconciliarsi con lui. Dal gesto, sa solo che è un nemico che vuole riappacificarsi nel nome del morto, invitandolo a far pace, a sua volta, con i suoi nemici.
  • 43.
  • 44. In queste località, quando in paese c’è il morto in casa, bisogna lasciare la porta socchiusa e se, alla sera, si sente bussare, si è certi che chi batte alla porta può essere un nemico che vuole e deve riconciliarsi attraverso su pane de anima, per lasciare andare il morto in pace: invito potente alla riconciliazione, alla ricomposizione sociale.
  • 45.
  • 46. Sas animas, le anime, sono un altro tipo di spianata preparata ad Orani (Nuoro), per la tavola dei morti, caratterizzate da due tagli ortogonali diametralmente opposti, fatti a rotella sulla pasta cruda, destinate ad essere frazionate come offerta alla questua del 2 novembre. In questa occasione vengono anche realizzati pani a forma di testa di bovide, con corna all’ingiù: sono sas corroncias, le corna, il pane per la tavola dei morti di Pozzomaggiore, simili ad altri pane de animas, realizzati a Borore (Nuoro) e a Quartucciu (Cagliari), riproducenti le figure zoomorfe presenti in certi menhir, le pietre fitte della Sardegna centrale e sulle pareti delle “domus de janas”, sepolcri scavati nella roccia, diffusi a migliaia in tutta l’Isola, risalenti al V-IV millennio a.C., in cui sono spesso scolpite protomi taurine e cervine, diritte e capovolte.
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  • 51. A Sindia (Nuoro), il pane della tavola dei morti è detto cuccuru mortu, la testa da morto; forrotula, focaccia con buco centrale, a Bonorva (Sassari); arenadeddas, melegrane, a Quartucciu (Cagliari); covazza de ria, focaccia allungata, a Tresnuraghes (Oristano), in alcuni casi donati ancora come “assolta”, obolo, a parenti ed amici, ai poveri e ai bambini questuanti nel Giorno della commemorazione dei defunti.
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  • 54. Pane nuziale Pane de s’affidu
  • 55. A Nuoro, presso il “Museo della vita e delle Tradizioni popolari Sarde”, sono custoditi pani raccolti negli anni Sessanta del Novecento dalla Cattedra di Storia delle Tradizioni popolari della Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari. Realizzati con le migliori farine, i pani nuziali e quelli del fidanzamento che precede le nozze, allora come oggi, dovevano uscire dal forno ancora bianchi
  • 56. A Lodè, è presente su mandatiu, ‘ciò che bisogna portare’, realizzato in occasione del fidanzamento, portato dalla futura sposa al padrino e alla madrina. Tre sono i pani, realizzati per su mandatiu, detti sas tres Marias, le tre Marie; diversa la foggia a seconda del destinatario: smerlato, quasi raggiato come un piccolo sole, con uno o più fori al centro del pane, per il padrino; senza fori e con frastagliature più piccole, quasi una luna piena, per la madrina. Il terzo per il paraninfo o per chi ha favorito il matrimonio.
  • 57.
  • 58. A Pozzomaggiore, il matrimonio tradizionale avviene ancora entro le mura domestiche con la madre, la parente anziana o la madrina, se la promessa sposa è orfana,[1] per il rito del grano. Sulla soglia della casa paterna, “su un inginocchiatoio formato da cuscini con federe bianche si inginocchia lo sposo o la sposa con gli occhi rivolti verso il mare più vicino. Davanti si colloca la madre sacerdotessa che, mentre pronuncia la formula augurale, lascia cadere lentamente sul capo della fanciulla, segnando una o più croci, manciate di grano miste a fiori.” [1] Enzo Espa, Benedizioni nuziali sarde dei parlanti la lingua sarda-logudorese, Presso l’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Sassari, Memorie del seminario di Storia della Filosofia della Facoltà di Magistero, 3, Sassari 1977, p. 24, a Sorso (Sassari), se la sposa è orfana, il rituale vuole che si aggiungano dei versi che chiamino alla presenza i genitori trapassati, p. es.: “babbu tou da inue est”.
  • 59.
  • 60.
  • 61. A Romana (Sassari), la ragazza, al momento dell’augurio, cinge il suo capo con sa còtzula, una focaccia di semola, che poi spezza e spartisce tra i commensali.[1] Analoghe corone, su pane de isposos, il pane degli sposi, si riscontrano in altre località, quali Cheremule (Sassari), Olmedo (Sassari), Villagrande Strisaili (Ogliastra). 
 [1] Enzo Espa, Benedizioni nuziali sarde dei parlanti la lingua sarda- logudorese, presso l’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Sassari, Memorie del seminario di Storia della Filosofia della Facoltà di Magistero, 3, Sassari 1977, p.13.
  • 62.
  • 63. A Pozzomaggiore (Sassari), le corone vengono portate in testa da ragazze impuberi, in coppia, presso la soglia della casa degli sposi, in piedi su una sedia. Gettano il grano sugli invitati che escono dalla porta spalancata, poi, il piatto viene gettato a terra con forza, ridotto in frantumi davanti ai piedi del festeggiato. Lungo il percorso verso la chiesa, il gesto, accompagnato da formule bene augurali, viene ripetuto dalle donne del vicinato, che si sporgono a benedire, ripetendo il fragoroso atto delle stoviglie rotte. Lo spaccare il piatto, oltre che all’offerta irripetibile, rimanda alla rottura simbolica dell’imene che, di lì a poco, deve avvenire sul talamo nuziale.
  • 64.
  • 65. Pani che, portati in testa, nella simbologia del matrimonio, ereditano e tramandano segni di fertilità ed abbondanza risalenti ai culti di antiche divinità: il capo cinto da un cercine di fronde verdi o di un semplice nastro o corda era distintivo della disponibilità alla ìerodulia, la copula sacra nei culti babilonesi, fenici e punici, al servizio di Astarte.
  • 66.
  • 67. Erodoto e Strabone ci riferiscono di antiche usanze che dovevano precedere le nozze:[1] “una legge babilonese, dettata da un oracolo, obbligava tutte le donne, nate nel paese, a presentarsi una volta nella loro vita al tempio di Venere ed abbandonarsi agli amplessi di uno straniero. A Heliopoli le donne si prostituivano in onore di Venere. Facevano lo stesso in Lidia pria del matrimonio. In Cipro, pria di celebrare l’unione matrimoniale, le promesse spose andavano il giorno indicato sulle rive del mare ad offrire il sacrificio della loro verginità prostituendosi”. Altre donne ricche si facevano portare, in carri coperti, nel recinto sacro che circondava il tempio di Militta. “Militta non è d’essa, d’altro canto, la dea di tutti i popoli, la suprema generatrice? Perciò Erodoto la chiama Venere. [1] Fabio Mora, Religione e Religioni nelle storie di Erodoto, Edizioni Universitarie Jaca, Milano 1985, p. 240. Erodoto, 1,55, Strabone, I, 199 XVI, riportato da Melchiorre Gioja, Filosofia della statistica, presso Giovanni Pirotta, Milano 1826, p. 282 – cfr. anche Ferrara Pignatelli 1991, p. 94
  • 68.
  • 70. Pani a forma di corona o diadema, con nomi diversi a seconda delle zone, sono presenti in moltissimi matrimoni sardi. L’uso di incoronare, come eredità del mondo antico, si manifesta attraverso rituali che segnano momenti importanti della vita, oppure feste o semplici banchetti. In passato, diversi elementi potevano essere usati per cingere il capo: serti di alloro, di ulivo o mirto, per i maschi; ghirlande di fiori, particolarmente rose, per le fanciulle; fiori d’arancio nel caso delle spose saracene per i Cristiani, il fiore d’arancio nelle ghirlande nuziali significa purezza, castità e verginità; nel mondo greco, è un emblema di Diana, perché le arance erano ritenute le mele d’oro delle Esperidi.
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  • 75. Una cascata di fiori d’arancio caratterizza su pane de s'affidu di Pozzomaggiore, dove sono presenti anche altri elementi, tra cui piccole calle, fiori della famiglia delle Araceæ, con lo spadice eretto, ben evidente;[1] sas melas, melegrane; alcune pigne, rappresentazione dell’esaltazione della potenza vitale e glorificazione della fecondità, rappresentazione dell’eterno ritorno della vegetazione e, in generale, della vita; due paia uccelli, immagine plastica rafforzata della futura coppia accanto al nido in cui procreare. 
 [1] La calla, nelle sue molte varietà coltivate e selvatiche, è presente in Europa, Africa Settentrionale ed Asia Occidentale. Conosciuto da Egizi, Ebrei e Greci come “fuoco, calore”. Il nome scientifico deriva dalla particolare caratteristica catabolica, consistente nella maggiore temperatura - da 5°C a 15°C - che si registra all’interno dell’infiorescenza, grazie alla forma paraboloide, sempre rivolta a Sud, che favorisce la concentrazione dei raggi solari lungo l’asta dello spadice. La pianta, utilizzata in medicina popolare per curare reumatismi e far ricrescere i capelli, è velenosa in ogni sua parte. Con la cottura perde parte del suo potere venefico: resi commestibili, i rizomi venivano mangiati. L’Arum viene ancora utilizzato a Pozzomaggiore (SS) per preparare sas cogones de berdas, focacce dolci di ciccioli: la pasta, edulcorata con uvetta, viene distesa su foglie di tataruju, cavolo o calla prima di essere infornata. L’impiego, già citato da Aristotele, colloca sas cogones de berdas nell’universo folclorico europeo, caratterizzato, nei riti di inizio anno, dallo scambio materiale-immateriale di dono-controdono: antiche cerimonie di rinascita e propiziazione di salute e abbondanza. Nell’abbigliamento tradizionale, sebbene un po’ irritanti per la pelle, rizomi di Arum ridotti in polvere e mescolati a farina erano impiegati per inamidare gli indumenti.
  • 76.
  • 77. Sempre a Pozzomaggiore, il pane nuziale che viene posto sulla tavola dei commensali è detto de iscadda, lucidato o de ischedda, scottato. A seconda del variare della lettera ‘a’ in ‘e’, si rimanda a diversa esegesi.[1] Entrambe le accezioni contemplano la tecnica dell’esposizione del pane a metà cottura al vapore acqueo per essere nuovamente infornato, ottenendo una superficie lucidata.[2] 
 [1] Salvatore Dedola, Pani della Sardegna, cit., pp. 267-268: “Letteralmente significa ‘pane con forfora’, dal logudorese scatta, iscadda ‘forfora’. L’etimologia riposerebbe nell’assiro ‘sikkatu(m), ‘unghia, tassello, picchetto, spina’. Ischeddare significa ‘rimanere scottato, scaltrirsi dall’esempio altrui, apprendere a spese altrui, con la differenza che nel lemma relativo al pane is- non è privativo ma rafforzativo: is- + accadico ‘hadû(m) ‘essere gioioso, Rallegrarsi (di un’azione): come dire ‘rafforzare un’azione gioiosa’. [2] Paolo Piquereddu (coordinamento), Pani, tradizioni e prospettive della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2005, p. 207, sono riprodotte immagini di pani provenienti da Lodè, Bonorva, Thiesi e Chiaramonti,
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  • 79.
  • 80. Con su pane de iscadda si indica il pane lucidato, alquanto piatto, generalmente rotondo, modellato per occasioni festive importanti come Pasqua e matrimonio. Le forme circolari, diffusissime, possono essere più o meno frastagliate, se indicano il sole; in questo particolare caso, oltre a raggi, sono presenti intagli; se rappresentano la luna, la circonferenza risulta più lineare, liscia, omogenea, con pochi semplici festoni di dimensioni ridotte, il centro liscio, a volte con qualche timbratura per evitare che il pane si gonfi, ma senza decorazioni con pasta riportata.
  • 81.
  • 82. “Nella maggior parte delle tradizioni il Sole è il Padre universale e la Luna la Madre. Il sole e la pioggia sono le primarie forze fertilizzanti, di conseguenza lo sposo è il sole e la sposa è la luna, il Padre è il Cielo e la Madre è la Terra. Il sole e la luna, assieme, rappresentano il potere maschile e quello femminile in congiunzione. Simboli del sole sono la ruota, il disco, il cerchio ruotanti con un punto centrale, il cerchio radiante, la svastica, i raggi sia diritti sia ondulati che rappresentano la luce e il calore del sole.”
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  • 84.
  • 85. Nel mondo contadino, la migliore annata agraria si ha quando i calendari lunare e solare coincidono e si sovrappongono all’equinozio di primavera. Avviene, allora, il matrimonio del Sole con la Luna, con il primo che entra nella costellazione dell’Ariete, mentre la Luna piena, “fecondata”, ne riflette i raggi luminosi.[1] A Thiesi (Sassari), viene fatto su poddine, a forma di mezzaluna, una spianata preparata con sa podda, fior di farina, martellata in superficie con la punta delle dita per far sì che, durante la cottura, lo strato superiore si separi da quello inferiore. Tagliato con la rotella in due mezze lune dal bordo ondulato, veniva donato dagli sposi ai convenuti, che lo portavano a casa in segno bene augurale.[2] 
 [1] Battista Saiu Pinna, Il vestito della Luna, Sinnos n. 2, Biella 2008, p. 18. Secondo i dettami del Concilio di Nicea (325), la Pasqua cristiana, non deve mai coincidere con quella degli Ebrei e cadere la domenica successiva al formarsi della prima Luna piena dell’equinozio di primavera, computata non con il sistema giudaico in modo che non possa mai essere anticipata all’equinozio. A Pasqua il simulacro nero della Mater dolorosa, nella catarsi del lutto, diventa la Turris eburnea che si illumina di luce con la resurrezione di Gesù. [2] Pani. Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna. Iisso Edizioni, Nuoro 2005, pp. 155 e 157
  • 86.
  • 87. A Chiaramonti (Sassari), su pane ischeddadu, assume lungo la circonferenza motivo a testina di uccello, animale simbolo universale del rapporto tra cielo e terra, messaggero degli dèi, tra ciò che sta in alto e l’uomo, che sta in basso sulla terra. Oltre alla vasta gamma tondeggiante, il pane festivo diventa fronda, mannello di spighe,[3] fascio di fiori, come nei pani portati in chiesa all’offertorio in occasione di alcune feste, a Terralba e a Villaurbana. Particolarmente raffinati i cosiddetti su coccoi pintau, a Villaurbana e a Tramatza; coccoi e pane de isposos, a Dorgali, a Settimo San Pietro e a Paulilatino. Universalmente diffusa la forma a cuore, utilizzata in più occasioni.
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  • 89.
  • 90.
  • 91. Molto particolari i pani a forma di borsetta presenti a Ossi (Sassari), a Orune (Nuoro), a Urzulei (Ogliastra), a Bitti (Nuoro), a Lodè (Nuoro), a Quartu Sant’Elena (Cagliari), a Borore, a Sedilo, a Noragugume (Nuoro) e a Busachi. A Pozzomaggiore, borse, borsette e cestini, rigorosamente fatti in iscadda, di aspetto diverso a seconda della maestria delle panificatrici, rimandano al “potere femminile di contenere e luogo di conservazione, quindi vita e salute; preservare quel che è prezioso o ritenuto tale”. In iscadda si fanno cuori, colombe, rondini e cavallini, a Pozzomaggiore, ed in altre località del circondario; Pozzomaggiore, inoltre, condivide con Bonorva un particolare tipo di pane a forma di scarpetta muliebre, immancabilmente presente sul desco nuziale. Con il suo significato ambivalente, la scarpa denota “libertà poiché lo schiavo andava a piedi scalzi; anche controllo, poiché il controllo delle scarpe equivale al controllo della persona; quindi detenere la scarpa della sposa, stabilisce il possesso di quest’ultima da parte dello sposo”.
  • 92.
  • 93. Ad Atzara, è in vigore l’usanza di donare un paio di scarpe nuove al paraninfo, il mediatore che favorisce il matrimonio.[1] Si tratta di una consuetudine che trova riscontro nella Bibbia, nel libro di Rut, là dove si afferma che ”una volta in Israele esisteva questa vecchia usanza relativa al diritto di riscatto o della permuta, per convalidare ogni atto: uno si toglieva il sandalo e lo dava all’altro; era questo il modo di attestare in Israele”.[2] Il ruolo della calzatura passa dal possesso della terra, al possesso, anche in senso copulativo, della futura sposa: “Quando acquisterai il campo dalla mano di Noemi, nell’atto stesso tu acquisterai anche Rut, la Maobita”.[3] 
 [1] Testimonianza di Domenico Corongiu e Maria Giuseppa Serra, nati nel 1946 ad Atzara (Nuoro), sposi nell’ottobre 1968 a Genova, grazie dal sensale Antonio De Melas, detto - presagio nel nome - “Pilleddu”, nomina sunt omina. [2] La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma 1974, Rut 4,7,. p. 229. [3] La Sacra Bibbia, ibidem, Rut 4,5,. p. 229.
  • 94.
  • 95. Claudio Eliano, rètore romano del III secolo, autore di un’opera in greco (Sulla natura degli animali), racconta di un’aquila che rubò un sandalo a Rodope, mentre faceva il bagno, per portarlo al faraone che, colpito dalla finezza del piede, fece ricercare la giovane, che ritrovata, diventò sua sposa. Alle vicende della giovane si sarebbe ispirato Charles Perrault per scrivere la fiaba di Cenerentola, in cui, come nell’antico racconto, comporta una identificazione della scarpa con la persona. Nelle canzoni alpine di veglia, la ragazza da corteggiare viene identificata con le scarpette, generalmente di colore rosso. Analogamente, in Sardegna, “s’iscarpitta de comare, andat bene a su pe meu”, la scarpina di comare, va bene al mio piede.[1] “Alcuni interpreti fanno di questo simbolo di identificazione un simbolo sessuale, o quantomeno del desiderio sessuale risvegliato dal piede. Coloro che considerano il piede come un simbolo fallico vedranno facilmente nella calzatura un simbolo vaginale e, fra i due, un problema di adattamento capace di generare angoscia”. 
 [1] “Tumba su ballu per deu/Tumbalu e lassalu andare/S'iscarpitta de comare/Anda bene a su pe' meu/Dìlliri di dìlliri di dèlla/Dìghirirì di dilliri di della liròi, Cerca il ballo per dio/ Cercalo e lascialo andare/La scarpetta di comare/Va bene al piede mio/Dìlliri di dìlliri di dèlla/Dìghirirì di dilliri di della liròi”i.
  • 96.
  • 97.
  • 98.
  • 99. I piedi non stanno mai fermi, difficilmente comodi nelle scarpe, mossi da eterna inquietudine, alla ricerca di stabilità; sono base e appoggio alla terra, alla materia, alla Mater, la Madre-terra, generatrice e custode di tutte le cose. Oggi, la “materia” rimane un concetto arido, disumano puramente intellettuale, privo per noi di qualunque significato psichico. Quanto diversa era l’antica immagine della materia - la Grande Madre -, capace di abbracciare e di esprimere il profondo significato emotivo della Madre Terra!” [1] 
 [1] Carl Gustav Jung, l’uomo e i suoi simboli, Tea, Milano 2005, p. 76.
  • 100.
  • 101. Pani tipici 
 e patate ossolane dott. Luca Ciurleo
  • 102. I pani tradizionali ossolani Dal Credenzin al Pan ad Pasquetta
  • 103. I “pani di credenza” • Credenzin, crescenzin, carsantin, pupin, crescianzin o anche crescenza • Si tratta degli avanzi della panificazione arricchiti con gli “avanzi di credenza” • Zucchero, frutta secca, mele, burro
  • 104. I “pani di credenza” Oggi vengono utilizzati come pani speciali (antipasto), un tempo erano veri e propri dolci • Torta “vigezzina” • Utilizzo degli avanzi di pane ammollati nel latte ed arricchiti di prodotti vari di credenza
  • 105. Il pan ad Pasquetta Giosio, frazione di Montecrestese Ogni anno si prepara il pane in occasione di Pasquetta, il lunedì dell’Angelo Festa organizzata dal gruppo di frazionisti “Qui da Gios”
  • 106. Il pan ad Pasquetta Pane nero di segale cotto nel forno a legna della frazione I fondi ricavati servono per restaurare le zone storiche della frazione (forno, torchio…)
  • 107. Gli “amiasc” Sfoglie di acqua e farina Somiglianze con la miaccia valsesiana o con il testo romagnolo, preparati sul fuoco utilizzando una piastra rovente di ferro Conosciuti anche come stinchett o runditt Diffusi in tutto l’arco alpino
  • 108. Il forno del pane A Montecrestese in frazione Pontetto si è deciso, su volontà dei frazionisti, di restaurare il forno frazionale, allestendo un piccolo museo etnografico (di vecchia concezione), con reperti donati dalla popolazione
  • 109. La panificazione Importanza della panificazione, una volta all’anno, a cura del panificio Conti di Coimo, come da tradizione Si inizia alle 4 del mattino con la preparazione dell’impasto e la sua conservazione nella madia, dove lievita per alcune ore, e viene cotto nel forno precedentemente scaldato Ricostruita la “panera”, con tanto di graticcio Il forno, come da tradizione, viene acceso giorni prima, per portarlo in temperatura
  • 110. Il pane di Altoggio Festa patronale di san Giovanni Nel 2013 nasce il Pane di Altoggio, ideato dal panificio Meneghello di Crodo Alla base una pasta madre di oltre 120 anni
  • 111. Il pane di Altoggio Ingredienti: 100% di farina integrale macinata a pietra e cotto nel forno a legna frazionale Ricetta inventata da Germano Meneghello
  • 112. Il Pan Sagra A Montecrestese si svolge da 21 anni la Sagra della Patata Inventato il “Pan Sagra” a base di patate
  • 113. Una storia di successi ed insuccessi…
  • 114. L’arrivo della patata Importata dal Nuovo mondo, la sua coltivazione fu, in un primo momento, osteggiata: era vista più come pianta ornamentale che come alimento Alimento coltivato e mangiato dagli indios, popoli su cui si dibatteva se fossero figli “di Dio o del demonio” Grande diffidenza verso il tubero
  • 115. L’arrivo della patata Ancora nel 1777, con la grande carestia, i contadini preferivano morire di fame che cibarsi di patate Inizialmente si consumavano bollite, ancora calde, semplicemente spellate e salate Problema della mancata selezione delle sementi: la polpa era acida ed acquosa
  • 116. L’arrivo della patata XVIII secolo, Germania e Francia Prima introdotta nelle diete dei nobili, quindi in quelle delle fasce più povere, in risposta anche alla carestia Napoleone Bonaparte la utilizzò come derrata alimentare e farina da panificazione poiché meno deteriorabile e più facilmente trasportabile rispetto al frumento
  • 117. L’arrivo della patata Antoine Parmentier, Versailles 1813: era in atto una vera e propria opera di proselitismo nei confronti di questo tubero In poco tempo riuscirono ad entrare prepotentemente nella dieta, scalfendo anche il primato di legumi, castagne e polenta 1816-17: grande carestia
  • 118. La nomenclatura Inizialmente si utilizzò un calco della dizione francese: pomo di terra Si passò al termine di origine spagnola: patata Il termine dialettale con cui erano conosciuti era “tartifole”
  • 119. L’influenza economica Grande redditività della patata: un campo coltivato a frumento poteva sfamare una famiglia, uno coltivato a patate ne poteva sfamare tre! Non si necessitavano grandi appezzamenti di terreno pianeggiante, così anche i territori montani, inizialmente considerati poveri, diventarono improvvisamente redditizi San Giovanni Bosco le definì “una miniera d’oro”
  • 120. La patata in Ossola
  • 121. La sua coltivazione 
 in Ossola 2008: coltivati 45 ettari per un raccolto di poco inferiore ai 3.500 quintali Un tempo fu però particolarmente importante e coltivata da quasi tutte le famiglie negli orti per autosussistenza
  • 122. La sua coltivazione 
 in Ossola Stefano Calpini, 1880, Indagine sull’agricoltura ossolana: «In Ossola non si coltiva che la patata (solanum tuberosum) […]. Il nostro terreno siliceo è adattissimo per tal genere di pianta. Le patate poi che vengono raccolte nel nostro circondario al disopra (sic!) dei 600, 700, 800 metri sul livello del mare sono squisitissime, e sono degne di menzione speciale, pella loro straordinaria bontà, quelle che si coltivano in Valle Vigezzo ed a Trasquera. […] Sebbene in Ossola sia un prodotto importante quello della patata, pure sarebbe suscettibile di molto maggiore sviluppo questa coltura se fosse meglio trattata»
  • 123. La sua coltivazione 
 in Ossola Stefano Calpini, 1880, Indagine sull’agricoltura ossolana: «sfortunatamente i nostri contadini hanno ancora il vieto sistema di seminare in volata i pezzetti di tubero, e per di più in un terreno leggermente smosso, invece di disporre i semi in fila regolari in modo che fra pianta e pianta non vi sia uno spazio minore di centimetri cinquanta e di disporli in un terreno vangato a maggiore profondità»
  • 124. La sua coltivazione 
 in Ossola Secondo Albertazzi venivano coltivate due varietà di patata: Quelle bianche, «molto grosse e maturano d’agosto e sono i più dolci» Quelle rosse, che «si cavano in ottobre prima della brina, che le fa sfracellare, sono più piccole, ma men dolci e più consistenti. Coltivate a dovere rendono molto»
  • 125. La sua coltivazione 
 in Ossola Ad introdurre la coltivazione della patata in Ossola fu, secondo la leggenda, Caterina Pollini vedova Besana, che, alla morte del marito, portò a Coimo, al curato, i cosiddetti “tartiful dal priu” Tra Sette ed Ottocento si coltivavano a Malesco, Agaro, Formazza, Salecchio, nelle valli Anzasca ed Antrona ed a Montecrestese
  • 126. La sua coltivazione 
 in Ossola Nel 1845 la coltivazione della patata era già una realtà produttiva molto importante per l’Ossola Secondo Carlo Cavalli, nel suo “Cenni statistici della Valle Vigezzo”, «i pomi di terra ossieno patate forniscono il principale alimento degli agricoltori… la loro coltura è già estesa e produttiva in Vigezzo»
  • 127. La sua coltivazione 
 in Ossola Goffredo Casalis: «Le patate vi forniscono il principale alimento degli agricoltori. Vi sono esse di una squisita qualità, di color giallo citrino, sommamente farinacee e asciutte, così che bollite semplicemente nell'acqua non solo riescono un cibo a tutti gradito ma eziandio molto nutriente. L'esperienza dimostrò infatti che le famiglie le quali si alimentano esclusivamente di patate sono le più vegete, le più robuste ed in questo novero si puonno comprendere i tre quinti degli abitanti del mandamento».
  • 128. La sua coltivazione 
 in Ossola Goffredo Casalis: «Ella è cosa notabile che la specie delle patate della val Vigezzo non si vegga in nessuna parte d'Italia e che trasportata fuori dal suolo della valle degenera presto in una specie molto inferiore, assai meno grata e nutriente perdendo le principali qualità, cioè il farinaceo e l’asciutto». Da “Dizionario Geografico, Storico, Statistico, Commerciale Degli Stati Sardi"
  • 129. La reintroduzione della patata 
 di montagna Anna Maria Francini
 Azienda Agricola Francini Druogno (Val Vigezzo)
  • 130.
  • 131.
  • 132. Turismo enogastronomico in Piemonte e nel VCO Dott. Samuel Piana Landexplorer founder quando il cibo diventa una motivazione per la scoperta del territorio
  • 133. Turismo: una parola dai molti significati Con questa parola spesso ci si sofferma sulla definizione data dal WTO e cioè l’importanza della motivazione non economica ed il tempo trascorso..ma si tralascia che cos’è il turismo in pratica: UN FLUSSO MOTIVATO per intercettare questo flusso la destinazione presenta le sue eccellenze l’Italia annovera tra le eccellenze più ricercate proprio il “mangiare e bere bene”
  • 134. Turismo: una parola dai molti significati Il turismo non è un settore economico! Il flusso motivato di persone ha diverse esigenze che creano aspetti di economia diversa - quindi il turismo è intersettoriale! La società postmoderna ha cambiato il modo di vivere i momenti di svago: da momenti liberi di massa a momenti di “relax” individuali
  • 135. Il turismo è un fenomeno dinamico e complesso da monitorare: anni ’50 4S: Sea, Sand, Sun, Sex - oggi le 3L: Leisure, Landscape, Learning - futuro 4E (Environment and clean nature, Educational tourism, Event and mega Event, entertainment and fun) Internet ha cambiato profondamente il modo di approcciarsi alla destinazione Tutta l’offerta turistica deve indirizzarsi a presentare al visitatore il genius loci della destinazione!
  • 136. Qualche dato Il turismo, in generale, ha saputo reggere meglio alla crisi economica internazionale: il 2008 è stato l’anno con più crescita di arrivi e permanenze sul territorio (il Piemonte è traino) nel 2009 c’è flessione, ma nel 2012 sia ENIT sia WTO descrivono una crescita del 4% di arrivi di turisti stranieri sul 2011 La crescita del turismo è stata più forte nelle economie emergenti L’Italia si posiziona al 5° posto come percezione ed aspettative turistiche, al 7° come destinazione
  • 137. Qualche dato-turismo piemontese Il turismo in Piemonte cresce in maniera quasi esponenziale anche se in modo disomogeneo Torino e provincia +51% assieme a Langhe e Monferrato +130% di presenze tra il 2004 ed il 2013 L’Alto Piemonte (Vercelli, Biella, Novara e Verbania) dal 2004 al 2013 ha una crescita di presenze del 35,80% con Biella e Vercelli con delta negativo (-10% e -2,50%) VCO cresce in 10 anni del solo 20%! L’Alto Piemonte rappresenta: 1/4 del territorio piemontese, 1/5 dei residenti e solo 1/3 del mercato turistico (nel 2004 eravamo al primo posto!)
  • 138. Turismo enogastronomico: definizione È una tipologia di turismo, nata sostanzialmente negli anni ’90, che vede il turista disposto a spostarsi dalla propria località di residenza al fine di raggiungere e comprendere la cultura di una destinazione nota per una produzione agroalimentare di pregio, entrare in contatto diretto con il produttore visitare l’area destinata alla elaborazione della materia prima e al successivo confezionamento, degustare in loco ed eventualmente approvvigionarsi personalmente delle specificità!
  • 139. Turismo enogastronomico: definizione N.B.: se manca uno dei momenti individuati nella definizione appena accennata non ci troviamo più nel filone del “turismo enogastronomici” bensì nel filone più ampio del turismo rurale!
  • 140. Identikit del turista enogastronomico il turista enogastronomico: denominato anche “gastronauta" o “foodtrotter” (Croce e Perri) 30-50 anni, cultura medio-alta, si muovono in famiglia o con amici (niente viaggi organizzati) si muovono nel fine settimana (preferibilmente di sabato!), viaggi di breve raggio aspetto gastronomico o evento gastronomico è il primo punto della loro agenda di incontro con il territorio!
  • 141. Qualche dato Il turismo enogastronomico (fonte Coldiretti) vale 5 MILIARDI Made in Italy Food: 172 prodotti (DOP/IGP) 469 vini a denominazione DOC/DOCG/IGT 284 varietà d’olio, 42 varietà di pane 4396 prodotti tradizionali regionali
  • 142. …e ancora… 1438 tipi diversi di pane, pasta e biscotti 1304 verdure fresche e lavorate 764 salami, prosciutti, carni fresche ed insaccati di diverso genere 472 formaggi 174 prodotti composti o prodotti di gastronomia
  • 143. …e ancora… 159 tra bevande analcoliche, liquori e distillati 155 prodotti di origine animale (miele e lattiero-caseari escluso il burro) 147 preparazioni di pesci, molluschi e crostacei 4698 sono le specialità alimentari prodotti in Italia
  • 144. Agriturismo: strumento per lo sviluppo del turismo enogastronomico Se il turismo enogastronomico ha avuto grande sviluppo grazie al riconoscimento delle “strade del vino”, anni ’90, come primo sviluppo della tipologia di turismo Solo con la legge n. 730 del 1985 (rivista nel 2006) “Disciplina dell’agriturismo” si è giunti ai primi veri e propri pernottamenti in aree di interesse enogastronomico
  • 145. Enogastronomia ed immagine del Piemonte La stampa estera definisce il Piemonte come una destinazione: emergente, raffinata, variegata e dall’ottimo rapporto qualità prezzo Uno dei motivi più gettonati per venire a visitare il Piemonte è l’Enogastronomia con ben il 43,82%!
  • 146. e nel VCO? Nel VCO il turismo enogastronomico potrebbe essere uno dei punti di sviluppo per le aree lontane dai laghi (80% del territorio provinciale) i PAT (prodotti agroalimentari tradizionali - 25 anni, lavorazione tradizionale) del VCO sono 34 14 derivanti dalla trasformazione della carne 6 formaggi
  • 147. e nel VCO? 2 prodotti caseari diversi dal formaggio 1 miele distinto nelle varie denominazioni 1 preparazione ittica 8 prodotti da forno 1 produzione vegetale 1 bevanda alcolica
  • 148. La sagra come sostegno e presentazione di prodotti di nicchia Il VCO ha diverse produzioni agroalimentari purtroppo segnate da quantità esigue Le Sagre possono essere una soluzione o un “rimedio” alla difficoltà di distribuzione dei prodotti Ricordiamo però l’importanza per il turista enogastronomici di poter visitare e comprare in loco i prodotti - quindi no a sagre di sola promozione del prodotto!
  • 149. Maggiore integrazione tra produttori e filiera turistica Visto le produzioni esigue oltre alle sagre ed ai mercati a KM 0 è importante una integrazione con filiere complementari ristoranti e alberghi “Serate di Gola” manifestazione della CCIAA del VCO negli ultimi anni sta dimostrando l’importanza di queste integrazioni Manca ancora un sistema di distribuzione efficace ed efficiente!
  • 151. La Valle dei pittori… Una delle vallate maggiormente turistiche del Vco è senza dubbio la Vigezzo, che ha saputo sfruttare la sua “tradizione” a livello turistico Turismo estivo ed invernale La Valle degli spazzacamini Invenzione dell’acqua di Colonia, acque minerali La Valle dei pittori
  • 161. Pane, patate 
 e tradizione 20 giugno 2015 16.45 - 17.45 Aula del futuro Future Food District