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Culture politiche e partiti d'identità sociale alla ricerca di una intesa costituzionale: il caso
                                     della carta italiana del 1948

                                              di Paolo Pombeni

Relazione presentata al convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il
cammino” svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005.
Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp. 39 - 54


        Che cosa sta alla base dell’elaborazione di una Carta Costituzionale? La domanda potrebbe
sembrare molto banale, ma spero di dimostrare che non lo è affatto. Certo non si vuole qui negare
che i primi elementi da prendere in considerazione siano le filosofie politiche (intese in senso lato) e
le dottrine giuridiche. Tuttavia chi volesse fermarsi a questi livelli perderebbe di vista, almeno nel
caso delle costituzioni del Novecento, altri elementi costitutivi importanti che quasi sempre hanno
trovato incarnazione in quelle forme politiche particolari che sono i partiti cosiddetti “di massa”. E
specifico subito che parlando in questi termini non ci si riferisce necessariamente alle loro
dimensioni, ma piuttosto ad una nuova declinazione della classica distinzione che Tocqueville
propose agli inizi dell’Ottocento fra “grandi” e “piccoli” partiti1.
        Come è noto, i “grandi partiti” erano quelli che proponevano ciò che più tardi Weber
avrebbe definito come una Weltanschauung, mentre i “piccoli partiti” erano quelli che perseguivano
solo limitati obiettivi contingenti; tutto questo a prescindere dalle dimensioni “quantitative” del loro
seguito. Da questo punto di vista praticamente tutti i partiti che entrarono in gioco nella
elaborazione della nostra carta costituzionale, o, più in generale, nella dialettica politica seguita al
crollo del fascismo, erano dei “grandi partiti”. Alcuni però univano alla proposizione di una
filosofia politica più o meno elaborata quella di modelli di cultura sociale: è in questo sommarsi di
aspetti che risiede la peculiarità del caso italiano, per cui ho proposto nel titolo del mio contributo
che si discutesse del rapporto fra culture politiche e partiti di identità sociale.
        La tradizione italiana era da questo punto di vista piuttosto forte. Se è vero che una
dimensione di questo tipo era mancata al liberalismo italiano, considerato in tutte le sue diverse
anime, essa era stata ben presente sia nel movimento socialista (in cui includerei per i fini del
presente saggio la parte mazziniano-repubblicana) sia in quello cattolico2. Proprio per contrastare la
forza di questi due movimenti rispetto al “partito costituzionale” per antomasia, cioè al partito
liberale, il fascismo si era organizzato come un “partito di stato”, cioè come una formazione che
combinava il sostegno alla struttura statuale con l’elaborazione di appartenenze sociali e di
identificazioni culturali proprie dei partiti che considerava avversari3.
        Bisogna tener conto in maniera appropriata di questa peculiarità per capire come fosse poi
stato facile introdurre nel sistema costituzionale italiano quel modello di organizzazione della
politica basato sulla forma partito moderna. Solo il liberalismo italiano non aveva colto questa
dimensione. Oggi, pubblicati anche i diari di Croce4 e disponibili ormai memorialistica e documenti
provenienti da quel settore politico5, è piuttosto facile vedere quanto la classe dirigente di
formazione liberale fosse incapace di cogliere quel compito di elaborazione di una cultura nazionale
tale da appagare la domanda di identità che sorgeva negli italiani reduci dal ventennio.
        Basterà qui citare a testimonianza il famoso diverbio fra Parri e Croce alla Consulta, quando
il presidente del consiglio azionista si era espresso per negare l’esistenza di una democrazia prima
del fascismo suscitando lo sdegno del filosofo napoletano. Nel suo famoso intervento alla Consulta
del 26 ottobre 1945 Ferruccio Parri aveva affermato: “Quello che vi deve interessare di fronte a
questa situazione di incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa
democratica. Tenete presente: da noi la democrazia è praticamente appena agli inizi. Io non so, non
1
  Su questo punto si veda, G. QUAGLIARIELLO, La politica senza partiti. Ostrogorski e l’organizzazione della
politica tra ‘800 e ‘900, Laterza, Bari, 1993.
2
  Cfr. P. POMBENI (a cura di), All’origine della forma partito contemporanea. Emilia Romagna 1876-1892: un caso di
sudio, Il Mulino, Bologna, 1984.
3
  P. POMBENI, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma partito del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1984.
4
  B. CROCE, Taccuini di guerra1943-1945,, Adelphi, Milano, 2004.
5
  XXI Secolo




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credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo...
(interruzioni, scambio di apostrofi, commenti, rumori). Non vorrei offendere con queste mie parole
quei regimi (commenti, interruzioni, rumori). Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta.
Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che
possiamo definire e ritenere liberali (Interruzioni, commenti, grida di: Viva Orlando! Vivissimi e
prolungati applausi all'indirizzo dell'on. Orlando, grida di: Viva Vittorio Veneto!)”6.
        Al di là della vivacissima reazione che abbiamo riportato nelle parole dello stenografo e che
da sola testimonia della presenza in una parte non piccola degli uomini che sedevano alla Consulta
di una diversa lettura della storia patria (sono qui significative tanto le invocazioni a Vittorio
Emanuele Orlando, non si sa se come costituzionalista liberale o come presidente della vittoria,
quanto quelle a Vittorio Veneto), si terrà nel debito conto la confutazione che Croce condusse nella
stessa aula pochi giorni dopo difendendo il carattere democratico e libero dell'esperienza dell'Italia
pre-fascista (e non si dimentichi che Croce aveva esercitato parte del suo magistero di oppositore
proprio con il suo lavoro di storico). Disse Croce che l'asserzione di Parri destava in lui “non tanto
scandalo, quanto stupore” , poiché egli trovava che l'asserzione sulla mancanza di governi
democratici prima del fascismo “urta in flagrante contrasto col fatto che l'Italia, dal 1860 al 1922, è
stato uno dei paesi più democratici d'Europa, e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso
accelerata ascesa alla democrazia”. Ovviamente per il filosofo napoletano il rapporto di questa
democrazia col liberalismo non costituiva un problema. “Democrazia senza dubbio liberale, come
ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di
stimolo, la democrazia a sua volta, senza l'osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte
e si corrompe ed apre la via alle dittature e ai dispotismi”7.
        Già in quel caso si sarebbe potuto vedere la difficoltà in entrambi di cogliere l’esigenza di
elaborare una proposta di cultura costituzionale, convinti gli azionisti che tutto si riducesse ad un
problema di forme di governo (per giunta interpretate in maniera piuttosto rozza) e certi vecchi
liberali che la questione potesse essere risolta dal riferimento ad uno standard costituzionale
europeo rispetto al quale il nostro paese nella fase pre-fascista non si sarebbe collocato in cattiva
posizione.
        In realtà, invece, alla base della questione costituzionale si sarebbe posta, in maniera
relativamente inattesa, la questione della cittadinanza. Non meravigli il fatto che io declino in
questo modo un complesso di problemi. Per la verità il tema era già stato posto dal fascismo, che a
sua volta lo aveva ereditato dall’immediato dopoguerra.
        Gli studiosi di storia politica conoscono la famosa frase con cui il premier inglese David
Lloyd George descrisse il compito del suo governo per la gestione del dopoguerra: creare un paese
“a misura degli eroi”8. Il dovere di ripagare da parte dello stato il sacrificio notevole che si era
chiesto ai cittadini con una lunga guerra era sentito come inevitabile. Questo dovere si traduceva
però nella crescita di una serie di incombenze dello stato rispetto a quanto i cittadini potevano
“pretendere” dalla mano pubblica. Anche in questo caso non si trattava di una novità assoluta,
poiché già Santi Romano nella sua famosa prolusione pisana del 1909 (quella sulla crisi dello stato
moderno), aveva denunciato l’atteggiamento da creditori avidi che i cittadini avevano ormai quando
pensavano allo stato9. Tuttavia il servizio prestato nella guerra aveva acuito questa mentalità e reso
psicologicamente più legittimata quella domanda.
        Il fascismo rispose ad essa, circoscrivendo però la cittadinanza nell’ambito della fedeltà e
della identificazione del cittadino con l’ideologia governativa dominante. Ottenuta questa, alle
“fedeli camicie nere” lo stato si impegnava a dare il massimo possibile, sia in termini di prelazione
e di riserve nella distribuzione dei benefici pubblici disponibili, sia in termini di disponibilità di
assistenza e di tutela in tutti i settori della vita.
        Così cambiava però il concetto di cittadinanza, che veniva legato non soltanto ad una
necessaria identificazione del cittadino col portatore dichiarato di una ideologia politica garantita
dallo stato (“la tessera del pane”), ma anche ad una forma di organizzazione del potere che fosse in
grado di rendere operative quelle premesse. E’ vero infatti che il fascismo non riuscì ad avviare e
6
  Cfr. F. PARRI, Scritti Politici 1915-1971, a cura di E. COLLETTI et al., Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 192-193.
7
  Cfr. S. SETTA, Croce, il liberalismo e l’Italia postfascista, Bonacci, Roma, 1979, pp. 106-107.
8
   Cfr. M. FREEDEN, Partiti ed ideologie nella Gran Bretagna postbellica, in F. GRASSI ORSINI e G.
QUAGLIARIELLO (a cura di), Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 147-
156.
9
  Cfr. S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffré, Milano, 1969




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men che meno a realizzare una riforma della Costituzione formale che recepisse e sistemasse questo
stato di cose10, ma è altrettanto vero che operò per via di leggi ordinarie una completa
ristrutturazione dello spazio pubblico rendendola, almeno sulla carta, omogenea e funzionale a
questa nuova dimensione della cittadinanza11.
         Non si può prescindere da questa dimensione “totalitaria” che aveva preso la vita politica se
si vuole comprendere il clima entro cui operò la nostra fase costituente. L’idea di una Costituzione
che fosse destinata semplicemente a disegnare la struttura dei poteri dello stato e a fissare i
tradizionali diritti fondamentali dei cittadini appariva ormai obsoleta. Del resto già la Costituzione
della repubblica di Weimar, non a caso ampiamente richiamata nei dibattiti della nostra fase
costituente, aveva superato quello stadio12.
         Non si deve dimenticare che una parte non piccola dei quadri dei partiti emersi dalla
Resistenza si era di fatto formata nel clima del dibattito giuridico-politico attorno alla questione
della opportunità o meno di formalizzare una “Costituzione fascista”. A questo si erano aggiunti gli
echi della discussione suscitata dalla Costituzione sovietica del 1936 ed i vari dibattiti sulla riforma
dello stato moderno che si erano avuti fra le due guerre, specialmente in Francia e in Germania. In
termini di “cultura politica” si aveva dunque a disposizione un retroterra quanto mai favorevole ad
una fase costituente.
         Naturalmente questo non copriva “tutta” la questione che poteva essere ricompresa in
termini semantici dal ricorso a questo termine-concetto. Per costituente non si intendeva infatti
semplicemente una assemblea specializzata incaricata di scrivere una nuova Carta fondamentale,
ma ci si riferiva soprattutto ad una precisa icona che poteva assumere due significati: la conclusione
vittoriosa di una rivoluzione, il crollo più o meno inglorioso di un regime. Entrambi meritano una
riflessione, sebbene il primo sia più facilmente intuibile13.
         La costituente come frutto del passaggio rivoluzionario dall’antico al nuovo regime era
quanto sembrava insegnare la storia delle gloriose rivoluzioni americana e soprattutto francese; in
parte minore quella della rivoluzione bolscevica, dove per la verità il mito costituente era stato
piuttosto marginale (essendo appartenuto alla rivoluzione “borghese” di febbraio). In questa
direzione inclinavano i leader socialisti e soprattutto Pietro Nenni. Pochi hanno però osservato che
il leader romagnolo si fermava lì e che la sua capacità di costruire una strategia costituzionale in
senso proprio fu molto ridotta, nonostante la promozione che il suo ministero fece della cosiddetta
Commissione Forti, il cui contributo alla preparazione del retroterra costituente fu notevole, almeno
per quel che riguarda il ceto politico e quello dei giuristi14.
         Era però ben presente, sia pure con minore presa a livello di pubblica opinione, anche la
seconda corrente, a cui diede voce, come è noto, Nitti, addirittura nel suo intervento sul progetto
generale nel marzo del 1946, quando affermò che solo gli stati vinti cambiavano le loro carte
costituzionali15.
         Le due correnti si affrontarono con una certa forza all’interno della campagna elettorale per
la costituente che, come si ebbe occasione di rilevare ormai quasi trent’anni fa in una ricerca
coordinata dal prof. Roberto Ruffilli16, fu più incentrata sul problema di affermare o di negare che si
fosse sulle porte di un cambio di sistema rivoluzionario, che non sull’obiettivo di proporre fondati
dibattiti sulle materie di rilevanza costituzionale.
10
    Sul tema della “Costituzione fascista nel dibattito degli anni Trenta e Quaranta”, cfr. M. FIORAVANTI, Dottrina
dello stato persona e dottrine della costituzione. Costantino Mortati e la tradizione giuspubblicistica italiana, in P.
GROSSI e M. GALIZIA (a cura di), Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Giuffré, Milano, 1990, pp. 45-185;
Costituzione, Amministrazione, Trasformazioni dello stato, in A. SCHIAMONE (a cura di), Stato e cultura giuridica in
Italia dall’Unità alla Repubblica, Laterza, Bari-Roma, 1990, pp. 3-88. Gli studi di Fioravanti, inclusi quelli citati, sono
ripresi nel suo volume, La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello stato e della costituzione tra Otto e Novecento,
Milano, Giuffré, 2001.
11
   Su questo mi permetto di rinviare ancora a P. POMBENI, Demagogia e tirannide, cit.
12
   Cfr. S. BASILE, La cultura politico-istituzionale e le esperienze “tedesche”, in U. DE SIERVO (a cura di), Scelte
della Costituente e cultura giuridica, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 45-116.
13
   Cfr. P. POMBENI, La costituente. Un problema storico-politico, Il Mulino, Bologna, 1995
14
   Cfr. La fondazione della repubblica. Dalla Costituzione provvisoria all’Assemblea Costituente, Il Mulino, Bologna,
1979.
15
   “Dopo le grandi guerre, cambiare le costituzioni è nei tempi nostri destino dei popoli vinti”. Intervento del 8 marzo
1946, in, Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni in Aula, Tipografia della Camera, Roma, 1946, p. 1910 (per
l’intero interevento pp. 1910-1920).
16
   P. POMBENI, Questione istituzionale e battaglia per il potere nella campagna per le elezioni del 2 giugno
1946, in R. RUFFILLI (a cura di), Costituente e lotta politica, Vallecchi, Firenze, 1978, pp. 3-45.




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Così i partiti di sinistra sottolinearono soprattutto temi “classisti”, o insistettero su riforme
che non potevano certo entrare nella Costituzione (come per esempio la riforma agraria), la
Democrazia Cristiana si impegnò sui tradizionali temi del cattolicesimo militante (difesa della
famiglia, dei ceti medi, dei diritti della chiesa), mentre i partiti della galassia laico-liberale
puntarono più che altro sul monito di non affidarsi a classi dirigenti che non avessero l’esperienza e
il prestigio per gestire la difficile situazione. Naturalmente qui semplifichiamo in poche battute
campagne che furono lunghe, con molti interventi e in cui, di conseguenza, si possono rinvenire
molte tematiche. E’ però necessario richiamare quello che era il cuore delle argomentazioni, e che
costituiva, in certa misura, il messaggio identitario che si voleva trasmettere, mentre gli argomenti
sui singoli punti dovevano suonare più come materia per la parte più colta e avvertita dell’elettorato.
Non si dimentichi poi che la campagna per la costituente venne combattuta in simbiosi con quella
per la scelta istituzionale fra monarchia e repubblica, sicché anche questo fatto contribuì ad oscurare
il discorso sulla riorganizzazione dello stato e del sistema dei diritti e doveri del cittadino a favore
di un certo manicheismo che faceva coincidere il bene e il male con le due alternative proposte,
oppure che, come nel caso della parte maggioritaria della Dc17, con un “agnosticismo” verso quelle
scelte che era anch’esso una opzione ideologico-identitaria.
         I partiti ebbero dunque in questo un ruolo centrale, poiché essi si presentavano ormai come i
portatori ed i depositari del senso dello stato. Anche qui qualcuno potrebbe stupirsi di questa
definizione, ricordando le polemiche suscitate dall’allontanamento degli uomini nominati dalla
Resistenza dai ruoli tradizionali delle articolazioni dello stato (questure e prefetture), a favore di un
reinsediamento del personale “di carriera”. Però questo fatto, per importante che fosse, non poteva
cancellare un altro fatto, e cioè che a chiamare la nazione alla Resistenza ed a dirigerla erano stati i
partiti, che lo avevano fatto nel quasi totale disfacimento della capacità operativa dello stato nella
sua accezione tradizionale, a partire dalla pessima prova fornita dal regio esercito nella drammatica
situazione dell’otto settembre18.
         Si può dimostrare la rilevanza di tutto questo con un parallelo con la situazione francese,
dove pure vi fu un conflitto fra lo stato inteso come sistema tradizionale di apparati e le forze della
Resistenza spontanea (nello specifico solo parzialmente legata ai partiti, al contrario d quanto
avveniva in Italia). In questo caso però lo stato aveva dalla sua la legittimazione della prima
Resistenza sotto la guida di De Gaulle e l’attiva partecipazione di una quota delle sue strutture alle
lotte di liberazione, vuoi dall’esterno (con un regolare esercito francese costituito nell’esilio
britannico e nei territori coloniali), vuoi nello stesso interno (e il fatto che il federatore della
Resistenza francese, Jean Moulin, fosse un prefetto della III Repubblica, vuol pur dire qualcosa)19.
         Forti dunque di questa legittimazione, i partiti del CLN avevano titolo a discutere se ci si
trovasse o meno di fronte ad una “rivoluzione” o quanto meno alla necessità di fondare un regime
totalmente nuovo rispetto al passato. Come vedremo la soluzione che verrà data al problema non è
così univoca come forse si è ritenuto in passato. Prima di procedere su questa via dobbiamo però
interrogarci su quale era il tipo di partiti che avrebbe dovuto animare la fase costituente.
         Ho già premesso che l’ingombrante esempio del PNF aveva attirato l’attenzione di tutti sulla
forza che rivestiva un canale di mediazione e di inserzione nella cittadinanza di ampie masse di
individui, canale che potesse usare come strumento “pedagogico” non già il ricorso alla istruzione
nel senso tradizionale e formale del termine (che era poi la via su cui aveva scommesso di fatto il
costituzionalismo liberale), bensì che potesse far ricorso alla “socialità” come elemento di
costruzione delle identità politiche.
         In sintesi possiamo dire che il fascismo aveva superato la tradizionale idea liberale, che
aveva trovato il suo culmine soprattutto nell’esperienza della Terza Repubblica Francese, secondo
la quale era l’istruzione pubblica gratuita controllata dallo stato che avrebbe omogeneizzato il paese
attraverso l’inserzione in una cittadinanza fondata sulla condivisione di un certo sistema culturale

17
   Su questo punto, come è noto, vi furono invece delle differenze da parte di alcuni leader come Giuseppe Dossetti che
optò decisamente per la scelta repubblicana: cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia
italiana (1938-1948), Il Mulino, Bologna, 1979.
18
   Cfr. P. POMBENI, L’8 settembre e le aporie della storia. Fra crisi di regime, nodi che vengono al pettine e debolezze
umane, in A. MELLONI (a cura di), Ottosettembre 1943. le storie e le storiografie, Diabasis, Reggio Emilia, 2005, pp.
293-314.
19
   Cfr. sulla parte di DeGaulle nella Resistenza, G. QUAGLIARIELLO, De Gaulle e il gollismo, Il Mulino, Bologna,
2003 (con ampia bibliografia); su Moulin e la resistenza, DANIEL CORDIER, Jean Moulin. la République des
catacombes, Gallimard, Paris, 1999.




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che era al contempo un veicolo di valori e di identità. Pur ritenendo qualche elemento di questa
dottrina (la scuola, controllata dallo stato, come veicolo di disciplinamento sociale manteneva
intatta la sua importanza), il fascismo aveva piuttosto puntato su una socializzazione che avvenisse
attraverso il partito e le organizzazioni sociali ad esso collegate, che potevano trasmettere
“consenso” attraverso lo strumento stesso della “sociabilità”20
         La Resistenza aveva da questo punto di vista rilanciato, almeno al Nord e in alcune zone del
Centro Italia, l’importanza delle reti sociali, la capacità di creare “cultura condivisa” (nel senso
antropologico del termine, ovviamente) che era connessa alla condivisione di esperienze e allo
scambio di riflessioni su di esse. Ciò è valido non solo per una certa capacità di rapporto fra le forze
combattenti e il loro retroterra, ma per altri fenomeni che riguardano addirittura quella che, con una
espressione infelice, viene chiamata la “zona grigia” del periodo 1943-45. Si pensi, solo per fare
l’esempio più clamoroso, alla ripresa di leadership sociale delle strutture della chiesa cattolica o al
risorgere di altri sistemi di notabilato che supplivano alla latitanza delle normali forme di governo.
         I grandi partiti di massa ripresero dunque queste fila, che del resto essi avevano già
utilizzato in parte nella prima fase del Novecento, riproponendosi come agenzie non solo di
intervento politico, ma di socialità nel senso più ampio del termine21. A questo punto però essi
avevano bisogno di giustificare la fase costituente come una realizzazione, almeno parziale, di
quella Weltanschauung che formava l’identità politica alla base della loro capacità di esercitare
funzioni istituzionali, cioè di imporre obbligazioni politiche sui loro membri e di non essere
semplici centrali di elaborazione ideologica e di attività politico-rappresentative.
         Da questa esigenza nacque quel fenomeno che è stato usualmente descritto come il
convergere nella nostra Carta Costituzionale di tre filoni, quello liberale, quello cattolico e quello
socialcomunista. In realtà non si tratta che parzialmente della convergenza, che pure vi fu, di culture
politiche le quali avevano trovato durante la crisi degli anni Trenta e Quaranta un terreno di intesa
nell’antifascismo, ma soprattutto nella riscoperta dell’umanesimo come reazione tanto al versante
positivista quanto a quello idealista della cultura dominante. Questo fatto contiene anche il
reciproco riconoscimento della legittima esistenza di mileu sociali diversi, la cui capacità di trovare
canali politici istituzionalizzati andava riconosciuta e favorita.
         Tradotta sul piano costituente si trattava di una esigenza al tempo stesso fondamentale e
quasi impossibile da riversare in una “forma politica”. Personalmente rimango ancora dell’idea, che
mi feci trent’anni fa quando mi avviai a questa professione, che fu il genio politico del gruppo
dossettiano a trovare il bandolo della matassa e che questo avvenne perché quei giovani cattolici
avevano alcune caratteristiche capaci di avviarli quasi automaticamente a quel traguardo storico22.
         In prima istanza essi erano assai sensibili al problema della storia come fonte di
interpretazione del senso ultimo della vita, non solo individuale, ma anche associata. Era certo un
sentimento che li avvicinava a chi aveva una formazione marxista (e non a caso Maritain aveva
subodorato in quella corrente filosofica una eresia cristiana!), ma però li allontanava da essi una
esigenza, propria della sinistra cristiana, di non far chiudere quella interpretazione nel quadro della
ortodossia cattolica allora corrente, perché ne sarebbe nata una deriva semplicemente antimoderna.
Perciò essi potevano a maggior buon diritto insistere sul lato “drammatico” e su quello “ambiguo”
di ogni ricorso alla interpretazione storica.
         E’ questo un aspetto che è stato, a mio giudizio, poco valutato. Come sappiamo oggi anche
dalla pubblicazione di documentazione coeva23, le Gerarchie Vaticane non avevano rinunciato ad
una certa lettura trionfalistica della crisi in atto, secondo la quale tutto riportava, nello schema preso
a prestito dall’apologetica ecclesiastica dell’Ottocento, all’avverarsi delle profezie sulla catastrofe a
cui l’umanità sarebbe andata incontro abbandonando il faro della religione. La corrente che si
20
   Sulle peculiarità del PNF si vedano gli studi di EMILIO GENTILE, sintetizzati (in parte) nel volume, La via italiana
al totalitarismo. Il partito e lo stato nel regime fascista, NIS, Roma, 1995. Alcune mie considerazioni sull’inserzione di
questo modello nel storia costituzionale dell’Occidente nel mio saggio, La forma partito del fascismo e del nazismo, in
K.D. BRACHER e L. VALIANI (a cura di) Fascismo e nazionalsocialismo, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 219-264.
21
   Cfr. M. RIDOLFI, Interessi passioni. Storia dei partiti politici italiani tra l’Europa e il mediterraneo, Bruno
Mondatori, Milano, 1999.
22
   Cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano, cit. Sono ora tornato sull’argomento, collocandolo nel contesto del
complessivo contributo dei cattolici alla Costituente nel saggio, Cattolici e Costituente, per il volume speciale della
Fondazione della Camera dei Deputati dedicato al 60° della Costituente (in corso di stampa presso gli Editori Laterza).
23
   M. BOCCI, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico fra fascismo e democrazia,
Bulzoni, Roma, 1999; G. SALE, Dalla monarchia alla repubblica 1943-1946. Santa Sede, cattolici italiani e
referendum, Jaca Book, Milano, 2003.




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riconobbe nella leadership di Dossetti invece, tendeva ad inquadrare gli accadimenti non
semplicemente nella frattura fra religione e società, ma nel travaglio assai più complesso del mondo
moderno, che doveva rifondare il suo sistema comunitario dopo la rottura, peraltro inevitabile, degli
schemi di “antico regime”24.
         In secondo luogo i giovani intellettuali cattolici sentivano il dramma della esclusione della
loro corrente dalla grande rivoluzione moderna, quella fra fine settecento ed inizio ottocento.
Potremmo discutere quanto in ciò giocassero talune reminiscenze del romanticismo cattolico,
quanto il trauma di ciò che veniva allora definito come l’apostasia della classe operaia, quanto
l’orgoglio che essi avevano ritrovato nella Resistenza di poter essere protagonisti di una svolta di
fronte al crollo di tanta “sapienza” che li aveva irrisi come esponenti di una mera sopravvivenza
storica.
         Sta di fatto che essi riuscirono a trasformare queste pulsioni nella teorizzazione della
possibile rifondazione del sistema costituzionale a partire da un diverso concetto del soggetto
politico (ora definito non più individuo, ma persona: però si tratta di un puro nominalismo25) e da un
diverso concetto dei compiti della sfera pubblica, non più fatta coincidere semplicemente col
vecchio “stato-persona”, ma allargato, almeno in prospettiva, al riconoscimento dell’esistenza di
comunità sociali con rilevanza giuridica.
         Così nella prima parte della nostra Carta si sarebbe disegnato un quadro che faceva
coincidere la registrazione presunta di una rivoluzione (data dal fatto che si riteneva di avere
cambiato il “registro” del costituzionalismo liberale ottocentesco) con la sua inserzione nel quadro
di una certa continuità col pensiero politico-giuridico uscito dalla crisi del primo novecento, che
rimaneva profondamente “liberale”, anche se in Europa non lo si avvertiva (mentre era evidente nel
mondo anglosassone).
         Ora si potrebbe discutere su che cosa noi dobbiamo intendere come “liberalismo”, se
puramente il sistema di tutela della libertà di possedere e della libertà di “intraprendere”, se il
sistema della tutela dei diritti dell’uomo e del cittadino, se una combinazione di questi due, se il
sistema costituzionale rappresentativo o qualcos’altro. Storici e studiosi di politica si affannano da
decenni lungo queste strade senza trovare una risposta del tutto soddisfacente. Da un lato infatti si
fatica a individuare un archetipo di stato liberale “puro”, in quanto già dalla fine dell’Ottocento si
erano avute in tutta Europa forme più o meno vaste di intervento dei pubblici poteri come forze di
“governo” se non di “alterazione” dei mercati (e questo anche escludendo le esperienze di
pianificazione e centralizzazione delle decisioni economiche assunte durante le guerre). Dall’altro le
forme di declinazione dei grandi modelli che avevano connotato l’esperienza storica del liberalismo
ottocentesco erano state piuttosto varie e sia il sistema costituzionale di organizzazione dello spazio
pubblico, sia il quadro del sistema dei diritti e delle garanzie di libertà appariva piuttosto variegato.
         Se tuttavia noi volessimo correttamente interrogarci sulle evoluzioni che avevano interessato
i quattro maggiori paesi europei, cioè Gran Bretagna, Francia, Germania ed Italia, che avevano
indubbiamente avuto esperienze in vario modo orientate al modello della “modernità politica” nella
quale noi possiamo ragionevolmente ricomprendere almeno una scelta esplicita per il liberalismo,
vedremmo facilmente che i modelli evolutivi perseguiti nel secondo dopoguerra rimangono
fondamentalmente nel solco della tradizione politica precedente, sebbene venissero promossi da
forze che non solo non si richiamavano al liberalismo, ma che affermavano di volerlo quantomeno
“superare”. Di fatto, non esistevano reali modelli alternativi, ma solo diverse sistemazioni
gerarchiche dei valori liberali e diversi modi di declinarne il vocabolario. Questo problema è per lo
storico cruciale, in quanto attualmente noi viviamo ancora all’interno di un mito che accredita
invece l’esistenza di una pluralità di modelli organizzativi dello spazio pubblico, tanti quante erano
le componenti politico-partitiche allora in campo, cioè la “socialista” (comunista), la cattolica e la
liberale. Sembra invece a me che uno solo fosse il modello costituzionale di base, che era appunto
quello espresso dal costituzionalismo a base rappresentativa coniugato con la prospettiva della
priorità da assegnare alla tutela generalizzata di “diritti fondamentali”. Questo modello poteva poi
venire variamente modificato dalle aggregazioni che si contendevano l’arena politica, ma nessuna
24
   Ho avuto modo di tornare su questa visione “apocalittica” (in senso tecnico: come disvelamento del senso ultimo
della storia) in Giuseppe Dossetti nel mio saggio, Giuseppe Dossetti consigliere comunale. Una riconsiderazione, in, G.
DOSSETTI, Due Anni a Palazzo D’Accursio. Discorsi a Bologna 1956-1958, a cura di Roberto Villa, Aliberti, Reggio
Emilia, 2004, pp. III-XLI.
25
   P. POMBENI, Individuo/Persona nella costituzione italiana. Il contributo del dossettismo, in “Parole Chiave”, 1996,
n. 10/11, pp. 197-218.




                                                          6
di esse aveva veramente la forza e la capacità di trasformarlo in profondità. L’unica alternativa reale
presente sul terreno sarebbe stato un regime sul modello sovietico, che contemporaneamente
aboliva il problema del potere “rappresentativo” (il partito unico non rappresentava una “società”,
che per definizione non esisteva, ma un’“idea” a cui si riconosceva il diritto di plasmare una società
futura) e il problema della tutela dei diritti dell’uomo (solo il “nuovo soggetto politico” poteva
avere diritti, in quanto il resto era al più una impropria sopravvivenza di un passato che tardava a
scomparire). Questa alternativa non era però realmente disponibile neppure per i partiti comunisti
occidentali, e specialmente per il Pci, che non potevano certo tagliare i loro legami con le radici
dell’esperienza politica in cui erano coinvolti e che dunque cercarono disperatamente (e talora in
maniera quasi patetica) di elaborare una versione “liberale” dell’ideologia leninista.
        Le due tematiche essenziali che si trovarono di fronte coloro che dovevano restaurare i
sistemi costituzionali dell’Europa del secondo dopoguerra, e dunque anche i costituenti italiani,
possono indubbiamente essere individuate nella questione dei diritti e nel problema del “potere di
direzione” in materia economica, ma anche in senso più generale in tema di strutturazione della
sfera sociale, da parte della sfera pubblica (che si estendeva fino al problema chiave del diritto di
proprietà pubblica, o meglio statale su almeno una parte dei settori chiave della produzione).
Tuttavia non si tratta dei due soli ambiti in cui vedremo articolarsi l’evoluzione istituzionale rispetto
ai precedenti dello stato liberale prima maniera. Un problema a parte sarà costituito dovunque dal
fattore della “formazione culturale”, un delicato settore che l’ideologia liberale classica avrebbe
voluto come libero da qualsiasi forma di ingerenza del potere pubblico (lo stato doveva essere
“laico”) e che invece, non di rado, con la stessa benedizione delle forze più dichiaratamente liberali,
veniva ora riservato all’intervento diretto e non solo di regolamentazione dei governi.
        L’operazione era più che ardita e avrebbe dovuto fare perno sul riconoscimento della nuova
“forma partito” come snodo del sistema di legittimazione costituzionale.
        Come abbiamo già avuto modo di accennare, ciò ebbe una sua radice già nell’ambito dl
movimento resistenziale. Grazie a questo fenomeno la resistenza poteva certo vantare con una
qualche ragione il merito di essere uno dei pochi soggetti che avevano colmato la frattura di
legittimazione fra appartenenza privata e sfera pubblica, o, per dirla con parole più crude, fra
subculture sociali e stato. La resistenza aveva rotto il presupposto del vecchio sistema politico
prefascista secondo cui lo “stato” (ovvero: la riorganizzazione dello spazio politico indotta dal
costituzionalismo liberale) inglobava nel suo seno le appartenenze politico-culturali per
marginalizzarle come “affare privato”. Essa aveva al contrario posto alla sua base il meccanismo
inverso: le formazioni subculturali prodotte dalla società si fanno parte attiva nella costruzione del
nuovo spazio politico in maniera da pretendere di stare in esso in forma riconosciuta come valori
“pubblici”.
        Così facendo la Resistenza aveva indubbiamente prodotto qualcosa di nuovo. Il problema è
se questa fosse una “nuova democrazia” od una nuova via alla democrazia.
        Con la stessa ingenuità di Ferruccio Parri, una parte cospicua di quel movimento politico
ritenne vera la prima affermazione. Con ciò si pretese di affermare che ora, grazie a quel
movimento, si era portato a compimento l'ingresso delle masse nello stato, non più attraverso la
coartazione uniformizzante della dittatura fascista (perché anch'essa aveva reclamato questo
successo!), ma nel pluralismo, in modo da dare riconoscimento alle varie “storie interne” del paese.
Per questo la componente più radicale della Resistenza sostenne che per la prima volta vi sarebbe
stata ora democrazia, in quanto democrazia e garanzia del pluralismo socio-politico erano due
componenti inscindibili26.
        Tuttavia a questa constatazione non si può mancare di aggiungerne un'altra. Poteva questo
meccanismo essere autosufficiente al punto di eliminare i due pilastri storici del governo
democratico, il “government by discussion” e la separazione dei poteri? La frettolosa risposta che
molti tendono a dare con una valorizzazione acritica della permanenza dei vecchi moduli
organizzativi del costituzionalismo classico all'interno della seconda parte della nostra Costituzione
repubblicana non mi pare del tutto convincente.

26
    Questo discorso avrebbe avuto un notevole sviluppo alla costituente, soprattutto per opera della sinistra
democristiana. Nella Costituzione passò a mio giudizio in misura più limitata di quanto normalmente non si creda,
mentre continuò ad essere un caposlado nella proposta politica dei “dossettiani” (e nella stessa teoria politica di
Giuseppe Rossetti). Su questo punto mi permetto di rinviare ad un mio saggio, Persona/individuo nella costituzione
italiana. Il contributo del gruppo dossettiano, cit.




                                                        7
Il soddisfacimento di quelle condizioni, che noi ancora oggi consideriamo valide
(quantomeno perché non sono state messe in circolazione alternative più attraenti), non può essere
realizzato in modo meccanico. Non basta cioè che il sistema costituzionale preveda un parlamento,
una certa articolazione dei poteri pubblici, un meccanismo partecipato di formazione della decisione
politica. Occorre che questi sistemi siano da un lato costituiti come reali valori in sé e dall'altro
articolati in modo da consentire al popolo il controllo sulla loro gestione. Solo così essi realizzano
quella inclusione attiva del popolo a cui faceva riferimento Gramsci.
        Ora mi domando se non sarebbe opportuno investigare quanto la sacralizzazione
dell'esperienza resistenziale come forma di democrazia in sé abbia concorso all'indebolimento di
quella componente “istituzionale” della forma democratica che ho descritto sopra.
        Quando i costituenti si trovarono ad affrontare un nodo del sistema politico quale quello del
governo, toccarono con mano il ginepraio in cui ci si trovava a vivere. Mentre infatti un certo tasso
di consenso sulla ridefinizione dell'indirizzo politico a cui doveva rispondere la rinnovata
democrazia italiana fu trovato grazie ad una discussione, anche piuttosto animata, fra le varie
componenti27, sul problema della forma di governo si registrò quella che a me sembra una sorta di
resa ben mascherata alle aporie della storia.
        Disse Meuccio Ruini, riassumendo la discussione attorno alla presentazione del progetto
generale di Costituzione, che in teoria due modelli di governo democratico erano sulla piazza: il
modello statunitense, dove il governo è espressione diretta del paese, che però lo controlla da vicino
con un frequente ricorso alle urne; il modello inglese, dove il governo è espressione della
maggioranza parlamentare, ma è controllato da una opposizione con cui deve “discutere”
costantemente non in senso accademico, ma per una verifica obbligata del suo tasso di
rappresentatività in senso forte, in vista di una sempre possibile sostituzione. Nessuno di questi due
modelli era disponibile per l'Italia, notò Ruini con un certo rammarico: all'introduzione del primo si
opponevano gli spettri aleggianti di Napoleone e Mussolini, all'adozione del secondo l'assenza di un
meccanismo bipolare che permettesse di organizzare maggioranze reali ed opposizioni alternative.
        Non restava che accettare quello che venne definito come un “governo di direttorio”, cioè un
sistema in cui convivevano più capi, una coalizione le cui parti era destinate quasi ontologicamente
a non fondersi mai e per di più a scambiarsi confusamente i ruoli tanto nel gioco politico che
nell'appello al paese. Poiché di fatto tutti i poteri sarebbero derivati dall'azione di queste parti
istituzionalizzate, ma anche autonome, i meccanismi dei controlli, della limitazione e della
separazione dei poteri sarebbero rimasti affidati più al conflitto ed alla separazione fra le parti
politiche in causa che non alla competizione istituzionale fra i ruoli esercitati dai diversi poteri.
        Era quello che si chiamava lo “stato dei partiti”, tanto detestato dai critici tardo liberali
dell'età di Weimar, ma che ora tornava in auge, vuoi in forma piuttosto consapevole come nel
pensiero di Mortati, vuoi in maniera del tutto inconsapevole.
        I difensori di questo modello non erano ingenui e si rendevano conto, almeno nei casi
migliori, del problema che esso poteva porre per la “democrazia”, in quanto inevitabilmente i partiti
entravano in concorrenza tanto con la rappresentanza (che cosa esprimeva il parlamento che essi
non avessero già detto?), quanto con il governo (poteva questo agire sfuggendo al loro controllo?).
Tuttavia ritennero di rispondere che la questione non poteva porsi in quanto proprio il partito colla
sua stessa vita istituzionale veniva a costituire una forma superiore di democrazia, che avrebbe poi
conosciuto un effetto moltiplicatore nelle relazioni interpartitiche.
        Il partito di militanza, quello che sembrava il modello ormai consacrato dagli stessi eventi
della lotta antifascista, si supponeva fornisse un momento di democrazia infinitamente superiore
rispetto al semplice meccanismo della partecipazione elettorale (che comunque rimaneva
disponibile, sia pure sotto le bandiere del partito): nel suo ambito si esercitava una sorta di
democrazia diretta su scala ridotta, in cui ciascuno poteva, attraverso l'infinita catena dei rapporti di
partito, far giungere la sua voce, la sua opinione, la sua forza, fino al cuore del motore politico.
        Questa superiorità del partito di militanza come nuovo “custode della Costituzione” fu
espressamente rivendicata nell'ambito dei lavori della costituente e recepita di fatto agevolmente da
una società-civile che nella democrazia dei partiti vedeva una garanzia di preservazione per la
ricchezza delle sue articolazioni ed una assicurazione contro la sfida ai patrimoni di consenso che
ciascuna di queste componenti sociali, più o meno piccole, aveva accumulato.

27
  Mi permetto qui di riassumere alcune tesi che ho elaborato con maggiore ampiezza ed analiticità nel mio, La
costituente. Un problema storico-politico, cit.




                                                     8
Il problema che con questo si poneva non riguardava però solo la verifica della realtà e della
realizzabilità di questo modello di nuova “democrazia semi-diretta”, anche se si tratta di una
questione tutt’altro che secondaria. Il nodo principale da sciogliere restava, nonostante tutto, quello
della congruità di questo nuovo strumento a garantire, anche nei momenti di normalità (e dunque
senza le accelerazioni inevitabili nei momenti di crisi storica), il sistema di checks and balances
interno alla distribuzione del potere e quello delle garanzie di controllo esterno ad esso.
         L'affidare ai partiti il compito di gestire, attraverso la loro competizione, i pesi e contrappesi
che impediscono al sistema di degenerare nella autoreferenzialità del potere era una scelta molto
difficile. Non si può forse far colpa ai costituenti di non aver visto, in una fase in cui i conflitti
erano molto acuti e le divisioni sembravano iscritte nel loro stesso codice genetico, che in
prospettiva soggetti istituzionali organizzati sul modello dei corpi chiusi avrebbero potuto optare
per la coabitazione in una sorta di confederazione di tipo feudale.
         Poteri che sono astrattamente in competizione fra loro, ma che sono posti nelle mani di
soggetti unificati dall'estrazione da uno stesso “ceto” politico, non possono dare origine ad una
“separazione”: era un fatto che gli studiosi avevano già rilevato per altre epoche storiche, e che si è
dimostrato vero anche per la nuova esperienza di cui stiamo parlando.
         Il controllo dall'esterno, affidato al meccanismo elettorale, si è poi rivelato non praticabile. Il
sistema delle fedeltà di partito ha imposto, almeno come logica tendenziale, che l'elettore valutasse
non la gestione della politica, ma il persistere o meno della sua condizione di appartenenza ad una
certa sub-cultura politica. In sostanza l'elettore votava per riaffermare o negare la "sua" identità, non
per giudicare l'operato di una classe dirigente.
         Per quanto sembri paradossale, nel modello che ho chiamato, per intenderci, della
“democrazia semi-diretta” la responsabilità di ogni azione è collettiva, in quanto tutti hanno
partecipato (almeno in teoria) alla sua costruzione. Come potrà dunque il cittadino elettore votare
contro l'azione di un partito che essendo il suo lo ha visto compartecipe e corresponsabile delle
modalità di formazione di quell'azione? Il singolo può fare una battaglia politica all'interno del suo
partito, per modificarne la leadership o i comportamenti, ma gli riuscirà molto difficile portare
questa lotta all’esterno . E’ in questo modo che però il sistema favorisce l'immobilismo e blocca il
controllo sulla gestione del potere.
         Tuttavia questa complessità non venne percepita né nell’immediato della lotta
costituzionale, né per lungo tempo a venire. Per strano che oggi possa sembrare non venne subito
percepito che l’origine e la radice della stabilizzazione costituzionale postbellica era da collocarsi in
quella dinamica che vedeva il suo perno nei partiti politici come partiti ad un tempo di
Weltanschauung e di raccolta del consenso delle subculture sociali.
         Questa “rivoluzione” non fu nell’immediato riconosciuta, mancando ad essa quei
riconoscimenti materiali che le varie parti in campo avevano promesso ai loro militanti. Da un lato
era difficile dire che si era compiuta una rivoluzione, se i partiti dei rivoluzionari erano stati buttati
fuori dal governo. Dall’altro era difficile affermare che si era realizzato lo stato cristiano, se la
Chiesa non aveva ottenuto quei riconoscimenti assoluti a cui aspiravano i suoi vertici. Difficile
anche proporre che si era salvata la tradizione del costituzionalismo laico-liberale se si era persa
quella caratteristica di apparente neutralità della sfera pubblica su cui aveva da sempre investito in
Italia questa corrente ideale.
         Ho già scritto in altra sede che appena approvata la nostra Costituzione finì per trovarsi
senza padri né madri. La costruzione di una “identità costituzionale” o, per usare un termine di
recente divenuto usuale, di un Verfassungspatriotismus, arriverà piuttosto tardi nel nostro sistema.
         La scelta per le “identità politiche” a base partitica, pur fuse nel patto costituente, presenterà
alternativamente difficoltà e vantaggi. Per i primi ricorderò il complicato avvio del centro-sinistra
fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta; per i secondi, più o meno un decennio
dopo, il successo nella lotta all’eversione terrorista (che fu, al di là della rimozione subita nella
memoria collettiva, una sfida realmente pericolosa).
         L’eredità di questa impostazione è ovviamente complessa, soprattutto nel momento in cui
sono giunti ad esaurimento i partiti organizzati come forme istituzionalizzate di reali identità
separate presenti nelle culture sociali, mentre per i loro esecutori testamentari rimane a disposizione
in certa misura quel retroterra costituzionale a puntello di residue posizioni di potere.
Non è però compito dello storico addentrarsi in questi terreni.




                                                     9

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  • 1. Culture politiche e partiti d'identità sociale alla ricerca di una intesa costituzionale: il caso della carta italiana del 1948 di Paolo Pombeni Relazione presentata al convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il cammino” svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005. Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp. 39 - 54 Che cosa sta alla base dell’elaborazione di una Carta Costituzionale? La domanda potrebbe sembrare molto banale, ma spero di dimostrare che non lo è affatto. Certo non si vuole qui negare che i primi elementi da prendere in considerazione siano le filosofie politiche (intese in senso lato) e le dottrine giuridiche. Tuttavia chi volesse fermarsi a questi livelli perderebbe di vista, almeno nel caso delle costituzioni del Novecento, altri elementi costitutivi importanti che quasi sempre hanno trovato incarnazione in quelle forme politiche particolari che sono i partiti cosiddetti “di massa”. E specifico subito che parlando in questi termini non ci si riferisce necessariamente alle loro dimensioni, ma piuttosto ad una nuova declinazione della classica distinzione che Tocqueville propose agli inizi dell’Ottocento fra “grandi” e “piccoli” partiti1. Come è noto, i “grandi partiti” erano quelli che proponevano ciò che più tardi Weber avrebbe definito come una Weltanschauung, mentre i “piccoli partiti” erano quelli che perseguivano solo limitati obiettivi contingenti; tutto questo a prescindere dalle dimensioni “quantitative” del loro seguito. Da questo punto di vista praticamente tutti i partiti che entrarono in gioco nella elaborazione della nostra carta costituzionale, o, più in generale, nella dialettica politica seguita al crollo del fascismo, erano dei “grandi partiti”. Alcuni però univano alla proposizione di una filosofia politica più o meno elaborata quella di modelli di cultura sociale: è in questo sommarsi di aspetti che risiede la peculiarità del caso italiano, per cui ho proposto nel titolo del mio contributo che si discutesse del rapporto fra culture politiche e partiti di identità sociale. La tradizione italiana era da questo punto di vista piuttosto forte. Se è vero che una dimensione di questo tipo era mancata al liberalismo italiano, considerato in tutte le sue diverse anime, essa era stata ben presente sia nel movimento socialista (in cui includerei per i fini del presente saggio la parte mazziniano-repubblicana) sia in quello cattolico2. Proprio per contrastare la forza di questi due movimenti rispetto al “partito costituzionale” per antomasia, cioè al partito liberale, il fascismo si era organizzato come un “partito di stato”, cioè come una formazione che combinava il sostegno alla struttura statuale con l’elaborazione di appartenenze sociali e di identificazioni culturali proprie dei partiti che considerava avversari3. Bisogna tener conto in maniera appropriata di questa peculiarità per capire come fosse poi stato facile introdurre nel sistema costituzionale italiano quel modello di organizzazione della politica basato sulla forma partito moderna. Solo il liberalismo italiano non aveva colto questa dimensione. Oggi, pubblicati anche i diari di Croce4 e disponibili ormai memorialistica e documenti provenienti da quel settore politico5, è piuttosto facile vedere quanto la classe dirigente di formazione liberale fosse incapace di cogliere quel compito di elaborazione di una cultura nazionale tale da appagare la domanda di identità che sorgeva negli italiani reduci dal ventennio. Basterà qui citare a testimonianza il famoso diverbio fra Parri e Croce alla Consulta, quando il presidente del consiglio azionista si era espresso per negare l’esistenza di una democrazia prima del fascismo suscitando lo sdegno del filosofo napoletano. Nel suo famoso intervento alla Consulta del 26 ottobre 1945 Ferruccio Parri aveva affermato: “Quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione di incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica. Tenete presente: da noi la democrazia è praticamente appena agli inizi. Io non so, non 1 Su questo punto si veda, G. QUAGLIARIELLO, La politica senza partiti. Ostrogorski e l’organizzazione della politica tra ‘800 e ‘900, Laterza, Bari, 1993. 2 Cfr. P. POMBENI (a cura di), All’origine della forma partito contemporanea. Emilia Romagna 1876-1892: un caso di sudio, Il Mulino, Bologna, 1984. 3 P. POMBENI, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma partito del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1984. 4 B. CROCE, Taccuini di guerra1943-1945,, Adelphi, Milano, 2004. 5 XXI Secolo 1
  • 2. credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo... (interruzioni, scambio di apostrofi, commenti, rumori). Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi (commenti, interruzioni, rumori). Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali (Interruzioni, commenti, grida di: Viva Orlando! Vivissimi e prolungati applausi all'indirizzo dell'on. Orlando, grida di: Viva Vittorio Veneto!)”6. Al di là della vivacissima reazione che abbiamo riportato nelle parole dello stenografo e che da sola testimonia della presenza in una parte non piccola degli uomini che sedevano alla Consulta di una diversa lettura della storia patria (sono qui significative tanto le invocazioni a Vittorio Emanuele Orlando, non si sa se come costituzionalista liberale o come presidente della vittoria, quanto quelle a Vittorio Veneto), si terrà nel debito conto la confutazione che Croce condusse nella stessa aula pochi giorni dopo difendendo il carattere democratico e libero dell'esperienza dell'Italia pre-fascista (e non si dimentichi che Croce aveva esercitato parte del suo magistero di oppositore proprio con il suo lavoro di storico). Disse Croce che l'asserzione di Parri destava in lui “non tanto scandalo, quanto stupore” , poiché egli trovava che l'asserzione sulla mancanza di governi democratici prima del fascismo “urta in flagrante contrasto col fatto che l'Italia, dal 1860 al 1922, è stato uno dei paesi più democratici d'Europa, e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa alla democrazia”. Ovviamente per il filosofo napoletano il rapporto di questa democrazia col liberalismo non costituiva un problema. “Democrazia senza dubbio liberale, come ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l'osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe ed apre la via alle dittature e ai dispotismi”7. Già in quel caso si sarebbe potuto vedere la difficoltà in entrambi di cogliere l’esigenza di elaborare una proposta di cultura costituzionale, convinti gli azionisti che tutto si riducesse ad un problema di forme di governo (per giunta interpretate in maniera piuttosto rozza) e certi vecchi liberali che la questione potesse essere risolta dal riferimento ad uno standard costituzionale europeo rispetto al quale il nostro paese nella fase pre-fascista non si sarebbe collocato in cattiva posizione. In realtà, invece, alla base della questione costituzionale si sarebbe posta, in maniera relativamente inattesa, la questione della cittadinanza. Non meravigli il fatto che io declino in questo modo un complesso di problemi. Per la verità il tema era già stato posto dal fascismo, che a sua volta lo aveva ereditato dall’immediato dopoguerra. Gli studiosi di storia politica conoscono la famosa frase con cui il premier inglese David Lloyd George descrisse il compito del suo governo per la gestione del dopoguerra: creare un paese “a misura degli eroi”8. Il dovere di ripagare da parte dello stato il sacrificio notevole che si era chiesto ai cittadini con una lunga guerra era sentito come inevitabile. Questo dovere si traduceva però nella crescita di una serie di incombenze dello stato rispetto a quanto i cittadini potevano “pretendere” dalla mano pubblica. Anche in questo caso non si trattava di una novità assoluta, poiché già Santi Romano nella sua famosa prolusione pisana del 1909 (quella sulla crisi dello stato moderno), aveva denunciato l’atteggiamento da creditori avidi che i cittadini avevano ormai quando pensavano allo stato9. Tuttavia il servizio prestato nella guerra aveva acuito questa mentalità e reso psicologicamente più legittimata quella domanda. Il fascismo rispose ad essa, circoscrivendo però la cittadinanza nell’ambito della fedeltà e della identificazione del cittadino con l’ideologia governativa dominante. Ottenuta questa, alle “fedeli camicie nere” lo stato si impegnava a dare il massimo possibile, sia in termini di prelazione e di riserve nella distribuzione dei benefici pubblici disponibili, sia in termini di disponibilità di assistenza e di tutela in tutti i settori della vita. Così cambiava però il concetto di cittadinanza, che veniva legato non soltanto ad una necessaria identificazione del cittadino col portatore dichiarato di una ideologia politica garantita dallo stato (“la tessera del pane”), ma anche ad una forma di organizzazione del potere che fosse in grado di rendere operative quelle premesse. E’ vero infatti che il fascismo non riuscì ad avviare e 6 Cfr. F. PARRI, Scritti Politici 1915-1971, a cura di E. COLLETTI et al., Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 192-193. 7 Cfr. S. SETTA, Croce, il liberalismo e l’Italia postfascista, Bonacci, Roma, 1979, pp. 106-107. 8 Cfr. M. FREEDEN, Partiti ed ideologie nella Gran Bretagna postbellica, in F. GRASSI ORSINI e G. QUAGLIARIELLO (a cura di), Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 147- 156. 9 Cfr. S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffré, Milano, 1969 2
  • 3. men che meno a realizzare una riforma della Costituzione formale che recepisse e sistemasse questo stato di cose10, ma è altrettanto vero che operò per via di leggi ordinarie una completa ristrutturazione dello spazio pubblico rendendola, almeno sulla carta, omogenea e funzionale a questa nuova dimensione della cittadinanza11. Non si può prescindere da questa dimensione “totalitaria” che aveva preso la vita politica se si vuole comprendere il clima entro cui operò la nostra fase costituente. L’idea di una Costituzione che fosse destinata semplicemente a disegnare la struttura dei poteri dello stato e a fissare i tradizionali diritti fondamentali dei cittadini appariva ormai obsoleta. Del resto già la Costituzione della repubblica di Weimar, non a caso ampiamente richiamata nei dibattiti della nostra fase costituente, aveva superato quello stadio12. Non si deve dimenticare che una parte non piccola dei quadri dei partiti emersi dalla Resistenza si era di fatto formata nel clima del dibattito giuridico-politico attorno alla questione della opportunità o meno di formalizzare una “Costituzione fascista”. A questo si erano aggiunti gli echi della discussione suscitata dalla Costituzione sovietica del 1936 ed i vari dibattiti sulla riforma dello stato moderno che si erano avuti fra le due guerre, specialmente in Francia e in Germania. In termini di “cultura politica” si aveva dunque a disposizione un retroterra quanto mai favorevole ad una fase costituente. Naturalmente questo non copriva “tutta” la questione che poteva essere ricompresa in termini semantici dal ricorso a questo termine-concetto. Per costituente non si intendeva infatti semplicemente una assemblea specializzata incaricata di scrivere una nuova Carta fondamentale, ma ci si riferiva soprattutto ad una precisa icona che poteva assumere due significati: la conclusione vittoriosa di una rivoluzione, il crollo più o meno inglorioso di un regime. Entrambi meritano una riflessione, sebbene il primo sia più facilmente intuibile13. La costituente come frutto del passaggio rivoluzionario dall’antico al nuovo regime era quanto sembrava insegnare la storia delle gloriose rivoluzioni americana e soprattutto francese; in parte minore quella della rivoluzione bolscevica, dove per la verità il mito costituente era stato piuttosto marginale (essendo appartenuto alla rivoluzione “borghese” di febbraio). In questa direzione inclinavano i leader socialisti e soprattutto Pietro Nenni. Pochi hanno però osservato che il leader romagnolo si fermava lì e che la sua capacità di costruire una strategia costituzionale in senso proprio fu molto ridotta, nonostante la promozione che il suo ministero fece della cosiddetta Commissione Forti, il cui contributo alla preparazione del retroterra costituente fu notevole, almeno per quel che riguarda il ceto politico e quello dei giuristi14. Era però ben presente, sia pure con minore presa a livello di pubblica opinione, anche la seconda corrente, a cui diede voce, come è noto, Nitti, addirittura nel suo intervento sul progetto generale nel marzo del 1946, quando affermò che solo gli stati vinti cambiavano le loro carte costituzionali15. Le due correnti si affrontarono con una certa forza all’interno della campagna elettorale per la costituente che, come si ebbe occasione di rilevare ormai quasi trent’anni fa in una ricerca coordinata dal prof. Roberto Ruffilli16, fu più incentrata sul problema di affermare o di negare che si fosse sulle porte di un cambio di sistema rivoluzionario, che non sull’obiettivo di proporre fondati dibattiti sulle materie di rilevanza costituzionale. 10 Sul tema della “Costituzione fascista nel dibattito degli anni Trenta e Quaranta”, cfr. M. FIORAVANTI, Dottrina dello stato persona e dottrine della costituzione. Costantino Mortati e la tradizione giuspubblicistica italiana, in P. GROSSI e M. GALIZIA (a cura di), Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Giuffré, Milano, 1990, pp. 45-185; Costituzione, Amministrazione, Trasformazioni dello stato, in A. SCHIAMONE (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Laterza, Bari-Roma, 1990, pp. 3-88. Gli studi di Fioravanti, inclusi quelli citati, sono ripresi nel suo volume, La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano, Giuffré, 2001. 11 Su questo mi permetto di rinviare ancora a P. POMBENI, Demagogia e tirannide, cit. 12 Cfr. S. BASILE, La cultura politico-istituzionale e le esperienze “tedesche”, in U. DE SIERVO (a cura di), Scelte della Costituente e cultura giuridica, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 45-116. 13 Cfr. P. POMBENI, La costituente. Un problema storico-politico, Il Mulino, Bologna, 1995 14 Cfr. La fondazione della repubblica. Dalla Costituzione provvisoria all’Assemblea Costituente, Il Mulino, Bologna, 1979. 15 “Dopo le grandi guerre, cambiare le costituzioni è nei tempi nostri destino dei popoli vinti”. Intervento del 8 marzo 1946, in, Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni in Aula, Tipografia della Camera, Roma, 1946, p. 1910 (per l’intero interevento pp. 1910-1920). 16 P. POMBENI, Questione istituzionale e battaglia per il potere nella campagna per le elezioni del 2 giugno 1946, in R. RUFFILLI (a cura di), Costituente e lotta politica, Vallecchi, Firenze, 1978, pp. 3-45. 3
  • 4. Così i partiti di sinistra sottolinearono soprattutto temi “classisti”, o insistettero su riforme che non potevano certo entrare nella Costituzione (come per esempio la riforma agraria), la Democrazia Cristiana si impegnò sui tradizionali temi del cattolicesimo militante (difesa della famiglia, dei ceti medi, dei diritti della chiesa), mentre i partiti della galassia laico-liberale puntarono più che altro sul monito di non affidarsi a classi dirigenti che non avessero l’esperienza e il prestigio per gestire la difficile situazione. Naturalmente qui semplifichiamo in poche battute campagne che furono lunghe, con molti interventi e in cui, di conseguenza, si possono rinvenire molte tematiche. E’ però necessario richiamare quello che era il cuore delle argomentazioni, e che costituiva, in certa misura, il messaggio identitario che si voleva trasmettere, mentre gli argomenti sui singoli punti dovevano suonare più come materia per la parte più colta e avvertita dell’elettorato. Non si dimentichi poi che la campagna per la costituente venne combattuta in simbiosi con quella per la scelta istituzionale fra monarchia e repubblica, sicché anche questo fatto contribuì ad oscurare il discorso sulla riorganizzazione dello stato e del sistema dei diritti e doveri del cittadino a favore di un certo manicheismo che faceva coincidere il bene e il male con le due alternative proposte, oppure che, come nel caso della parte maggioritaria della Dc17, con un “agnosticismo” verso quelle scelte che era anch’esso una opzione ideologico-identitaria. I partiti ebbero dunque in questo un ruolo centrale, poiché essi si presentavano ormai come i portatori ed i depositari del senso dello stato. Anche qui qualcuno potrebbe stupirsi di questa definizione, ricordando le polemiche suscitate dall’allontanamento degli uomini nominati dalla Resistenza dai ruoli tradizionali delle articolazioni dello stato (questure e prefetture), a favore di un reinsediamento del personale “di carriera”. Però questo fatto, per importante che fosse, non poteva cancellare un altro fatto, e cioè che a chiamare la nazione alla Resistenza ed a dirigerla erano stati i partiti, che lo avevano fatto nel quasi totale disfacimento della capacità operativa dello stato nella sua accezione tradizionale, a partire dalla pessima prova fornita dal regio esercito nella drammatica situazione dell’otto settembre18. Si può dimostrare la rilevanza di tutto questo con un parallelo con la situazione francese, dove pure vi fu un conflitto fra lo stato inteso come sistema tradizionale di apparati e le forze della Resistenza spontanea (nello specifico solo parzialmente legata ai partiti, al contrario d quanto avveniva in Italia). In questo caso però lo stato aveva dalla sua la legittimazione della prima Resistenza sotto la guida di De Gaulle e l’attiva partecipazione di una quota delle sue strutture alle lotte di liberazione, vuoi dall’esterno (con un regolare esercito francese costituito nell’esilio britannico e nei territori coloniali), vuoi nello stesso interno (e il fatto che il federatore della Resistenza francese, Jean Moulin, fosse un prefetto della III Repubblica, vuol pur dire qualcosa)19. Forti dunque di questa legittimazione, i partiti del CLN avevano titolo a discutere se ci si trovasse o meno di fronte ad una “rivoluzione” o quanto meno alla necessità di fondare un regime totalmente nuovo rispetto al passato. Come vedremo la soluzione che verrà data al problema non è così univoca come forse si è ritenuto in passato. Prima di procedere su questa via dobbiamo però interrogarci su quale era il tipo di partiti che avrebbe dovuto animare la fase costituente. Ho già premesso che l’ingombrante esempio del PNF aveva attirato l’attenzione di tutti sulla forza che rivestiva un canale di mediazione e di inserzione nella cittadinanza di ampie masse di individui, canale che potesse usare come strumento “pedagogico” non già il ricorso alla istruzione nel senso tradizionale e formale del termine (che era poi la via su cui aveva scommesso di fatto il costituzionalismo liberale), bensì che potesse far ricorso alla “socialità” come elemento di costruzione delle identità politiche. In sintesi possiamo dire che il fascismo aveva superato la tradizionale idea liberale, che aveva trovato il suo culmine soprattutto nell’esperienza della Terza Repubblica Francese, secondo la quale era l’istruzione pubblica gratuita controllata dallo stato che avrebbe omogeneizzato il paese attraverso l’inserzione in una cittadinanza fondata sulla condivisione di un certo sistema culturale 17 Su questo punto, come è noto, vi furono invece delle differenze da parte di alcuni leader come Giuseppe Dossetti che optò decisamente per la scelta repubblicana: cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Il Mulino, Bologna, 1979. 18 Cfr. P. POMBENI, L’8 settembre e le aporie della storia. Fra crisi di regime, nodi che vengono al pettine e debolezze umane, in A. MELLONI (a cura di), Ottosettembre 1943. le storie e le storiografie, Diabasis, Reggio Emilia, 2005, pp. 293-314. 19 Cfr. sulla parte di DeGaulle nella Resistenza, G. QUAGLIARIELLO, De Gaulle e il gollismo, Il Mulino, Bologna, 2003 (con ampia bibliografia); su Moulin e la resistenza, DANIEL CORDIER, Jean Moulin. la République des catacombes, Gallimard, Paris, 1999. 4
  • 5. che era al contempo un veicolo di valori e di identità. Pur ritenendo qualche elemento di questa dottrina (la scuola, controllata dallo stato, come veicolo di disciplinamento sociale manteneva intatta la sua importanza), il fascismo aveva piuttosto puntato su una socializzazione che avvenisse attraverso il partito e le organizzazioni sociali ad esso collegate, che potevano trasmettere “consenso” attraverso lo strumento stesso della “sociabilità”20 La Resistenza aveva da questo punto di vista rilanciato, almeno al Nord e in alcune zone del Centro Italia, l’importanza delle reti sociali, la capacità di creare “cultura condivisa” (nel senso antropologico del termine, ovviamente) che era connessa alla condivisione di esperienze e allo scambio di riflessioni su di esse. Ciò è valido non solo per una certa capacità di rapporto fra le forze combattenti e il loro retroterra, ma per altri fenomeni che riguardano addirittura quella che, con una espressione infelice, viene chiamata la “zona grigia” del periodo 1943-45. Si pensi, solo per fare l’esempio più clamoroso, alla ripresa di leadership sociale delle strutture della chiesa cattolica o al risorgere di altri sistemi di notabilato che supplivano alla latitanza delle normali forme di governo. I grandi partiti di massa ripresero dunque queste fila, che del resto essi avevano già utilizzato in parte nella prima fase del Novecento, riproponendosi come agenzie non solo di intervento politico, ma di socialità nel senso più ampio del termine21. A questo punto però essi avevano bisogno di giustificare la fase costituente come una realizzazione, almeno parziale, di quella Weltanschauung che formava l’identità politica alla base della loro capacità di esercitare funzioni istituzionali, cioè di imporre obbligazioni politiche sui loro membri e di non essere semplici centrali di elaborazione ideologica e di attività politico-rappresentative. Da questa esigenza nacque quel fenomeno che è stato usualmente descritto come il convergere nella nostra Carta Costituzionale di tre filoni, quello liberale, quello cattolico e quello socialcomunista. In realtà non si tratta che parzialmente della convergenza, che pure vi fu, di culture politiche le quali avevano trovato durante la crisi degli anni Trenta e Quaranta un terreno di intesa nell’antifascismo, ma soprattutto nella riscoperta dell’umanesimo come reazione tanto al versante positivista quanto a quello idealista della cultura dominante. Questo fatto contiene anche il reciproco riconoscimento della legittima esistenza di mileu sociali diversi, la cui capacità di trovare canali politici istituzionalizzati andava riconosciuta e favorita. Tradotta sul piano costituente si trattava di una esigenza al tempo stesso fondamentale e quasi impossibile da riversare in una “forma politica”. Personalmente rimango ancora dell’idea, che mi feci trent’anni fa quando mi avviai a questa professione, che fu il genio politico del gruppo dossettiano a trovare il bandolo della matassa e che questo avvenne perché quei giovani cattolici avevano alcune caratteristiche capaci di avviarli quasi automaticamente a quel traguardo storico22. In prima istanza essi erano assai sensibili al problema della storia come fonte di interpretazione del senso ultimo della vita, non solo individuale, ma anche associata. Era certo un sentimento che li avvicinava a chi aveva una formazione marxista (e non a caso Maritain aveva subodorato in quella corrente filosofica una eresia cristiana!), ma però li allontanava da essi una esigenza, propria della sinistra cristiana, di non far chiudere quella interpretazione nel quadro della ortodossia cattolica allora corrente, perché ne sarebbe nata una deriva semplicemente antimoderna. Perciò essi potevano a maggior buon diritto insistere sul lato “drammatico” e su quello “ambiguo” di ogni ricorso alla interpretazione storica. E’ questo un aspetto che è stato, a mio giudizio, poco valutato. Come sappiamo oggi anche dalla pubblicazione di documentazione coeva23, le Gerarchie Vaticane non avevano rinunciato ad una certa lettura trionfalistica della crisi in atto, secondo la quale tutto riportava, nello schema preso a prestito dall’apologetica ecclesiastica dell’Ottocento, all’avverarsi delle profezie sulla catastrofe a cui l’umanità sarebbe andata incontro abbandonando il faro della religione. La corrente che si 20 Sulle peculiarità del PNF si vedano gli studi di EMILIO GENTILE, sintetizzati (in parte) nel volume, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo stato nel regime fascista, NIS, Roma, 1995. Alcune mie considerazioni sull’inserzione di questo modello nel storia costituzionale dell’Occidente nel mio saggio, La forma partito del fascismo e del nazismo, in K.D. BRACHER e L. VALIANI (a cura di) Fascismo e nazionalsocialismo, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 219-264. 21 Cfr. M. RIDOLFI, Interessi passioni. Storia dei partiti politici italiani tra l’Europa e il mediterraneo, Bruno Mondatori, Milano, 1999. 22 Cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano, cit. Sono ora tornato sull’argomento, collocandolo nel contesto del complessivo contributo dei cattolici alla Costituente nel saggio, Cattolici e Costituente, per il volume speciale della Fondazione della Camera dei Deputati dedicato al 60° della Costituente (in corso di stampa presso gli Editori Laterza). 23 M. BOCCI, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico fra fascismo e democrazia, Bulzoni, Roma, 1999; G. SALE, Dalla monarchia alla repubblica 1943-1946. Santa Sede, cattolici italiani e referendum, Jaca Book, Milano, 2003. 5
  • 6. riconobbe nella leadership di Dossetti invece, tendeva ad inquadrare gli accadimenti non semplicemente nella frattura fra religione e società, ma nel travaglio assai più complesso del mondo moderno, che doveva rifondare il suo sistema comunitario dopo la rottura, peraltro inevitabile, degli schemi di “antico regime”24. In secondo luogo i giovani intellettuali cattolici sentivano il dramma della esclusione della loro corrente dalla grande rivoluzione moderna, quella fra fine settecento ed inizio ottocento. Potremmo discutere quanto in ciò giocassero talune reminiscenze del romanticismo cattolico, quanto il trauma di ciò che veniva allora definito come l’apostasia della classe operaia, quanto l’orgoglio che essi avevano ritrovato nella Resistenza di poter essere protagonisti di una svolta di fronte al crollo di tanta “sapienza” che li aveva irrisi come esponenti di una mera sopravvivenza storica. Sta di fatto che essi riuscirono a trasformare queste pulsioni nella teorizzazione della possibile rifondazione del sistema costituzionale a partire da un diverso concetto del soggetto politico (ora definito non più individuo, ma persona: però si tratta di un puro nominalismo25) e da un diverso concetto dei compiti della sfera pubblica, non più fatta coincidere semplicemente col vecchio “stato-persona”, ma allargato, almeno in prospettiva, al riconoscimento dell’esistenza di comunità sociali con rilevanza giuridica. Così nella prima parte della nostra Carta si sarebbe disegnato un quadro che faceva coincidere la registrazione presunta di una rivoluzione (data dal fatto che si riteneva di avere cambiato il “registro” del costituzionalismo liberale ottocentesco) con la sua inserzione nel quadro di una certa continuità col pensiero politico-giuridico uscito dalla crisi del primo novecento, che rimaneva profondamente “liberale”, anche se in Europa non lo si avvertiva (mentre era evidente nel mondo anglosassone). Ora si potrebbe discutere su che cosa noi dobbiamo intendere come “liberalismo”, se puramente il sistema di tutela della libertà di possedere e della libertà di “intraprendere”, se il sistema della tutela dei diritti dell’uomo e del cittadino, se una combinazione di questi due, se il sistema costituzionale rappresentativo o qualcos’altro. Storici e studiosi di politica si affannano da decenni lungo queste strade senza trovare una risposta del tutto soddisfacente. Da un lato infatti si fatica a individuare un archetipo di stato liberale “puro”, in quanto già dalla fine dell’Ottocento si erano avute in tutta Europa forme più o meno vaste di intervento dei pubblici poteri come forze di “governo” se non di “alterazione” dei mercati (e questo anche escludendo le esperienze di pianificazione e centralizzazione delle decisioni economiche assunte durante le guerre). Dall’altro le forme di declinazione dei grandi modelli che avevano connotato l’esperienza storica del liberalismo ottocentesco erano state piuttosto varie e sia il sistema costituzionale di organizzazione dello spazio pubblico, sia il quadro del sistema dei diritti e delle garanzie di libertà appariva piuttosto variegato. Se tuttavia noi volessimo correttamente interrogarci sulle evoluzioni che avevano interessato i quattro maggiori paesi europei, cioè Gran Bretagna, Francia, Germania ed Italia, che avevano indubbiamente avuto esperienze in vario modo orientate al modello della “modernità politica” nella quale noi possiamo ragionevolmente ricomprendere almeno una scelta esplicita per il liberalismo, vedremmo facilmente che i modelli evolutivi perseguiti nel secondo dopoguerra rimangono fondamentalmente nel solco della tradizione politica precedente, sebbene venissero promossi da forze che non solo non si richiamavano al liberalismo, ma che affermavano di volerlo quantomeno “superare”. Di fatto, non esistevano reali modelli alternativi, ma solo diverse sistemazioni gerarchiche dei valori liberali e diversi modi di declinarne il vocabolario. Questo problema è per lo storico cruciale, in quanto attualmente noi viviamo ancora all’interno di un mito che accredita invece l’esistenza di una pluralità di modelli organizzativi dello spazio pubblico, tanti quante erano le componenti politico-partitiche allora in campo, cioè la “socialista” (comunista), la cattolica e la liberale. Sembra invece a me che uno solo fosse il modello costituzionale di base, che era appunto quello espresso dal costituzionalismo a base rappresentativa coniugato con la prospettiva della priorità da assegnare alla tutela generalizzata di “diritti fondamentali”. Questo modello poteva poi venire variamente modificato dalle aggregazioni che si contendevano l’arena politica, ma nessuna 24 Ho avuto modo di tornare su questa visione “apocalittica” (in senso tecnico: come disvelamento del senso ultimo della storia) in Giuseppe Dossetti nel mio saggio, Giuseppe Dossetti consigliere comunale. Una riconsiderazione, in, G. DOSSETTI, Due Anni a Palazzo D’Accursio. Discorsi a Bologna 1956-1958, a cura di Roberto Villa, Aliberti, Reggio Emilia, 2004, pp. III-XLI. 25 P. POMBENI, Individuo/Persona nella costituzione italiana. Il contributo del dossettismo, in “Parole Chiave”, 1996, n. 10/11, pp. 197-218. 6
  • 7. di esse aveva veramente la forza e la capacità di trasformarlo in profondità. L’unica alternativa reale presente sul terreno sarebbe stato un regime sul modello sovietico, che contemporaneamente aboliva il problema del potere “rappresentativo” (il partito unico non rappresentava una “società”, che per definizione non esisteva, ma un’“idea” a cui si riconosceva il diritto di plasmare una società futura) e il problema della tutela dei diritti dell’uomo (solo il “nuovo soggetto politico” poteva avere diritti, in quanto il resto era al più una impropria sopravvivenza di un passato che tardava a scomparire). Questa alternativa non era però realmente disponibile neppure per i partiti comunisti occidentali, e specialmente per il Pci, che non potevano certo tagliare i loro legami con le radici dell’esperienza politica in cui erano coinvolti e che dunque cercarono disperatamente (e talora in maniera quasi patetica) di elaborare una versione “liberale” dell’ideologia leninista. Le due tematiche essenziali che si trovarono di fronte coloro che dovevano restaurare i sistemi costituzionali dell’Europa del secondo dopoguerra, e dunque anche i costituenti italiani, possono indubbiamente essere individuate nella questione dei diritti e nel problema del “potere di direzione” in materia economica, ma anche in senso più generale in tema di strutturazione della sfera sociale, da parte della sfera pubblica (che si estendeva fino al problema chiave del diritto di proprietà pubblica, o meglio statale su almeno una parte dei settori chiave della produzione). Tuttavia non si tratta dei due soli ambiti in cui vedremo articolarsi l’evoluzione istituzionale rispetto ai precedenti dello stato liberale prima maniera. Un problema a parte sarà costituito dovunque dal fattore della “formazione culturale”, un delicato settore che l’ideologia liberale classica avrebbe voluto come libero da qualsiasi forma di ingerenza del potere pubblico (lo stato doveva essere “laico”) e che invece, non di rado, con la stessa benedizione delle forze più dichiaratamente liberali, veniva ora riservato all’intervento diretto e non solo di regolamentazione dei governi. L’operazione era più che ardita e avrebbe dovuto fare perno sul riconoscimento della nuova “forma partito” come snodo del sistema di legittimazione costituzionale. Come abbiamo già avuto modo di accennare, ciò ebbe una sua radice già nell’ambito dl movimento resistenziale. Grazie a questo fenomeno la resistenza poteva certo vantare con una qualche ragione il merito di essere uno dei pochi soggetti che avevano colmato la frattura di legittimazione fra appartenenza privata e sfera pubblica, o, per dirla con parole più crude, fra subculture sociali e stato. La resistenza aveva rotto il presupposto del vecchio sistema politico prefascista secondo cui lo “stato” (ovvero: la riorganizzazione dello spazio politico indotta dal costituzionalismo liberale) inglobava nel suo seno le appartenenze politico-culturali per marginalizzarle come “affare privato”. Essa aveva al contrario posto alla sua base il meccanismo inverso: le formazioni subculturali prodotte dalla società si fanno parte attiva nella costruzione del nuovo spazio politico in maniera da pretendere di stare in esso in forma riconosciuta come valori “pubblici”. Così facendo la Resistenza aveva indubbiamente prodotto qualcosa di nuovo. Il problema è se questa fosse una “nuova democrazia” od una nuova via alla democrazia. Con la stessa ingenuità di Ferruccio Parri, una parte cospicua di quel movimento politico ritenne vera la prima affermazione. Con ciò si pretese di affermare che ora, grazie a quel movimento, si era portato a compimento l'ingresso delle masse nello stato, non più attraverso la coartazione uniformizzante della dittatura fascista (perché anch'essa aveva reclamato questo successo!), ma nel pluralismo, in modo da dare riconoscimento alle varie “storie interne” del paese. Per questo la componente più radicale della Resistenza sostenne che per la prima volta vi sarebbe stata ora democrazia, in quanto democrazia e garanzia del pluralismo socio-politico erano due componenti inscindibili26. Tuttavia a questa constatazione non si può mancare di aggiungerne un'altra. Poteva questo meccanismo essere autosufficiente al punto di eliminare i due pilastri storici del governo democratico, il “government by discussion” e la separazione dei poteri? La frettolosa risposta che molti tendono a dare con una valorizzazione acritica della permanenza dei vecchi moduli organizzativi del costituzionalismo classico all'interno della seconda parte della nostra Costituzione repubblicana non mi pare del tutto convincente. 26 Questo discorso avrebbe avuto un notevole sviluppo alla costituente, soprattutto per opera della sinistra democristiana. Nella Costituzione passò a mio giudizio in misura più limitata di quanto normalmente non si creda, mentre continuò ad essere un caposlado nella proposta politica dei “dossettiani” (e nella stessa teoria politica di Giuseppe Rossetti). Su questo punto mi permetto di rinviare ad un mio saggio, Persona/individuo nella costituzione italiana. Il contributo del gruppo dossettiano, cit. 7
  • 8. Il soddisfacimento di quelle condizioni, che noi ancora oggi consideriamo valide (quantomeno perché non sono state messe in circolazione alternative più attraenti), non può essere realizzato in modo meccanico. Non basta cioè che il sistema costituzionale preveda un parlamento, una certa articolazione dei poteri pubblici, un meccanismo partecipato di formazione della decisione politica. Occorre che questi sistemi siano da un lato costituiti come reali valori in sé e dall'altro articolati in modo da consentire al popolo il controllo sulla loro gestione. Solo così essi realizzano quella inclusione attiva del popolo a cui faceva riferimento Gramsci. Ora mi domando se non sarebbe opportuno investigare quanto la sacralizzazione dell'esperienza resistenziale come forma di democrazia in sé abbia concorso all'indebolimento di quella componente “istituzionale” della forma democratica che ho descritto sopra. Quando i costituenti si trovarono ad affrontare un nodo del sistema politico quale quello del governo, toccarono con mano il ginepraio in cui ci si trovava a vivere. Mentre infatti un certo tasso di consenso sulla ridefinizione dell'indirizzo politico a cui doveva rispondere la rinnovata democrazia italiana fu trovato grazie ad una discussione, anche piuttosto animata, fra le varie componenti27, sul problema della forma di governo si registrò quella che a me sembra una sorta di resa ben mascherata alle aporie della storia. Disse Meuccio Ruini, riassumendo la discussione attorno alla presentazione del progetto generale di Costituzione, che in teoria due modelli di governo democratico erano sulla piazza: il modello statunitense, dove il governo è espressione diretta del paese, che però lo controlla da vicino con un frequente ricorso alle urne; il modello inglese, dove il governo è espressione della maggioranza parlamentare, ma è controllato da una opposizione con cui deve “discutere” costantemente non in senso accademico, ma per una verifica obbligata del suo tasso di rappresentatività in senso forte, in vista di una sempre possibile sostituzione. Nessuno di questi due modelli era disponibile per l'Italia, notò Ruini con un certo rammarico: all'introduzione del primo si opponevano gli spettri aleggianti di Napoleone e Mussolini, all'adozione del secondo l'assenza di un meccanismo bipolare che permettesse di organizzare maggioranze reali ed opposizioni alternative. Non restava che accettare quello che venne definito come un “governo di direttorio”, cioè un sistema in cui convivevano più capi, una coalizione le cui parti era destinate quasi ontologicamente a non fondersi mai e per di più a scambiarsi confusamente i ruoli tanto nel gioco politico che nell'appello al paese. Poiché di fatto tutti i poteri sarebbero derivati dall'azione di queste parti istituzionalizzate, ma anche autonome, i meccanismi dei controlli, della limitazione e della separazione dei poteri sarebbero rimasti affidati più al conflitto ed alla separazione fra le parti politiche in causa che non alla competizione istituzionale fra i ruoli esercitati dai diversi poteri. Era quello che si chiamava lo “stato dei partiti”, tanto detestato dai critici tardo liberali dell'età di Weimar, ma che ora tornava in auge, vuoi in forma piuttosto consapevole come nel pensiero di Mortati, vuoi in maniera del tutto inconsapevole. I difensori di questo modello non erano ingenui e si rendevano conto, almeno nei casi migliori, del problema che esso poteva porre per la “democrazia”, in quanto inevitabilmente i partiti entravano in concorrenza tanto con la rappresentanza (che cosa esprimeva il parlamento che essi non avessero già detto?), quanto con il governo (poteva questo agire sfuggendo al loro controllo?). Tuttavia ritennero di rispondere che la questione non poteva porsi in quanto proprio il partito colla sua stessa vita istituzionale veniva a costituire una forma superiore di democrazia, che avrebbe poi conosciuto un effetto moltiplicatore nelle relazioni interpartitiche. Il partito di militanza, quello che sembrava il modello ormai consacrato dagli stessi eventi della lotta antifascista, si supponeva fornisse un momento di democrazia infinitamente superiore rispetto al semplice meccanismo della partecipazione elettorale (che comunque rimaneva disponibile, sia pure sotto le bandiere del partito): nel suo ambito si esercitava una sorta di democrazia diretta su scala ridotta, in cui ciascuno poteva, attraverso l'infinita catena dei rapporti di partito, far giungere la sua voce, la sua opinione, la sua forza, fino al cuore del motore politico. Questa superiorità del partito di militanza come nuovo “custode della Costituzione” fu espressamente rivendicata nell'ambito dei lavori della costituente e recepita di fatto agevolmente da una società-civile che nella democrazia dei partiti vedeva una garanzia di preservazione per la ricchezza delle sue articolazioni ed una assicurazione contro la sfida ai patrimoni di consenso che ciascuna di queste componenti sociali, più o meno piccole, aveva accumulato. 27 Mi permetto qui di riassumere alcune tesi che ho elaborato con maggiore ampiezza ed analiticità nel mio, La costituente. Un problema storico-politico, cit. 8
  • 9. Il problema che con questo si poneva non riguardava però solo la verifica della realtà e della realizzabilità di questo modello di nuova “democrazia semi-diretta”, anche se si tratta di una questione tutt’altro che secondaria. Il nodo principale da sciogliere restava, nonostante tutto, quello della congruità di questo nuovo strumento a garantire, anche nei momenti di normalità (e dunque senza le accelerazioni inevitabili nei momenti di crisi storica), il sistema di checks and balances interno alla distribuzione del potere e quello delle garanzie di controllo esterno ad esso. L'affidare ai partiti il compito di gestire, attraverso la loro competizione, i pesi e contrappesi che impediscono al sistema di degenerare nella autoreferenzialità del potere era una scelta molto difficile. Non si può forse far colpa ai costituenti di non aver visto, in una fase in cui i conflitti erano molto acuti e le divisioni sembravano iscritte nel loro stesso codice genetico, che in prospettiva soggetti istituzionali organizzati sul modello dei corpi chiusi avrebbero potuto optare per la coabitazione in una sorta di confederazione di tipo feudale. Poteri che sono astrattamente in competizione fra loro, ma che sono posti nelle mani di soggetti unificati dall'estrazione da uno stesso “ceto” politico, non possono dare origine ad una “separazione”: era un fatto che gli studiosi avevano già rilevato per altre epoche storiche, e che si è dimostrato vero anche per la nuova esperienza di cui stiamo parlando. Il controllo dall'esterno, affidato al meccanismo elettorale, si è poi rivelato non praticabile. Il sistema delle fedeltà di partito ha imposto, almeno come logica tendenziale, che l'elettore valutasse non la gestione della politica, ma il persistere o meno della sua condizione di appartenenza ad una certa sub-cultura politica. In sostanza l'elettore votava per riaffermare o negare la "sua" identità, non per giudicare l'operato di una classe dirigente. Per quanto sembri paradossale, nel modello che ho chiamato, per intenderci, della “democrazia semi-diretta” la responsabilità di ogni azione è collettiva, in quanto tutti hanno partecipato (almeno in teoria) alla sua costruzione. Come potrà dunque il cittadino elettore votare contro l'azione di un partito che essendo il suo lo ha visto compartecipe e corresponsabile delle modalità di formazione di quell'azione? Il singolo può fare una battaglia politica all'interno del suo partito, per modificarne la leadership o i comportamenti, ma gli riuscirà molto difficile portare questa lotta all’esterno . E’ in questo modo che però il sistema favorisce l'immobilismo e blocca il controllo sulla gestione del potere. Tuttavia questa complessità non venne percepita né nell’immediato della lotta costituzionale, né per lungo tempo a venire. Per strano che oggi possa sembrare non venne subito percepito che l’origine e la radice della stabilizzazione costituzionale postbellica era da collocarsi in quella dinamica che vedeva il suo perno nei partiti politici come partiti ad un tempo di Weltanschauung e di raccolta del consenso delle subculture sociali. Questa “rivoluzione” non fu nell’immediato riconosciuta, mancando ad essa quei riconoscimenti materiali che le varie parti in campo avevano promesso ai loro militanti. Da un lato era difficile dire che si era compiuta una rivoluzione, se i partiti dei rivoluzionari erano stati buttati fuori dal governo. Dall’altro era difficile affermare che si era realizzato lo stato cristiano, se la Chiesa non aveva ottenuto quei riconoscimenti assoluti a cui aspiravano i suoi vertici. Difficile anche proporre che si era salvata la tradizione del costituzionalismo laico-liberale se si era persa quella caratteristica di apparente neutralità della sfera pubblica su cui aveva da sempre investito in Italia questa corrente ideale. Ho già scritto in altra sede che appena approvata la nostra Costituzione finì per trovarsi senza padri né madri. La costruzione di una “identità costituzionale” o, per usare un termine di recente divenuto usuale, di un Verfassungspatriotismus, arriverà piuttosto tardi nel nostro sistema. La scelta per le “identità politiche” a base partitica, pur fuse nel patto costituente, presenterà alternativamente difficoltà e vantaggi. Per i primi ricorderò il complicato avvio del centro-sinistra fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta; per i secondi, più o meno un decennio dopo, il successo nella lotta all’eversione terrorista (che fu, al di là della rimozione subita nella memoria collettiva, una sfida realmente pericolosa). L’eredità di questa impostazione è ovviamente complessa, soprattutto nel momento in cui sono giunti ad esaurimento i partiti organizzati come forme istituzionalizzate di reali identità separate presenti nelle culture sociali, mentre per i loro esecutori testamentari rimane a disposizione in certa misura quel retroterra costituzionale a puntello di residue posizioni di potere. Non è però compito dello storico addentrarsi in questi terreni. 9