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Fuocoammare di Gianfranco Rosi
Samuele ha 12 anni, e non sa mangiare gli spaghetti senza risucchiarli facendo rumore:
accanto a lui, né il padre né la nonna, che pure paiono persone a modo, sembrano
mettere in discussione questa abitudine. Concedetemi questo inizio eccentrico, per
parlare di un film, Fuocoammare, che tocca tasti gravi e dolenti del nostro presente; si
tratta di una sequenza che però è indicativa del tasso di messa in scena adottato dal
regista, dal momento che il problema con il cinema di Gianfranco Rosi sembra essere,
spesso, per non dire sempre, il livello di staging, di re-enactment delle situazioni che
si trova a filmare.
Correggendo il tiro di un'affermazione riportata nella sinossi ufficiale, direi che forse ha
più senso parlare di osservazioni sulla realtà che non di "osservazione della realtà di
tutti i giorni". Posizione creativa su cui, almeno in linea teorica, non c'è nulla da eccepire.
Queste osservazioni passano, ancora più che nelle prove precedenti di Rosi, da un
nemmeno troppo sotterraneo esercizio di straniamento. Innanzitutto, lo spettatore, fin
dalle prime inquadrature si domanda quanti giorni di maltempo e cielo coperto si contino,
in un anno, a Lampedusa, isola della quale il clima normalmente acclarato è di tipo
mediterraneo-desertico. Il luogo è presentato, perlomeno nei segmenti del film che
riguardano Samuele, il Medico, l'anziana Maria, il Pescatore e il Dj, con un'intonazione
quasi alla Wuthering Heights, un coperchio di nuvole filmate con una certa,
ingombrante, insistenza. Viene il sospetto che, con tempi di lavorazione abbreviati
rispetto ai film precedenti, e anche alla luce del successo del Leone d'oro, in questo
lavoro, scaturito da un'idea di Carla Cattani, personaggio chiave del Luce, Rosi abbia
calcato, più che prima, il pedale dell'estetica.
Ma i problemi, etici più che estetici, cominciano quando, nella struttura "a mosaico" di
Fuocoammare, non dissimile da quella dei precedenti Below Sea Level e Sacro Gra, si
affacciano i tasselli "fuori posto" per eccellenza della contemporaneità, quelle migliaia di
migranti che, vedendo in questa lingua di terra a 113 chilometri dalla costa africana un
primo step verso una vita diversa, rischiano il tutto per tutto, con le conseguenze
disastrose che sono all'ordine del giorno. Se all'inizio si tratta soprattutto di resoconti
radiofonici, ma anche di comunicazioni disperate tra i barconi e la Capitaneria di porto,
dei racconti e delle foto del Medico, ad un certo punto i profughi arrivano, in tutta la
flagranza del loro disperato migrare.
Arrivano con i ben noti, fatiscenti, barconi e vengono caricati su piccole scialuppe, con la
macchina da presa che rimane in tutto e per tutto alla loro altezza, a un punto di vista
solidale con il loro; ma questa solidarietà effimera finisce con il divergere dei loro percorsi,
tanto che l'obiettivo sembra indugiare più sugli effetti delle copertine termiche che non
sulle tappe della "prima accoglienza". Diverso, magari più soggettivo, e si torna a un
problema di staging e spaesamento, il giudizio su un'inquadratura perfettamente
studiata (come quasi tutte, d'altronde), in cui un gruppo di nigeriani canta, secondo le
modalità del teatro di strada popolare, quella che sembra ormai un'epica formalizzata e
tramandata oralmente, della fuga dei cristiani dall'Africa equatoriale, come si vedeva
anche in Show All This to the World di Andrea Deaglio: un coro tragico che ha la
potenza didascalica e straniante del teatro, appunto epico, di Brecht.
Però, quando la macchina da presa sale su una scialuppa medica che sta recuperando
alcuni passeggeri in condizioni gravissime, quell'esserci, quello stare a ridosso della
disperazione, dei respiri affannati, della carne morente rasenta quell'oscenità che in
molti credevamo di aver mandato in pensione. Come d'altronde è quasi osceno il
posizionamento della camera nella studiatissima inquadratura dove i medici schierati si
congedano senza riti dalle salme ormai chiuse dentro ai sacchi. E allora sembra una
excusatio non petita il tentativo di far empatizzare lo spettatore con Samuele, con la sua
innocente, spontanea anarchia (l'episodio già citato degli spaghetti, ma anche il siparietto
scolastico, o il dialogo con il Medico), con il suo lazy eye: una condizione medica,
rovesciata in metafora (che davvero sembra riprendere troppo esplicitamente
Oppenheimer) che gli impedisce di vedere la realtà, a poche centinaia di metri da sé,
mettendola a fuoco, reagendo, crescendo.
-Alessandro Uccelli-

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  • 1. Fuocoammare di Gianfranco Rosi Samuele ha 12 anni, e non sa mangiare gli spaghetti senza risucchiarli facendo rumore: accanto a lui, né il padre né la nonna, che pure paiono persone a modo, sembrano mettere in discussione questa abitudine. Concedetemi questo inizio eccentrico, per parlare di un film, Fuocoammare, che tocca tasti gravi e dolenti del nostro presente; si tratta di una sequenza che però è indicativa del tasso di messa in scena adottato dal regista, dal momento che il problema con il cinema di Gianfranco Rosi sembra essere, spesso, per non dire sempre, il livello di staging, di re-enactment delle situazioni che si trova a filmare. Correggendo il tiro di un'affermazione riportata nella sinossi ufficiale, direi che forse ha più senso parlare di osservazioni sulla realtà che non di "osservazione della realtà di tutti i giorni". Posizione creativa su cui, almeno in linea teorica, non c'è nulla da eccepire. Queste osservazioni passano, ancora più che nelle prove precedenti di Rosi, da un nemmeno troppo sotterraneo esercizio di straniamento. Innanzitutto, lo spettatore, fin dalle prime inquadrature si domanda quanti giorni di maltempo e cielo coperto si contino, in un anno, a Lampedusa, isola della quale il clima normalmente acclarato è di tipo mediterraneo-desertico. Il luogo è presentato, perlomeno nei segmenti del film che riguardano Samuele, il Medico, l'anziana Maria, il Pescatore e il Dj, con un'intonazione quasi alla Wuthering Heights, un coperchio di nuvole filmate con una certa, ingombrante, insistenza. Viene il sospetto che, con tempi di lavorazione abbreviati rispetto ai film precedenti, e anche alla luce del successo del Leone d'oro, in questo lavoro, scaturito da un'idea di Carla Cattani, personaggio chiave del Luce, Rosi abbia calcato, più che prima, il pedale dell'estetica. Ma i problemi, etici più che estetici, cominciano quando, nella struttura "a mosaico" di Fuocoammare, non dissimile da quella dei precedenti Below Sea Level e Sacro Gra, si affacciano i tasselli "fuori posto" per eccellenza della contemporaneità, quelle migliaia di migranti che, vedendo in questa lingua di terra a 113 chilometri dalla costa africana un primo step verso una vita diversa, rischiano il tutto per tutto, con le conseguenze disastrose che sono all'ordine del giorno. Se all'inizio si tratta soprattutto di resoconti
  • 2. radiofonici, ma anche di comunicazioni disperate tra i barconi e la Capitaneria di porto, dei racconti e delle foto del Medico, ad un certo punto i profughi arrivano, in tutta la flagranza del loro disperato migrare. Arrivano con i ben noti, fatiscenti, barconi e vengono caricati su piccole scialuppe, con la macchina da presa che rimane in tutto e per tutto alla loro altezza, a un punto di vista solidale con il loro; ma questa solidarietà effimera finisce con il divergere dei loro percorsi, tanto che l'obiettivo sembra indugiare più sugli effetti delle copertine termiche che non sulle tappe della "prima accoglienza". Diverso, magari più soggettivo, e si torna a un problema di staging e spaesamento, il giudizio su un'inquadratura perfettamente studiata (come quasi tutte, d'altronde), in cui un gruppo di nigeriani canta, secondo le modalità del teatro di strada popolare, quella che sembra ormai un'epica formalizzata e tramandata oralmente, della fuga dei cristiani dall'Africa equatoriale, come si vedeva anche in Show All This to the World di Andrea Deaglio: un coro tragico che ha la potenza didascalica e straniante del teatro, appunto epico, di Brecht. Però, quando la macchina da presa sale su una scialuppa medica che sta recuperando alcuni passeggeri in condizioni gravissime, quell'esserci, quello stare a ridosso della disperazione, dei respiri affannati, della carne morente rasenta quell'oscenità che in molti credevamo di aver mandato in pensione. Come d'altronde è quasi osceno il posizionamento della camera nella studiatissima inquadratura dove i medici schierati si congedano senza riti dalle salme ormai chiuse dentro ai sacchi. E allora sembra una excusatio non petita il tentativo di far empatizzare lo spettatore con Samuele, con la sua innocente, spontanea anarchia (l'episodio già citato degli spaghetti, ma anche il siparietto scolastico, o il dialogo con il Medico), con il suo lazy eye: una condizione medica, rovesciata in metafora (che davvero sembra riprendere troppo esplicitamente Oppenheimer) che gli impedisce di vedere la realtà, a poche centinaia di metri da sé, mettendola a fuoco, reagendo, crescendo. -Alessandro Uccelli-