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Gabriele Fulcheri
La libertà nella follia
Genova 2015
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Prefazione
"La libertà nella follia" è un romanzo che analizza e discute il tema della follia. Essa non viene
posta come un caso clinico, anzi viene esaminata la sua matrice più poetica e spirituale, che
riecheggia a quella di Erasmo da Rotterdam nel suo "Elogio della follia".
Il protagonista, Alberto Sappi, personifica "l'io interiore" di ognuno di noi, nella sua più
estrema purezza e individualità, ovvero quell'io che nessuno rivela al mondo poiché troppo
singolare e personale, che tende ad entrare in conflitto con le altre personalità e più in generale
con la vita quotidiana e le sue convenzioni sociali. Alberto, a causa di questa sua particolare
condizione, potrà osservare e giudicare il mondo dall'alto, ma inevitabilmente, essendo uomo,
verrà tediato dalla solitudine. La sua condizione di totale libertà porta con sé, intrinsecamente e
necessariamente, all'isolamento. Tuttavia, con lo svolgersi della trama, egli entrerà in contatto con
la vita mondana, ma, a causa del suo vero essere, che celato emerge comunque per forza di cose,
concluderà la sua esperienza con un'inevitabile tragedia.
Follia come pura libertà, accompagnata da una solitudine tiranna, ma anche una follia
creatrice: l'individualità è in grado, in determinate condizioni, di ergersi sopra ai vincoli della
società e di diventare essa stessa società.
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Capitolo 1
Mi chiamo Alberto Sappi, nato il 13 Maggio del 1978, paziente del dottor Fattori dal gennaio
del 2001. Sebbene questo si presenti come un inizio noioso per il mio "diario di bordo", cosi
prevedono le convenzioni mediche. Che poi la parola paziente suona male alle orecchie del lettore,
che penserà che io soffra di un qualche inguaribile male, ma non è cosi.
La malattia della quale tutti mi accusano con sguardi torvi e una fastidiosissima, non che
ipocrita, compassione, è la pazzia. Io non sono pazzo, sono folle. Vi è un'abissale differenza tra
queste; basti pensare a come una semplice lettera cambi totalmente di significato una cosa: così
per una semplice "e", un corvo diviene un cervo e ritengo che reputiamo all'unanimità essere
questi ben diversi tra loro. Nel nostro caso sono ben quattro le lettere a mutare. Si pensi dunque
per proporzione all'immenso cambiamento. Il pazzo è più un soggetto clinico: preda di crisi
nervose gravi, incapace di gestire le sue azioni, alienato dalla realtà, visioni, smanie, urli
agghiaccianti e una seguente lista di cose sconvenienti. La follia è ben diversa, per me persino un
vanto. La mia condizione è meno prevedibile, più raffinata e affascinante. Mi faccio i complimenti
da solo e me ne lusingo pure, non giudicatemi vanesio.
Tuttavia secondo il dottor Fattori, carissima persona e diligente studioso, io non sarei in
grado di inserirmi e vivere nella società moderna e anzi, potrei persino arrecare danni al prossimo.
E' per questo motivo che lui, in qualità di dottore della medicina psichiatrica, si è preso cosi
eroicamente il disturbo di guarire una persona che di per sé è già sana. Mi affidò perciò l'arduo
compito di scrivere questo diario, sul quale avrei dovuto trascrivere i miei fatti quotidiani , al fine
di permettere all'egregio dottore di manipolare accuratamente e sapientemente la mia mente. A
chi sto scrivendo ora?
Teoricamente a lei, ma le voglio presentare questo libretto come fosse un romanzo: mi
improvviso scrittore! Poi che vuol che sia, non sono mica il primo a farlo.
Ho sempre detestato la monotonia, le prassi e il sistema di causa ed effetto, anche se spesso
ci devo convivere. La prevedibilità delle cose toglie il gusto del loro stesso manifestarsi. Inoltre non
sia mai che persino lei ci prenda gusto.
Ebbene oggi, giorno 1 di questo diario, non avevo niente da raccontare e quindi mi pareva
opportuno scrivere una prefazione, incorniciare la mia storia. Si sa: un quadro può essere bello
quanto conviene all'artista, ma senza una cornice non verrà mai esposto.
La mia situazione è semplice e quindi, per transizione , lo è anche la sua causa.
Figlio di un commerciante e di una maestra, sin dalla giovine età ero stato indirizzato verso la
cultura, l' istruzione e un forte rigore morale. Furono tuttavia proprio queste le cause della mia
"sventura". Man mano che studiavo e leggevo libri di qualsivoglia natura, iniziavo a dubitare
sempre più sulle realtà che mi circondavano. Non mettevo in dubbio la loro esistenza. I miei
interrogativi riguardavano più la realtà generata dai comportamenti umani, che non capivo! Ciò
che agli occhi di tutti era normale, per me era sbagliato, insensato o stupido.
Ogni giorno, seduti nella veranda del bar sotto casa mia, vi erano un gruppetto di cinque
anziani, che trascorrevano gli interi pomeriggi al gioco delle carte. Portavano coppole di vari colori,
talune con deliziosi motivi a scacchi. Ogni giorno, mentre studiavo nella mia camera, li sentivo
bestemmiare le infamie peggiori, con una rabbia nella voce che accendeva di un rosso vivo i loro
rugosi volti. Volavano sedie, tavoli, carte e bicchieri, ma il padrone del bar non ci dava peso;
anche perché erano i suoi unici clienti e sperperavano le loro pensioni in slot, martini e sigarette.
Strano a dirsi, figuriamoci a vederlo, ma questi amabili vecchietti erano sempre in prima fila
durante la messa e pregavano con una tale devozione, che se non li avessi sentiti di persona
bestemmiare in quel modo, non ci avrei mai creduto. Offrivano quel poco che rimaneva della
pensione e cantavano a squarciagola, spesso disturbando il coro dietro all'altare. Santo Dio!
Ancora oggi posso immaginarli camalare sulle spalle la croce di legno con il Cristo di ottone. Solo
che le decorazioni floreali attaccate sembravano pesare una ventina di chili! Non mi capacitavo di
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come riuscissero, sotto la mole che li schiacciava, a non bestemmiare come facevano al bar per un
asso di troppo. Sembravano li lì per farlo, ma niente.
Ora, ritornando all'argomento, tutto ciò per me non era normale. Non potevo però fare a
meno di estraniare questi miei pensieri perché non concepivo la contraddizione dei loro
comportamenti. Non ero particolarmente intelligente e non lo sono tuttora. Sapiente forse è la
parola giusta, ma non del tutto: non avevo capito che il vero saggio esercita la sua sapienza
quanto la sorte prevede, facendo finta vole ntieri di non vedere o sbagliando cordialmente come gli
altri.
Iniziai quindi a suggerire segni di instabilità mentale che, agli occhi della buon anima di mio
padre, erano alquanto allarmanti. Vi chiederete quali comportamenti, quali si fatte azioni ,
accesero la fiamma della preoccupazione nel cuor di papà, che ben presto si trasformò in un
allegro falò. Perché togliervi la sorpresa dico io, sarebbe crudele e immorale, oltre che ingiusto da
parte mia.
Papà, quando io avevo 20 anni circa, era stufo di vedermi in quella incresciosa condizione,
negativa sia per me che, in primis, per la famiglia. Burlato ancora dal fato, il quale volle che il
giorno stesso della mia nascita, un buon uomo di nome Basaglia avesse promosso una legge a
favore della chiusura dei manicomi. Fu perciò costretto a sopportarmi e a richiedere l'aiuto di
sommi dottori della medicina, i quali mi sono stati sempre con il fiato sul collo, ma con la giusta
distanza che prevedeva il rapporto medico-paziente. Non furono individui simpatici se si vuole
ragionare sul termine greco della parola. In greco infatti la parola "simpatia" deriva dal greco
"sympatheia" che vuol dire provare "emozioni con.." e loro più che condividere le mie emozioni, ci
speculavano sopra.
Che ci devo fare? D'altro canto, non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti incontrai spesso,
quando dovevo sottopormi a visita medica psichiatrica, individui pittoreschi e singolari. Povere
anime come me che erano state schiacciate dal peso della vita, che non erano riusciti a distrarsi
con i suoi frivoli piaceri. Siamo matti perché incompresi? Affatto. In molti ci capiscono, ma girano
la testa e ignorano il nostro scomodo punto di vista.
Dunque ora sono qui, al lume di candela a scrivere delle mie vicende.
Purtroppo mi tocca farlo da solo, senza compagnia; ma in fondo sto bene nel mio
appartamento cosi gentilmente offerto dall'ipocrita commiserazione dello Stato. In questo mio
spazio personale il caos diventa ordine e la follia trova il suo libero sfogo. Quante ne avrò da
raccontare, non potete nemmeno immaginarlo dottore.
Capitolo 2
Giorno 2 del diario "Vita"; si d'ora innanzi si chiamerà così. Oggi, verso le 3:00 del pomeriggio,
come di routine, sono andato da Perizio il gelataio a concedermi un momento di gola. Ebbene si,
anche questa volta l'ho truffato. Anzi, se devo essere sincero, ho sempre truffato tutti i negozianti.
Più che truffa parlerei di inganno, o ancora più di scambio non equo: si insomma , chiunque con
il quale avessi avuto a che fare, mi cedeva una cosa dal valore molto più alto di quella da me
offerta.
Questa volta però ho esagerato e me ne rendo conto pienamente solo ora che sto scrivendo.
Salivo su per la strada che conduceva alla gelateria. Tenevo il mio passo svelto e mentre
percorrevo quell'angusta via piena di buche, fiancheggiata per un intero lato di negozi, dissi tra
me e me << Oggi si prova il colpaccio!>>
Ero euforico; elaboravo passo dopo passo, negozio dopo negozio, la strategia per ingannare il
povero gelataio e godere al meglio di tale misfatto. Ecco che ero arrivato.
Entrai con calma, con far da signore. Subito riconobbi Perizio: Uomo alto, robusto e con un
far sgraziato in contrasto con l'accuratezza che la sua arte richiedeva. Non mi spiego tutt'ora
come, con quelle mani enormi e sfigurate dalla fatica e dal tempo, malgrado la sua grossolanità,
riuscisse a fare veri e propri capolavori.
Salutai con estrema cortesia e, avvicinatomi al bancone pieno di dolciumi, dissi:
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:- Oh buon uomo, è vero che ce le ha quelle paste deliziose, si, quelle con la crema che l' han
resa tanto famosa nel quartiere ?
Fece cenno con la testa e aspettò che gli dicessi quante ne volevo
:- Me ne dia ..... una trentina... e crepi l'avarizia! Vero anche che mi può dare mezzo chilo di
quel morbido, delizioso e vellutato gelato alle noci?
Iniziò a insospettirsi. Di certo non c'era di che fidarsi di un folle come me, pensava. Tuttavia
accontentò anche la mia seconda richiesta.
:- E' tutto signor Alberto ?
:- Sarebbe stato se non fossi stato attratto, proprio in questo momento, da quei prelibati e
raffinatissimi cioccolatini. Sii buono e me ne dia una scatola.
Lentamente prese la confezione, per poter in quel lasso di tempo, scorgere sul mio volto le mie
intenzioni. Parlavo con una certa raffinatezza, che mi soddisfaceva creando una linea di confine
tra me e lui, ma non oppressiva; chiariva semplicemente le nostre posizioni.
Meschino! Ancora una volta lo avevo ingannato. Con il sorriso di compiacimento stampato sul
volto, tirai fuori dal mio portafoglio un pezzo di carta marrone e uno rosso che a lui piacevano
tanto. Era stregato dai loro colori e avidamente, una volta presi, li mise in cassetta con la stessa
cura di un cane con il suo osso.
Scoppiai a ridere, non riuscivo più a smettere .
:- Ma insomma, lei è proprio recidivo ! Me ne scusi la brutalità!
Mi crogiolai nella mia vittoria; capite ? Aveva barattato dei futili pezzi di carta colorati, che
persino un infante saprebbe disegnare, con delle leccornie! Chi è poi il folle qui ?!
La cosa che mi faceva ridere più di tutte, era il fatto che non aveva ancora capito di essere
stato ingannato e anzi faceva persino l'offeso borbottando qualche bestemmia. Dunque,
conseguito il mio scopo, uscii da quel buco di gelateria ( un ottimo buco di gelateria), per dirigermi
verso casa. Maledetto l'inconscio umano. Proprio quando stavo per attraversare la strada, il
rimorso prese il sopravvento e mi mise pensieri tristi in testa. Possibile che io, così zelantemente
educato fin da quando muovevo primi passi, debba ingannare un pover' uomo, che tenta solo di
campare al meglio, comprando quell'immensa fortuna in cambio di niente?
Non riuscivo a spiegarmi perché mi ero comportato in quel modo. Come ben sapete, sono
sempre stato propenso al bene e al giusto, ma inevitabilmente cresceva a volte in me un desiderio
perverso di deridere qualcuno; non tanto per commettere una cattiveria, ma per divertimento. E'
questa la cosa grave: è più punibile un' azione cattiva fatta inconsciamente, che la medesima per
volontà.
Tornai subito sui miei passi e rientrai in negozio. Sbattendo l'uscio, di corsa andai al bancone
e porsi le mie più sentite scuse a Perizio il quale però, arricciandosi i lunghi baffi neri, mi lanciò
un greve sguardo di compassione che tutt'ora mi pesa sull'anima. Mi diede una piccola mansione
per riscattarmi e pagare il mio debito.
Sistemai per ore i banconi, aggiornando i prezzi e disponendo i dolci che via via uscivano
dalla cucina. Terminato il mio incarico, salutai Perizio e mi avviai finalmente verso casa.
Dottore, non abbia a pensar male di me; come legge, mi sono redento dal peccato commesso.
Non sospiri come al solito, posando i preziosi occhiali da lettura e portando pollice, indice e medio
alle tempie. Non mi merito certo questa sua reazione.
Non è mica colpa mia se tutti questi mercanti sono attratti da pezzi di carta colorati come
falene con la luce. Più volte provai a barattare qualcosa di valore, ma non mi diedero retta e
pretendevano sempre la stessa cosa; e guai se gliene porgevi uno bianco. Non fu mai quando lo
feci! Si adirano cosi tanto che perdono il lume della ragione e iniziano a comportarsi come bestie.
Urlano, sbraitano e bestemmiano al punto che non stento a credere, in cuor mio, che facciano
segretamente a gara a chi urla la peggiore.
Persino l'uomo primitivo era più furbo; almeno lui per un qualcosa, pretendeva altro di
medesimo o superiore valore. In seguito fu poi adoperata la moneta, come ora. Tuttavia quelle
erano di oro o argento e quindi avevano un valore. Ora invece scambiamo pezzi di carta. Ripeto:
Sono io il folle ?
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Se fermassi qui il mio discorso allora sarei superficiale e vostra facile vittima. Mi crediate, non
vi sto prendendo in giro, la mia non è ironia. Non voglio bollare il mio pensiero come originale e
illuminante. Esso tuttavia sarà singolare, fallace dal punto di vista logico magari, ma mio e di
nessun altro.
Questo denaro, che altro non è che carta, copre principalmente il ruolo di valuta, metro di
giudizio insomma di ogni cosa. Di per sé non ha alcun valore, ma la mente umana, la sua
immaginazione glielo ha conferito. Facendo ciò, paradossalmente, ha acquisito plurimi valori di
certo non obiettivi: c'è chi considera i soldi come motore principale delle azioni umane e chi invece
è costretto a prendere in considerazione l'importanza di esso, rifiutandolo dentro di sé. Ma una
cosa è certa: finché viviamo in società e teniamo contatti con essa, non possiamo fuggire da
questo vincolo, che non sarebbe stato cosi opprimente se non ci fosse un tipo di persona. Sto
parlando di coloro che reputano la consistenza del loro "particulare", solo in qualche commodo
pecuniario più che nell' onore, nel sapersi mantenere la reputazione ed il buon nome.
Questi esseri monotoni e superficiali avranno, se adempiranno al loro desiderio, grande e
lussuosa vita in un mondo limitato, circoscritto alle mura della materialità. Gratteranno solo la
superficie della bellezza che ci circonda. Loro non saranno mai in grado di veder in una goccia di
rugiada, che cade inesorabilmente dalla punta di un filo d'erba, la grandezza della natura che ci
circonda. Meschini! Potrebbero essere paragonati a muli che girano la macina restando dentro ad
un buio stanzino, che si imbarazza innanzi alla grandezza della campagna che lo circonda.
Legare la felicità al denaro è come legare un aquilone ad un fil di carta.
Quanto mi sono dilungato Dottore; son passato da una mia piccola avventura a contorti
ghiribizzi mentali. Noti inoltre la bravura con la quale ho sviluppato il discorso, parandomi anche
dietro lo scudo altrui.
Che ci vuol fare? Sono fatto cosi: se non sfogo il mio pensiero mi sento a disagio, quasi in
trappola. Come fate voi altri a tenervi il vostro mondo nascosto, senza sentire il desiderio di farlo
conoscere e di viverlo diamine! Quando ciò che ci rende unici è stato giudicato come un qualcosa
di negativo, che deve essere assolutamente occultato e soppresso nel tempo ?
Su non si avvilisca, la prendevo in giro. Che vuole che ne sappia di denaro, economia e altre
sventure. Sono egoista? Si, può darsi, ma chi non lo è? Cerco di vivere in quiete, per quel poco che
mi concedete. Sarebbe quantomeno paradossale angosciarsi per una società che ci ha emarginato,
bollandoci come lebbrosi.
Mentre tornavo a casa, vidi un mendicante sul ciglio della strada, seduto sul marciapiede che
mordeva un panino dall'aspetto per nulla invitante. Aveva un aspetto talmente singolare, che mi
sembrava impossibile non averlo mai visto prima. Portava un pizzetto nero molto curato e i capelli
corti tagliati visibilmente a mano poiché a ciocche di riccioli ben curati e lavati, si alternavano
spazi vuoti o quasi. Aveva i denti malati, ma puliti. Lo stesso della faccia e di tutto il resto. Portava
una sciarpa gialla e un cappotto nero all'interno del quale custodiva tutto ciò che la vita non gli
aveva ancora rubato. Desideravo parlargli, ma non sapevo come. Sono sempre stato incuriosito
dai barboni, che, attenzione, non sono sempre mendicanti. Vengono spesso definiti come persone
che rifiutano il contatto umano e che preferiscono la solitudine, ma forse questa è una scusa.
Fatto sta che li ho sempre visti come persone curiose, forse cinicamente. Immobili, appoggiati ad
un muretto, in mezzo al via vai della folla. Con lo sguardo perso, sembravano in un'altra
dimensione, estraniati dalla realtà. Per me sono sempre stati un punto interrogativo, un mistero.
Proprio come me rifiutavano i soldi, pur dipendendone, vivendo più liberi; questa era la cosa che
mi spaventava di più: essere liberi voleva dire ridursi in quella condizione? Tralasciando l'aspetto
più materiale del discorso, vedevo la loro libertà come sinonimo di solitudine. Io stesso ne sono in
parte vittima. Come siamo legati tra di noi! Il mondo stesso è un intreccio di abitudini e modi di
fare comuni. Forse che la totale libertà consista nell'estraniarsi completamente dal mondo?
Francamente, in quest'ottica, preferisco esser schiavo.
Capitolo 3
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Giorno 3 di "Vita". Stavo pensando al nome stesso di questo diario e mi sono accorto di
quanto sia banale. Ho riflettuto tutta la notte e devo ammettere che questa volta mi piace molto
il nuovo nome: " Le imprese di Alberto Sappi"
Già posso immaginare la sua testa che si china indietro e porta gli occhi al cielo quasi come
avesse perso l'ultima goccia di pietà nei miei confronti. Senta cosa ho pensato: Io so bene che
questo libretto andrà anche nelle mani di altri dottori , che a loro volta delegheranno creando via
via un pubblico sempre maggiore. Dunque mi son detto: Non è forse vero che gli scrittori nei loro
romanzi inseriscono il personaggio in un contesto, sempre più descritto nei particolari, per poter
aiutare il lettore ad immedesimarsi?
Bene è giunto il momento di presentarvi la mia casa. Come già potete immaginare essa non è
grande. Si limita a cinque stanze disposte quasi a cerchio in una pianta quadrata: soggiorno,
tinello con cucina, bagno, stanza da letto e studio. Tutti i mobili rigorosamente in legno creano un
ambientazione un po' retrò che non mi dispiace affatto. Se non fossi tormentato nel silenzio dai
loro cigolii, direi che sarebbero perfetti. Lasciamo perdere la descrizione di ogni singolo vano, che
sicuramente vi annoierebbe; li scoprirete man mano che scrivo probabilmente.
Tuttavia mi sento in dovere di raccontarvi del mio studio.
Rettangolare, pochi metri quadri ma accogliente nella sua angustia. Crea un clima intimo nel
quale i tuoi pensieri prendono forma materializzandosi in sbuffi di fumo. Un imponente scrivania
è posta al centro della stanza, e alle sue spalle vi è una libreria con tutti i miei volumi preferiti. Ma
proprio in un angolo dello studio, quasi nascosta nell'ombra, c'è una piccola cassettiera con tutti i
miei ricordi, belli o brutti.
Proprio oggi, mentre leggevo, mi venne voglia di rivedere le vecchie foto di classe, giusto per
ricordarmi che anche io posso essere nostalgico. Che ridere mi sono fatto! Ero li che , mentre
riguardavo i volti dei miei vecchi compagni di classe , ripensavo ai professori che avevo avuto. In
particolare ad uno: il mio insegnante di greco. Non ricordo come si chiamasse, ma ho ancora
impressa nella mente la sua fisionomia. Bruno era e brutto, basso e cicciottello. Portava sempre
appresso la sua valigia di lavoro in pelle nera. Rigorosamente giacca e cravatta e un amabile baffo
che lo rendeva ancora più ridicolo, sebbene ai suoi occhi sembrasse un segno di affermazione. Mi
ricordo che lo immaginavo sempre come una vittima che a sua volta sfogava la rabbia su
sottoposti senza mai trovare pace. Tipico "so tutto io" che in classe era vittima di bulli che lo
perseguitavano.
In cuor suo, in quelle giornate dove tutto il mondo gli sembrava contro, sapeva che avrebbe
avuto la sua rivincita, a qualsiasi costo. Chiuso nel suo studio, vegliava giorno e notte sui libri,
promettendosi la vendetta. Non c'è cosa più frustrante di esser derisi da persone decisamente
inferiori. Tutta quella sua sapienza, voglia di studiare e maturità non avevano giovato per niente
nei primi anni della sua vita, trascorsa nel passare di banco in banco fino ad occupare finalmente
la cattedra.
Che ridere Dottori! Ancora lo vedo li seduto, circondato da poveri studenti che non
desideravano altro che tranquillità, posti invece in balia di quella sua "bic" rossa che lui vedeva
come uno scettro. Ore intere a sudare e pre gare la sua clemenza, sentendo quasi un rimorso di
orgoglio per essersi ridotti in quello stato nei confronti di tale individuo. Eppure lui, basso e brutto
quanto vuoi, gli aveva in pugno tutti.
Eccolo che con sprezzo, sguardo distaccato e fare da signore, poggia con leggerezza la penna
sul foglio e chiama, con voce bassa e un sorrisino che non riusciva mai a celare del tutto, la
vittima della sua ira. La quale, giunta alla lavagna intimidita e tremante, aspetta con ansia una
sua domanda. E' proprio quel preciso istante che lui amava tanto: quando assumeva pieno potere
sul destino altrui. Ora queste parole possono sembrare esagerate Dottori, ma non lo sono affatto.
Per voi forse, che pochi avete sopra e che tutto guardate dall'alto verso il basso, ma per lui, che
invece era abituato ad alzare il mento, quei momenti erano gli unici nei quali si sentiva qualcuno.
Ridendo e scherzando si potrebbe dire che era il suo locus amoenus.
Infondo, se lo scopo della vita è la felicità e il fine giustifica i mezzi, non lo si può
biasimare;ma io, che cercavo, più che la felicità, la serenità e che pensavo che il fine non
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giustificasse sempre i mezzi, lo odiavo. Era per me repellente e non concepivo come non si
accorgesse di ciò. Possibile che fosse così odioso solo per perseguire un piccolo desiderio,
oltretutto figlio della frustrazione e della vendetta?
Questi pensieri maturavano nella mia mente a ricreazione, quando nel cortile della scuola,
insieme ai miei compagni, parlavamo del più e del meno. Ho sempre pensato alla scuola come al
miglior posto possibile per crescere, ognuno a suo modo.
Era come un gran Bazar, dove vedevi di tutto e conoscevi ogni tipo di persona. Agli occhi di
me adolescente appariva come un mondo, quasi a sé stante, ricco di ogni tipo di esperienza.
Quante gioie e quanti dolori in mezzo a quegli angusti corridoi o dentro alle piccole aule quadrate.
Entravo dal cancello principale la mattina, sempre alle 7:55 puntuale, e leggevo sempre la stessa
scritta che nella sua quotidianità coglieva la mia attenzione: "Liceo Classico Statale Francois-
Marie Arouet Voltaire". Spalancavo, per cosi dire, le porte e venivo inghiottito dalla più grande ed
efficiente accademia di vita. Col il passare del tempo, imparavi come sopravvivere, o almeno
questo era lo scopo più comune. Tra di noi compagni di classe, indubbiamente, c'era un buon
rapporto di amicizia: uscivamo spesso insieme e ci vedevamo in biblioteca al pomeriggio per
studiare.
Questo che sto per dire è un evento che mi ha sempre incuriosito e che tutt'ora non riesco
bene ad inquadrare nella mia mente; la sua stranezza è magnifica. Seppur tra noi ci fosse questo
rapporto, ogni volta che la pressione delle valutazioni scolastiche incombeva su di noi, torcendo
budella e torchiandoci poco a poco, risvegliava in molti un istinto, quasi primordiale, di
sopravvivenza. Ognuno per sé e Dio per tutti insomma. Adoravo, forse cinicamente, il momento in
cui uno di noi porgeva una domanda all'insegnante per poter scorgere, chissà, un sorriso o un
qualche gesto positivo che lo rasserenasse. Domanda che di per sé era banale: la maggior parte
delle volte la risposta era ovvia. Eppure, non capisco come, rappresentava un' ancora di salvezza
per molti.
Che dire poi delle valutazioni? Mi ricordo ancora di una mattinata nella quale, dopo che
l'insegnante aveva consegnato le verifiche di italiano, il mio compagno di banco mi disse:
-: Io studio, studio e studio per questa dannata sufficienza eppure...5 un'altra volta.
-: Non devi studiare per il 6, devi studiare per capire italiano. Una volta capito, la sufficienza
vien da sè- gli dissi.
Era illuminato in volto, come se lo avessi svegliato dopo un lungo sonno. Rise e disse:
-: Ma certo ! hai proprio ragione.... sei un filosofo Alby !
Non mi prendeva in giro, semplicemente non aveva capito ciò che avevo detto. I voti, ora che
ci penso, sono stati sempre un metro di giudizio valido, che involontariamente aveva distolto gli
studenti dal vero obiettivo della scuola: l'apprendimento. Erano 5 anni di corsa verso il sei, l'otto o
il nove a detta di molti.
Devo ammettere che ciò mi irritava, ma non gravemente. Ben' altro mi urtava. Rifiutavo
l'assoluta limitatezza di pensiero generale. Che parolone! E' più semplice di quanto sembri. Vi
farò un esempio: il classico tema "cosa vorresti fare da grande?". Tema all'apparenza banale , ma
quando ci venne proposto nel nostro ultimo anno di liceo, assumeva un carattere insidioso.
Sembrava che dovessimo cercare una chiave di lettura che dovesse essere colta e sfruttata per
rendere il tema meno banale possibile. Fare ricorso ad un lessico accurato o puntare
sull'originalità dei contenuti? Siccome la seconda non era di tutti, la maggior parte puntò sulla
prima ,scrivendo papiri di come sarebbe stata la loro futura carriera da avvocato all'insegna della
costante lotta contro l'ingiustizia.
Io invece, folle com'ero e come tutt'ora sono, avevo interpretato la domanda in modo diverso.
Siccome essa era "cosa vorresti fare da grande" e non "cosa potresti fare da grande" iniziai a
scrivere di voler fare il calciatore. Entrare ogni sera in campo, graffiando appena l'erba con le
punta delle dita e sentendo in essa il calore dell'atmosfera. Tutti mi avrebbero incitato e sarei
diventato il loro eroe, un modello di vita per gli intelletti più semplici. Ma siccome, a lungo andare,
sarebbe venuto meno il mio a causa dell'agiatezza della mia condizione, decisi che avrei smesso
per dedicarmi ad insegnare al liceo. Sarei divenuto il modello per gli altri insegnanti, gli avrei fatto
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capire come ci si comporta e dell'amore che bisogna avere per il proprio mestiere. Senza contare
che poi adoravo l'idea di crescere dei giovani e salvarli dal baratro dell' ignoranza. Che
presunzione!
Dopo anni di insegnamento mi sarei dedicato al cinema: sarei diventato l'attore più
importante del mondo. Con i miei film avrei regalato sogni ad intere generazioni. Ed ecco che, con
la fine della mia carriera da attore, mi sarei rifugiato in campagna a godermi ciò che mi sarebbe
rimasto da vivere.
Bello non è vero? No a quanto pare. L'insegnante era diventata rossa come un pomodoro e
tratteneva la rabbia digrignando i denti. I miei compagni, ignorando le mie vere e semplici
intenzioni, ridevano a squarciagola facendola adirare ancora di più. Dopo un attimo di silenzio
generale capii che era la calma prima della tempesta. Ed ecco che, come da previsione, urla e
insulti volavano liberi nell'aula e rimbombavano nel corridoi. Persino il preside, che dormiva come
un bambino nel suo ufficio, venne svegliato e ,mosso più da un senso di dovere scolastico che
rabbia per essere stato svegliato o curiosità, entrò in classe per calmare le acque. Potete già
immaginare come si svolsero i fatti dopo. Genitori convocati e quella povera anima di mio padre
costretta a sorbirsi tutte quelle parole scollegate e prive di senso che ormai erano divenute pane
quotidiano per lui
-: Vede suo figlio, signor Sappi, non penso volesse insultare qualcuno, è solo che il modo di
porre la sua idea poteva essere frainteso.
-: Ma che frainteso, quello mi voleva insultare. Non lo capisce che ci vede come dei miserabili
falliti dall'alto del suo piedistallo?!-inveiva l'insegnante.
-: Mi scusi signorina ma non penso proprio che mio figlio si ponga in qualche piedistallo, lui
forse....
Come al solito venne interrotto bruscamente da un frase ormai di rito che ogni volta, ogni
dannata volta, colpiva al cuore di mio padre che si limitava ad una smorfia di dolore
-: In effetti che ci può fare lei se suo figlio è così...diverso-gli scappò borbottando.
Pover'uomo. Non volevo farlo soffrire, ma lui non capiva che stava patendo non a causa mia,
ma a causa della stoltezza di altri.
Dunque eccomi ora qui, nel mio studio, al caldo, che sorrido pensando a ciò. Ormai è
passato, ma quanto ancora è presente e sarà futuro. Mi sono seduto sulla poltrona e guardando lo
spazio che mi circondava pensavo:Certo che quella sedia messa li sta proprio male .
Capitolo 4
Giorno 4 del libro: "Le imprese di Alberto Sappi". Anche questo titolo mi pare banale, o forse
noioso. Non lo so precisamente, ma non ho tempo di discuterne. Oggi cari dottori è stata una
giornata alquanto particolare e vi spiego il perché senza dilungarmi in noiose preamboli.
Ebbene oggi avevo voglia di un po' d'aria fresca e quale posto migliore del parco cittadino?
Piccolo angolo di paradiso in mezzo ad alti edifici grigi e modulari; posto nel quale non ci sono
auto ma bici e non suona solo la città, ma anche le risate dei bambini. Seppur solitario, non mi
sentivo affatto in soggezione in mezzo a tutte quelle persone e cani che serenamente si godevano
le gioie di un pomeriggio libero. Nel laghetto centrale, come al solito, nuotavano le anatre,
muovendosi lungo le sponde, quasi a chiedere elemosina in un pezzo di pane secco. Proprio
attorno a tali sponde vi erano le verdi e spaziose panchine, con le gambe avvolte dall'erba
rampicante, dando l'illusione di aver messo le radici.
Seduti vi erano nonni e nipoti che lanciavano molliche di pane con gesti dolci godendo, con
stupore e ammirazione, dei cerchi prodotti dal lancio nello specchio dell'acqua che rifletteva quella
serenità e innocenza che solo questo parco poteva generare. In un angolo, parato dai raggi del
sole da un'ampia quercia, vi erano i soliti due anziani che passavano il resto dei loro giorni a
giocare a scacchi. Erano sempre li, sempre loro. Non parlavano quasi mai, non ne avevano
bisogno. Dopo anni passati insieme, gli sguardi dicevano più delle parole. Sembrava che il tempo
si fermasse proprio in quell'angolo, dove nulla cambiava, immobile. Solo le pedine si muovevano
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rompendo questa magica illusione. Ero affascinato da tutto ciò, cresceva in me il desiderio di
avvicinarmi a loro e di goder segretamente di quella loro pace, quasi a volergliene rubare una
parte. Mi trattenni in un primo momento poiché potevo immaginare quanto loro tenessero a
quella che ormai si poteva definire "una tradizione". Non potevo, sarebbe stato sbagliato, ma
sentivo che stavo per esplodere; arrivai dunque ad un compromesso: mi avvicinai, mantenendo
tuttavia la giusta distanza per non intromettermi, ma allo stesso tempo per non apparire
inquietante.
<<Che ideona!>> Penserete ironicamente, ma vedete, non fu cosi facile stabilire tale distanza.
Provai dapprima un approccio matematico, basandomi su canoni ben precisi, applicandoli alla
situazione in cui mi trovavo. Fallii.
Dunque mi affidai alle mie personali sensazioni, stabilendo ad occhio la giusta distanza. Ci
misi quaranta minuti abbondanti e mentre, attorno a me, si accerchiava qualche persona curiosa
di cosa stessi facendo, con qualche bambino che mi chiedeva ingenuamente se fossi pazzo, io mi
preoccupavo di non insospettire quei due. Finalmente avevo raggiunto la distanza ideale: due
metri. Riuscivo a guardare la scacchiera dove le pedine venivano mosse non tanto dall' astuzia
quando dall'abitudine. Il gioco in sé passava in secondo piano: i veri protagonisti erano gli sguardi
e la natura attorno che, insieme a me, faceva da spettatrice.
Mossa dopo mossa la partita non cambiava di intensità; sempre la stessa, lineare. Una tirava
l'altra come se ci fosse un qualche principio di causa ed effetto, non tanto una logica: era come se
sapessero a memoria tutti i passaggi. Gli riusciva facile quanto respirare e ne aveva la stessa
importanza. Quello che agli occhi di molti appare come un gioco noioso, per loro era Vita. Erano
veramente bravissimi, sembravano non ammetter neanche lontanamente l'errore.
Cavallo mangia pedone per far spazio all'alfiere. Arrocco e cavallo mangia pedone, che a sua
volta viene mangiato dalla torre che apre la diagonale per la regina. Pedine in legno che
prendevano vita, in un intreccio di movimenti in ogni direzione che trasformava la scacchiera in
un campo di battaglia.
Ma tutto si arrestò ad un certo punto. Cadde il re, con un tonfo assordante. I due incrociano
gli sguardi attoniti come se fosse successa una cosa mai vista prima. Io stesso, che poco me ne
intendo, non mi capacitai di come uno dei due avesse potuto fare una mossa tanto stupida: dare
uno scacco matto in tre turni. Ed ora chiedeva scusa con gli occhi, scusa per aver spezzato quel
momento magico. L'altro, con un lieve sorriso, porse la mano segnata dal tempo, rugosa e con le
vene sporgenti sulla scacchiera per risollevare il re e portare tutto come prima. Fu come se stesse
portando indietro il tempo.
Appariva divino nel suo agire, nella sua facoltà di annullare ogni errore e riportare tutto come
prima. Con calma, poiché si sa: la fretta esclude la grazia. Ed ecco che tutto era risolto. Un
sorrisino, piccolo accenno di scusa e potevano continuare a vivere.
Io no però. Ero rimasto sconvolto. Mi allontanai pieno di angoscia e mi sedetti su una
panchina guardandomi riflesso sul velo dell'acqua. Come era potuto succedere? Come un
giocatore tanto esperto aveva potuto fare quell'errore senza nemmeno accorgersene?
Errare è umano, certo, ma questa volta era diverso. Lui non aveva preso quella decisione,
essa non era frutto di una meditazione errata. Era semplicemente avvenuta, cosi, senza preavviso,
come un fulmine a ciel sereno. Non era la prima volta che assistevo a ciò. Io stesso sbagliavo in
cose che sapevo fare quasi ad occhi chiusi, ma non ci davo peso, ma questa volta si.
Non potevo ignorare un errore tale, compiuto, sembrerebbe, istintivamente. Dunque è una
proprietà intrinseca dell'uomo sbagliare? Nemmeno l'intelletto più fine riesce a prevenire il
fallimento che, se non è causato da un azione meditata, avviene cosi: inevitabilmente e senza
preavviso? L'uomo è destinato a sbagliare, chi più e chi meno, ma tutti in tutto? Temo che non ci
sia cosa che si possa fare in modo perfetto, prima o poi la si sbaglierà senza nemmeno rendersene
conto. Accadrà come un lutto: all'improvviso senza lasciarci il tempo di rendercene conto. Come
un colpo di fucile al cuore. Guarderemo il nostro sangue cremisi e caldo che colerà lentamente dal
petto senza procurare alcun dolore. Increduli e sbalorditi lasceremo la vita senza essercene resi
conto, senza poter dare un ritratto preciso alla morte.
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Il succo di tutto ciò potrebbe essere la prova dell'inesistenza della perfezione che deriva dalla
semplice incapacità del suo raggiungimento. Per fortuna non è una grave pe rdita. Se esistesse,
potrebbe costituire il più grande limite dell'essere umano, un muro che non lascerebbe guardar
oltre al progresso. Solo l'essere mediocre ane la alla perfezione che di per sé è tremenda. Qualcosa
di perfetto è insuperabile e non lascia spazio a modifiche o miglioramenti, cioè non lascia libero
sfogo alla conoscenza, all'intelletto e alle abilità di ognuno di noi che vengono invece confinate e
alla lunga soffocate dall'idea che non potremmo mai essere migliori. Per tutti gli scienziati,
perfezione dovrebbe essere sinonimo di disperazione.
Ma che fastidio cari dottori quando sbagliamo! Mi sale la rabbia ogni volta che faccio un
errore, di qualsivoglia natura. Forse sarebbe più democratica la perfezione, lascerebbe ognuno in
pace con sé stesso e in armonia con gli altri, senza vivere nell'angoscia di sapere che sbaglierà in
tutto. Vivremmo tutti in un mondo dove vi è una sola idea, una sola corrente di pensiero esatta e
sempre valida; nessuno commetterebbe errori. Dico io: non è vero forse che il desi derio più grande
dell'uomo è la ricerca? La perfezione è solo lo stimolo per essa, una scusa campata in aria per
giustificare anni e anni di apprendimento. Noi forse non cerchiamo il giusto, ma ci accontentiamo
della ricerca in sé, delle emozioni contrastanti che essa genera alternando rabbia e frustrazione a
fierezza e gioia. Questo altalenare ci rende completi, ci fa dimenticare lo scopo iniziale.
Nel mentre delle mie riflessioni, mi accorsi che il tempo, a differenza della mia mente, in quel
parco esisteva e che si erano già fatte le sette di sera. Me ne accorsi grazie alla leggera brezza
serale che mi accarezzava le spalle; la stessa che faceva suonare le fronde degli alberi in un coro
unico. I grilli iniziavano a cantare e qua e là si intravedevano i fi evoli bagliori delle lucciole,
offuscati dalla luce velata e magica che lo specchio del lago rifletteva. Le persone tornavano tutte
alla monotonia della loro routine cittadina, assaporando per un ultimo istante, prima di varcare il
cancello, la purezza di questo posto. Mi alzai anche io, facendo cigolare la panca, e misi le mani in
tasca. Persino quei due anziani, riposti gli scacchi, si apprestavano a far ritorno a casa dove
qualcuno di certo li avrebbe aspettati. Quasi li invidiavo. E' proprio in momenti come questo, che
non riesco ad accettare la mia solitudine , che mi ha posto come privilegiato osservatore del
mondo, ma al tempo stesso mi ha vietato di condividere queste conoscenze con persone care.
Giudice indiscusso dell'uomo, solo in aula, privo di gi uria e testimoni, costretto a sussurrare alle
pareti la sentenza finale.
Tornando a casa non potevo fare a meno che guardarmi intorno, cogliere ogni particolare di
ciò che mi circondava. Il marciapiede grezzo e compatto, grigio e monotono dove spuntava un filo
d'erba che si alzava verso il cielo con tutte le sue forze, poco per volta, perseverando sempre. La
luce dei lampioni che scandiva la strada illuminando i passanti. Riesco sempre ad impressionarmi
di fronte alla banalità e questo mi rallegra.
Dopo aver camminato per mezz'ora buona, mi fermai davanti ad un negozio di libri, un po'
retrò, al centro del quale sedeva un magro uomo anziano. Entrai quasi istintivamente, incuriosito
da un posto che non avevo mai guardato ma solo visto. Incastrati nelle vecchi e mensole e scaffali
non vi erano molti libri di narrativa, dominavano i trattati filosofici, dunque metafisici, matematici
ed etici. Da Talete fino ai giorni nostri. " L'anima" e poi poco dopo "De mundi sensibilis atque
intellegibilis forma et principiis". Quel disordine mi dava alquanto fastidio ma lo ignorai poco
dopo. Tutti quei filosofi, seppur sbagliando, come Copernico o come Democrito, avevano costituito
il sapere moderno attuale che era composto anche dai loro errori. Senza di essi altri non
avrebbero potuto proporre diverse tesi e creare una più esatta conoscenza. Tutti noi siamo
composti dalle scelte che facciamo e dalle loro conseguenze. A volte siamo persino formati dalle
scelte altrui che entrano a far parte della nostra vita. Siamo l'insieme degli errori e delle esattezze.
Ora però mi trovavo in imbarazzo come al solito. Succede ogni volta che entro in un negozio
per dare un occhiata e il commesso o il negoziante stesso, mi pedinano come ombre, chiedendo
<<La posso aiutare?>> per farmi ricordare che ci sono anche loro e se non compro, esco. Ed ecco
che come al solito dovevo rispondere
-: Stavo giusto dando un occhiata, interessanti i vostri libri.... e anche il loro disordine. Non
compro niente, se questa era la domanda, ero affascinato dall'arredamento ma qua lei vende libri
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perciò..... non mi fraintenda, io adoro leggere, ma ora non mi interessa. Le auguro un buon fine di
serata, arrivederci.
Odio recitare formule, la mnemotecnica in generale non mi affascina per niente, ma a volte è
necessaria; come tutto del resto.
Dopo essere uscito al negozio, l'unico mio desiderio era quello di rientrare a casa e di godermi
un po' di riposo.
Salendo le scale del condominio, incontrai il vicino del piano sotto. Un uomo affascinate,
sempre pronto a discutere di cose affascinanti. Statura nella media, robusto e con i capelli grigi
lunghi. Si vestiva sempre con pantaloni di tessuto e portava la camicia bianca, rigorosamente, con
sopra degli adorabili maglioncini. Aveva inoltre anche il vizio di fumare la pipa. Doveva esserne un
collezionista perché, ogni volta che lo incrociavo, ne aveva una diversa.
Adoro l'aroma che ne scaturisce: cosi intenso e delicato, un adorabile paradosso. Fumava e
fumava, circondato da una cortina che sembrava dare sostanza ai suoi pe nsieri. Era un arte la
sua, non un gesto volgare come quello della sigaretta o del sigaro. Con delicatezza e grazia nei
movimenti, tirava fuori dal sacchettino di velluto il tabacco e lo riponeva con attenzione e
omogeneità nel fornello. Tirava fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi e ne prendeva sempre
due. Accendeva con cura la pipa appoggiando delicatamente le labbra al bocchino. Era come se lo
baciasse delicatamente. Ogni volta che lo incontro somiglia sempre di più a Karl Marx; solo che lui
non mi annoia con la politica.
Ci siamo messi a discutere sull'importanza dell'amore per il proprio lavoro e di come esso
possa arricchire chiunque, tralasciando l'importanza del denaro.
Questo discorso era venuto fuori perché l'ascensore, ancora una volta, non funzionava e il
tecnico continuava ad aggiustarlo senza mai ripararlo del tutto. Dopo un po', il discorso si stava
facendo complicato. Lui iniziava a fantasticare su un mondo perfetto, privo di egoismo dove il
lavoro era espressione dell'arte in ognuno di noi. Ero alquanto stanco e mi sarebbe dispiaciuto
fraintendere i suoi discorsi, dal momento che, tra l'altro, erano interessanti. Mi scusai e, dopo
averlo salutato, mi ritirai in casa. Finalmente al caldo, nell'intimo delle mura domestiche, dove
non c'era nulla da capire. Che strano che è il mondo dottori: non basterebbero dieci vite per
raccontarlo. Cosi pieno di contraddizioni che a volte sono impossibili da collegare in un quadro
unico. Mi affaccio alla finestra. Vedo i palazzi e le auto che sfrecciano nelle strade, frettolose e
minuscole come tante piccole formiche. Le luci della città mi incantano: cosi rosse, cosi accese e
belle. Ecco: l'aggettivo giusto è belle, senza girarci troppo attorno.
Tutto questo pensare mi ha stancato, pe r oggi può bastare. A proposito: alla fine l'ho
spostata quella sedia dello studio. Era cosi fastidiosa.
Capitolo 5
Finalmente ho trovato il nome giusto per questo diario: "I Pensieri". In fin dei conti scrivo delle
mie esperienze e delle mie riflessioni affinché voi possiate dedurre cosa c'è di marcio nella mia
testa. Il titolo non è iperbolico né banale, l'aggettivo giusto è raffinato: un insieme scollegato di
pensieri. Già vedo il mio libretto riposto con cura nei vostri scaffali affianco a Pascal e
Guicciardini. Vanesio? Si, forse un poco, ma che c'è di male finché non nuoce direttamente a
qualcuno?
Anche stasera mi tocca raccontarvi della mia giornata. Che bisogno c'è di farlo? Già
conosciamo la sentenza finale, non c'è mica bisogno del mio scritto per confermarla. Tuttavia,
visto che mi tocca e che ora, apparentemente, non ho nulla di meglio da fare, inizierò.
Dunque oggi non ho fatto nulla di particolare fino a poche ore fa. Mi sono alzato di mattino
presto e ho fatto colazione con caffè e biscotti. Fino all'ora di pranzo ho letto un libro e dopo l'ora
di pranzo un'altro. Non li ho finiti, ci mancherebbe: ne ho iniziati due. Dicevo "ci mancherebbe"
perché dubito che un libro, pur scontato e semplice che sia, si possa leggere in meno di un mese.
Ecco io biasimo coloro che si definiscono "divoratori di libri" e che se ne vantano raccontando agli
amici di tomi da cinquecento pagine letti in pochi giorni .
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-: Eh io ho letto questo libro, mille pagine scritte piccole e senza.... ripeto....senza figure , in
solo novanta minuti
-: Niente in confronto a me mio caro. Duemila pagine, dico..... duemila, scritte talmente
piccolo che quasi diventavo cieco a furia di legge. Ebbene si..... sessanta minuti circa, tendenti più
ai cinquantanove.
-: Sciocchezze le vostre..... dico solo un nome: Tre ccani. Tenetevi le braghe perché sto per
dire..... mezz'ora!
Per cogliere l'essenza dello scrittore, la sua anima tra le righe di un racconto, ci serve almeno
un mese, dipende anche dalla nostra empatia. Bisogna fermarsi ogni frase e ragionare su ciò che
si è letto. Ora, questo non vuol dire che ci sia sempre un messaggio nascosto; lo stesso Freud
diceva che, a volte, un sigaro è soltanto un sigaro.
Arriviamo al punto. Questo pomeriggio, verso sera, ero annoiato dalla quotidianità di ciò che
mi circondava. Dopo aver preso il gelato da Perizio e averli pulito le vetrine, decisi di dover
conoscere una parte nuova della mia città. Non volevo nuovi palazzi o nuove vie , ma nuove
persone. Ero in cerca di avventura.
Presi dunque il bus, uno a caso, e scesi quando più mi sembrava opportuno. Arrivai in un
certo luogo, una piazzola che si diramava in più vie. Al centro vi era una statua di bronzo con un
cavaliere, corazzato da parata, che montava un vigoroso cavallo.
Decisi di prendere il vicolo più a sinistra. Imboccato, notai subito tra le fila di negozi,una
porticina bianca e sverniciata, con l'intonaco sgretolato, simile alla pelle rugosa di un anziano.
Spezzava l'ordine modulare del vicolo. Vi erano file di lampioni, che emettevano tutti la stessa
luce. Le pareti erano in mattone, che scandi va ogni singolo centimetro. In quest'ordine, cosi
rigoroso e soddisfacente, saltava all'occhio quell'unico elemento non armonioso del vicolo. Inutile
spiegarvi perché mi incuriosii a tal punto da convincermi ad entrarci.
Ero davanti all'uscio ed ecco che finalmente capii di cosa si trattava. Pareva essere un circolo
di giovani che discutevano di politica, anche se il posto dove lo facevano richiamava più ad un
vecchio fruttivendolo. Vi erano infatti pezzi di casse di legno e restavano ancora inchiodati dei
ripiani per la merce. Saranno stati più o meno una ventina. Al centro del ferro di cavallo formato
dalle sedie, vi era il moderatore: un giovane che avrà avuto poco più di ventiquattro anni. Infondo
alla stanza c'era un computer; penso servisse a fondare la stupidità della tesi altrui.
Neanche avevo bussato e già mi aprirono invitandomi ad entrare. Si rivolse a me il
moderatore e, con un lieve sorriso, mi chiese se avevo piacere di uni rmi a loro. Non sapevo che
fare. Io di politica non me ne intendo, egoisticamente lascio fare agli altri sperando che ne esca
qualcosa di buono. Essenzialmente mi annoia; lo so è brutto da dire. Il compito di un filosofo è
anche quello di partecipare attivamente alla politica, diceva Platone , eppure non ci riesco proprio.
In parte mi disgustava l'idea di aver a che fare con certi tipi. Ne avevo visti di dibattiti politici , ma
era un continuo parlarsi sopra, un continuo voler affermare la propria idea senza con dividerla.
Sembravano dei mercanti di Marracash: tutti ad urlare e smaniare per convincere quanti possibile
a comprare la loro scimmietta.
Avevo paura di essere considerato nel peggior modo possibile: ignorante. Non so perché, ma
dissi di si. Presero una sedia e mi fecero sedere proprio al centro del ferro. Ero un po' agitato,
aspettai che qualcuno iniziasse.
-: Oggi parleremo di come l'uscita dall'euro potrebbe o meno salvare il nostro paese
Si alzò un ometto, tutt'ossa e disse con voce pacata e sottile . Iniziò a decantare le sue ragioni,
spaziando nell'economia, poi nel socialismo, qualche accenno alla pedagogia, ma non vorrei
sbagliarmi e anche se fosse poco conterebbe perché il suo era un tal minestrone che ci potevi
aggiungere qualsiasi cosa che certo non avrebbe sforato.
Si alzarono altri e poco a poco si stava formando il mercato di Marracash. Iniziò uno ad urlare
e come una scintilla, accese l'animo polemico di ognuno. Poco dopo il moderatore si impose,
zittendo tutti e richiamando l'attenzione su di me.
-: Cosa ne pensi.....
-: Alberto, mi chiamo Alberto
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-: Scusa! Con mille nomi a volte me ne scappa qualcuno. Cosa ne pensi Alby?
-: Alberto, mi chiamo Alberto
Storse un po' il naso ma riprese
-: Si, cosa ne dici? Anche secondo te è impossibile attuare un' uscita dall'euro?
Non sapevo che dire, optai per girare attorno all'argomento cercando di attirare l'attenzione
sui vocaboli raffinati più che sull'idea in sé. Volevo che anche il mio minestrone fosse buono.
-: Ma si capisce, ma si capisce. Impossibile dico io, impossibile. Certo oltre che ai problemi di
svalutazione e possibili prese di potere da parte di lobby vi è anche un ulteriore problema: le
amicizie. Scusate ma avete una minima idea di quanti amici dovremmo lasciarci alle spalle. Niente
più incontri, scambi di battute e cene a spese dello Stato. Niente più vignette umoristiche su i
nostri e i loro politici. Sarebbe come cambiare classe all'ultimo anno di li ceo; buttare via tutte le
esperienze fatte insieme......
Venni interrotto bruscamente dal giovane a capo che era palesemente infastidito. Mi guardai
attorno: c'era chi rideva e chi invece condivideva quel senso di fastidio generato dal mio discorso,
che avevano mal interpretato. Io cercavo solo di difendermi, non di prenderli in giro.
-: Guardi che non siamo qui per divertirci, cerchiamo di preservare l'interesse alla politica in
un mondo dove ormai tutti i giovani se ne fregano!
-: Non vi biasimo: Onore e prosperità a voi; è che io sono fuori luogo: non ne so niente.
Rimase impassibile, neutro a ciò che avevo detto. Si calmò e , dopo essersi seduto, rimase in
silenzio. Non sapeva come reagire; era una situazione talmente strana per lui e anche per gli altri
che aspettavano una risposta dal loro capo. Anche io l'aspettavo e li guardavo come per chiedere
se avrebbe detto qualcosa. Dopo qualche secondo di silenzio generale, capii che sarebbe stato
meglio approfittare della situazione per uscire. Mi alzai lentamente per non fare rumore e con un
lieve cenno di saluto, me ne andai.
Sorprendentemente, una volta di spalle al circolo, regnava ancora il silenzio. Strano! Mi sarei
aspettato invece qualche invettiva nei miei confronti. Comunque di tutto ciò devo ammettere che
ho gradito il clima generale. Già il solo sforzo di acculturarsi è lodevole, qualunque sia il risultato.
C'era solo un problema: non sapevo come ritornare a casa. Il mio senso d'orientamento si
basa sugli edifici. Strano da dire, ma posso contare i nomi delle vie che conosco con la punta delle
dita.
Ho preso lo stesso bus dell'andata e sono sceso appena ho visto qualcosa di famigliare;
diciamo che ho fatto l'opposto dell'andata.
Giunto nella strada dove abito, incontrai il mio vicino, l'uomo baffuto che somiglia a Marx; si
chiama Guglielmo De Rovere. Lo incontrai proprio sull'uscio mentre stava uscendo, imbacuccato
nel suo giaccone verde. Dopo esserci salutati mi chiese cosa avessi fatto oggi.
Notavo in lui una certa curiosità nei miei confronti , come se mi considerasse un oggetto
interessante di studio, ma non in senso offensivo, non ero una cavia. Aveva veramente piacere di
parlare con me, uno dei pochi con il quale si poteva confrontare. Nella mia palazzina infatti non
spiccavano menti brillanti e i discorsi spesso orbitavano intorno al calcio o a quanto fosse difficile
mandare avanti la baracca.
Io rappresentavo per lui la possibilità di sfogarsi, sapendo che chi aveva davanti non annuiva
in maniera accondiscendente pur di levarselo di torno.
Ogni volta che parlavo, lui mi guardava e ascoltava con molta attenzione. Mi studiava e
cercava di cogliere ogni frammento del mio pensiero cosi folle e puro. Oserei dire che cerchi di fare
il vostro mestiere Dottori. Eppure non mi da fastidio, anzi, ne sono onorato. Vedete, io
rappresento ai suoi occhi qualcosa di unico e irripetibile. Tutti lo siamo, ma io di più.
Ironicamente sono più unico di voi.
Gli raccontai della mia avventura al circolo e lui rise, ma non svogliatamente; una semplice
risata pacata e breve, come se anche lui avesse fatto un esperienza del gene re.
-: Eh ma si sa! I giovani cercano sempre di aggrapparsi a qualche movimento, si sentono
inconsciamente fragili; incapaci di affermare una loro idea, una loro corrente di pen siero; la
bellezza della gioventù risiede nella sua instabilità. Sai Alberto, a volte molte parole vengono
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fraintese e bollate come negative. La parola "malattia" genera sempre panico e angoscia.
Richiama, per molti, solo cose negative. Un malato può essere uno con solo un semplice
raffreddore passeggero. Sto divagando, lo so -disse, dopo essersi ricomposto, portando la mano
alla barba.
-: Si figuri a me fa piacere la divagazione: non è affatto disordine, ma ordine più complicato.
-: Ha ragione. Comunque non poteva non entrare e basta ?
-: Curiosità, troppa. Voler conoscere qualcosa di nuovo è sempre stato un mio vizio.
Siamo andati avanti un'ora a discutere del più e del meno. Non di argomenti leggeri, sia
chiaro, ma in modo vago di tutto, senza approfondire. Se lo avessimo fatto, avremmo perso la gioia
di una cosi piacevole conversazione.
-: Lei è davvero una persona deliziosa signor Alberto, le si può raccontare di tutto. Comincio a
pensare che il titolo di "matto" lei lo porti come un segno di onorificenza, ma non come una
trasgressione. Mi spiego meglio: lei va a braccetto con Erasmo, il dio della follia. La cosa
sorprendente è che lei non ha colto il suo scritto come un semplice momento di svago, o fuga da
un mondo intellettuale, che più che dialettica era ben poco. Rimpiango spesso la mia indole così
pensierosa. Ho sempre reputato il solo pensare, porsi domande e ragionare come un qualcosa di
onorevole, ma col passare del tempo ti divora l'anima. Non riesci più a goderti la semplicità delle
cose, solo il lato più complicato di esse che soddisfa la tua mente, ma non il tuo spirito. Divago,
divago, lo so!
Tornando a noi, dicevo che lei ha qualcosa di unico, un punto di vista che pochi privilegiati
hanno. Un insieme di eventi apparentemente scollegati tra loro ti avrà concesso di startene là, su
una nuvola, lontano da questo mondo e dalle sue tentazioni, per osservare. Dunque come può la
tua mente non ritenersi saziata?
Tuttavia io mi domando: e il suo spirito? Come può lei cogliere la semplicità della vita?
Me ne ero accorto, sapevo dove voleva andare a parare. Aveva trovato, nel poco tempo in cui
mi aveva frequentato, l'unico mio punto debole, il tallone d'Achille del mio modo di vivere. Iniziavo
a sentirmi a disagio poiché avevo riflettuto più volte su quell'argomento e non avevo mai trovato
una risposta convincente. La paura si manifesta innanzi all'ignoto, il disagio davanti a ciò che si
conosce perfettamente.
-: Sto parlando della solitudine signor Alberto.
Ci fu un attimo di silenzio, una pausa drammatica prima della sentenza finale , direbbe un
commediografo. Lo guardai negli occhi sudando freddo.
-: Ecco, io penso che su di lei non debba gravare il peso della solitudine. Sarebbe uno spreco
imperdonabile. Come può lei privarci della sua influenza? E' egoistico e oltremodo maleducato.
L'uomo, la usa essenza, si plasma col tempo attraverso tutte le esperienze a cui partecipa; siamo
frutto di esse capisce? Dunque una sua partecipazione alla vita sociale non potrebbe fare altro
che giovare ad ognuno di noi. Il suo pittoresco modo di pensare non deve tenerlo egoisticamente
tutto per sé. Immagini se Leonardo Da Vinci ci avesse tenuto nascoste le sue scoperte, o se
Cartesio non ci avesse scritto del suo metodo.
Dentro di me tirai un sospiro di sollievo. Il giudizio di un tuo pari, se negativo, può essere la
verità più dura da accettare. Avevo paura che lui avesse potuto smontare le mie credenze, la mia
coerenza intellettuale, tutto ciò che avevo costruito sino ad ora insomma. Il mondo mi sarebbe
crollato addosso e proprio come Cartesio, mi sarei ritrovato in un posto buio a chiederm i se esisto
veramente, davanti al giudice più imparziale e crudele che ci sia: la mia coscienza.
-: Che ne dice dunque se iniziassimo questo "cambio di percorso"? Realizziamo questo
ghiribizzo della mia mente. Poi, detto tra noi, lei si stava stufando di questa solitudine.
Non sapevo cosa rispondere, era come se avesse preso le redini della discussione lasciandomi
spiazzato, inerme e vittima delle sue divagazioni. Non sapevo cosa sarebbe successo, a cosa sarei
andato in contro. Avevo paura.
-: Non le pare un po' sentenziosa questa sua ultima affermazione signor De Rovere? Era
andato cosi bene, si è sciupato nel finale -dissi con ironia, masticando amaro.
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-: Si, certo che lo sono, ma a fin di bene e soprattutto dalla parte della ragione. La solitudine è
l'unico male che l'uomo non può sopportare, siamo fatti cosi. Possiamo restare soli, in compagnia
dei nostri pensieri, ma alla lunga finiscono o per annoiarci o per ucciderci. Cicerone stesso lo
ammise, dicendo che se un uomo potesse osse rvare l'universo dalla cima più alta di un monte,
non ne potrebbe godere a pieno senza prima condividerlo con qualcun'altro.
Dunque la mia proposta è semplice: che ne direbbe di venire domani se ra a cenare con la mia
famiglia? Sarebbe un' ottima occasione per conoscere mia moglie, che a sua volta potrebbe
inserirla nello strabiliante mondo della vita mondana. Ma si capisce! E' perfetto, mi basterebbe un
suo "si" per ufficializzare la cosa.
Non riuscivo a trovare un motivo per esentarmi da questo esperimento. Ero incuriosito e
risollevato. Provavo una sorta di felicità infantile, inspiegabile, che proveniva dal cuore. Sentivo
che avevo davanti un' opportunità che non dovevo sciupare; raccogliermi nell'indifferenza o nella
paura sarebbe stato come mettere un piede nella fossa perché ormai lui aveva fatto breccia dentro
di me, mi aveva messo a nudo, davanti alle debolezze che nel corso degli anni avevo tentato di
seppellire con la sabbia. Con un sol soffio, aveva spazzato via di netto quella polvere dorata.
-: E' impressionante come lei riesca sempre a cadere in piedi signor Guglielmo. Dico che non
c'è nulla di male nella sua proposta, anzi, non può far altro che giovarvi - dissi sorridendo.
-: Lo considero un "Si" ?
-: Lo consideri un "Si".
Ci scambiammo un sorriso di approvazione, una stretta di mano e poi addio. Ognuno per la
sua strada fino a domani sera. Comincio a pensare, per gioco e, chissà, magari poi veramente, che
quest'uomo abbia più possibilità di voi di "guarirmi".
Capitolo 6
Non ho più voglia di scrivere, ogni volta, giorno e nome di questo libretto. Crea un freddo
distacco tra il lettore e me, per non parlare della sua monotonia che alla lunga finisce per
esasperare chiunque. Capisco che a volte le abitudini possano essere le nostre più care amiche; ci
ricordano chi siamo e cosa stiamo facendo, ma hanno il vizio di annoiarci. La vita ha cosi tante
sfaccettature che sarebbe ottuso viverne solo alcune, creandosi attorno un recinto.
Oggi è stato un grande giorno, l'inizio di un nuovo pe rcorso. Come già sapete questa sera ero
ospite del signor De Rovere. Che dire? Una serata deliziosa.
Dovevo presentarmi alle otto in punto e siccome il tragitto non era lungo, giusto una rampa di
scale, me la presi comoda. La mia più grande preoccupazione sul momento fu come vestirmi. Lo
so è sciocca, ma ne ero brutalmente vittima e un po' me ne vergognavo. "L'abito non fa il monaco"
mi ripetevo nella testa, eppure non riuscivo a mentirmi abbastanza bene per sottrarmi da
quell'angoscia. Era più un moto di orgoglio che mi rendeva insopportabile la mia condizione, ma
poi riflettendoci, l'orgoglio è un sentimento di poco conto. Ho pensato dunque che in realtà è un
bene che mi preoccupi. In fondo è un bene che l'apparenza abbia questa forte influenza su di noi;
permette ai più insicuri di proteggersi attorno ad un manto di nulla. Più meritocratico forse, ma a
volte ingiusto, come ogni cosa. C'è sempre un grigio; mai bianco, mai nero.
Aprendo l'armadio di legno d'ebano, mi riflettevo sulle sue pareti cerate. Trovai il mio vecchio
abito da sera, ma mi sembrava fuori luogo. Optai per qualcosa di più "casual", rimanendo sul
classico. Presi dunque una polo bianca, maniche corte e con un grazioso stemma verde sul pe tto.
La abbinai a dei pantaloni di tessuto marrone scuro e ad un maglione di lana verde prato. Ero
stupidamente orgoglioso di me e fieramente mi specchiavo sul riflesso dell'armadio. Non sono
brutto, ma neanche bello. Non ho fascino, e questo mi rende paradossalmente attraente.
Giravo intorno alla stanza, osservandomi più volte sul riflesso del mobile. Continuavo a
pensare a come comportarmi, anche se in fondo il padrone di casa desiderava spontaneità.
Pensandoci bene tutti noi siamo sempre spontanei. Il pe nsare prima di agire è un comportamento
di per sé, non un preludio ad esso. Il modo di pensare è poi diverso da persona a persona. Forse
non esiste la non-spontaneità, tutto lo è. Non credevo a quello che dicevo, nemmeno Lord Henry lo
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faceva. Questi miei ghiribizzi li consideravo solo come possibili ipotesi; fantasie divertenti, fatte
senza doversi preoccupare della loro veridicità.
Mentre mi vestivo, infilandomi delicatamente i pantaloni, pensavo al dilemma delle maschere.
Il problema è cosi fatto: in un mondo dove l'introspezione psicologica è pressoché impossibile o al
limite superficiale, l'uomo è costretto ad indossare maschere, identità, al fine di identificarsi in un
modello comune ed inserirsi nella vita sociale. Il problema è capire se indossarle sia una cosa
positiva o negativa.
Le maniche di una polo sono sempre difficili da abbottonare ai polsi. Dannazione! Ogni volta
la stessa storia! Da piccolo c'erano i miei a provvedere, ma ora non più. Che irritazione! Non
volevano proprio entrare quei bottoni.
Pensavo intanto, che non è poi cosi negativo che esistino queste maschere, nemmeno lo è
indossarle. L'uomo è unico e in quanto tale irripetibile. Ci caratterizziamo per il nostro "io"
interiore, ma se siamo tutti unici e quindi diversi, come facciamo a stare insieme? Trovando
qualcosa che ci accomuna, è ovvio. Dobbiamo vestire maschere che si possano abbinare tra loro
solcando il grande palcoscenico della vita.
Finalmente un bottone era scivolato, ne restava uno solo. Non ne voleva sapere di stare al suo
posto. Stavo diventando rosso dalla rabbia. Santo cielo è possibile che il diavolo si manifesti in un
bottone!?
Nel mentre della mia rabbia, come parallelamente ad essa, mi convincevo sempre di più che
la spontaneità fa terribilmente paura. E' imprevedibile e non lascia spazio a previsioni. Terrorizza
tutti e quindi è un bene che esistano queste maschere; ma ci possono essere diversi livelli di
spontaneità? Possibile, a seconda della nostra curiosità.
Non credevo neanche a questo.
Finalmente ci sono riuscito, stavo per diventare matto. Almeno il tessuto di questa polo
evitava quel fastidiosissimo pizzichio del maglione. Questi pantaloni, in fin dei conti, sono gli unici
innocenti. La mia tensione si stava trasformando in maniacale accidia per ogni futile cosa, mi
annebbiava la mente e mi faceva sragionare.
Una volta vestito, tirai fuori dalla scarpiera in camera da letto un bel paio di scarpe nere
laccate. Strofinai sulla pianta una patata tagliata; più per consuetudine che per altro. La suola di
queste scarpe infatti è estremamente scivolosa e una leggenda, partorita penso nei salotti dove
donne pettegole bramano in cerchio contro i mariti , dice che l'amido previene imbarazzanti
scivoloni.
Vestito di tutto punto, non mi restava altro che recarmi all'appuntamento. Sistemai sull'uscio
della porta i capelli, alla bene e meglio si intende, e scesi le scale con attenzione, poiché non ero
ancora, in trentasei anni, convinto dell'efficacia dell'amido. Appoggiandomi delicatamente al
corrimano, scesi quella rampa meditando e fantasticando su quello che mi aspettava appena dieci
gradini più in là.
Davanti all'uscio di casa De Rovere, suonai il campanello. Un dolce squillo avvertì della mia
presenza e subito sentii distintamente la corsa di qualcuno, che stava venendo ad aprirmi. Senza
nemmeno chiedere <<Chi è ?>>, la figlia del signor Guglielmo spalancò la porta, come se stesse
spalancando un portone di accesso ad un mondo meraviglioso e inesplorato.
-: Salve signor Sappi! Entra, papà ti aspetta. Detto tra noi, lui odia aspettare, si arrabbia!
Doveva avere pressoché nove anni. Il viso rotondo e soffice, di quella pelle puerile ancora
candida, era cosparso di adorabili lentiggini che si raggruppavano sulla punta del naso. Due
grandi occhi verdi, capaci di meravigliarsi di tutto, incorrotti dalla realtà e socchiusi nei dolci
pensieri. Vestita di tutto punto e con le trecce bionde, mi guardava sorridendo nell'anima.
Mi sentivo inerme innanzi alla purezza infantile, che mi incantava con la sua fragilità . Un
sentimento di pietà mi sorse dal profondo, pensando che un giorno quegli occhi di un verde vivo,
diventeranno paludosi e neri attorno, uccisi dal vivere.
-: Non dovrà mica arrabbiarsi papà, eccomi dunque. Salve a tutti!
Il tempo di sentire lo strisciare di una sedia e Guglielmo era già alla porta. Non era mai stato
così affascinante. Capelli laccati all'indietro e barba pettinata che scendeva sin sul maglione rosso
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con una deliziosa fantasia geometrica. Portava dei pantaloni di jeans blu scuri che risaltavano con
le scarpe di pelle marrone. Che fascino!
-: Eccoci dunque, come siamo eleganti questa sera! -scherzò stringendomi la mano.
-: Ma questo non è essere eleganti, o ci vuole cosi poco?
-: L'eleganza è oggettiva e dipende dal contesto. Lei per quest'occasione è elegante, ma per
una cena di gala non lo sarebbe; anzi, probabilmente susciterebbe invidia agli altri partecipanti,
che sarebbero costretti a sopportare le spalle strette dell'abito da sera. Entri pure, non è decoroso
fare eco nella tromba delle scale, specie se gli altri non ne colgono la bellezza.
Fece un cenno con la mano per poi accarezzarsi la barba.
Entrai. La casa era semplice e vissuta; adattata alle esigenze famigliari senza badare
all'estetica che sicuramente avrebbe messo a disagio gli ospiti. Vi erano dei giocattoli sparsi qua e
là, foto di famiglia su ogni muro e anche qualche innocente scritta che più volte avevano cercato
di smacchiare. Il corridoio conduceva al salotto, attorno al quale si sviluppavano gli altri vani. In
mezzo all'ampia sala, vi era il tavolo con cinque posti. Erano già seduti due signori che non
conoscevo e che neppure avevo mai visto.
Uno aveva i capelli corti marroni, un naso lungo a punta e occhi neri scavati. Evidentemente
segnato dal tempo, come le sue rugose mani con le quali accarezzava la tovaglia. Magro e con un
sorriso sinistro stampato in faccia. Il secondo, evidentemente suo amico, era l'esatto contrario.
Sembrava il suo "alter ego". Viso paffuto, occhi luminosi e azzurri. Capelli biondo cenere, lunghi
che circondavano il viso. Sembrava l'emblema del benessere, anche se irritava quel suo sguardo
approssimativo e distaccato che analizzava superficialmente tutto. Addentando un grissino, fu il
primo ad alzarsi per porgermi il suo saluto. Era basso e grasso, evidentemente sovrappeso. Goffo
nei movimenti, già rosso in viso dalla fatica. Respirando affannosamente, mi porse la mano e tra
un colpo di tosse e l'altro disse
-: Salve, io sono Claudio Tassori, amico da anni di Guglielmo. Quello là, che neanche si degna
di alzarsi, è Enrico Malessere. Non rida del suo cognome, semmai della sua negligenza nel
cambiarlo.
Parlava lentamente arrotondando le parole, che uscivano dalla sua bocca come una melodia
dolce e assonante.
-: Piacere, il mio nome è Alberto, del cognome poco importa, giusto? In fin dei conti, un
cognome buffo basta e avanza.
Accennò un sorriso sulle sue paffute guance, e mi strinse energicamente la mano.
Lentamente si alzò anche l'altro e accennando un saluto con il capo si risedette. Non era
maleducato, anzi, anche io odio queste inutili presentazioni. Cosa vuoi che sia il nome di una
persona che non conosci? Non più di un marchio, non meno di un etichetta bianca.
-: Hai conosciuto anche mia figlia. Adorabile non è vero?
Non era affatto arrossita per quei complimenti. Scuoteva la testa in segno di approvazione,
abituata ormai a quel genere di lusinghe.
-: Sù! chiama la mamma!
Corse velocemente in cucina urlando <<Mamma vieni dai>> e subito uscì la signora De
Rovere. Che donna meravigliosa nella sua impe rfezione. Aveva un brutto naso cascante, ma
meravigliosi occhi. Stempiata appena, ma con chiome dorate lucenti. Voce graziosa e un senso
spiccato di compostezza. Non mancava proprio niente in questo quadro famigliare dalle mille
tonalità.
-: Signor Alberto! Si accomodi la prego, stavamo giusto per iniziare cena.
Presi un posto a tavola affianco al padrone di casa; cosi lui voleva. Piatti, forchette, coltelli,
tovaglioli, tutto a suo posto secondo le precise quanto inutili regole del Galateo.
Uno sfavillare di luci argentate in armonia con le decorazioni floreali dei piatti. Tovaglioli color
panna, setosi e morbidi che quasi mi sembrava un peccato sporcarli.
Aspettavamo, più che la prima portata, che qualcuno spezzasse il rumoroso e sibilante
silenzio che da parecchi minuti aveva preso parola. Scambi di sguardi per capire le mosse altrui,
come se giocassimo a dadi.
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Guardai Guglielmo riponendo fiducia in lui, in fondo era il padrone di casa. Ora, si che di
solito ai convivi vi è il giullare o l'ubriacone che prende in mano le redini della conversazione
buttandola sul ridere, ma loro avevano a disposizione un folle. Non ero timido, sebbene ebbi per
qualche secondo l'angosciante terrore di essere intellettualmente inferiore a quelle due figure, che
fieramente sedevano in quella sala. Non c'è niente di peggio. L'intelligenza aimè è un dono divino,
o genetico, guardatela come volete. Non dipende da noi, lo abbiamo e basta. Come posso valutare
una persona in base alla sua intelligenza? Equivarrebbe a misurarne, se si potesse, la sua
fortuna.
Meno male che l'uomo ha inventato la sapienza. La chiave per essere saggi è la buona
volontà, cosa che tutti possiamo avere. Più meritocratica dell'intelligenza, ma in questa sua
peculiarità non lascia spazio alla negligenza. Dona all'uomo uno dei più grandi poteri: il giudizio.
-: Dunque, cari amici vi presento Alberto Sappi, la persona più deliziosa di questo palazzo.
Proprio ieri sera stavamo discutendo di questo e non potei fare a meno di fargli presente della sua
solitudine. Sarebbe un peccato non poter godere della sua compagnia, dal momento che qui
dentro è il più sveglio; pensate, sta scrivendo persino un libro.
Rise tra sé e sé. Non era ironico, ma mi aveva volutamente posto su un piano superiore per
destare curiosità negli ospiti, che subito vennero scossi da quelle parole come se stessero
pensando ingelositi << Ma come,non ero io il più sagace?>>
-: Ah davvero signor Sappi- disse Enrico - bhe, allora è un piacere averla qui con noi! Deve
sapere che nutro un forte senso di disprezzo ogni volta che metto piede fuori di casa. Impallidisco
innanzi alla stupidità altrui, ma allo stesso tempo me ne faccio vanto e non potrei viver senza, mi
capisce?
Aveva una voce pacata, modulare. Lineare fino all'esasperazione.
-: Che vanitoso, datti un contegno -iniziò il signor Claudio, sistemandosi sulla sedia- Non lo
ascoltare, lui ha una cattiva influenza su tutti, meno che noi due - disse guardando Guglielmo -
Non si lasci trasportare dalle sue baggianate. E' colto e a volte sa essere anche intelligente, ma mi
creda, non deve prendere sul serio nessuna delle cose che dice.
Il primo piatto era in tavola: pasta al pomodoro. Semplice, ma cucinata con quell'amore
materno che rende irresistibile un pezzo di mollica. La pasta fumante veniva servita con cura ed
eleganza dalla signora Lucia; cosi si chiamava la moglie. Me lo suggerii il signor Enrico, con un
sussurro, prevedendo la possibile situazione di imbarazzo che si sarebbe venuta a creare.
-: Buon appetito!- disse Guglielmo con un caldo sorriso, guardando Enrico per un istante.
-: Vecchio mio- disse proprio lui - dire buon appetito è maleducazione. A proposito, di cosa
tratta il suo libro?
Pacatamente riposi la forchetta che ormai aveva perso il suo luccichio, imbrattata dal sugo, e
dissi
-: Libretto più che altro. Non vi ha raccontato della mia situazione il signor Guglielmo?
Nessuno parlava, evidentemente no.
Non lo fece, ma di proposito. In questa serata lui rivestiva il ruolo di moderatore. Come un
abile burattinaio stava orchestrando tutto facendoci ballare a suo piacimento. Era come se avesse
previsto tutto. Mi accorsi solo dopo che il " buon appetito" era solo un pretesto per iniziare una
nuova discussione. Sapeva che Enrico desiderava conoscermi più a fondo, mentre a Claudio
bastava un piatto di pasta per perdere il filo del discorso.
-: Oh bhe, dunque spetta a me questo compito!
Ero pacato, mi sentivo a mio agio a parlare di me. Certo non desideravo la loro compassione
per svincolarmi un po' da quella pressione, ma non volevo nemmeno stare al gioco di Guglielmo,
per quanto potesse essere divertente.
-: Vedete, io sono un pazzo. Semplicemente questo.
Lucia era diventata rossa, mentre la piccola sorrideva. I due ospiti invece rimasero
impassibili, con la fronte corrugata, intuendo che non si trattava solo di un'esclamazione goliarda.
Qualche secondo di silenzio mi fece capire di dover altre spiegazioni.
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-: Per farvela breve, io sono ,medicalmente parlando, un malato psichiatrico. Purtroppo per
colpa di Freud, la gente si focalizza solo sull'aspetto più bizzarro del mio comportamento. Diciamo
che sono più un folle alla Erasmo da Rotterdam. Dall'alto della mia nuvola osservo il mondo,
senza influenze e pregiudizi. Sarebbe tutto magnifico se, nell'oscurità della mia stanza, non fossi
costantemente infastidito dalla solitudine. Mi reputo una persona simpatica, ma dopo un po' mi
annoio di me stesso. Cosi Guglielmo mi ha offerto questa opportunità d condividere le mie
esperienze.
Questo, finito di parlare, si rivolse a me con un sorriso velato da un senso di amarezza per
avergli rovinato il gioco. Dopo questo mio intervento mi sentii a mio agio, nel vivo della
conversazione. Non avevo più paura di confrontarmi con loro.
Il signor Enrico, accarezzando con le lunghe e ossute dita la forchetta, disse
-: Condizione meravigliosa la sua, la invidio. Capisco la morsa della solitudine, e quanto essa
possa esasperare, ma cosa sarebbe la vita senza il dolore ? Resilienza mio caro, l'arte di sapersi
adattare. Comunque ha fatto bene ad accettare l'invito, lo dico per me. Esattamente come
Guglielmo, non vedo l'ora di frequentarla. Sono precipitoso? Lo so, ma ho sempre odiato i
tentennamenti. Il nostro "io" può essere terrificante a volte. Guardi l'ingordigia di Claudio; il modo
con il quale si ciba della pasta, avidamente ingollata. Sembra che ci si stia farcendo come un
tacchino; non la terrorizza questo?
-: Pugno di sabbia.... basta un pugno di sabbia. -dissi divertito da Enrico.
Claudio non si infastidii, semplicemente rise. Era abituato a sentir battere quel chiodo.
-: E che c'è di male dico io. Il cibo sazia lo stomaco e rasserena il cuore. Curare l'anima con i
sensi, e i sensi con l'anima. Invece tornando a lei signor Alberto, come diceva Enrico, deve essere
interessantissimo il suo punto di vista: unico oserei dire.
-: Ma certo si capisce!- disse Guglielmo - non siate ripetitivi. Ricordatevi che questa deve
essere una piacevole serata per il signor Alberto, non un interrogatorio. Lui non è mica un oggetto
di studio!
-: Mi sento di dissentire, amico mio - interruppe Enrico con la sua solita compostezza- vedi
tutti siamo oggetti di studio per tutti. Non è affatto paradossale. L'uomo è istintivamente spinto a
voler capire ciò che l'altro pensa, per sopravvivere. Involontariamente, o quasi, eseguiamo
continuamente introspezioni psicologiche, anche se il più delle volte sono sbagliate. E' questo il
loro fascino.
-: Quanto sei noioso, te ne rendi conto? I tuoi interventi sono più sfoghi che altro. Comunque
devo ammettere che m piacciono -disse Claudio, provandoci gusto.
Intanto ognuno di noi aveva terminato la prima portata e già da dieci minuti ci era stato tolto
il piatto. Usciva dalla cucina un enorme arrosto, magro e appena croccante in superficie. La
piccola Giulia si era alzata ad odorarlo e aiutava la mamma a servirlo nei deliziosi piatti piani,
decorati con un motivo geometrico a rettangoli.
Nel tagliere, la carne rilasciava il sugo caldo e speziato che colava dai bordi, raccolto con
avidità dalle dita graziose e rosa della piccola. Cadevano lentamente le fette, e nel medesimo modo
vennero servite, senza quella fretta che deturpa ogni cosa.
Come accompagnamento v'erano delle deliziose e caramellate patate al forno, speziate con
rosmarino e addolcite dalla cipolla. Lucenti e dorate, oggetto di lusinghe per quella povera donna
che con tutto il suo zelo le aveva preparate, chiusa nei quattro muri della cucina. Un fumo denso
e incantevole saliva dalla superficie croccante, annebbiando la mente del povero Claudio che
proprio non riusciva a trattenersi. Senza nemmeno aspettare di esser servito, ne prese una e la
mise in bocca, assaporandone tutti i sapori in un sol momento, per poi ingollarla per paura che gli
venisse rubata. Sotto lo sguardo di commiserazione di Enrico e quello di derisione del padrone di
casa, le sue guance paffute e rotonde arrossirono repentinamente, come quelle di un bambino
scoperto con le mani nel miele. Giulia rise, rise e non riuscì a smettere. I suoi occhi mostravano
tutta la loro lucentezza e ingenuità, specchi di un mondo non ancora corrotto.
-: Cerbero ne abbiamo un'altro! -disse scherzando Guglielmo -se non disdegni l'odore acre e la
pioggia battente su terra marcia, ne avrai da godere in eterno.
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-: Suvvia, non siate così noiosi; dico anche a lei signor Enrico. Questa è una cena tra amici,
mica tra colleghi. Sapete, ognuno di noi ha una sacca con dentro i suoi vizi e difetti. Però la
teniamo dietro la schiena, invisibile ai nostri occhi, cosicché non ci disturbi la sua angosciante
presenza, costituendo solo un doveroso carico. Occhio non vede, cuore non duole. Anche perché il
buon vecchio Fedro ci dispose tutti in fila indiana, cosicché potessimo rallegrarci dei difetti altrui.
Dunque non rimproverate Claudio, che con così tanta teatralità ci mostra la sua saccoccia.
Scoppiarono tutti a ridere, tranne Enrico. Lui si rallegrò in silenzio, nel cuore. Si era accesa
nei suoi occhi una luce nuova che prima non avevo notato. Posso dire con sicurezza, e non mi
consideriate vanesio nel farlo, di averlo colpito. Finalmente sentiva che qualcuno, oltre a
Guglielmo, avrebbe potuto stimolarlo.
-: Ha ragione, condivido pienamente.
Semplicemente questo, non disse altro in merito quell'enigmatico uomo ossuto.
-: Signor Alberto, a lei piace il golf ?
Quella domanda così improvvisa di Claudio mi aveva lasciato spiazzato. Lo stesso Guglielmo,
che fin ora aveva tutto sotto controllo, spalancò gli occhi per poi sorridere in un espressione che
rivelava tutta la sua curiosità.
-: Non ho mai giocato a golf, ma l'idea di farlo non mi esalta. Sarei dunque molto interessato a
provare, conoscete un posto dove andare?
-: Ma si capisce, il club " Piastrini Golf" è l'ideale. Oltre al gioco, si può dilettare guardando gli
altri giocare: vecchi ormai in pensione che, vestiti di tutto punto, sprecano giornate a mettere una
pallina in un buco. Per non parlare poi delle mogli. Che persone affascinanti ! -rispose con la bocca
ancora piena Claudio, mentre con il tovagliolo puliva il sugo sul mento.
-: Andiamo Claudio, non puoi certo sminuire così questo sport! Se ragionassimo tutti al tuo
modo, il calcio sarebbe come il golf e la pallacanestro anche. Tutto si limiterebbe a spostare una
palla da una parte all'altra. Non ti pare un po' ingiusto?- disse Guglielmo, che era visibilmente
interessato all'idea- La maggior parte degli svaghi sono semplici, ma vengono apprezzati per le
emozioni che suscitano nei partecipanti, compre si gli spettatori. Liberano, per il tempo che basta,
la mente dai suoi logoranti pensieri.
Ero completamente sazio. Avevo mangiato due piatti abbondanti.
-: Fai onore alla cucina -mi disse sorridendo Giulia.
Mancavano venti minuti alle undici. Lucia subito corse in cucina a preparare il dolce. Poco
dopo, uscì un meraviglioso tiramisù. Morbido e velato dalla polvere amara di cacao.
-: Che cuoca che abbiamo avuto oggi. Avanti, un applauso! -ci incitò Claudio. Applaudimmo
tutti, ridendo e assaporando il momento di gioia; una gioia folle, nata da una stupidaggine. Ed era
proprio questo a renderla così irresistibile.
Finito di mangiare, io, Guglielmo, Enrico e Claudio ci siamo messi in salotto. Seduti nelle
comode sedie di legno, ognuno con il suo caffè, continuammo il discorso prima interrotto.
-: Allora, venendo al sodo. Potremmo domani, che è domenica, andare al club e goderci la
serenità di un bel prato verde, che paradossalmente di naturale ha poco o niente.
-: Quello che avevo in mente. Inoltre -ci fece notare Claudio- sarebbe un ottima occasione per
conoscere meglio questo giovane pazzo, dico bene ?
Scoppiò a ridere, alternando a risate tossiti rauchi, mentre noi accennavamo solo un sorriso
per educazione.
-: Se a lei va bene signor Alberto, ci potremmo vedere alle 15:00 di domani, davanti al
cancello -disse Enrico- Si fidi di me, ne rimarrà colpito. E' un posto che, malgrado le apparenze, è
tutto fuorché noioso. Io stesso, che non sono pratico di sport, ne lo desidero, trovo affascinante la
gente che lo frequenta. Ricadiamo nei piaceri dell'introspezione psicologica errata? Non importa,
purché sia divertente.
Beveva il caffè con una lentezza esasperante. Con pollice e indice teneva la tazza, e
lentamente la appoggiava alle labbra. Sorseggiava un poco e poi la riponeva sul suo piattino.
Amava il suono che questo produceva. Un leggero "Tin!" che suonava come una melodia per lui, in
quella monotona linearità comune ad entrambi.
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-: Allora è deciso! - esclamò Guglielmo - serve solo il tuo "si" Alberto.
Mi guardarono tutti sorridendo, a parte Enrico. Lui sorride raramente, ma solo perché in cuor
suo se ne vergogna. Trova ripugnante e pericoloso esternare i suoi sentimenti. Difatti essi sono lo
specchio della nostra anima, ma lui si vergogna della sua. Sarebbe troppo vulnerabile; pare che
non se lo possa permettere. I suoi sentimenti gli ricordano che anche lui è un uomo e questo
proprio non lo può soffrire.
-: Si, è ufficiale. Domani cari amici, andremo al club!
-: Siamo già amici noi? - chiese maliziosamente Claudio.
-: Pensare le stesse cose non è amicizia? -chiesi altrettanto maliziosamente.
-: Questo lo scopriremo col tempo, non siate frettolosi. Che deliziosa serata, mi sto proprio
divertendo!
Detto ciò, Guglielmo mise a letto la bambina e ritornato in salotto continuò ad intrattenerci.
Discutemmo del più e del meno. In modo vago, con paradossi e spesso perdevamo il filo del
discorso, prendendone a caso uno nuovo. Ci raggiunse anche Lucia, che, pulita la cucina, non era
ancora assonnata e sperava in qualche nostro noioso discorso, che la aiutasse a cader nelle dolci
braccia di Morfeo.
Non interveniva mai, ma la sua sola presenza, con quella sua matriarcale compostezza dove si
specchiavano i valori ormai persi della moglie zelante, mi rallegrava.
Era ormai l'una di notte. Dalla finestra del salotto si potevano ancora vedere le scie rosse e
bianche della macchine che, come formiche operose, correvano in una città che non dorme mai. I
lampioni accesi illuminavano le strade vuote, piene di sporcizia, testimonianza della frettolosa vita
cittadina. Grandi palazzi toccavano il cielo, sfidando Dio. Dove è arrivata la superbia dell'uomo,
che li ha permesso di trovare la sua dignità in un cosi vasto universo, all'interno del quale siamo
solo punti, in palazzi altri più di venti metri?
Claudio ormai non ce la faceva più. Visibilmente assopito, era prossimo a crollare. Reclinava
la testa, socchiudeva gli occhi e apriva la bocca. Poco dopo si ricomponeva, e poco dopo si
riassopiva.
-: Guglielmo, caro mio, è stata una meravigliosa serata. Purtroppo dubito che Claudio
resisterà ancora a lungo e voglio sfruttare quella poca lucidità di adesso per farmi portare a casa.
Sarebbe un peccato andarsi a schiantare e rovinare tutto, dico bene Alberto?
-: Si capisce, fossi al suo posto sarei più prudente e guiderei io stesso.
Dopo un lieve cenno di Guglielmo, i due cominciarono a prepararsi. Presero le giacche
dall'appendiabiti e fecero i dovuti saluti.
-: Allora domani alle 15:00 al club, puntuali mi raccomando. L'attesa non la sopporto,
sebbene molti la considerino un piacere -ammonì Enrico.
-: Certamente -rispose Guglielmo chiudendo l'uscio delicatamente, quel tanto che basta per
non essere scortesi. Avvicinandosi a Lucia le diede un bacio e la invitò ad andare a dormire,
avrebbe pensato lui a riordinare le ultime cose. Questa acconsentì e, dopo avermi salutato con
quella sua calorosa gentilezza, si ritirò nella stanza da letto.
-: Sarà meglio tornare a casa. Non riesco ancora a concepire tutto ciò; è accaduto così in
fretta. A che gioco sta giocando? Cosa vuole veramente da me? -chiesi scherzando.
Si era fatto serio in volto, corrugando la fronte e poggiandosi al muro. Dopo una breve pausa,
sospirò e disse
-: Capisco il suo punto di vista, so che non voleva essere scortese. E' colpa mia. Ho il difetto di
programmare tutto, la smania di avere ogni cosa sotto controllo. L'imprevedibile, l'ignoto,
l'inconcepibile mi spaventano a morte. Posso dare quindi l'i mpressione di tramare qualcosa, ma
sono longevo da questo. Sono stato sempre affascinato da tutto. Riesco a vedere il complesso nel
semplice, ad analizzarlo e schematizzarlo nella mia testa. Io studio tutto, ed era per questo che,
mosso da questa puerile euforia, non potevo fare a meno di invitarla. Non sono mai stato bravo ad
aspettare: chiesi a Lucia di sposarmi dopo appena cinque mesi della nostra relazione.
Era sincero, come mai lo era stato in tutta la serata. Lui aveva qualcosa di unico, sentivo ch e
in fondo non eravamo così diversi. Iniziavo a pensare che lui fosse un folle, esattamente come me.
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Si era però reso conto della complessità della vita, di questa commedia sociale che non si poteva
recitare altrimenti. Forse vedeva in me la possibilità di poter scappare dal palco, anche solo per
pochi istanti. Un tocco di aria fresca indispensabile.
-: Capisco. Perdona le mie domande indisponenti, ma a volte è necessario dubitare anche
dell'ovvio. Grazie per la compagnia, domani allora alle 15:00 al club.
-: Si -disse sollevato- passi venti minuti prima da me, così ti do un passaggio e le mazze.
Allora a domani, buonanotte Alberto.
Ci sorridemmo vicendevolmente, poi mi girai e salii la rampa di scale sentendo il cigolio
dell'uscio, che lentamente veniva chiuso.
Sento che sarà l'inizio di un qualcosa di unico. Voi che ne pensate? Quell'uomo ha percepito
la mia solitudine e ne ha approfittato per sanare la sua. In questo l'uomo è lodevole e nel
contempo approfittatore.
Capitolo 7
Questa mattina mi sono alzato proprio di buon umore. Il tubolare dei piccioni appostati sul
muro del viale, accompagnato dalle grida della città, mi strappò un sorriso. Spalancai le finestre
per levare il pesante odor di chiuso. Raggi di sole entrarono nella stanza illuminando il comò, che
a sua volta, con la sua superficie cerata, li rifrange va in tutta la stanza più fievoli. Il caos della
strada entrò bruscamente, facendomi realizzare che oggi era un nuovo giorno.
Ero eccitato come un bambino alla vigilia di Natale , che siede nelle panche scivolose della chiesa
con le gambe tremanti che non ne possono più di stare ferme. Ronzavo attorno allo studio,
leggendo a tratti qualche frase nella speranza di potermi distrarre.
Ero già vestito. Polo bianca, pantaloni di stoffa morbida e mocassi ni. Non mi importava più
del mio aspetto, ormai sapevo di essere stato accettato. Che cosa buffa.
Finalmente giunsero le 15:00. Come un lampo mi fiondai sulla porta. Una volta aperta, mi
precipitai giù dalle scale fino a giungere dallo zerbino di casa De Rovere. Mi concessi pochi
secondi per ricompormi e suonai il campanello.
-: Eccoci dunque, Alberto. Sei pronto?
-: Andiamo, il signor Enrico detesta aspettare -esclamai con la felicità dipinta in viso.
Salimmo sulla sua macchina; era piccola, rossa e semplice. Guglielmo mi confidò di odiare
l'ostentazione delle ricchezze, soprattutto in cose come le auto. Per me e lui sono semplici
strumenti, ma per altri sono una ragione di vita. Come ogni cosa, possono appassionare, ma non
certo noi. Come un gatto si appassiona di un gomitolo, un aquila non può far lo stesso.
Spocchioso? Lo so, può darsi, ma così come le aquile, servono anche i gatti.
Il viaggio non era lungo, appena dieci minuti. Attraversando le vie non potevo fare a meno di
osservare i passanti. Ad un certo punto, notai una signora di mezz'età che portava tre bassotti.
Che cani adorabili. E' stato come vedere tre wurstel che camminavano, sorretti dalle loro esili
gambette. La loro padrona aveva visibilmente molta cura di loro; lo deducevo dal pelo n ero
lucente, come appena leccato dalla mamma, ma sopratutto dai loro giubbotti rosa con perline .
Quanti riguardi verso dei cani che ora mi guardavano implorandomi di far qualcosa.
-: Animali interessanti i cani, ancor di più i padroni -disse Guglielmo- Sai, penso che senza
l'uomo essi si sarebbero estinti già da tempo. Vedi, la lealtà e la fiducia sono le due peggior cose
che possano capitare a chiunque. In un mondo tessuto dagli inganni essere fuori luogo è fatale. I
cani sono tra gli animali più vulnerabili: ti concedono il loro cuore troppo facilmente. Che dire poi
dei loro padroni. Non trovi che sia un destino crudele quello del padrone? Insomma, col tempo
inizi ad amare il tuo cane. L'amore è differente dall'innamoramento. Il primo è volere il bene
dell'altro, il secondo è egoismo.
-: Non vedo nulla di male in tutto ciò. Amare ci aiuta a vivere, a tingere di rosa futuri
altrimenti grigi.
-: Si ma vedi, nel momento in cui ami il tuo cane ti rendi conto della crudeltà commessa nei
suoi confronti. Lo hai strappato dai suoi genitori, dalla sua famiglia. Lo hai catapultato per le
25
prime settimane nell'incerto e tu ben sai cosa voglia dire. Infine concepisci che tutto è iniziato da
un tuo egoistico desiderio di affetto. Amare il tuo cane diventa dunque un dovere , il minimo per
espiare le tue colpe.
Ci fu un momento di silenzio tra di noi. Sentivamo solo il ronzio del motore e il ticchettio della
spia sul cruscotto. L'asprezza del suo pensiero mi sconcertò.
-: E' proprio questo il brutto della riflessione. Induce a pensieri sbagliati. Guglielmo, quanto è
pericoloso vedere?
-: Moltissimo, spesso fatale. E' molto meglio vivere ciechi, non trovi?
Lo guardai dritto negli occhi, mentre osservava la strada. Un velo di malinconia e angoscia
nascondeva quella luce che aveva sempre avuto. L'ampia fronte non era più corrugata, quasi in
segno di resa. Pensava, pensava e ripercorreva i suoi ricordi, uno ad uno. Si ricordava quei giorni
felici nei quali viveva coscientemente, senza dover chiudere un occhio per necessità . Ero sicuro,
sempre di più, che il signor Guglielmo un tempo era proprio come me. Spirito libero, mente saggia
più di quanto convenisse. Forse poi si era arreso.
-: Siamo arrivati Alberto, gli altri due saranno già dentro.
Detto ciò, citofonò e quell'immenso cancello di bronzo con puntoni dorati si aprì. Un enorme
giardino, contornato ai lati da file di tulipani rossi e gialli precedeva il palazzo. Un stradina di
ghiaia tagliava questo immenso spazio verde e conduceva all'entrata. Il palazzo si apriva con una
facciata composta da un ordine gigante di colonne trabeate , che sorreggevano un timpano
levigato. Scritte in latino ornavano la trabeazione e dei leoni facevano da piedistallo per le colonne.
Questo richiamo pacchiano al classicismo, mi faceva già assaporare l'aria che tirava dentro.
Rimasi stupito dalla grandezza di quel posto. Principalmente era un ampio salone, con una
fontana al centro. Tutte attorno vi erano delle poltrone rosse, che facevano pendant con la tinta
gialla delle pareti. Intorno a questo ampio salone si sviluppavano tutti gli altri vani: spogliatoi, bar
e saune. Tutto erano molto curato nel dettaglio e richiamava ad un mondo perso, un mondo
prospero e senza preoccupazioni. Era un angolo di paradiso ritagliato dai soldi di chi se lo poteva
permettere.
Dopo essermi presentato alla reception come ospite del signor De Rovere, mi accomodai su di
una poltrona insieme a lui.
-: Dove si saranno cacciati quei due? Si saranno stancati di aspettarci, ma d'altronde sono le
15:05. O sono impazienti, o erano molto in anticipo.
Appena ebbe finito di parlare, spuntarono le loro sagome dal bar, con in mano due bicchieri
di vetro con del Negroni.
-: Non è un po' presto per bere? -chiese Guglielmo- non vogliamo mica fare brutta figura; non
in questo posto così elegante e per bene.....
Claudio, con le guancie rosse scaldate dall'alcool, fece un lieve cenno per invitarci ad entrare
nei campi.
-: Dunque che posto è questo? Mi sembra così pacchiano.
-: Mio caro -rispose Enrico- Hai innanzi a te l'esempio lampante dell'ipocrisia, in tutta la sua
divertente essenza. Vedi, qua ci sono solo persone di un certo rango sociale, mi spiego? La cosa
buffa è che molti di loro, se non tutti, sono come il sole e la luna. Tutta questa loro compostezza
in realtà è finta, opposta al loro vero essere. Diciamo che sono simili ai paladini dei quali si narra
nei poemi epici: vengono descritti come eroi valorosi, integri e orgogliosi quando in realtà sono
ignoranti, rozzi e piagnucoloni.
-: Prevengo alla tua domanda Alberto -interruppe Claudio sorseggiando il suo Negroni- Noi
siamo diventati soci di questo club principalmente per ridere di queste persone. Non giudicarci,
non siamo così meschini. Io amo veramente questo Negroni.
-: Perché non dovrei giudicarla signor Claudio -dissi a quell'allegro e cicciotto personaggio-
Infondo il giudizio è ciò che ci permettere di distinguere il bene dal male, gli amici dai nemici. E'
grazie al suo giudizio che oggi è qua con noi. Il problema è che spesso siamo troppo frettolosi
nell'esercitare questo potere. Creiamo dunque falsi miti o illusioni de lle quali spesso ci pentiamo.
Sei d'accordo con me Enrico?
26
-: Si capisce, come potrei non esserlo -sorrideva appena- Prendi però per buone le parole di
Claudio. Il golf è sicuramente una forgia per la pazienza e, come le ha già detto, questo Negroni è
fantastico.
Si respirava una fresca aria primaverile, anche se siamo a fine inverno. Tutt'attorno pini
maestosi di un verde scuro che risaltava l'invece gentil verde del campo. Fiori qua e là e ruscelli,
in questo posto così dolce. Serenità al cuore e all'anima; velo dorato, maschera di mille colori che
copriva la meschina realtà di un ipocrisia, che nella sua ingenuità rallegrava chi ormai non poteva
più dare cattivo esempio.
Gli uccellini cantavano svolazzando nel cielo sereno per posarsi su un ramo e godere della
loro libertà. Quando essi tacevano, si sentiva lo scroscio delicato dell'acqua di ruscello che
precipitava sulle rocce accarezzandole. Ogni tanto, in questa pace naturale, si sentivano
distintamente le urla e le bestemmie dei vecchi che non riuscivano, vuoi per il vento, vuoi perché
distratti, ma non sia mai per loro incapacità, a mettere una palla in buca. Volavano, per far
compagnia agli uccelli, le mazze. Un ferro 9, leggiadro e dinamico, si librava in aria precipitando
poi sulla testa di un altro iracondo, però senza accarezzarlo. Ne seguiva quindi una bestemmia
come preludio ad un altro volo di risposta, sfogo di quella rabbia che si sentiva così soffocare in
questa tranquillità.
-: Affascinante non è vero?
-: Concordo Guglielmo, ora capisco il perché della vostra iscrizione .
Percepivo la goffa presenza umana che turbava l'armonia della natura. Non siamo in grado di
vivere in tranquillità: la ripudiamo confondendola con la monotonia. Preferiamo le passioni
dell'ira e dell'accidia, che tanto scaldano il nostro cuore, più di questa pace, più di questa Natura.
Così questi uomini le sputavano in faccia, sbuffando e torcendo il naso. Se non li si può
condannare, che se ne rida almeno.
Avevo capito il loro punto di vista. Anche Enrico e gli altri disprezzavano questo
comportamento, ma più che riderne non potevano fare altro. Non possono mica rimproverare chi
nemmeno è conscio del suo errore.
-: Iniziamo a giocare anche noi! -esclamò divertito Claudio.
Prese le mazze e le sacche, ci siamo diretti verso la prima buca, dove già stava giocando un
signore anziano sulla settantina d'anni. Imbacuccato nel suo maglione a scacchi, batteva con
grazia la pallina una prima volta, per poi lanciarla con le mani irato una seconda, e poi una terza
e così via.
-: Si chiama Rino Valsanti, un nobile ormai decaduto. Tra tutti è il meno paziente. Non l'ho
mai visto, in tre anni che sono qui, superare la prima buca. A volte urla promettendo al cielo di
non solcare mai più questi campi, ma pochi giorni dopo, con un moto d'orgoglio, ritorna
promettendo a se stesso di farcela. Per fortuna nelle vita le intenzioni non bastano. La cosa più
affascinante è la sua abilità nel nascondere tutta quella rabbia in pochi secondi quando deve
salutare la piccola nipotina. Che delizioso personaggio, non è vero?
Detto ciò, Enrico mandò con un solo tiro la palla in buca, sorridendo al signor Valsanti, che
rosso in volto gli sputava le peggiori invettive.
-: Che attacca brighe Enrico. Sempre detto che è un cattivo esempio, non farti influenzare mi
raccomando -così disse Claudio, mandando anche lui la palla in buca.
Erano dannatamente bravi. Con un solo colpo sicuro ed aggraziato erano riusciti a passare
alla buca successiva.
-: Sono bravi, non c'è che dire. Ora però gli toccherà aspettarci.
Guglielmo infatti riuscì al terzo tiro, mentre a me ne servirono cinque. Al povero Rino non
bastava una giornata. La zelante moglie proteggeva quella sua crapa pelata dai raggi del sole,
cercando di calmarlo con parole dolci e misurate .
-: Se Dio avesse voluto che la mettessi in buca alla prima, ci avrebbe creati tutti perfetti !
-: Basta Clara, la devi smettere - urlava come un degenerato - mi deconcentri! Dannazione a
quello scellerato di Malessere, che il cielo lo fulmini!
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  • 1. 1 Gabriele Fulcheri La libertà nella follia Genova 2015
  • 2. 2 Prefazione "La libertà nella follia" è un romanzo che analizza e discute il tema della follia. Essa non viene posta come un caso clinico, anzi viene esaminata la sua matrice più poetica e spirituale, che riecheggia a quella di Erasmo da Rotterdam nel suo "Elogio della follia". Il protagonista, Alberto Sappi, personifica "l'io interiore" di ognuno di noi, nella sua più estrema purezza e individualità, ovvero quell'io che nessuno rivela al mondo poiché troppo singolare e personale, che tende ad entrare in conflitto con le altre personalità e più in generale con la vita quotidiana e le sue convenzioni sociali. Alberto, a causa di questa sua particolare condizione, potrà osservare e giudicare il mondo dall'alto, ma inevitabilmente, essendo uomo, verrà tediato dalla solitudine. La sua condizione di totale libertà porta con sé, intrinsecamente e necessariamente, all'isolamento. Tuttavia, con lo svolgersi della trama, egli entrerà in contatto con la vita mondana, ma, a causa del suo vero essere, che celato emerge comunque per forza di cose, concluderà la sua esperienza con un'inevitabile tragedia. Follia come pura libertà, accompagnata da una solitudine tiranna, ma anche una follia creatrice: l'individualità è in grado, in determinate condizioni, di ergersi sopra ai vincoli della società e di diventare essa stessa società.
  • 3. 3
  • 4. 4 Capitolo 1 Mi chiamo Alberto Sappi, nato il 13 Maggio del 1978, paziente del dottor Fattori dal gennaio del 2001. Sebbene questo si presenti come un inizio noioso per il mio "diario di bordo", cosi prevedono le convenzioni mediche. Che poi la parola paziente suona male alle orecchie del lettore, che penserà che io soffra di un qualche inguaribile male, ma non è cosi. La malattia della quale tutti mi accusano con sguardi torvi e una fastidiosissima, non che ipocrita, compassione, è la pazzia. Io non sono pazzo, sono folle. Vi è un'abissale differenza tra queste; basti pensare a come una semplice lettera cambi totalmente di significato una cosa: così per una semplice "e", un corvo diviene un cervo e ritengo che reputiamo all'unanimità essere questi ben diversi tra loro. Nel nostro caso sono ben quattro le lettere a mutare. Si pensi dunque per proporzione all'immenso cambiamento. Il pazzo è più un soggetto clinico: preda di crisi nervose gravi, incapace di gestire le sue azioni, alienato dalla realtà, visioni, smanie, urli agghiaccianti e una seguente lista di cose sconvenienti. La follia è ben diversa, per me persino un vanto. La mia condizione è meno prevedibile, più raffinata e affascinante. Mi faccio i complimenti da solo e me ne lusingo pure, non giudicatemi vanesio. Tuttavia secondo il dottor Fattori, carissima persona e diligente studioso, io non sarei in grado di inserirmi e vivere nella società moderna e anzi, potrei persino arrecare danni al prossimo. E' per questo motivo che lui, in qualità di dottore della medicina psichiatrica, si è preso cosi eroicamente il disturbo di guarire una persona che di per sé è già sana. Mi affidò perciò l'arduo compito di scrivere questo diario, sul quale avrei dovuto trascrivere i miei fatti quotidiani , al fine di permettere all'egregio dottore di manipolare accuratamente e sapientemente la mia mente. A chi sto scrivendo ora? Teoricamente a lei, ma le voglio presentare questo libretto come fosse un romanzo: mi improvviso scrittore! Poi che vuol che sia, non sono mica il primo a farlo. Ho sempre detestato la monotonia, le prassi e il sistema di causa ed effetto, anche se spesso ci devo convivere. La prevedibilità delle cose toglie il gusto del loro stesso manifestarsi. Inoltre non sia mai che persino lei ci prenda gusto. Ebbene oggi, giorno 1 di questo diario, non avevo niente da raccontare e quindi mi pareva opportuno scrivere una prefazione, incorniciare la mia storia. Si sa: un quadro può essere bello quanto conviene all'artista, ma senza una cornice non verrà mai esposto. La mia situazione è semplice e quindi, per transizione , lo è anche la sua causa. Figlio di un commerciante e di una maestra, sin dalla giovine età ero stato indirizzato verso la cultura, l' istruzione e un forte rigore morale. Furono tuttavia proprio queste le cause della mia "sventura". Man mano che studiavo e leggevo libri di qualsivoglia natura, iniziavo a dubitare sempre più sulle realtà che mi circondavano. Non mettevo in dubbio la loro esistenza. I miei interrogativi riguardavano più la realtà generata dai comportamenti umani, che non capivo! Ciò che agli occhi di tutti era normale, per me era sbagliato, insensato o stupido. Ogni giorno, seduti nella veranda del bar sotto casa mia, vi erano un gruppetto di cinque anziani, che trascorrevano gli interi pomeriggi al gioco delle carte. Portavano coppole di vari colori, talune con deliziosi motivi a scacchi. Ogni giorno, mentre studiavo nella mia camera, li sentivo bestemmiare le infamie peggiori, con una rabbia nella voce che accendeva di un rosso vivo i loro rugosi volti. Volavano sedie, tavoli, carte e bicchieri, ma il padrone del bar non ci dava peso; anche perché erano i suoi unici clienti e sperperavano le loro pensioni in slot, martini e sigarette. Strano a dirsi, figuriamoci a vederlo, ma questi amabili vecchietti erano sempre in prima fila durante la messa e pregavano con una tale devozione, che se non li avessi sentiti di persona bestemmiare in quel modo, non ci avrei mai creduto. Offrivano quel poco che rimaneva della pensione e cantavano a squarciagola, spesso disturbando il coro dietro all'altare. Santo Dio! Ancora oggi posso immaginarli camalare sulle spalle la croce di legno con il Cristo di ottone. Solo che le decorazioni floreali attaccate sembravano pesare una ventina di chili! Non mi capacitavo di
  • 5. 5 come riuscissero, sotto la mole che li schiacciava, a non bestemmiare come facevano al bar per un asso di troppo. Sembravano li lì per farlo, ma niente. Ora, ritornando all'argomento, tutto ciò per me non era normale. Non potevo però fare a meno di estraniare questi miei pensieri perché non concepivo la contraddizione dei loro comportamenti. Non ero particolarmente intelligente e non lo sono tuttora. Sapiente forse è la parola giusta, ma non del tutto: non avevo capito che il vero saggio esercita la sua sapienza quanto la sorte prevede, facendo finta vole ntieri di non vedere o sbagliando cordialmente come gli altri. Iniziai quindi a suggerire segni di instabilità mentale che, agli occhi della buon anima di mio padre, erano alquanto allarmanti. Vi chiederete quali comportamenti, quali si fatte azioni , accesero la fiamma della preoccupazione nel cuor di papà, che ben presto si trasformò in un allegro falò. Perché togliervi la sorpresa dico io, sarebbe crudele e immorale, oltre che ingiusto da parte mia. Papà, quando io avevo 20 anni circa, era stufo di vedermi in quella incresciosa condizione, negativa sia per me che, in primis, per la famiglia. Burlato ancora dal fato, il quale volle che il giorno stesso della mia nascita, un buon uomo di nome Basaglia avesse promosso una legge a favore della chiusura dei manicomi. Fu perciò costretto a sopportarmi e a richiedere l'aiuto di sommi dottori della medicina, i quali mi sono stati sempre con il fiato sul collo, ma con la giusta distanza che prevedeva il rapporto medico-paziente. Non furono individui simpatici se si vuole ragionare sul termine greco della parola. In greco infatti la parola "simpatia" deriva dal greco "sympatheia" che vuol dire provare "emozioni con.." e loro più che condividere le mie emozioni, ci speculavano sopra. Che ci devo fare? D'altro canto, non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti incontrai spesso, quando dovevo sottopormi a visita medica psichiatrica, individui pittoreschi e singolari. Povere anime come me che erano state schiacciate dal peso della vita, che non erano riusciti a distrarsi con i suoi frivoli piaceri. Siamo matti perché incompresi? Affatto. In molti ci capiscono, ma girano la testa e ignorano il nostro scomodo punto di vista. Dunque ora sono qui, al lume di candela a scrivere delle mie vicende. Purtroppo mi tocca farlo da solo, senza compagnia; ma in fondo sto bene nel mio appartamento cosi gentilmente offerto dall'ipocrita commiserazione dello Stato. In questo mio spazio personale il caos diventa ordine e la follia trova il suo libero sfogo. Quante ne avrò da raccontare, non potete nemmeno immaginarlo dottore. Capitolo 2 Giorno 2 del diario "Vita"; si d'ora innanzi si chiamerà così. Oggi, verso le 3:00 del pomeriggio, come di routine, sono andato da Perizio il gelataio a concedermi un momento di gola. Ebbene si, anche questa volta l'ho truffato. Anzi, se devo essere sincero, ho sempre truffato tutti i negozianti. Più che truffa parlerei di inganno, o ancora più di scambio non equo: si insomma , chiunque con il quale avessi avuto a che fare, mi cedeva una cosa dal valore molto più alto di quella da me offerta. Questa volta però ho esagerato e me ne rendo conto pienamente solo ora che sto scrivendo. Salivo su per la strada che conduceva alla gelateria. Tenevo il mio passo svelto e mentre percorrevo quell'angusta via piena di buche, fiancheggiata per un intero lato di negozi, dissi tra me e me << Oggi si prova il colpaccio!>> Ero euforico; elaboravo passo dopo passo, negozio dopo negozio, la strategia per ingannare il povero gelataio e godere al meglio di tale misfatto. Ecco che ero arrivato. Entrai con calma, con far da signore. Subito riconobbi Perizio: Uomo alto, robusto e con un far sgraziato in contrasto con l'accuratezza che la sua arte richiedeva. Non mi spiego tutt'ora come, con quelle mani enormi e sfigurate dalla fatica e dal tempo, malgrado la sua grossolanità, riuscisse a fare veri e propri capolavori. Salutai con estrema cortesia e, avvicinatomi al bancone pieno di dolciumi, dissi:
  • 6. 6 :- Oh buon uomo, è vero che ce le ha quelle paste deliziose, si, quelle con la crema che l' han resa tanto famosa nel quartiere ? Fece cenno con la testa e aspettò che gli dicessi quante ne volevo :- Me ne dia ..... una trentina... e crepi l'avarizia! Vero anche che mi può dare mezzo chilo di quel morbido, delizioso e vellutato gelato alle noci? Iniziò a insospettirsi. Di certo non c'era di che fidarsi di un folle come me, pensava. Tuttavia accontentò anche la mia seconda richiesta. :- E' tutto signor Alberto ? :- Sarebbe stato se non fossi stato attratto, proprio in questo momento, da quei prelibati e raffinatissimi cioccolatini. Sii buono e me ne dia una scatola. Lentamente prese la confezione, per poter in quel lasso di tempo, scorgere sul mio volto le mie intenzioni. Parlavo con una certa raffinatezza, che mi soddisfaceva creando una linea di confine tra me e lui, ma non oppressiva; chiariva semplicemente le nostre posizioni. Meschino! Ancora una volta lo avevo ingannato. Con il sorriso di compiacimento stampato sul volto, tirai fuori dal mio portafoglio un pezzo di carta marrone e uno rosso che a lui piacevano tanto. Era stregato dai loro colori e avidamente, una volta presi, li mise in cassetta con la stessa cura di un cane con il suo osso. Scoppiai a ridere, non riuscivo più a smettere . :- Ma insomma, lei è proprio recidivo ! Me ne scusi la brutalità! Mi crogiolai nella mia vittoria; capite ? Aveva barattato dei futili pezzi di carta colorati, che persino un infante saprebbe disegnare, con delle leccornie! Chi è poi il folle qui ?! La cosa che mi faceva ridere più di tutte, era il fatto che non aveva ancora capito di essere stato ingannato e anzi faceva persino l'offeso borbottando qualche bestemmia. Dunque, conseguito il mio scopo, uscii da quel buco di gelateria ( un ottimo buco di gelateria), per dirigermi verso casa. Maledetto l'inconscio umano. Proprio quando stavo per attraversare la strada, il rimorso prese il sopravvento e mi mise pensieri tristi in testa. Possibile che io, così zelantemente educato fin da quando muovevo primi passi, debba ingannare un pover' uomo, che tenta solo di campare al meglio, comprando quell'immensa fortuna in cambio di niente? Non riuscivo a spiegarmi perché mi ero comportato in quel modo. Come ben sapete, sono sempre stato propenso al bene e al giusto, ma inevitabilmente cresceva a volte in me un desiderio perverso di deridere qualcuno; non tanto per commettere una cattiveria, ma per divertimento. E' questa la cosa grave: è più punibile un' azione cattiva fatta inconsciamente, che la medesima per volontà. Tornai subito sui miei passi e rientrai in negozio. Sbattendo l'uscio, di corsa andai al bancone e porsi le mie più sentite scuse a Perizio il quale però, arricciandosi i lunghi baffi neri, mi lanciò un greve sguardo di compassione che tutt'ora mi pesa sull'anima. Mi diede una piccola mansione per riscattarmi e pagare il mio debito. Sistemai per ore i banconi, aggiornando i prezzi e disponendo i dolci che via via uscivano dalla cucina. Terminato il mio incarico, salutai Perizio e mi avviai finalmente verso casa. Dottore, non abbia a pensar male di me; come legge, mi sono redento dal peccato commesso. Non sospiri come al solito, posando i preziosi occhiali da lettura e portando pollice, indice e medio alle tempie. Non mi merito certo questa sua reazione. Non è mica colpa mia se tutti questi mercanti sono attratti da pezzi di carta colorati come falene con la luce. Più volte provai a barattare qualcosa di valore, ma non mi diedero retta e pretendevano sempre la stessa cosa; e guai se gliene porgevi uno bianco. Non fu mai quando lo feci! Si adirano cosi tanto che perdono il lume della ragione e iniziano a comportarsi come bestie. Urlano, sbraitano e bestemmiano al punto che non stento a credere, in cuor mio, che facciano segretamente a gara a chi urla la peggiore. Persino l'uomo primitivo era più furbo; almeno lui per un qualcosa, pretendeva altro di medesimo o superiore valore. In seguito fu poi adoperata la moneta, come ora. Tuttavia quelle erano di oro o argento e quindi avevano un valore. Ora invece scambiamo pezzi di carta. Ripeto: Sono io il folle ?
  • 7. 7 Se fermassi qui il mio discorso allora sarei superficiale e vostra facile vittima. Mi crediate, non vi sto prendendo in giro, la mia non è ironia. Non voglio bollare il mio pensiero come originale e illuminante. Esso tuttavia sarà singolare, fallace dal punto di vista logico magari, ma mio e di nessun altro. Questo denaro, che altro non è che carta, copre principalmente il ruolo di valuta, metro di giudizio insomma di ogni cosa. Di per sé non ha alcun valore, ma la mente umana, la sua immaginazione glielo ha conferito. Facendo ciò, paradossalmente, ha acquisito plurimi valori di certo non obiettivi: c'è chi considera i soldi come motore principale delle azioni umane e chi invece è costretto a prendere in considerazione l'importanza di esso, rifiutandolo dentro di sé. Ma una cosa è certa: finché viviamo in società e teniamo contatti con essa, non possiamo fuggire da questo vincolo, che non sarebbe stato cosi opprimente se non ci fosse un tipo di persona. Sto parlando di coloro che reputano la consistenza del loro "particulare", solo in qualche commodo pecuniario più che nell' onore, nel sapersi mantenere la reputazione ed il buon nome. Questi esseri monotoni e superficiali avranno, se adempiranno al loro desiderio, grande e lussuosa vita in un mondo limitato, circoscritto alle mura della materialità. Gratteranno solo la superficie della bellezza che ci circonda. Loro non saranno mai in grado di veder in una goccia di rugiada, che cade inesorabilmente dalla punta di un filo d'erba, la grandezza della natura che ci circonda. Meschini! Potrebbero essere paragonati a muli che girano la macina restando dentro ad un buio stanzino, che si imbarazza innanzi alla grandezza della campagna che lo circonda. Legare la felicità al denaro è come legare un aquilone ad un fil di carta. Quanto mi sono dilungato Dottore; son passato da una mia piccola avventura a contorti ghiribizzi mentali. Noti inoltre la bravura con la quale ho sviluppato il discorso, parandomi anche dietro lo scudo altrui. Che ci vuol fare? Sono fatto cosi: se non sfogo il mio pensiero mi sento a disagio, quasi in trappola. Come fate voi altri a tenervi il vostro mondo nascosto, senza sentire il desiderio di farlo conoscere e di viverlo diamine! Quando ciò che ci rende unici è stato giudicato come un qualcosa di negativo, che deve essere assolutamente occultato e soppresso nel tempo ? Su non si avvilisca, la prendevo in giro. Che vuole che ne sappia di denaro, economia e altre sventure. Sono egoista? Si, può darsi, ma chi non lo è? Cerco di vivere in quiete, per quel poco che mi concedete. Sarebbe quantomeno paradossale angosciarsi per una società che ci ha emarginato, bollandoci come lebbrosi. Mentre tornavo a casa, vidi un mendicante sul ciglio della strada, seduto sul marciapiede che mordeva un panino dall'aspetto per nulla invitante. Aveva un aspetto talmente singolare, che mi sembrava impossibile non averlo mai visto prima. Portava un pizzetto nero molto curato e i capelli corti tagliati visibilmente a mano poiché a ciocche di riccioli ben curati e lavati, si alternavano spazi vuoti o quasi. Aveva i denti malati, ma puliti. Lo stesso della faccia e di tutto il resto. Portava una sciarpa gialla e un cappotto nero all'interno del quale custodiva tutto ciò che la vita non gli aveva ancora rubato. Desideravo parlargli, ma non sapevo come. Sono sempre stato incuriosito dai barboni, che, attenzione, non sono sempre mendicanti. Vengono spesso definiti come persone che rifiutano il contatto umano e che preferiscono la solitudine, ma forse questa è una scusa. Fatto sta che li ho sempre visti come persone curiose, forse cinicamente. Immobili, appoggiati ad un muretto, in mezzo al via vai della folla. Con lo sguardo perso, sembravano in un'altra dimensione, estraniati dalla realtà. Per me sono sempre stati un punto interrogativo, un mistero. Proprio come me rifiutavano i soldi, pur dipendendone, vivendo più liberi; questa era la cosa che mi spaventava di più: essere liberi voleva dire ridursi in quella condizione? Tralasciando l'aspetto più materiale del discorso, vedevo la loro libertà come sinonimo di solitudine. Io stesso ne sono in parte vittima. Come siamo legati tra di noi! Il mondo stesso è un intreccio di abitudini e modi di fare comuni. Forse che la totale libertà consista nell'estraniarsi completamente dal mondo? Francamente, in quest'ottica, preferisco esser schiavo. Capitolo 3
  • 8. 8 Giorno 3 di "Vita". Stavo pensando al nome stesso di questo diario e mi sono accorto di quanto sia banale. Ho riflettuto tutta la notte e devo ammettere che questa volta mi piace molto il nuovo nome: " Le imprese di Alberto Sappi" Già posso immaginare la sua testa che si china indietro e porta gli occhi al cielo quasi come avesse perso l'ultima goccia di pietà nei miei confronti. Senta cosa ho pensato: Io so bene che questo libretto andrà anche nelle mani di altri dottori , che a loro volta delegheranno creando via via un pubblico sempre maggiore. Dunque mi son detto: Non è forse vero che gli scrittori nei loro romanzi inseriscono il personaggio in un contesto, sempre più descritto nei particolari, per poter aiutare il lettore ad immedesimarsi? Bene è giunto il momento di presentarvi la mia casa. Come già potete immaginare essa non è grande. Si limita a cinque stanze disposte quasi a cerchio in una pianta quadrata: soggiorno, tinello con cucina, bagno, stanza da letto e studio. Tutti i mobili rigorosamente in legno creano un ambientazione un po' retrò che non mi dispiace affatto. Se non fossi tormentato nel silenzio dai loro cigolii, direi che sarebbero perfetti. Lasciamo perdere la descrizione di ogni singolo vano, che sicuramente vi annoierebbe; li scoprirete man mano che scrivo probabilmente. Tuttavia mi sento in dovere di raccontarvi del mio studio. Rettangolare, pochi metri quadri ma accogliente nella sua angustia. Crea un clima intimo nel quale i tuoi pensieri prendono forma materializzandosi in sbuffi di fumo. Un imponente scrivania è posta al centro della stanza, e alle sue spalle vi è una libreria con tutti i miei volumi preferiti. Ma proprio in un angolo dello studio, quasi nascosta nell'ombra, c'è una piccola cassettiera con tutti i miei ricordi, belli o brutti. Proprio oggi, mentre leggevo, mi venne voglia di rivedere le vecchie foto di classe, giusto per ricordarmi che anche io posso essere nostalgico. Che ridere mi sono fatto! Ero li che , mentre riguardavo i volti dei miei vecchi compagni di classe , ripensavo ai professori che avevo avuto. In particolare ad uno: il mio insegnante di greco. Non ricordo come si chiamasse, ma ho ancora impressa nella mente la sua fisionomia. Bruno era e brutto, basso e cicciottello. Portava sempre appresso la sua valigia di lavoro in pelle nera. Rigorosamente giacca e cravatta e un amabile baffo che lo rendeva ancora più ridicolo, sebbene ai suoi occhi sembrasse un segno di affermazione. Mi ricordo che lo immaginavo sempre come una vittima che a sua volta sfogava la rabbia su sottoposti senza mai trovare pace. Tipico "so tutto io" che in classe era vittima di bulli che lo perseguitavano. In cuor suo, in quelle giornate dove tutto il mondo gli sembrava contro, sapeva che avrebbe avuto la sua rivincita, a qualsiasi costo. Chiuso nel suo studio, vegliava giorno e notte sui libri, promettendosi la vendetta. Non c'è cosa più frustrante di esser derisi da persone decisamente inferiori. Tutta quella sua sapienza, voglia di studiare e maturità non avevano giovato per niente nei primi anni della sua vita, trascorsa nel passare di banco in banco fino ad occupare finalmente la cattedra. Che ridere Dottori! Ancora lo vedo li seduto, circondato da poveri studenti che non desideravano altro che tranquillità, posti invece in balia di quella sua "bic" rossa che lui vedeva come uno scettro. Ore intere a sudare e pre gare la sua clemenza, sentendo quasi un rimorso di orgoglio per essersi ridotti in quello stato nei confronti di tale individuo. Eppure lui, basso e brutto quanto vuoi, gli aveva in pugno tutti. Eccolo che con sprezzo, sguardo distaccato e fare da signore, poggia con leggerezza la penna sul foglio e chiama, con voce bassa e un sorrisino che non riusciva mai a celare del tutto, la vittima della sua ira. La quale, giunta alla lavagna intimidita e tremante, aspetta con ansia una sua domanda. E' proprio quel preciso istante che lui amava tanto: quando assumeva pieno potere sul destino altrui. Ora queste parole possono sembrare esagerate Dottori, ma non lo sono affatto. Per voi forse, che pochi avete sopra e che tutto guardate dall'alto verso il basso, ma per lui, che invece era abituato ad alzare il mento, quei momenti erano gli unici nei quali si sentiva qualcuno. Ridendo e scherzando si potrebbe dire che era il suo locus amoenus. Infondo, se lo scopo della vita è la felicità e il fine giustifica i mezzi, non lo si può biasimare;ma io, che cercavo, più che la felicità, la serenità e che pensavo che il fine non
  • 9. 9 giustificasse sempre i mezzi, lo odiavo. Era per me repellente e non concepivo come non si accorgesse di ciò. Possibile che fosse così odioso solo per perseguire un piccolo desiderio, oltretutto figlio della frustrazione e della vendetta? Questi pensieri maturavano nella mia mente a ricreazione, quando nel cortile della scuola, insieme ai miei compagni, parlavamo del più e del meno. Ho sempre pensato alla scuola come al miglior posto possibile per crescere, ognuno a suo modo. Era come un gran Bazar, dove vedevi di tutto e conoscevi ogni tipo di persona. Agli occhi di me adolescente appariva come un mondo, quasi a sé stante, ricco di ogni tipo di esperienza. Quante gioie e quanti dolori in mezzo a quegli angusti corridoi o dentro alle piccole aule quadrate. Entravo dal cancello principale la mattina, sempre alle 7:55 puntuale, e leggevo sempre la stessa scritta che nella sua quotidianità coglieva la mia attenzione: "Liceo Classico Statale Francois- Marie Arouet Voltaire". Spalancavo, per cosi dire, le porte e venivo inghiottito dalla più grande ed efficiente accademia di vita. Col il passare del tempo, imparavi come sopravvivere, o almeno questo era lo scopo più comune. Tra di noi compagni di classe, indubbiamente, c'era un buon rapporto di amicizia: uscivamo spesso insieme e ci vedevamo in biblioteca al pomeriggio per studiare. Questo che sto per dire è un evento che mi ha sempre incuriosito e che tutt'ora non riesco bene ad inquadrare nella mia mente; la sua stranezza è magnifica. Seppur tra noi ci fosse questo rapporto, ogni volta che la pressione delle valutazioni scolastiche incombeva su di noi, torcendo budella e torchiandoci poco a poco, risvegliava in molti un istinto, quasi primordiale, di sopravvivenza. Ognuno per sé e Dio per tutti insomma. Adoravo, forse cinicamente, il momento in cui uno di noi porgeva una domanda all'insegnante per poter scorgere, chissà, un sorriso o un qualche gesto positivo che lo rasserenasse. Domanda che di per sé era banale: la maggior parte delle volte la risposta era ovvia. Eppure, non capisco come, rappresentava un' ancora di salvezza per molti. Che dire poi delle valutazioni? Mi ricordo ancora di una mattinata nella quale, dopo che l'insegnante aveva consegnato le verifiche di italiano, il mio compagno di banco mi disse: -: Io studio, studio e studio per questa dannata sufficienza eppure...5 un'altra volta. -: Non devi studiare per il 6, devi studiare per capire italiano. Una volta capito, la sufficienza vien da sè- gli dissi. Era illuminato in volto, come se lo avessi svegliato dopo un lungo sonno. Rise e disse: -: Ma certo ! hai proprio ragione.... sei un filosofo Alby ! Non mi prendeva in giro, semplicemente non aveva capito ciò che avevo detto. I voti, ora che ci penso, sono stati sempre un metro di giudizio valido, che involontariamente aveva distolto gli studenti dal vero obiettivo della scuola: l'apprendimento. Erano 5 anni di corsa verso il sei, l'otto o il nove a detta di molti. Devo ammettere che ciò mi irritava, ma non gravemente. Ben' altro mi urtava. Rifiutavo l'assoluta limitatezza di pensiero generale. Che parolone! E' più semplice di quanto sembri. Vi farò un esempio: il classico tema "cosa vorresti fare da grande?". Tema all'apparenza banale , ma quando ci venne proposto nel nostro ultimo anno di liceo, assumeva un carattere insidioso. Sembrava che dovessimo cercare una chiave di lettura che dovesse essere colta e sfruttata per rendere il tema meno banale possibile. Fare ricorso ad un lessico accurato o puntare sull'originalità dei contenuti? Siccome la seconda non era di tutti, la maggior parte puntò sulla prima ,scrivendo papiri di come sarebbe stata la loro futura carriera da avvocato all'insegna della costante lotta contro l'ingiustizia. Io invece, folle com'ero e come tutt'ora sono, avevo interpretato la domanda in modo diverso. Siccome essa era "cosa vorresti fare da grande" e non "cosa potresti fare da grande" iniziai a scrivere di voler fare il calciatore. Entrare ogni sera in campo, graffiando appena l'erba con le punta delle dita e sentendo in essa il calore dell'atmosfera. Tutti mi avrebbero incitato e sarei diventato il loro eroe, un modello di vita per gli intelletti più semplici. Ma siccome, a lungo andare, sarebbe venuto meno il mio a causa dell'agiatezza della mia condizione, decisi che avrei smesso per dedicarmi ad insegnare al liceo. Sarei divenuto il modello per gli altri insegnanti, gli avrei fatto
  • 10. 10 capire come ci si comporta e dell'amore che bisogna avere per il proprio mestiere. Senza contare che poi adoravo l'idea di crescere dei giovani e salvarli dal baratro dell' ignoranza. Che presunzione! Dopo anni di insegnamento mi sarei dedicato al cinema: sarei diventato l'attore più importante del mondo. Con i miei film avrei regalato sogni ad intere generazioni. Ed ecco che, con la fine della mia carriera da attore, mi sarei rifugiato in campagna a godermi ciò che mi sarebbe rimasto da vivere. Bello non è vero? No a quanto pare. L'insegnante era diventata rossa come un pomodoro e tratteneva la rabbia digrignando i denti. I miei compagni, ignorando le mie vere e semplici intenzioni, ridevano a squarciagola facendola adirare ancora di più. Dopo un attimo di silenzio generale capii che era la calma prima della tempesta. Ed ecco che, come da previsione, urla e insulti volavano liberi nell'aula e rimbombavano nel corridoi. Persino il preside, che dormiva come un bambino nel suo ufficio, venne svegliato e ,mosso più da un senso di dovere scolastico che rabbia per essere stato svegliato o curiosità, entrò in classe per calmare le acque. Potete già immaginare come si svolsero i fatti dopo. Genitori convocati e quella povera anima di mio padre costretta a sorbirsi tutte quelle parole scollegate e prive di senso che ormai erano divenute pane quotidiano per lui -: Vede suo figlio, signor Sappi, non penso volesse insultare qualcuno, è solo che il modo di porre la sua idea poteva essere frainteso. -: Ma che frainteso, quello mi voleva insultare. Non lo capisce che ci vede come dei miserabili falliti dall'alto del suo piedistallo?!-inveiva l'insegnante. -: Mi scusi signorina ma non penso proprio che mio figlio si ponga in qualche piedistallo, lui forse.... Come al solito venne interrotto bruscamente da un frase ormai di rito che ogni volta, ogni dannata volta, colpiva al cuore di mio padre che si limitava ad una smorfia di dolore -: In effetti che ci può fare lei se suo figlio è così...diverso-gli scappò borbottando. Pover'uomo. Non volevo farlo soffrire, ma lui non capiva che stava patendo non a causa mia, ma a causa della stoltezza di altri. Dunque eccomi ora qui, nel mio studio, al caldo, che sorrido pensando a ciò. Ormai è passato, ma quanto ancora è presente e sarà futuro. Mi sono seduto sulla poltrona e guardando lo spazio che mi circondava pensavo:Certo che quella sedia messa li sta proprio male . Capitolo 4 Giorno 4 del libro: "Le imprese di Alberto Sappi". Anche questo titolo mi pare banale, o forse noioso. Non lo so precisamente, ma non ho tempo di discuterne. Oggi cari dottori è stata una giornata alquanto particolare e vi spiego il perché senza dilungarmi in noiose preamboli. Ebbene oggi avevo voglia di un po' d'aria fresca e quale posto migliore del parco cittadino? Piccolo angolo di paradiso in mezzo ad alti edifici grigi e modulari; posto nel quale non ci sono auto ma bici e non suona solo la città, ma anche le risate dei bambini. Seppur solitario, non mi sentivo affatto in soggezione in mezzo a tutte quelle persone e cani che serenamente si godevano le gioie di un pomeriggio libero. Nel laghetto centrale, come al solito, nuotavano le anatre, muovendosi lungo le sponde, quasi a chiedere elemosina in un pezzo di pane secco. Proprio attorno a tali sponde vi erano le verdi e spaziose panchine, con le gambe avvolte dall'erba rampicante, dando l'illusione di aver messo le radici. Seduti vi erano nonni e nipoti che lanciavano molliche di pane con gesti dolci godendo, con stupore e ammirazione, dei cerchi prodotti dal lancio nello specchio dell'acqua che rifletteva quella serenità e innocenza che solo questo parco poteva generare. In un angolo, parato dai raggi del sole da un'ampia quercia, vi erano i soliti due anziani che passavano il resto dei loro giorni a giocare a scacchi. Erano sempre li, sempre loro. Non parlavano quasi mai, non ne avevano bisogno. Dopo anni passati insieme, gli sguardi dicevano più delle parole. Sembrava che il tempo si fermasse proprio in quell'angolo, dove nulla cambiava, immobile. Solo le pedine si muovevano
  • 11. 11 rompendo questa magica illusione. Ero affascinato da tutto ciò, cresceva in me il desiderio di avvicinarmi a loro e di goder segretamente di quella loro pace, quasi a volergliene rubare una parte. Mi trattenni in un primo momento poiché potevo immaginare quanto loro tenessero a quella che ormai si poteva definire "una tradizione". Non potevo, sarebbe stato sbagliato, ma sentivo che stavo per esplodere; arrivai dunque ad un compromesso: mi avvicinai, mantenendo tuttavia la giusta distanza per non intromettermi, ma allo stesso tempo per non apparire inquietante. <<Che ideona!>> Penserete ironicamente, ma vedete, non fu cosi facile stabilire tale distanza. Provai dapprima un approccio matematico, basandomi su canoni ben precisi, applicandoli alla situazione in cui mi trovavo. Fallii. Dunque mi affidai alle mie personali sensazioni, stabilendo ad occhio la giusta distanza. Ci misi quaranta minuti abbondanti e mentre, attorno a me, si accerchiava qualche persona curiosa di cosa stessi facendo, con qualche bambino che mi chiedeva ingenuamente se fossi pazzo, io mi preoccupavo di non insospettire quei due. Finalmente avevo raggiunto la distanza ideale: due metri. Riuscivo a guardare la scacchiera dove le pedine venivano mosse non tanto dall' astuzia quando dall'abitudine. Il gioco in sé passava in secondo piano: i veri protagonisti erano gli sguardi e la natura attorno che, insieme a me, faceva da spettatrice. Mossa dopo mossa la partita non cambiava di intensità; sempre la stessa, lineare. Una tirava l'altra come se ci fosse un qualche principio di causa ed effetto, non tanto una logica: era come se sapessero a memoria tutti i passaggi. Gli riusciva facile quanto respirare e ne aveva la stessa importanza. Quello che agli occhi di molti appare come un gioco noioso, per loro era Vita. Erano veramente bravissimi, sembravano non ammetter neanche lontanamente l'errore. Cavallo mangia pedone per far spazio all'alfiere. Arrocco e cavallo mangia pedone, che a sua volta viene mangiato dalla torre che apre la diagonale per la regina. Pedine in legno che prendevano vita, in un intreccio di movimenti in ogni direzione che trasformava la scacchiera in un campo di battaglia. Ma tutto si arrestò ad un certo punto. Cadde il re, con un tonfo assordante. I due incrociano gli sguardi attoniti come se fosse successa una cosa mai vista prima. Io stesso, che poco me ne intendo, non mi capacitai di come uno dei due avesse potuto fare una mossa tanto stupida: dare uno scacco matto in tre turni. Ed ora chiedeva scusa con gli occhi, scusa per aver spezzato quel momento magico. L'altro, con un lieve sorriso, porse la mano segnata dal tempo, rugosa e con le vene sporgenti sulla scacchiera per risollevare il re e portare tutto come prima. Fu come se stesse portando indietro il tempo. Appariva divino nel suo agire, nella sua facoltà di annullare ogni errore e riportare tutto come prima. Con calma, poiché si sa: la fretta esclude la grazia. Ed ecco che tutto era risolto. Un sorrisino, piccolo accenno di scusa e potevano continuare a vivere. Io no però. Ero rimasto sconvolto. Mi allontanai pieno di angoscia e mi sedetti su una panchina guardandomi riflesso sul velo dell'acqua. Come era potuto succedere? Come un giocatore tanto esperto aveva potuto fare quell'errore senza nemmeno accorgersene? Errare è umano, certo, ma questa volta era diverso. Lui non aveva preso quella decisione, essa non era frutto di una meditazione errata. Era semplicemente avvenuta, cosi, senza preavviso, come un fulmine a ciel sereno. Non era la prima volta che assistevo a ciò. Io stesso sbagliavo in cose che sapevo fare quasi ad occhi chiusi, ma non ci davo peso, ma questa volta si. Non potevo ignorare un errore tale, compiuto, sembrerebbe, istintivamente. Dunque è una proprietà intrinseca dell'uomo sbagliare? Nemmeno l'intelletto più fine riesce a prevenire il fallimento che, se non è causato da un azione meditata, avviene cosi: inevitabilmente e senza preavviso? L'uomo è destinato a sbagliare, chi più e chi meno, ma tutti in tutto? Temo che non ci sia cosa che si possa fare in modo perfetto, prima o poi la si sbaglierà senza nemmeno rendersene conto. Accadrà come un lutto: all'improvviso senza lasciarci il tempo di rendercene conto. Come un colpo di fucile al cuore. Guarderemo il nostro sangue cremisi e caldo che colerà lentamente dal petto senza procurare alcun dolore. Increduli e sbalorditi lasceremo la vita senza essercene resi conto, senza poter dare un ritratto preciso alla morte.
  • 12. 12 Il succo di tutto ciò potrebbe essere la prova dell'inesistenza della perfezione che deriva dalla semplice incapacità del suo raggiungimento. Per fortuna non è una grave pe rdita. Se esistesse, potrebbe costituire il più grande limite dell'essere umano, un muro che non lascerebbe guardar oltre al progresso. Solo l'essere mediocre ane la alla perfezione che di per sé è tremenda. Qualcosa di perfetto è insuperabile e non lascia spazio a modifiche o miglioramenti, cioè non lascia libero sfogo alla conoscenza, all'intelletto e alle abilità di ognuno di noi che vengono invece confinate e alla lunga soffocate dall'idea che non potremmo mai essere migliori. Per tutti gli scienziati, perfezione dovrebbe essere sinonimo di disperazione. Ma che fastidio cari dottori quando sbagliamo! Mi sale la rabbia ogni volta che faccio un errore, di qualsivoglia natura. Forse sarebbe più democratica la perfezione, lascerebbe ognuno in pace con sé stesso e in armonia con gli altri, senza vivere nell'angoscia di sapere che sbaglierà in tutto. Vivremmo tutti in un mondo dove vi è una sola idea, una sola corrente di pensiero esatta e sempre valida; nessuno commetterebbe errori. Dico io: non è vero forse che il desi derio più grande dell'uomo è la ricerca? La perfezione è solo lo stimolo per essa, una scusa campata in aria per giustificare anni e anni di apprendimento. Noi forse non cerchiamo il giusto, ma ci accontentiamo della ricerca in sé, delle emozioni contrastanti che essa genera alternando rabbia e frustrazione a fierezza e gioia. Questo altalenare ci rende completi, ci fa dimenticare lo scopo iniziale. Nel mentre delle mie riflessioni, mi accorsi che il tempo, a differenza della mia mente, in quel parco esisteva e che si erano già fatte le sette di sera. Me ne accorsi grazie alla leggera brezza serale che mi accarezzava le spalle; la stessa che faceva suonare le fronde degli alberi in un coro unico. I grilli iniziavano a cantare e qua e là si intravedevano i fi evoli bagliori delle lucciole, offuscati dalla luce velata e magica che lo specchio del lago rifletteva. Le persone tornavano tutte alla monotonia della loro routine cittadina, assaporando per un ultimo istante, prima di varcare il cancello, la purezza di questo posto. Mi alzai anche io, facendo cigolare la panca, e misi le mani in tasca. Persino quei due anziani, riposti gli scacchi, si apprestavano a far ritorno a casa dove qualcuno di certo li avrebbe aspettati. Quasi li invidiavo. E' proprio in momenti come questo, che non riesco ad accettare la mia solitudine , che mi ha posto come privilegiato osservatore del mondo, ma al tempo stesso mi ha vietato di condividere queste conoscenze con persone care. Giudice indiscusso dell'uomo, solo in aula, privo di gi uria e testimoni, costretto a sussurrare alle pareti la sentenza finale. Tornando a casa non potevo fare a meno che guardarmi intorno, cogliere ogni particolare di ciò che mi circondava. Il marciapiede grezzo e compatto, grigio e monotono dove spuntava un filo d'erba che si alzava verso il cielo con tutte le sue forze, poco per volta, perseverando sempre. La luce dei lampioni che scandiva la strada illuminando i passanti. Riesco sempre ad impressionarmi di fronte alla banalità e questo mi rallegra. Dopo aver camminato per mezz'ora buona, mi fermai davanti ad un negozio di libri, un po' retrò, al centro del quale sedeva un magro uomo anziano. Entrai quasi istintivamente, incuriosito da un posto che non avevo mai guardato ma solo visto. Incastrati nelle vecchi e mensole e scaffali non vi erano molti libri di narrativa, dominavano i trattati filosofici, dunque metafisici, matematici ed etici. Da Talete fino ai giorni nostri. " L'anima" e poi poco dopo "De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis". Quel disordine mi dava alquanto fastidio ma lo ignorai poco dopo. Tutti quei filosofi, seppur sbagliando, come Copernico o come Democrito, avevano costituito il sapere moderno attuale che era composto anche dai loro errori. Senza di essi altri non avrebbero potuto proporre diverse tesi e creare una più esatta conoscenza. Tutti noi siamo composti dalle scelte che facciamo e dalle loro conseguenze. A volte siamo persino formati dalle scelte altrui che entrano a far parte della nostra vita. Siamo l'insieme degli errori e delle esattezze. Ora però mi trovavo in imbarazzo come al solito. Succede ogni volta che entro in un negozio per dare un occhiata e il commesso o il negoziante stesso, mi pedinano come ombre, chiedendo <<La posso aiutare?>> per farmi ricordare che ci sono anche loro e se non compro, esco. Ed ecco che come al solito dovevo rispondere -: Stavo giusto dando un occhiata, interessanti i vostri libri.... e anche il loro disordine. Non compro niente, se questa era la domanda, ero affascinato dall'arredamento ma qua lei vende libri
  • 13. 13 perciò..... non mi fraintenda, io adoro leggere, ma ora non mi interessa. Le auguro un buon fine di serata, arrivederci. Odio recitare formule, la mnemotecnica in generale non mi affascina per niente, ma a volte è necessaria; come tutto del resto. Dopo essere uscito al negozio, l'unico mio desiderio era quello di rientrare a casa e di godermi un po' di riposo. Salendo le scale del condominio, incontrai il vicino del piano sotto. Un uomo affascinate, sempre pronto a discutere di cose affascinanti. Statura nella media, robusto e con i capelli grigi lunghi. Si vestiva sempre con pantaloni di tessuto e portava la camicia bianca, rigorosamente, con sopra degli adorabili maglioncini. Aveva inoltre anche il vizio di fumare la pipa. Doveva esserne un collezionista perché, ogni volta che lo incrociavo, ne aveva una diversa. Adoro l'aroma che ne scaturisce: cosi intenso e delicato, un adorabile paradosso. Fumava e fumava, circondato da una cortina che sembrava dare sostanza ai suoi pe nsieri. Era un arte la sua, non un gesto volgare come quello della sigaretta o del sigaro. Con delicatezza e grazia nei movimenti, tirava fuori dal sacchettino di velluto il tabacco e lo riponeva con attenzione e omogeneità nel fornello. Tirava fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi e ne prendeva sempre due. Accendeva con cura la pipa appoggiando delicatamente le labbra al bocchino. Era come se lo baciasse delicatamente. Ogni volta che lo incontro somiglia sempre di più a Karl Marx; solo che lui non mi annoia con la politica. Ci siamo messi a discutere sull'importanza dell'amore per il proprio lavoro e di come esso possa arricchire chiunque, tralasciando l'importanza del denaro. Questo discorso era venuto fuori perché l'ascensore, ancora una volta, non funzionava e il tecnico continuava ad aggiustarlo senza mai ripararlo del tutto. Dopo un po', il discorso si stava facendo complicato. Lui iniziava a fantasticare su un mondo perfetto, privo di egoismo dove il lavoro era espressione dell'arte in ognuno di noi. Ero alquanto stanco e mi sarebbe dispiaciuto fraintendere i suoi discorsi, dal momento che, tra l'altro, erano interessanti. Mi scusai e, dopo averlo salutato, mi ritirai in casa. Finalmente al caldo, nell'intimo delle mura domestiche, dove non c'era nulla da capire. Che strano che è il mondo dottori: non basterebbero dieci vite per raccontarlo. Cosi pieno di contraddizioni che a volte sono impossibili da collegare in un quadro unico. Mi affaccio alla finestra. Vedo i palazzi e le auto che sfrecciano nelle strade, frettolose e minuscole come tante piccole formiche. Le luci della città mi incantano: cosi rosse, cosi accese e belle. Ecco: l'aggettivo giusto è belle, senza girarci troppo attorno. Tutto questo pensare mi ha stancato, pe r oggi può bastare. A proposito: alla fine l'ho spostata quella sedia dello studio. Era cosi fastidiosa. Capitolo 5 Finalmente ho trovato il nome giusto per questo diario: "I Pensieri". In fin dei conti scrivo delle mie esperienze e delle mie riflessioni affinché voi possiate dedurre cosa c'è di marcio nella mia testa. Il titolo non è iperbolico né banale, l'aggettivo giusto è raffinato: un insieme scollegato di pensieri. Già vedo il mio libretto riposto con cura nei vostri scaffali affianco a Pascal e Guicciardini. Vanesio? Si, forse un poco, ma che c'è di male finché non nuoce direttamente a qualcuno? Anche stasera mi tocca raccontarvi della mia giornata. Che bisogno c'è di farlo? Già conosciamo la sentenza finale, non c'è mica bisogno del mio scritto per confermarla. Tuttavia, visto che mi tocca e che ora, apparentemente, non ho nulla di meglio da fare, inizierò. Dunque oggi non ho fatto nulla di particolare fino a poche ore fa. Mi sono alzato di mattino presto e ho fatto colazione con caffè e biscotti. Fino all'ora di pranzo ho letto un libro e dopo l'ora di pranzo un'altro. Non li ho finiti, ci mancherebbe: ne ho iniziati due. Dicevo "ci mancherebbe" perché dubito che un libro, pur scontato e semplice che sia, si possa leggere in meno di un mese. Ecco io biasimo coloro che si definiscono "divoratori di libri" e che se ne vantano raccontando agli amici di tomi da cinquecento pagine letti in pochi giorni .
  • 14. 14 -: Eh io ho letto questo libro, mille pagine scritte piccole e senza.... ripeto....senza figure , in solo novanta minuti -: Niente in confronto a me mio caro. Duemila pagine, dico..... duemila, scritte talmente piccolo che quasi diventavo cieco a furia di legge. Ebbene si..... sessanta minuti circa, tendenti più ai cinquantanove. -: Sciocchezze le vostre..... dico solo un nome: Tre ccani. Tenetevi le braghe perché sto per dire..... mezz'ora! Per cogliere l'essenza dello scrittore, la sua anima tra le righe di un racconto, ci serve almeno un mese, dipende anche dalla nostra empatia. Bisogna fermarsi ogni frase e ragionare su ciò che si è letto. Ora, questo non vuol dire che ci sia sempre un messaggio nascosto; lo stesso Freud diceva che, a volte, un sigaro è soltanto un sigaro. Arriviamo al punto. Questo pomeriggio, verso sera, ero annoiato dalla quotidianità di ciò che mi circondava. Dopo aver preso il gelato da Perizio e averli pulito le vetrine, decisi di dover conoscere una parte nuova della mia città. Non volevo nuovi palazzi o nuove vie , ma nuove persone. Ero in cerca di avventura. Presi dunque il bus, uno a caso, e scesi quando più mi sembrava opportuno. Arrivai in un certo luogo, una piazzola che si diramava in più vie. Al centro vi era una statua di bronzo con un cavaliere, corazzato da parata, che montava un vigoroso cavallo. Decisi di prendere il vicolo più a sinistra. Imboccato, notai subito tra le fila di negozi,una porticina bianca e sverniciata, con l'intonaco sgretolato, simile alla pelle rugosa di un anziano. Spezzava l'ordine modulare del vicolo. Vi erano file di lampioni, che emettevano tutti la stessa luce. Le pareti erano in mattone, che scandi va ogni singolo centimetro. In quest'ordine, cosi rigoroso e soddisfacente, saltava all'occhio quell'unico elemento non armonioso del vicolo. Inutile spiegarvi perché mi incuriosii a tal punto da convincermi ad entrarci. Ero davanti all'uscio ed ecco che finalmente capii di cosa si trattava. Pareva essere un circolo di giovani che discutevano di politica, anche se il posto dove lo facevano richiamava più ad un vecchio fruttivendolo. Vi erano infatti pezzi di casse di legno e restavano ancora inchiodati dei ripiani per la merce. Saranno stati più o meno una ventina. Al centro del ferro di cavallo formato dalle sedie, vi era il moderatore: un giovane che avrà avuto poco più di ventiquattro anni. Infondo alla stanza c'era un computer; penso servisse a fondare la stupidità della tesi altrui. Neanche avevo bussato e già mi aprirono invitandomi ad entrare. Si rivolse a me il moderatore e, con un lieve sorriso, mi chiese se avevo piacere di uni rmi a loro. Non sapevo che fare. Io di politica non me ne intendo, egoisticamente lascio fare agli altri sperando che ne esca qualcosa di buono. Essenzialmente mi annoia; lo so è brutto da dire. Il compito di un filosofo è anche quello di partecipare attivamente alla politica, diceva Platone , eppure non ci riesco proprio. In parte mi disgustava l'idea di aver a che fare con certi tipi. Ne avevo visti di dibattiti politici , ma era un continuo parlarsi sopra, un continuo voler affermare la propria idea senza con dividerla. Sembravano dei mercanti di Marracash: tutti ad urlare e smaniare per convincere quanti possibile a comprare la loro scimmietta. Avevo paura di essere considerato nel peggior modo possibile: ignorante. Non so perché, ma dissi di si. Presero una sedia e mi fecero sedere proprio al centro del ferro. Ero un po' agitato, aspettai che qualcuno iniziasse. -: Oggi parleremo di come l'uscita dall'euro potrebbe o meno salvare il nostro paese Si alzò un ometto, tutt'ossa e disse con voce pacata e sottile . Iniziò a decantare le sue ragioni, spaziando nell'economia, poi nel socialismo, qualche accenno alla pedagogia, ma non vorrei sbagliarmi e anche se fosse poco conterebbe perché il suo era un tal minestrone che ci potevi aggiungere qualsiasi cosa che certo non avrebbe sforato. Si alzarono altri e poco a poco si stava formando il mercato di Marracash. Iniziò uno ad urlare e come una scintilla, accese l'animo polemico di ognuno. Poco dopo il moderatore si impose, zittendo tutti e richiamando l'attenzione su di me. -: Cosa ne pensi..... -: Alberto, mi chiamo Alberto
  • 15. 15 -: Scusa! Con mille nomi a volte me ne scappa qualcuno. Cosa ne pensi Alby? -: Alberto, mi chiamo Alberto Storse un po' il naso ma riprese -: Si, cosa ne dici? Anche secondo te è impossibile attuare un' uscita dall'euro? Non sapevo che dire, optai per girare attorno all'argomento cercando di attirare l'attenzione sui vocaboli raffinati più che sull'idea in sé. Volevo che anche il mio minestrone fosse buono. -: Ma si capisce, ma si capisce. Impossibile dico io, impossibile. Certo oltre che ai problemi di svalutazione e possibili prese di potere da parte di lobby vi è anche un ulteriore problema: le amicizie. Scusate ma avete una minima idea di quanti amici dovremmo lasciarci alle spalle. Niente più incontri, scambi di battute e cene a spese dello Stato. Niente più vignette umoristiche su i nostri e i loro politici. Sarebbe come cambiare classe all'ultimo anno di li ceo; buttare via tutte le esperienze fatte insieme...... Venni interrotto bruscamente dal giovane a capo che era palesemente infastidito. Mi guardai attorno: c'era chi rideva e chi invece condivideva quel senso di fastidio generato dal mio discorso, che avevano mal interpretato. Io cercavo solo di difendermi, non di prenderli in giro. -: Guardi che non siamo qui per divertirci, cerchiamo di preservare l'interesse alla politica in un mondo dove ormai tutti i giovani se ne fregano! -: Non vi biasimo: Onore e prosperità a voi; è che io sono fuori luogo: non ne so niente. Rimase impassibile, neutro a ciò che avevo detto. Si calmò e , dopo essersi seduto, rimase in silenzio. Non sapeva come reagire; era una situazione talmente strana per lui e anche per gli altri che aspettavano una risposta dal loro capo. Anche io l'aspettavo e li guardavo come per chiedere se avrebbe detto qualcosa. Dopo qualche secondo di silenzio generale, capii che sarebbe stato meglio approfittare della situazione per uscire. Mi alzai lentamente per non fare rumore e con un lieve cenno di saluto, me ne andai. Sorprendentemente, una volta di spalle al circolo, regnava ancora il silenzio. Strano! Mi sarei aspettato invece qualche invettiva nei miei confronti. Comunque di tutto ciò devo ammettere che ho gradito il clima generale. Già il solo sforzo di acculturarsi è lodevole, qualunque sia il risultato. C'era solo un problema: non sapevo come ritornare a casa. Il mio senso d'orientamento si basa sugli edifici. Strano da dire, ma posso contare i nomi delle vie che conosco con la punta delle dita. Ho preso lo stesso bus dell'andata e sono sceso appena ho visto qualcosa di famigliare; diciamo che ho fatto l'opposto dell'andata. Giunto nella strada dove abito, incontrai il mio vicino, l'uomo baffuto che somiglia a Marx; si chiama Guglielmo De Rovere. Lo incontrai proprio sull'uscio mentre stava uscendo, imbacuccato nel suo giaccone verde. Dopo esserci salutati mi chiese cosa avessi fatto oggi. Notavo in lui una certa curiosità nei miei confronti , come se mi considerasse un oggetto interessante di studio, ma non in senso offensivo, non ero una cavia. Aveva veramente piacere di parlare con me, uno dei pochi con il quale si poteva confrontare. Nella mia palazzina infatti non spiccavano menti brillanti e i discorsi spesso orbitavano intorno al calcio o a quanto fosse difficile mandare avanti la baracca. Io rappresentavo per lui la possibilità di sfogarsi, sapendo che chi aveva davanti non annuiva in maniera accondiscendente pur di levarselo di torno. Ogni volta che parlavo, lui mi guardava e ascoltava con molta attenzione. Mi studiava e cercava di cogliere ogni frammento del mio pensiero cosi folle e puro. Oserei dire che cerchi di fare il vostro mestiere Dottori. Eppure non mi da fastidio, anzi, ne sono onorato. Vedete, io rappresento ai suoi occhi qualcosa di unico e irripetibile. Tutti lo siamo, ma io di più. Ironicamente sono più unico di voi. Gli raccontai della mia avventura al circolo e lui rise, ma non svogliatamente; una semplice risata pacata e breve, come se anche lui avesse fatto un esperienza del gene re. -: Eh ma si sa! I giovani cercano sempre di aggrapparsi a qualche movimento, si sentono inconsciamente fragili; incapaci di affermare una loro idea, una loro corrente di pen siero; la bellezza della gioventù risiede nella sua instabilità. Sai Alberto, a volte molte parole vengono
  • 16. 16 fraintese e bollate come negative. La parola "malattia" genera sempre panico e angoscia. Richiama, per molti, solo cose negative. Un malato può essere uno con solo un semplice raffreddore passeggero. Sto divagando, lo so -disse, dopo essersi ricomposto, portando la mano alla barba. -: Si figuri a me fa piacere la divagazione: non è affatto disordine, ma ordine più complicato. -: Ha ragione. Comunque non poteva non entrare e basta ? -: Curiosità, troppa. Voler conoscere qualcosa di nuovo è sempre stato un mio vizio. Siamo andati avanti un'ora a discutere del più e del meno. Non di argomenti leggeri, sia chiaro, ma in modo vago di tutto, senza approfondire. Se lo avessimo fatto, avremmo perso la gioia di una cosi piacevole conversazione. -: Lei è davvero una persona deliziosa signor Alberto, le si può raccontare di tutto. Comincio a pensare che il titolo di "matto" lei lo porti come un segno di onorificenza, ma non come una trasgressione. Mi spiego meglio: lei va a braccetto con Erasmo, il dio della follia. La cosa sorprendente è che lei non ha colto il suo scritto come un semplice momento di svago, o fuga da un mondo intellettuale, che più che dialettica era ben poco. Rimpiango spesso la mia indole così pensierosa. Ho sempre reputato il solo pensare, porsi domande e ragionare come un qualcosa di onorevole, ma col passare del tempo ti divora l'anima. Non riesci più a goderti la semplicità delle cose, solo il lato più complicato di esse che soddisfa la tua mente, ma non il tuo spirito. Divago, divago, lo so! Tornando a noi, dicevo che lei ha qualcosa di unico, un punto di vista che pochi privilegiati hanno. Un insieme di eventi apparentemente scollegati tra loro ti avrà concesso di startene là, su una nuvola, lontano da questo mondo e dalle sue tentazioni, per osservare. Dunque come può la tua mente non ritenersi saziata? Tuttavia io mi domando: e il suo spirito? Come può lei cogliere la semplicità della vita? Me ne ero accorto, sapevo dove voleva andare a parare. Aveva trovato, nel poco tempo in cui mi aveva frequentato, l'unico mio punto debole, il tallone d'Achille del mio modo di vivere. Iniziavo a sentirmi a disagio poiché avevo riflettuto più volte su quell'argomento e non avevo mai trovato una risposta convincente. La paura si manifesta innanzi all'ignoto, il disagio davanti a ciò che si conosce perfettamente. -: Sto parlando della solitudine signor Alberto. Ci fu un attimo di silenzio, una pausa drammatica prima della sentenza finale , direbbe un commediografo. Lo guardai negli occhi sudando freddo. -: Ecco, io penso che su di lei non debba gravare il peso della solitudine. Sarebbe uno spreco imperdonabile. Come può lei privarci della sua influenza? E' egoistico e oltremodo maleducato. L'uomo, la usa essenza, si plasma col tempo attraverso tutte le esperienze a cui partecipa; siamo frutto di esse capisce? Dunque una sua partecipazione alla vita sociale non potrebbe fare altro che giovare ad ognuno di noi. Il suo pittoresco modo di pensare non deve tenerlo egoisticamente tutto per sé. Immagini se Leonardo Da Vinci ci avesse tenuto nascoste le sue scoperte, o se Cartesio non ci avesse scritto del suo metodo. Dentro di me tirai un sospiro di sollievo. Il giudizio di un tuo pari, se negativo, può essere la verità più dura da accettare. Avevo paura che lui avesse potuto smontare le mie credenze, la mia coerenza intellettuale, tutto ciò che avevo costruito sino ad ora insomma. Il mondo mi sarebbe crollato addosso e proprio come Cartesio, mi sarei ritrovato in un posto buio a chiederm i se esisto veramente, davanti al giudice più imparziale e crudele che ci sia: la mia coscienza. -: Che ne dice dunque se iniziassimo questo "cambio di percorso"? Realizziamo questo ghiribizzo della mia mente. Poi, detto tra noi, lei si stava stufando di questa solitudine. Non sapevo cosa rispondere, era come se avesse preso le redini della discussione lasciandomi spiazzato, inerme e vittima delle sue divagazioni. Non sapevo cosa sarebbe successo, a cosa sarei andato in contro. Avevo paura. -: Non le pare un po' sentenziosa questa sua ultima affermazione signor De Rovere? Era andato cosi bene, si è sciupato nel finale -dissi con ironia, masticando amaro.
  • 17. 17 -: Si, certo che lo sono, ma a fin di bene e soprattutto dalla parte della ragione. La solitudine è l'unico male che l'uomo non può sopportare, siamo fatti cosi. Possiamo restare soli, in compagnia dei nostri pensieri, ma alla lunga finiscono o per annoiarci o per ucciderci. Cicerone stesso lo ammise, dicendo che se un uomo potesse osse rvare l'universo dalla cima più alta di un monte, non ne potrebbe godere a pieno senza prima condividerlo con qualcun'altro. Dunque la mia proposta è semplice: che ne direbbe di venire domani se ra a cenare con la mia famiglia? Sarebbe un' ottima occasione per conoscere mia moglie, che a sua volta potrebbe inserirla nello strabiliante mondo della vita mondana. Ma si capisce! E' perfetto, mi basterebbe un suo "si" per ufficializzare la cosa. Non riuscivo a trovare un motivo per esentarmi da questo esperimento. Ero incuriosito e risollevato. Provavo una sorta di felicità infantile, inspiegabile, che proveniva dal cuore. Sentivo che avevo davanti un' opportunità che non dovevo sciupare; raccogliermi nell'indifferenza o nella paura sarebbe stato come mettere un piede nella fossa perché ormai lui aveva fatto breccia dentro di me, mi aveva messo a nudo, davanti alle debolezze che nel corso degli anni avevo tentato di seppellire con la sabbia. Con un sol soffio, aveva spazzato via di netto quella polvere dorata. -: E' impressionante come lei riesca sempre a cadere in piedi signor Guglielmo. Dico che non c'è nulla di male nella sua proposta, anzi, non può far altro che giovarvi - dissi sorridendo. -: Lo considero un "Si" ? -: Lo consideri un "Si". Ci scambiammo un sorriso di approvazione, una stretta di mano e poi addio. Ognuno per la sua strada fino a domani sera. Comincio a pensare, per gioco e, chissà, magari poi veramente, che quest'uomo abbia più possibilità di voi di "guarirmi". Capitolo 6 Non ho più voglia di scrivere, ogni volta, giorno e nome di questo libretto. Crea un freddo distacco tra il lettore e me, per non parlare della sua monotonia che alla lunga finisce per esasperare chiunque. Capisco che a volte le abitudini possano essere le nostre più care amiche; ci ricordano chi siamo e cosa stiamo facendo, ma hanno il vizio di annoiarci. La vita ha cosi tante sfaccettature che sarebbe ottuso viverne solo alcune, creandosi attorno un recinto. Oggi è stato un grande giorno, l'inizio di un nuovo pe rcorso. Come già sapete questa sera ero ospite del signor De Rovere. Che dire? Una serata deliziosa. Dovevo presentarmi alle otto in punto e siccome il tragitto non era lungo, giusto una rampa di scale, me la presi comoda. La mia più grande preoccupazione sul momento fu come vestirmi. Lo so è sciocca, ma ne ero brutalmente vittima e un po' me ne vergognavo. "L'abito non fa il monaco" mi ripetevo nella testa, eppure non riuscivo a mentirmi abbastanza bene per sottrarmi da quell'angoscia. Era più un moto di orgoglio che mi rendeva insopportabile la mia condizione, ma poi riflettendoci, l'orgoglio è un sentimento di poco conto. Ho pensato dunque che in realtà è un bene che mi preoccupi. In fondo è un bene che l'apparenza abbia questa forte influenza su di noi; permette ai più insicuri di proteggersi attorno ad un manto di nulla. Più meritocratico forse, ma a volte ingiusto, come ogni cosa. C'è sempre un grigio; mai bianco, mai nero. Aprendo l'armadio di legno d'ebano, mi riflettevo sulle sue pareti cerate. Trovai il mio vecchio abito da sera, ma mi sembrava fuori luogo. Optai per qualcosa di più "casual", rimanendo sul classico. Presi dunque una polo bianca, maniche corte e con un grazioso stemma verde sul pe tto. La abbinai a dei pantaloni di tessuto marrone scuro e ad un maglione di lana verde prato. Ero stupidamente orgoglioso di me e fieramente mi specchiavo sul riflesso dell'armadio. Non sono brutto, ma neanche bello. Non ho fascino, e questo mi rende paradossalmente attraente. Giravo intorno alla stanza, osservandomi più volte sul riflesso del mobile. Continuavo a pensare a come comportarmi, anche se in fondo il padrone di casa desiderava spontaneità. Pensandoci bene tutti noi siamo sempre spontanei. Il pe nsare prima di agire è un comportamento di per sé, non un preludio ad esso. Il modo di pensare è poi diverso da persona a persona. Forse non esiste la non-spontaneità, tutto lo è. Non credevo a quello che dicevo, nemmeno Lord Henry lo
  • 18. 18 faceva. Questi miei ghiribizzi li consideravo solo come possibili ipotesi; fantasie divertenti, fatte senza doversi preoccupare della loro veridicità. Mentre mi vestivo, infilandomi delicatamente i pantaloni, pensavo al dilemma delle maschere. Il problema è cosi fatto: in un mondo dove l'introspezione psicologica è pressoché impossibile o al limite superficiale, l'uomo è costretto ad indossare maschere, identità, al fine di identificarsi in un modello comune ed inserirsi nella vita sociale. Il problema è capire se indossarle sia una cosa positiva o negativa. Le maniche di una polo sono sempre difficili da abbottonare ai polsi. Dannazione! Ogni volta la stessa storia! Da piccolo c'erano i miei a provvedere, ma ora non più. Che irritazione! Non volevano proprio entrare quei bottoni. Pensavo intanto, che non è poi cosi negativo che esistino queste maschere, nemmeno lo è indossarle. L'uomo è unico e in quanto tale irripetibile. Ci caratterizziamo per il nostro "io" interiore, ma se siamo tutti unici e quindi diversi, come facciamo a stare insieme? Trovando qualcosa che ci accomuna, è ovvio. Dobbiamo vestire maschere che si possano abbinare tra loro solcando il grande palcoscenico della vita. Finalmente un bottone era scivolato, ne restava uno solo. Non ne voleva sapere di stare al suo posto. Stavo diventando rosso dalla rabbia. Santo cielo è possibile che il diavolo si manifesti in un bottone!? Nel mentre della mia rabbia, come parallelamente ad essa, mi convincevo sempre di più che la spontaneità fa terribilmente paura. E' imprevedibile e non lascia spazio a previsioni. Terrorizza tutti e quindi è un bene che esistano queste maschere; ma ci possono essere diversi livelli di spontaneità? Possibile, a seconda della nostra curiosità. Non credevo neanche a questo. Finalmente ci sono riuscito, stavo per diventare matto. Almeno il tessuto di questa polo evitava quel fastidiosissimo pizzichio del maglione. Questi pantaloni, in fin dei conti, sono gli unici innocenti. La mia tensione si stava trasformando in maniacale accidia per ogni futile cosa, mi annebbiava la mente e mi faceva sragionare. Una volta vestito, tirai fuori dalla scarpiera in camera da letto un bel paio di scarpe nere laccate. Strofinai sulla pianta una patata tagliata; più per consuetudine che per altro. La suola di queste scarpe infatti è estremamente scivolosa e una leggenda, partorita penso nei salotti dove donne pettegole bramano in cerchio contro i mariti , dice che l'amido previene imbarazzanti scivoloni. Vestito di tutto punto, non mi restava altro che recarmi all'appuntamento. Sistemai sull'uscio della porta i capelli, alla bene e meglio si intende, e scesi le scale con attenzione, poiché non ero ancora, in trentasei anni, convinto dell'efficacia dell'amido. Appoggiandomi delicatamente al corrimano, scesi quella rampa meditando e fantasticando su quello che mi aspettava appena dieci gradini più in là. Davanti all'uscio di casa De Rovere, suonai il campanello. Un dolce squillo avvertì della mia presenza e subito sentii distintamente la corsa di qualcuno, che stava venendo ad aprirmi. Senza nemmeno chiedere <<Chi è ?>>, la figlia del signor Guglielmo spalancò la porta, come se stesse spalancando un portone di accesso ad un mondo meraviglioso e inesplorato. -: Salve signor Sappi! Entra, papà ti aspetta. Detto tra noi, lui odia aspettare, si arrabbia! Doveva avere pressoché nove anni. Il viso rotondo e soffice, di quella pelle puerile ancora candida, era cosparso di adorabili lentiggini che si raggruppavano sulla punta del naso. Due grandi occhi verdi, capaci di meravigliarsi di tutto, incorrotti dalla realtà e socchiusi nei dolci pensieri. Vestita di tutto punto e con le trecce bionde, mi guardava sorridendo nell'anima. Mi sentivo inerme innanzi alla purezza infantile, che mi incantava con la sua fragilità . Un sentimento di pietà mi sorse dal profondo, pensando che un giorno quegli occhi di un verde vivo, diventeranno paludosi e neri attorno, uccisi dal vivere. -: Non dovrà mica arrabbiarsi papà, eccomi dunque. Salve a tutti! Il tempo di sentire lo strisciare di una sedia e Guglielmo era già alla porta. Non era mai stato così affascinante. Capelli laccati all'indietro e barba pettinata che scendeva sin sul maglione rosso
  • 19. 19 con una deliziosa fantasia geometrica. Portava dei pantaloni di jeans blu scuri che risaltavano con le scarpe di pelle marrone. Che fascino! -: Eccoci dunque, come siamo eleganti questa sera! -scherzò stringendomi la mano. -: Ma questo non è essere eleganti, o ci vuole cosi poco? -: L'eleganza è oggettiva e dipende dal contesto. Lei per quest'occasione è elegante, ma per una cena di gala non lo sarebbe; anzi, probabilmente susciterebbe invidia agli altri partecipanti, che sarebbero costretti a sopportare le spalle strette dell'abito da sera. Entri pure, non è decoroso fare eco nella tromba delle scale, specie se gli altri non ne colgono la bellezza. Fece un cenno con la mano per poi accarezzarsi la barba. Entrai. La casa era semplice e vissuta; adattata alle esigenze famigliari senza badare all'estetica che sicuramente avrebbe messo a disagio gli ospiti. Vi erano dei giocattoli sparsi qua e là, foto di famiglia su ogni muro e anche qualche innocente scritta che più volte avevano cercato di smacchiare. Il corridoio conduceva al salotto, attorno al quale si sviluppavano gli altri vani. In mezzo all'ampia sala, vi era il tavolo con cinque posti. Erano già seduti due signori che non conoscevo e che neppure avevo mai visto. Uno aveva i capelli corti marroni, un naso lungo a punta e occhi neri scavati. Evidentemente segnato dal tempo, come le sue rugose mani con le quali accarezzava la tovaglia. Magro e con un sorriso sinistro stampato in faccia. Il secondo, evidentemente suo amico, era l'esatto contrario. Sembrava il suo "alter ego". Viso paffuto, occhi luminosi e azzurri. Capelli biondo cenere, lunghi che circondavano il viso. Sembrava l'emblema del benessere, anche se irritava quel suo sguardo approssimativo e distaccato che analizzava superficialmente tutto. Addentando un grissino, fu il primo ad alzarsi per porgermi il suo saluto. Era basso e grasso, evidentemente sovrappeso. Goffo nei movimenti, già rosso in viso dalla fatica. Respirando affannosamente, mi porse la mano e tra un colpo di tosse e l'altro disse -: Salve, io sono Claudio Tassori, amico da anni di Guglielmo. Quello là, che neanche si degna di alzarsi, è Enrico Malessere. Non rida del suo cognome, semmai della sua negligenza nel cambiarlo. Parlava lentamente arrotondando le parole, che uscivano dalla sua bocca come una melodia dolce e assonante. -: Piacere, il mio nome è Alberto, del cognome poco importa, giusto? In fin dei conti, un cognome buffo basta e avanza. Accennò un sorriso sulle sue paffute guance, e mi strinse energicamente la mano. Lentamente si alzò anche l'altro e accennando un saluto con il capo si risedette. Non era maleducato, anzi, anche io odio queste inutili presentazioni. Cosa vuoi che sia il nome di una persona che non conosci? Non più di un marchio, non meno di un etichetta bianca. -: Hai conosciuto anche mia figlia. Adorabile non è vero? Non era affatto arrossita per quei complimenti. Scuoteva la testa in segno di approvazione, abituata ormai a quel genere di lusinghe. -: Sù! chiama la mamma! Corse velocemente in cucina urlando <<Mamma vieni dai>> e subito uscì la signora De Rovere. Che donna meravigliosa nella sua impe rfezione. Aveva un brutto naso cascante, ma meravigliosi occhi. Stempiata appena, ma con chiome dorate lucenti. Voce graziosa e un senso spiccato di compostezza. Non mancava proprio niente in questo quadro famigliare dalle mille tonalità. -: Signor Alberto! Si accomodi la prego, stavamo giusto per iniziare cena. Presi un posto a tavola affianco al padrone di casa; cosi lui voleva. Piatti, forchette, coltelli, tovaglioli, tutto a suo posto secondo le precise quanto inutili regole del Galateo. Uno sfavillare di luci argentate in armonia con le decorazioni floreali dei piatti. Tovaglioli color panna, setosi e morbidi che quasi mi sembrava un peccato sporcarli. Aspettavamo, più che la prima portata, che qualcuno spezzasse il rumoroso e sibilante silenzio che da parecchi minuti aveva preso parola. Scambi di sguardi per capire le mosse altrui, come se giocassimo a dadi.
  • 20. 20 Guardai Guglielmo riponendo fiducia in lui, in fondo era il padrone di casa. Ora, si che di solito ai convivi vi è il giullare o l'ubriacone che prende in mano le redini della conversazione buttandola sul ridere, ma loro avevano a disposizione un folle. Non ero timido, sebbene ebbi per qualche secondo l'angosciante terrore di essere intellettualmente inferiore a quelle due figure, che fieramente sedevano in quella sala. Non c'è niente di peggio. L'intelligenza aimè è un dono divino, o genetico, guardatela come volete. Non dipende da noi, lo abbiamo e basta. Come posso valutare una persona in base alla sua intelligenza? Equivarrebbe a misurarne, se si potesse, la sua fortuna. Meno male che l'uomo ha inventato la sapienza. La chiave per essere saggi è la buona volontà, cosa che tutti possiamo avere. Più meritocratica dell'intelligenza, ma in questa sua peculiarità non lascia spazio alla negligenza. Dona all'uomo uno dei più grandi poteri: il giudizio. -: Dunque, cari amici vi presento Alberto Sappi, la persona più deliziosa di questo palazzo. Proprio ieri sera stavamo discutendo di questo e non potei fare a meno di fargli presente della sua solitudine. Sarebbe un peccato non poter godere della sua compagnia, dal momento che qui dentro è il più sveglio; pensate, sta scrivendo persino un libro. Rise tra sé e sé. Non era ironico, ma mi aveva volutamente posto su un piano superiore per destare curiosità negli ospiti, che subito vennero scossi da quelle parole come se stessero pensando ingelositi << Ma come,non ero io il più sagace?>> -: Ah davvero signor Sappi- disse Enrico - bhe, allora è un piacere averla qui con noi! Deve sapere che nutro un forte senso di disprezzo ogni volta che metto piede fuori di casa. Impallidisco innanzi alla stupidità altrui, ma allo stesso tempo me ne faccio vanto e non potrei viver senza, mi capisce? Aveva una voce pacata, modulare. Lineare fino all'esasperazione. -: Che vanitoso, datti un contegno -iniziò il signor Claudio, sistemandosi sulla sedia- Non lo ascoltare, lui ha una cattiva influenza su tutti, meno che noi due - disse guardando Guglielmo - Non si lasci trasportare dalle sue baggianate. E' colto e a volte sa essere anche intelligente, ma mi creda, non deve prendere sul serio nessuna delle cose che dice. Il primo piatto era in tavola: pasta al pomodoro. Semplice, ma cucinata con quell'amore materno che rende irresistibile un pezzo di mollica. La pasta fumante veniva servita con cura ed eleganza dalla signora Lucia; cosi si chiamava la moglie. Me lo suggerii il signor Enrico, con un sussurro, prevedendo la possibile situazione di imbarazzo che si sarebbe venuta a creare. -: Buon appetito!- disse Guglielmo con un caldo sorriso, guardando Enrico per un istante. -: Vecchio mio- disse proprio lui - dire buon appetito è maleducazione. A proposito, di cosa tratta il suo libro? Pacatamente riposi la forchetta che ormai aveva perso il suo luccichio, imbrattata dal sugo, e dissi -: Libretto più che altro. Non vi ha raccontato della mia situazione il signor Guglielmo? Nessuno parlava, evidentemente no. Non lo fece, ma di proposito. In questa serata lui rivestiva il ruolo di moderatore. Come un abile burattinaio stava orchestrando tutto facendoci ballare a suo piacimento. Era come se avesse previsto tutto. Mi accorsi solo dopo che il " buon appetito" era solo un pretesto per iniziare una nuova discussione. Sapeva che Enrico desiderava conoscermi più a fondo, mentre a Claudio bastava un piatto di pasta per perdere il filo del discorso. -: Oh bhe, dunque spetta a me questo compito! Ero pacato, mi sentivo a mio agio a parlare di me. Certo non desideravo la loro compassione per svincolarmi un po' da quella pressione, ma non volevo nemmeno stare al gioco di Guglielmo, per quanto potesse essere divertente. -: Vedete, io sono un pazzo. Semplicemente questo. Lucia era diventata rossa, mentre la piccola sorrideva. I due ospiti invece rimasero impassibili, con la fronte corrugata, intuendo che non si trattava solo di un'esclamazione goliarda. Qualche secondo di silenzio mi fece capire di dover altre spiegazioni.
  • 21. 21 -: Per farvela breve, io sono ,medicalmente parlando, un malato psichiatrico. Purtroppo per colpa di Freud, la gente si focalizza solo sull'aspetto più bizzarro del mio comportamento. Diciamo che sono più un folle alla Erasmo da Rotterdam. Dall'alto della mia nuvola osservo il mondo, senza influenze e pregiudizi. Sarebbe tutto magnifico se, nell'oscurità della mia stanza, non fossi costantemente infastidito dalla solitudine. Mi reputo una persona simpatica, ma dopo un po' mi annoio di me stesso. Cosi Guglielmo mi ha offerto questa opportunità d condividere le mie esperienze. Questo, finito di parlare, si rivolse a me con un sorriso velato da un senso di amarezza per avergli rovinato il gioco. Dopo questo mio intervento mi sentii a mio agio, nel vivo della conversazione. Non avevo più paura di confrontarmi con loro. Il signor Enrico, accarezzando con le lunghe e ossute dita la forchetta, disse -: Condizione meravigliosa la sua, la invidio. Capisco la morsa della solitudine, e quanto essa possa esasperare, ma cosa sarebbe la vita senza il dolore ? Resilienza mio caro, l'arte di sapersi adattare. Comunque ha fatto bene ad accettare l'invito, lo dico per me. Esattamente come Guglielmo, non vedo l'ora di frequentarla. Sono precipitoso? Lo so, ma ho sempre odiato i tentennamenti. Il nostro "io" può essere terrificante a volte. Guardi l'ingordigia di Claudio; il modo con il quale si ciba della pasta, avidamente ingollata. Sembra che ci si stia farcendo come un tacchino; non la terrorizza questo? -: Pugno di sabbia.... basta un pugno di sabbia. -dissi divertito da Enrico. Claudio non si infastidii, semplicemente rise. Era abituato a sentir battere quel chiodo. -: E che c'è di male dico io. Il cibo sazia lo stomaco e rasserena il cuore. Curare l'anima con i sensi, e i sensi con l'anima. Invece tornando a lei signor Alberto, come diceva Enrico, deve essere interessantissimo il suo punto di vista: unico oserei dire. -: Ma certo si capisce!- disse Guglielmo - non siate ripetitivi. Ricordatevi che questa deve essere una piacevole serata per il signor Alberto, non un interrogatorio. Lui non è mica un oggetto di studio! -: Mi sento di dissentire, amico mio - interruppe Enrico con la sua solita compostezza- vedi tutti siamo oggetti di studio per tutti. Non è affatto paradossale. L'uomo è istintivamente spinto a voler capire ciò che l'altro pensa, per sopravvivere. Involontariamente, o quasi, eseguiamo continuamente introspezioni psicologiche, anche se il più delle volte sono sbagliate. E' questo il loro fascino. -: Quanto sei noioso, te ne rendi conto? I tuoi interventi sono più sfoghi che altro. Comunque devo ammettere che m piacciono -disse Claudio, provandoci gusto. Intanto ognuno di noi aveva terminato la prima portata e già da dieci minuti ci era stato tolto il piatto. Usciva dalla cucina un enorme arrosto, magro e appena croccante in superficie. La piccola Giulia si era alzata ad odorarlo e aiutava la mamma a servirlo nei deliziosi piatti piani, decorati con un motivo geometrico a rettangoli. Nel tagliere, la carne rilasciava il sugo caldo e speziato che colava dai bordi, raccolto con avidità dalle dita graziose e rosa della piccola. Cadevano lentamente le fette, e nel medesimo modo vennero servite, senza quella fretta che deturpa ogni cosa. Come accompagnamento v'erano delle deliziose e caramellate patate al forno, speziate con rosmarino e addolcite dalla cipolla. Lucenti e dorate, oggetto di lusinghe per quella povera donna che con tutto il suo zelo le aveva preparate, chiusa nei quattro muri della cucina. Un fumo denso e incantevole saliva dalla superficie croccante, annebbiando la mente del povero Claudio che proprio non riusciva a trattenersi. Senza nemmeno aspettare di esser servito, ne prese una e la mise in bocca, assaporandone tutti i sapori in un sol momento, per poi ingollarla per paura che gli venisse rubata. Sotto lo sguardo di commiserazione di Enrico e quello di derisione del padrone di casa, le sue guance paffute e rotonde arrossirono repentinamente, come quelle di un bambino scoperto con le mani nel miele. Giulia rise, rise e non riuscì a smettere. I suoi occhi mostravano tutta la loro lucentezza e ingenuità, specchi di un mondo non ancora corrotto. -: Cerbero ne abbiamo un'altro! -disse scherzando Guglielmo -se non disdegni l'odore acre e la pioggia battente su terra marcia, ne avrai da godere in eterno.
  • 22. 22 -: Suvvia, non siate così noiosi; dico anche a lei signor Enrico. Questa è una cena tra amici, mica tra colleghi. Sapete, ognuno di noi ha una sacca con dentro i suoi vizi e difetti. Però la teniamo dietro la schiena, invisibile ai nostri occhi, cosicché non ci disturbi la sua angosciante presenza, costituendo solo un doveroso carico. Occhio non vede, cuore non duole. Anche perché il buon vecchio Fedro ci dispose tutti in fila indiana, cosicché potessimo rallegrarci dei difetti altrui. Dunque non rimproverate Claudio, che con così tanta teatralità ci mostra la sua saccoccia. Scoppiarono tutti a ridere, tranne Enrico. Lui si rallegrò in silenzio, nel cuore. Si era accesa nei suoi occhi una luce nuova che prima non avevo notato. Posso dire con sicurezza, e non mi consideriate vanesio nel farlo, di averlo colpito. Finalmente sentiva che qualcuno, oltre a Guglielmo, avrebbe potuto stimolarlo. -: Ha ragione, condivido pienamente. Semplicemente questo, non disse altro in merito quell'enigmatico uomo ossuto. -: Signor Alberto, a lei piace il golf ? Quella domanda così improvvisa di Claudio mi aveva lasciato spiazzato. Lo stesso Guglielmo, che fin ora aveva tutto sotto controllo, spalancò gli occhi per poi sorridere in un espressione che rivelava tutta la sua curiosità. -: Non ho mai giocato a golf, ma l'idea di farlo non mi esalta. Sarei dunque molto interessato a provare, conoscete un posto dove andare? -: Ma si capisce, il club " Piastrini Golf" è l'ideale. Oltre al gioco, si può dilettare guardando gli altri giocare: vecchi ormai in pensione che, vestiti di tutto punto, sprecano giornate a mettere una pallina in un buco. Per non parlare poi delle mogli. Che persone affascinanti ! -rispose con la bocca ancora piena Claudio, mentre con il tovagliolo puliva il sugo sul mento. -: Andiamo Claudio, non puoi certo sminuire così questo sport! Se ragionassimo tutti al tuo modo, il calcio sarebbe come il golf e la pallacanestro anche. Tutto si limiterebbe a spostare una palla da una parte all'altra. Non ti pare un po' ingiusto?- disse Guglielmo, che era visibilmente interessato all'idea- La maggior parte degli svaghi sono semplici, ma vengono apprezzati per le emozioni che suscitano nei partecipanti, compre si gli spettatori. Liberano, per il tempo che basta, la mente dai suoi logoranti pensieri. Ero completamente sazio. Avevo mangiato due piatti abbondanti. -: Fai onore alla cucina -mi disse sorridendo Giulia. Mancavano venti minuti alle undici. Lucia subito corse in cucina a preparare il dolce. Poco dopo, uscì un meraviglioso tiramisù. Morbido e velato dalla polvere amara di cacao. -: Che cuoca che abbiamo avuto oggi. Avanti, un applauso! -ci incitò Claudio. Applaudimmo tutti, ridendo e assaporando il momento di gioia; una gioia folle, nata da una stupidaggine. Ed era proprio questo a renderla così irresistibile. Finito di mangiare, io, Guglielmo, Enrico e Claudio ci siamo messi in salotto. Seduti nelle comode sedie di legno, ognuno con il suo caffè, continuammo il discorso prima interrotto. -: Allora, venendo al sodo. Potremmo domani, che è domenica, andare al club e goderci la serenità di un bel prato verde, che paradossalmente di naturale ha poco o niente. -: Quello che avevo in mente. Inoltre -ci fece notare Claudio- sarebbe un ottima occasione per conoscere meglio questo giovane pazzo, dico bene ? Scoppiò a ridere, alternando a risate tossiti rauchi, mentre noi accennavamo solo un sorriso per educazione. -: Se a lei va bene signor Alberto, ci potremmo vedere alle 15:00 di domani, davanti al cancello -disse Enrico- Si fidi di me, ne rimarrà colpito. E' un posto che, malgrado le apparenze, è tutto fuorché noioso. Io stesso, che non sono pratico di sport, ne lo desidero, trovo affascinante la gente che lo frequenta. Ricadiamo nei piaceri dell'introspezione psicologica errata? Non importa, purché sia divertente. Beveva il caffè con una lentezza esasperante. Con pollice e indice teneva la tazza, e lentamente la appoggiava alle labbra. Sorseggiava un poco e poi la riponeva sul suo piattino. Amava il suono che questo produceva. Un leggero "Tin!" che suonava come una melodia per lui, in quella monotona linearità comune ad entrambi.
  • 23. 23 -: Allora è deciso! - esclamò Guglielmo - serve solo il tuo "si" Alberto. Mi guardarono tutti sorridendo, a parte Enrico. Lui sorride raramente, ma solo perché in cuor suo se ne vergogna. Trova ripugnante e pericoloso esternare i suoi sentimenti. Difatti essi sono lo specchio della nostra anima, ma lui si vergogna della sua. Sarebbe troppo vulnerabile; pare che non se lo possa permettere. I suoi sentimenti gli ricordano che anche lui è un uomo e questo proprio non lo può soffrire. -: Si, è ufficiale. Domani cari amici, andremo al club! -: Siamo già amici noi? - chiese maliziosamente Claudio. -: Pensare le stesse cose non è amicizia? -chiesi altrettanto maliziosamente. -: Questo lo scopriremo col tempo, non siate frettolosi. Che deliziosa serata, mi sto proprio divertendo! Detto ciò, Guglielmo mise a letto la bambina e ritornato in salotto continuò ad intrattenerci. Discutemmo del più e del meno. In modo vago, con paradossi e spesso perdevamo il filo del discorso, prendendone a caso uno nuovo. Ci raggiunse anche Lucia, che, pulita la cucina, non era ancora assonnata e sperava in qualche nostro noioso discorso, che la aiutasse a cader nelle dolci braccia di Morfeo. Non interveniva mai, ma la sua sola presenza, con quella sua matriarcale compostezza dove si specchiavano i valori ormai persi della moglie zelante, mi rallegrava. Era ormai l'una di notte. Dalla finestra del salotto si potevano ancora vedere le scie rosse e bianche della macchine che, come formiche operose, correvano in una città che non dorme mai. I lampioni accesi illuminavano le strade vuote, piene di sporcizia, testimonianza della frettolosa vita cittadina. Grandi palazzi toccavano il cielo, sfidando Dio. Dove è arrivata la superbia dell'uomo, che li ha permesso di trovare la sua dignità in un cosi vasto universo, all'interno del quale siamo solo punti, in palazzi altri più di venti metri? Claudio ormai non ce la faceva più. Visibilmente assopito, era prossimo a crollare. Reclinava la testa, socchiudeva gli occhi e apriva la bocca. Poco dopo si ricomponeva, e poco dopo si riassopiva. -: Guglielmo, caro mio, è stata una meravigliosa serata. Purtroppo dubito che Claudio resisterà ancora a lungo e voglio sfruttare quella poca lucidità di adesso per farmi portare a casa. Sarebbe un peccato andarsi a schiantare e rovinare tutto, dico bene Alberto? -: Si capisce, fossi al suo posto sarei più prudente e guiderei io stesso. Dopo un lieve cenno di Guglielmo, i due cominciarono a prepararsi. Presero le giacche dall'appendiabiti e fecero i dovuti saluti. -: Allora domani alle 15:00 al club, puntuali mi raccomando. L'attesa non la sopporto, sebbene molti la considerino un piacere -ammonì Enrico. -: Certamente -rispose Guglielmo chiudendo l'uscio delicatamente, quel tanto che basta per non essere scortesi. Avvicinandosi a Lucia le diede un bacio e la invitò ad andare a dormire, avrebbe pensato lui a riordinare le ultime cose. Questa acconsentì e, dopo avermi salutato con quella sua calorosa gentilezza, si ritirò nella stanza da letto. -: Sarà meglio tornare a casa. Non riesco ancora a concepire tutto ciò; è accaduto così in fretta. A che gioco sta giocando? Cosa vuole veramente da me? -chiesi scherzando. Si era fatto serio in volto, corrugando la fronte e poggiandosi al muro. Dopo una breve pausa, sospirò e disse -: Capisco il suo punto di vista, so che non voleva essere scortese. E' colpa mia. Ho il difetto di programmare tutto, la smania di avere ogni cosa sotto controllo. L'imprevedibile, l'ignoto, l'inconcepibile mi spaventano a morte. Posso dare quindi l'i mpressione di tramare qualcosa, ma sono longevo da questo. Sono stato sempre affascinato da tutto. Riesco a vedere il complesso nel semplice, ad analizzarlo e schematizzarlo nella mia testa. Io studio tutto, ed era per questo che, mosso da questa puerile euforia, non potevo fare a meno di invitarla. Non sono mai stato bravo ad aspettare: chiesi a Lucia di sposarmi dopo appena cinque mesi della nostra relazione. Era sincero, come mai lo era stato in tutta la serata. Lui aveva qualcosa di unico, sentivo ch e in fondo non eravamo così diversi. Iniziavo a pensare che lui fosse un folle, esattamente come me.
  • 24. 24 Si era però reso conto della complessità della vita, di questa commedia sociale che non si poteva recitare altrimenti. Forse vedeva in me la possibilità di poter scappare dal palco, anche solo per pochi istanti. Un tocco di aria fresca indispensabile. -: Capisco. Perdona le mie domande indisponenti, ma a volte è necessario dubitare anche dell'ovvio. Grazie per la compagnia, domani allora alle 15:00 al club. -: Si -disse sollevato- passi venti minuti prima da me, così ti do un passaggio e le mazze. Allora a domani, buonanotte Alberto. Ci sorridemmo vicendevolmente, poi mi girai e salii la rampa di scale sentendo il cigolio dell'uscio, che lentamente veniva chiuso. Sento che sarà l'inizio di un qualcosa di unico. Voi che ne pensate? Quell'uomo ha percepito la mia solitudine e ne ha approfittato per sanare la sua. In questo l'uomo è lodevole e nel contempo approfittatore. Capitolo 7 Questa mattina mi sono alzato proprio di buon umore. Il tubolare dei piccioni appostati sul muro del viale, accompagnato dalle grida della città, mi strappò un sorriso. Spalancai le finestre per levare il pesante odor di chiuso. Raggi di sole entrarono nella stanza illuminando il comò, che a sua volta, con la sua superficie cerata, li rifrange va in tutta la stanza più fievoli. Il caos della strada entrò bruscamente, facendomi realizzare che oggi era un nuovo giorno. Ero eccitato come un bambino alla vigilia di Natale , che siede nelle panche scivolose della chiesa con le gambe tremanti che non ne possono più di stare ferme. Ronzavo attorno allo studio, leggendo a tratti qualche frase nella speranza di potermi distrarre. Ero già vestito. Polo bianca, pantaloni di stoffa morbida e mocassi ni. Non mi importava più del mio aspetto, ormai sapevo di essere stato accettato. Che cosa buffa. Finalmente giunsero le 15:00. Come un lampo mi fiondai sulla porta. Una volta aperta, mi precipitai giù dalle scale fino a giungere dallo zerbino di casa De Rovere. Mi concessi pochi secondi per ricompormi e suonai il campanello. -: Eccoci dunque, Alberto. Sei pronto? -: Andiamo, il signor Enrico detesta aspettare -esclamai con la felicità dipinta in viso. Salimmo sulla sua macchina; era piccola, rossa e semplice. Guglielmo mi confidò di odiare l'ostentazione delle ricchezze, soprattutto in cose come le auto. Per me e lui sono semplici strumenti, ma per altri sono una ragione di vita. Come ogni cosa, possono appassionare, ma non certo noi. Come un gatto si appassiona di un gomitolo, un aquila non può far lo stesso. Spocchioso? Lo so, può darsi, ma così come le aquile, servono anche i gatti. Il viaggio non era lungo, appena dieci minuti. Attraversando le vie non potevo fare a meno di osservare i passanti. Ad un certo punto, notai una signora di mezz'età che portava tre bassotti. Che cani adorabili. E' stato come vedere tre wurstel che camminavano, sorretti dalle loro esili gambette. La loro padrona aveva visibilmente molta cura di loro; lo deducevo dal pelo n ero lucente, come appena leccato dalla mamma, ma sopratutto dai loro giubbotti rosa con perline . Quanti riguardi verso dei cani che ora mi guardavano implorandomi di far qualcosa. -: Animali interessanti i cani, ancor di più i padroni -disse Guglielmo- Sai, penso che senza l'uomo essi si sarebbero estinti già da tempo. Vedi, la lealtà e la fiducia sono le due peggior cose che possano capitare a chiunque. In un mondo tessuto dagli inganni essere fuori luogo è fatale. I cani sono tra gli animali più vulnerabili: ti concedono il loro cuore troppo facilmente. Che dire poi dei loro padroni. Non trovi che sia un destino crudele quello del padrone? Insomma, col tempo inizi ad amare il tuo cane. L'amore è differente dall'innamoramento. Il primo è volere il bene dell'altro, il secondo è egoismo. -: Non vedo nulla di male in tutto ciò. Amare ci aiuta a vivere, a tingere di rosa futuri altrimenti grigi. -: Si ma vedi, nel momento in cui ami il tuo cane ti rendi conto della crudeltà commessa nei suoi confronti. Lo hai strappato dai suoi genitori, dalla sua famiglia. Lo hai catapultato per le
  • 25. 25 prime settimane nell'incerto e tu ben sai cosa voglia dire. Infine concepisci che tutto è iniziato da un tuo egoistico desiderio di affetto. Amare il tuo cane diventa dunque un dovere , il minimo per espiare le tue colpe. Ci fu un momento di silenzio tra di noi. Sentivamo solo il ronzio del motore e il ticchettio della spia sul cruscotto. L'asprezza del suo pensiero mi sconcertò. -: E' proprio questo il brutto della riflessione. Induce a pensieri sbagliati. Guglielmo, quanto è pericoloso vedere? -: Moltissimo, spesso fatale. E' molto meglio vivere ciechi, non trovi? Lo guardai dritto negli occhi, mentre osservava la strada. Un velo di malinconia e angoscia nascondeva quella luce che aveva sempre avuto. L'ampia fronte non era più corrugata, quasi in segno di resa. Pensava, pensava e ripercorreva i suoi ricordi, uno ad uno. Si ricordava quei giorni felici nei quali viveva coscientemente, senza dover chiudere un occhio per necessità . Ero sicuro, sempre di più, che il signor Guglielmo un tempo era proprio come me. Spirito libero, mente saggia più di quanto convenisse. Forse poi si era arreso. -: Siamo arrivati Alberto, gli altri due saranno già dentro. Detto ciò, citofonò e quell'immenso cancello di bronzo con puntoni dorati si aprì. Un enorme giardino, contornato ai lati da file di tulipani rossi e gialli precedeva il palazzo. Un stradina di ghiaia tagliava questo immenso spazio verde e conduceva all'entrata. Il palazzo si apriva con una facciata composta da un ordine gigante di colonne trabeate , che sorreggevano un timpano levigato. Scritte in latino ornavano la trabeazione e dei leoni facevano da piedistallo per le colonne. Questo richiamo pacchiano al classicismo, mi faceva già assaporare l'aria che tirava dentro. Rimasi stupito dalla grandezza di quel posto. Principalmente era un ampio salone, con una fontana al centro. Tutte attorno vi erano delle poltrone rosse, che facevano pendant con la tinta gialla delle pareti. Intorno a questo ampio salone si sviluppavano tutti gli altri vani: spogliatoi, bar e saune. Tutto erano molto curato nel dettaglio e richiamava ad un mondo perso, un mondo prospero e senza preoccupazioni. Era un angolo di paradiso ritagliato dai soldi di chi se lo poteva permettere. Dopo essermi presentato alla reception come ospite del signor De Rovere, mi accomodai su di una poltrona insieme a lui. -: Dove si saranno cacciati quei due? Si saranno stancati di aspettarci, ma d'altronde sono le 15:05. O sono impazienti, o erano molto in anticipo. Appena ebbe finito di parlare, spuntarono le loro sagome dal bar, con in mano due bicchieri di vetro con del Negroni. -: Non è un po' presto per bere? -chiese Guglielmo- non vogliamo mica fare brutta figura; non in questo posto così elegante e per bene..... Claudio, con le guancie rosse scaldate dall'alcool, fece un lieve cenno per invitarci ad entrare nei campi. -: Dunque che posto è questo? Mi sembra così pacchiano. -: Mio caro -rispose Enrico- Hai innanzi a te l'esempio lampante dell'ipocrisia, in tutta la sua divertente essenza. Vedi, qua ci sono solo persone di un certo rango sociale, mi spiego? La cosa buffa è che molti di loro, se non tutti, sono come il sole e la luna. Tutta questa loro compostezza in realtà è finta, opposta al loro vero essere. Diciamo che sono simili ai paladini dei quali si narra nei poemi epici: vengono descritti come eroi valorosi, integri e orgogliosi quando in realtà sono ignoranti, rozzi e piagnucoloni. -: Prevengo alla tua domanda Alberto -interruppe Claudio sorseggiando il suo Negroni- Noi siamo diventati soci di questo club principalmente per ridere di queste persone. Non giudicarci, non siamo così meschini. Io amo veramente questo Negroni. -: Perché non dovrei giudicarla signor Claudio -dissi a quell'allegro e cicciotto personaggio- Infondo il giudizio è ciò che ci permettere di distinguere il bene dal male, gli amici dai nemici. E' grazie al suo giudizio che oggi è qua con noi. Il problema è che spesso siamo troppo frettolosi nell'esercitare questo potere. Creiamo dunque falsi miti o illusioni de lle quali spesso ci pentiamo. Sei d'accordo con me Enrico?
  • 26. 26 -: Si capisce, come potrei non esserlo -sorrideva appena- Prendi però per buone le parole di Claudio. Il golf è sicuramente una forgia per la pazienza e, come le ha già detto, questo Negroni è fantastico. Si respirava una fresca aria primaverile, anche se siamo a fine inverno. Tutt'attorno pini maestosi di un verde scuro che risaltava l'invece gentil verde del campo. Fiori qua e là e ruscelli, in questo posto così dolce. Serenità al cuore e all'anima; velo dorato, maschera di mille colori che copriva la meschina realtà di un ipocrisia, che nella sua ingenuità rallegrava chi ormai non poteva più dare cattivo esempio. Gli uccellini cantavano svolazzando nel cielo sereno per posarsi su un ramo e godere della loro libertà. Quando essi tacevano, si sentiva lo scroscio delicato dell'acqua di ruscello che precipitava sulle rocce accarezzandole. Ogni tanto, in questa pace naturale, si sentivano distintamente le urla e le bestemmie dei vecchi che non riuscivano, vuoi per il vento, vuoi perché distratti, ma non sia mai per loro incapacità, a mettere una palla in buca. Volavano, per far compagnia agli uccelli, le mazze. Un ferro 9, leggiadro e dinamico, si librava in aria precipitando poi sulla testa di un altro iracondo, però senza accarezzarlo. Ne seguiva quindi una bestemmia come preludio ad un altro volo di risposta, sfogo di quella rabbia che si sentiva così soffocare in questa tranquillità. -: Affascinante non è vero? -: Concordo Guglielmo, ora capisco il perché della vostra iscrizione . Percepivo la goffa presenza umana che turbava l'armonia della natura. Non siamo in grado di vivere in tranquillità: la ripudiamo confondendola con la monotonia. Preferiamo le passioni dell'ira e dell'accidia, che tanto scaldano il nostro cuore, più di questa pace, più di questa Natura. Così questi uomini le sputavano in faccia, sbuffando e torcendo il naso. Se non li si può condannare, che se ne rida almeno. Avevo capito il loro punto di vista. Anche Enrico e gli altri disprezzavano questo comportamento, ma più che riderne non potevano fare altro. Non possono mica rimproverare chi nemmeno è conscio del suo errore. -: Iniziamo a giocare anche noi! -esclamò divertito Claudio. Prese le mazze e le sacche, ci siamo diretti verso la prima buca, dove già stava giocando un signore anziano sulla settantina d'anni. Imbacuccato nel suo maglione a scacchi, batteva con grazia la pallina una prima volta, per poi lanciarla con le mani irato una seconda, e poi una terza e così via. -: Si chiama Rino Valsanti, un nobile ormai decaduto. Tra tutti è il meno paziente. Non l'ho mai visto, in tre anni che sono qui, superare la prima buca. A volte urla promettendo al cielo di non solcare mai più questi campi, ma pochi giorni dopo, con un moto d'orgoglio, ritorna promettendo a se stesso di farcela. Per fortuna nelle vita le intenzioni non bastano. La cosa più affascinante è la sua abilità nel nascondere tutta quella rabbia in pochi secondi quando deve salutare la piccola nipotina. Che delizioso personaggio, non è vero? Detto ciò, Enrico mandò con un solo tiro la palla in buca, sorridendo al signor Valsanti, che rosso in volto gli sputava le peggiori invettive. -: Che attacca brighe Enrico. Sempre detto che è un cattivo esempio, non farti influenzare mi raccomando -così disse Claudio, mandando anche lui la palla in buca. Erano dannatamente bravi. Con un solo colpo sicuro ed aggraziato erano riusciti a passare alla buca successiva. -: Sono bravi, non c'è che dire. Ora però gli toccherà aspettarci. Guglielmo infatti riuscì al terzo tiro, mentre a me ne servirono cinque. Al povero Rino non bastava una giornata. La zelante moglie proteggeva quella sua crapa pelata dai raggi del sole, cercando di calmarlo con parole dolci e misurate . -: Se Dio avesse voluto che la mettessi in buca alla prima, ci avrebbe creati tutti perfetti ! -: Basta Clara, la devi smettere - urlava come un degenerato - mi deconcentri! Dannazione a quello scellerato di Malessere, che il cielo lo fulmini!