«Semo stadi sai contenti de sentir le vostre vosi». Emigrazione e comunicazio...
Rassegna stampa su Luciana Nissim e la mostra “A noi fu dato in sorte questo tempo. 1938-1947″
1. Rassegna stampa su Luciana Nissim e la mostra "A noi fu dato in
sorte questo tempo. 1938-1947"
Il Corriere della sera (edizione on line) – spettacoli - 29 gennaio 2011
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A fil di rete
Non invano si ricorda la Shoah
Hallmark (canale 128 di Sky) e Luciana Nissim Momigliano, sopravvissuta ad Auschwitz
Era solo un breve ritratto, ma sono stati minuti di grande intensità, a ricordo di quando la Storia
s'intorbida insensatamente di crimini. In occasione del Giorno della Memoria, Hallmark (canale 128
di Sky, giovedì, ore 20.55) ha proposto la figura di Luciana Nissim Momigliano, medico e
psicoanalista, sopravvissuta ad Auschwitz. Aveva 24 anni, si era appena laureata in medicina a
Torino, quando fu presa dalla milizia di Aosta insieme a due amici, Primo Levi e Vanda Maestro:
era poco dopo l'8 settembre 1943 e loro tre si erano uniti in montagna a una banda di ragazzi: «Non
si chiamavano ancora partigiani», ricordava. Furono portati al campo di Fossoli e dopo un mese
trasferiti in Germania.
Si sarebbe salvata perché, mentre veniva tatuata e rapata, riuscì a dire «Ich bin Arztin», sono una
dottoressa. E la mandarono in infermeria. Al ritorno sposò l'economista Franco Momigliano «che
faceva già parte della mia vita» e con lui animò quella irripetibile stagione «illuminista» dell'Ivrea
di Adriano Olivetti. Attraverso foto, immagini, un video tratto dall'USC Shoah Foundation Institute
for Visual History and Education, fondata da Steven Spielberg, e un'intervista ad Alessandra
Chiappano, autrice del libro «Luciana Nissim Momigliano: una vita», riaffiora la straordinaria
personalità della Nissim. Nel 1946, a ridosso della Liberazione, pubblicò la sua testimonianza
«Ricordi della casa dei morti», uno dei primi scritti sulla realtà dei campi nazisti. Dopo, per anni, di
quella follia e di quegli orrori, portò sempre testimonianza col numero di Auschwitz tatuato sul suo
braccio sinistro, ma si dedicò con impegno totale alla professione, diventando una delle più
affermate psicoanaliste italiane. Soltanto nel 1992 (sei anni prima di morire) parlò ancora della sua
deportazione per il libro «Mi pare un secolo» di Paola Agosti e Giovanna Borgese. Non invano si
ricorda la Shoah.
Aldo Grasso
29 gennaio 2011(ultima modifica: 31 gennaio 2011)
2. Ha Keillah (rivista on line), numero 5, dicembre 2010
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Libri
Un convegno su Luciana Nissim Momigliano
La vita che Auschwitz non ha spento
di Sarah Randaccio
Il 6 novembre in occasione della Mostra “A noi fu dato in sorte questo tempo 1938-1947”, curata da
Alessandra Chiappano, l’Istituto Nazionale per il Movimento di Liberazione in Italia, la Società
Psicoanalitica Italiana e l’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, hanno organizzato
l’incontro “Luciana Nissim Momigliano, una vita per la psicoanalisi, il paziente miglior collega”.
In una calda giornata, con un tepore primaverile, nella sala dell’Archivio Storico della Presidenza
della Repubblica, ho partecipato ad un evento emotivamente denso, per me donna, ebrea,
psicoanalista. L’incontro, diviso in una parte più storica ed un’altra più centrata sulla persona di
Luciana Nissim come psicoanalista, integrava la tragicità delle storia con le qualità vitali e personali
che hanno fatto della vita della dott.ssa Momigliano Nissim una vita per la psicoanalisi.
Una psicoanalisi “calda”, vicina al paziente, considerato appunto come il miglior collega. I ricordi
della Torino precedenti alla sua deportazione, raccolti negli scritti che compongono il libro “Ricordi
della casa dei morti” edito da Giuntina nel 2008, si mescolano all’esperienza della deportazione, del
lager, degli amici persi, dei “sommersi”, dei legami spezzati, di quelli poi ritrovati. Dalla curatrice
dei suoi scritti e da chi da vicino l’ha conosciuta, Luciana Nissim viene descritta come una persona
riservata, che non amava parlare dell’esperienza di Auschwitz, che al ritorno aveva “aperto le
pagine del libro della vita”.
Così, dopo aver scritto quei Ricordi, riprende a vivere: “Io amo pensare che ho girato pagina. Che è
stato un libro dell’orrore, ma che ho chiuso e ne ho cominciato un altro, della leggerezza e
dell’amore. Io sono venuta via da Auschwitz, non sono più là”. Lavora e studia senza risparmiarsi,
la pediatria le pare un suo modo per riparare alla morte dei tanti bambini uccisi ad Auschwitz: “Non
si esce da un’esperienza come questa, senza il retaggio di precisi doveri verso se stessi e verso gli
altri”.
Medico, pediatra, psicoanalista. Chi meglio di lei poteva avvicinarsi, con un’umanità speciale alla
sofferenza, al dolore? Dirà, della sua professione di Analista Didatta: “ho cercato di insegnare ai
colleghi più giovani a prendersi l’altro sulle spalle, anziché lasciarlo a trent’anni fa con la sua
mamma o all’altro ieri con la sua fidanzata. Su questo ho scritto un saggio di culto e per fortuna non
me ne sono accorta...”.
Nell’affrontare la “colpa” di essere sopravvissuta, si occupa della vita e della cura della vita mentale
dei pazienti, attraverso un’attività proseguita sino al temine dei suoi giorni, a Milano, nel 1998.
La storica Alessandra Chiappano ricostruisce sapientemente e percorre con rispetto le vicende di
una vita che ha attraversato il Novecento, soffermandosi sulle tappe più significative: il lavoro alla
Olivetti, la dedizione alla psicoanalisi, il rapporto con la Shoah, la decisione di testimoniare. Si
rende conto che “La sua vita si è aperta e chiusa con Auschwitz, la sua esistenza ha compiuto un
cerchio perfetto”.
Credo che il profondo messaggio di questa giornata sia, anche nella distruttività e nella violenza più
estrema, il senso e l’importanza per la vita. Una vita, che con i suoi legami, di affetto e di cura per
gli altri, neanche Auschwitz è riuscita a spegnere.
Sarah Randaccio
3. Il Portavoce, numero 4, 2010
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