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Omaggio a un grande sindacalista
di OSCAR MANCINI 01 Maggio 2013
Il ricordo di un sindacalista, Nazareno (Neno) Coldagelli, e un racconto di momenti importanti della nostra storia: la lotta alla Marzotto di Vicenza, che aprì
il “68” italiano, e quella a Porto Marghera, che fu alla base degli sforzi per il risanamento della città. Soprattutto una testimonianza di ciò che intelligenza
critica e dedizione morale possono fare quando incontrano la volontà di riscatto degli sfruttati.
Ho di fronte a me la foto di Neno all’ultima manifestazione nazionale della FIOM a Roma. Gli sono accanto. Intorno a noi tante bandiere rosse. Sono quelle
della FIOM di Vicenza. Vicenza, ancora Vicenza, la terra che entrambi abbiamo frequentato, seppur con qualche scansione temporale, nell’«età dell’oro».
NENO A VICENZA.
L’esperienza vicentina, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, fu decisiva nella formazione di quella straordinaria figura di uomo e di dirigente sindacale che è
stata Neno Coldagelli. A Vicenza – egli scrive – “diventai sindacalista a tutti gli effetti”. E, aggiunge: “La vicenda della Marzotto è quella che più mi ha
segnato”. Più volte abbiamo parlato nel corso degli anni di questo storico, duro scontro di classe, lungamente preparato, evento anticipatore dell’autunno caldo.
Tutt’altro che una “Jacquerie” come finalmente riconoscono la maggior parte degli storici. Neno rivendica la “giustezza e la lungimiranza” delle scelte
compiute allora e ne attribuisce gran parte del merito al suo amico Ermenegildo Palmieri, che considera “il protagonista assoluto della lotta”. Ho riconosciuto in
questo scritto lo stile attraverso cui Neno si relazionava anche con noi, allora giovani dirigenti sindacali promossi a ruoli di grande responsabilità già nei
primissimi anni settanta. Era appena stato eletto segretario generale della Camera del Lavoro di Venezia, ma abitava ancora a Vicenza con la famiglia, quando
lo conobbi nel gennaio del 1972. Veniva nella piccola sede della Camera del Lavoro in Contrà Corpus Domini, forse per terminare il passaggio di consegne a
Gildo.
Anche lui, come me, era venuto da fuori e comprese subito il mio stato d’animo determinato dalla durezza dell’impatto che subivo con una realtà in cui il
predominio della DC era così pervasivo della cultura dominante e del sistema di potere. Ciò mi appariva in contraddizione con il “mito”, che per anni avevo
coltivato, di quella classe operaia che aveva prodotto “l’avvenimento topico del Sessantotto”. Devo a lui la comprensione dell’assenza di un rapporto diretto tra
combattività operaia e coscienza politica. In breve tempo anch’io compresi che a contrastare quell’egemonia “non c’era una pattuglia di disperati e vinti ma una
CGIL e un PCI che imponevano uno stile e una capacità di combattimento attiva e intransigente, una martellante presenza sul campo, particolarmente nella
fabbrica” che richiedevano una dedizione assoluta e totalizzante alla causa.
L’ambiente nel quale avemmo il privilegio di essere inseriti era un luogo di unificazione generazionale, profondamente plasmato da questi uomini tenaci e
combattivi e da un gruppo dirigente solidale e coeso che aveva nel Partito la sponda dell’ingraiano Romano Carotti con il quale Neno “si trova a proprio agio”
ma ciò non lo metteva ovviamente al riparo né dagli strali che gli riserva Cossutta né dalle raccomandazioni alla prudenza che ripetutamente venivano da una
parte della CGIL Nazionale. Già, perché Neno è figlio della “sinistra sindacale” della quale – scrive Giuseppe Pupillo – “Coldagelli e Palmieri sono stati
interpreti intelligenti e dinamici” conferendo alla CGIL Vicentina “una vivacità che difficilmente si ritrova negli anni successivi”.
Sono gli anni del superamento delle Commissioni Interne sostituite dal “Sindacato dei Consigli” e dell’unità sindacale costruita “dal basso”. E’ questa una storia
di successi che dimostra che si può essere radicali nell’impostazione, coraggiosamente innovatori nelle scelte politiche, ma non minoritari. Al contrario, Neno e
Gildo dimostrano, in quegli anni cruciali, che una CGIL di assoluta minoranza dentro “la sagrestia d’Italia” può diventare - e diventa- egemone nelle scelte delle
politiche sindacali e crescere anche dal punto di vista organizzativo.
A questa impostazione culturale Neno rimase profondamente legato per tutta la sua vita. Ne è testimonianza anche la bella lettera che mi ha inviato il 18
settembre del 2008 per commentare con acutezza e molta generosità “La statua nella polvere”, il libro da me curato sulle lotte operaie del sessantotto a
Valdagno. Nel suo denso scritto s’interroga sulle ragioni della scomparsa dei Consigli dei Delegati. Non considera esauriente l’analisi contenuta nella lunga
citazione di Bruno Trentin che nel ’98 ne attribuisce sostanzialmente le cause alla loro burocratizzazione, per il venir meno del faticoso esercizio della
democrazia. “Parole sante” scrive Neno, ma si chiede “è solo questo?” Egli ci propone la seguente riflessione:
“ La forza originaria del Consiglio dei delegati risiedeva certo nella democrazia, ma si nutriva di una politica sindacale di grande spessore che, per dirla in
soldoni, aveva al suo centro la contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro esercitata sul campo dal delegato di gruppo omogeneo, effettivo
strumento di democrazia e di rinnovamento del sindacato. La mia convinzione è che la democrazia è stata sovrastata dalla burocrazia quando è venuta a meno
quella politica e gli ambiti della contrattazione si sono sempre più risolti in termini quantitativi. Nella crisi dei Consigli ha naturalmente concorso la fine della
fase fordista e l’inizio degli effetti della globalizzazione. Dentro questo quadro oggettivo va però anche collocata la responsabilità soggettiva della CGIL, dalla
politica dell’EUR agli accordi del ‘92/’93, che hanno definitivamente ossificato il concetto di contrattazione. E qui purtroppo c’entra anche Bruno”.
Dalla sua bella e ricca testimonianza sul quinquennio vicentino emerge la conferma di come sia esistita una relazione dialettica tra le “istanze della base” e
l’intelligenza politica dei suoi dirigenti ( che egli con il “suo caratteristico understatement” attribuisce solo agli altri), tra “spontaneità operaia” e comportamenti
soggettivi dei quadri dirigenti e la loro totale dedizione alla causa.
E’ senza dubbio vero che in quella fase il mercato del lavoro fa lievitare il potere contrattuale; che l’ideologia del benessere e del miracolo economico
contribuiscono a legittimare richieste e aspettative; che il clima politico nel mondo stava mutando. Ma tutto ciò non basta a spiegare la riscossa operaia e un
ciclo così prolungato di lotta che non ha paragoni in Europa: il maggio francese durò “l’espace du un matin”. Vi contribuisce il fatto che, come scrive Asor
Rosa, “solo in Italia – solo in Italia in tutto il mondo – movimento operaio e movimento studentesco crebbero solidalmente, tendendosi la mano”.
Vi contribuisce fortemente la tenacia del sindacato di classe nel partire dall’interesse concreto senza smarrire la visione politica. Al suo interno vi ha un ruolo
decisivo quella “sinistra sindacale” che faceva capo alla “FIOM e a Garavini” a cui Neno s’ispirava e si sentiva di appartenere. “Una minoranza”, egli ci dice
“da testimone diretto”, perché “settori importanti” del sindacato assumono “molto burocraticamente” i Consigli dei Delegati anche quando essi “straripano”. Vi
contribuisce l’esperienza di lotta dei sopravvissuti nuclei operai rimasti fedeli ai valori anticapitalisti e antifascisti che Neno incontrerà nelle due principali
fabbriche metalmeccaniche: la Pellizzari di Arzignano e le Smalterie di Bassano. Vi contribuisce la scelta di puntare su una forma di contrattazione articolata
incentrata sulla “contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro” che si traduceva in “una politica rivendicativa che poneva al centro i problemi degli
organici, dei carichi di lavoro, degli orari e dei turni, della difesa della salute, con una presenza martellante di fronte alle fabbriche”.
Questo racconta Neno parlando simpaticamente del “leggendario” suo amico Palmieri che, nelle calure estive “non aveva il tempo di cambiare le gomme da
neve” e “soffiando e sbuffando intorno al ciclostile, sfornava migliaia di volantini al giorno che distribuiva la mattina successiva davanti alle fabbriche Marzotto
e Lanerossi che da sole allora occupavano ventimila persone.” Volantini che parlavano delle specifiche condizioni di lavoro in quella determinata fabbrica
precedentemente scandagliate attraverso il metodo dell’ “inchiesta operaia” creando così coscienza collettiva.Volantini che indicano la strada da seguire nella
contrattazione attraverso la conquista del diritto di tutti i lavoratori di “eleggere su scheda bianca i comitati di reparto”. Volantini che in alcune occasioni si
trasformano in schede referendum per ottenere un consenso di massa alla proclamazione dello sciopero indetto dalla sola CGIL.
“Questa iniziativa” – racconta Piero Fortunato – “riesce a ribaltare i rapporti di forza con il padrone e gli altri sindacati proprio mantenendo legami con la
condizione operaia e promuovendo la partecipazione operaia alle scelte per cambiarla”. Una linea questa – commenterà molti anni dopo Neno - che “non è una
banale versione operaista allora in voga in Italia. Centrale non è il salario, ma la conquista di elementi di potere e di democrazia all’interno dei luoghi di
lavoro”. Essa richiedeva -aggiungo io- una concezione dell’unità sindacale come conquista dal “basso”, nella lotta, con la partecipazione e il protagonismo di
tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti. Una concezione processuale dell’unità che non esclude confronti anche aspri, che passa attraverso un travaglio, una
capacità di legittimarsi attraverso la verifica del mandato dei lavoratori organizzati e non organizzati, salvaguardando il pluralismo culturale.
NENO A VENEZIA
Quando Neno giunge a Venezia nel dicembre del 1971, trova una situazione di forte tensione sociale e di effervescenza sindacale. I lavoratori della SAVA in
lotta contro la chiusura della fabbrica avevano piantato la tenda in piazza Ferretto. A novembre c’era stato lo sciopero generale, il quarto, che aveva riguardato
tutta la provincia. Il 2 dicembre una cinquantina di operai della Montedison e dell’impresa Fochi venivano intossicati dal fosgene, il micidiale gas usato nella
prima guerra mondiale. Non perde tempo. Si butta nella lotta. Già il 9 gennaio organizza una manifestazione antifascista intorno alla tenda della SAVA alla
quale partecipano operai e studenti. Il 24 è insieme agli operai della SAVA che occupano il Municipio di Mestre. Lo stesso giorno viene chiusa un’altra
fabbrica, l’Allumina. Immediata è la reazione: il giorno dopo è sciopero generale dell’industria con assemblea generale al capannone del Petrochimico che
Neno conclude. Questo ciclo di lotte si compie con l’accordo del 10 febbraio che prevede la garanzia dei livelli di occupazione attraverso l’intervento delle
Partecipazioni Statali nelle due fabbriche di alluminio. Nel frattempo si susseguono le fughe di fosgene che intossicano i lavoratori del Petrolchimico e delle
imprese d’appalto. Le lotte riescono in modo eccellente ma Neno ne coglie il limite: tra queste e la pratica possibilità di prefigurare un qualche elemento di
“diverso sviluppo” la distanza è grande. Quello che manca è un progetto di riordino dei settori industriali, di unificazione delle lotte e degli obiettivi.
Non bastano gli scioperi generali per tenere saldamente insieme l’aristocrazia operaia del Petrolchimico, “i quadristi che controllano cicli complessi”, con la
“rude razza pagana” dei meccanici e degli edili, con “i negri di Porto Marghera” delle imprese d’appalto che costruiscono il Petrolchimico2 ed effettuano “ i
lavori più pesanti e pericolosi” nella manutenzione degli impianti, esponendosi alle fughe di fosgene. Questi ultimi costituiscono un cospicuo “serbatoio mobile
di manodopera” a basso costo e ad altissima flessibilità e precarietà. Al cospetto di una classe operaia differenziata serve una piattaforma unificante. Essa viene
costruita in progress. Innanzitutto si punta al reimpiego dei lavoratori delle imprese - licenziati in seguito alla conclusione della costruzione del Petrolchimico 2
- nei lavori di manutenzione e d’investimento tesi a salvaguardare la salute e la sicurezza che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto saldarsi con le lotte per il rinnovo
del contratto nazionale dei chimici che prendono avvio con lo sciopero dell’8 giugno e si concludono a ottobre, dopo quasi 100 ore di duri scioperi articolati.
L’esito non è però ritenuto soddisfacente dai lavoratori. Infatti, le assemblee della Montefibre e del Petrolchimico respingono l’accordo nazionale. Questo esito
rafforza in Neno la convinzione che salute, qualità del lavoro, inquadramenti professionali, orari e occupazione devono saldarsi. Per questo imposta una
piattaforma sulla salute che successivamente si tradurrà nel felice slogan “fermata, risanamento, riavvio” degli impianti pericolosi e nocivi.
Una piattaforma salute si rende urgente se si considera che dal dicembre 1971 al novembre 1973 si registra una lunga e tragica sequenza di fughe di gas -“41
casi, con 1000 operai colpiti di cui 133 ricoverati in ospedale”- tanto che nel gennaio del 73 l’ispettorato del lavoro aveva adottato il sorprendente
provvedimento secondo cui “tutti i dipendenti delle 205 aziende operanti a Porto Marghera(..) dovranno essere muniti di maschera individuale respiratoria”.
Un’assemblea dei delegati, lo stesso giorno, respinge indignata il provvedimento. Il 12 gennaio del 73, gli operai sfilano indossando polemicamente le maschere
antigas durante una grande manifestazione a Mestre (e un’altra a Venezia). Neno Coldagelli, durante il comizio conclusivo in Piazza Ferretto rilancerà la battuta
subito circolata nelle fabbriche: “È più conveniente per gli industriali mettere le maschere ai lavoratori che alle ciminiere!”
Ma non basta. La classe operaia di Porto Marghera per svolgere un ruolo egemone (in senso gramsciano), per essere “classe dirigente”, deve rappresentare
“l’interesse generale”. Ecco allora che si propone di allargare il tema: dalla fabbrica alla società. Senza dimenticare però mai l’insegnamento di Sergio Garavini:
mantenere saldamente le radici in fabbrica è essenziale perché “nessuna classe operaia sconfitta in fabbrica potrà mai battersi per le riforme sociali”. Con questa
consapevolezza imposta la piattaforma territoriale.
LA LEGGE SPECIALE
Solo nel 1973, sette anni dopo la drammatica alluvione del novembre 1966, fu approvata, dopo una lunghissima e faticosa discussione in parlamento, sulla
stampa, nel sindacato, la legge speciale per la “salvaguardia” e la “vitalità socioeconomica” della città e della sua laguna. Schematizzando potremmo dire che le
esigenze della tutela prevalevano alla scala nazionale e internazionale mentre la vitalità raccoglieva il consenso di quasi tutte le forze politiche e sindacali
veneziane. Tra i temi più discussi all’interno del movimento sindacale vi erano quelli della portualità e della cosiddetta “terza zona industriale”, circa
quattromila ettari, nella laguna Sud di Porto Marghera, assurta a simbolo della prospettiva di gigantismo industriale perseguita a Venezia negli anni Sessanta.
Ancora nel dicembre 71, la DC e la giunta comunale neocentrista tentano di sfruttare a proprio favore la chiusura della SAVA per denunciare “le smanie
vincolistiche” con la connivenza intenzionale o oggettiva dei “nemici della terza zona”. La DC tenta in tal modo di rompere l’unità sindacale e la rete dei
rapporti che si stanno tessendo “a sinistra” con l’obiettivo di unificare in una sola piattaforma le critiche al modello di sviluppo imperniato sull’espansione fisica
di Porto Marghera, che muovono a partire dalla contestazione operaia all’organizzazione del lavoro, dei ritmi, della nocività e infine dalle preoccupazioni di
tutela degli equilibri idrogeologici, ambientali, di assetto territoriale.
Il tentativo democristiano di riegemonizzare la CISL non passa, grazie anche al ruolo crescente assunto al suo interno dalla FIM CISL di Bruno Geromin. Così
la Federazione CGIL,CISL,UIL scende in campo il 14 ottobre del ’72 con un corteo da Mestre a San Marco, contro una pessima legge speciale appena
approvata dal Senato “con i voti dei fascisti” e l’opposizione del PSI. Da quel momento è un susseguirsi di scioperi articolati per categoria fino al grande e
memorabile evento.
E’ il 21 febbraio del 1973 quando a Venezia è sciopero generale di tutta la provincia contro quella pessima legge speciale e a sostegno della vertenza
territoriale. Scrivono le cronache: “Un corteo enorme attraversa per due ore una città paralizzata e raggiunge Piazza San Marco, dove parla Luciano Lama,
davanti a 40.000 persone, in una delle più grandi manifestazioni mai effettuate a Venezia”.
Si trattò di un momento decisivo nella storia del movimento sindacale: da un’impostazione fortemente operaista ad una visione che collega “fabbrica e società”
fino ad assumere il tema delle alleanze. Non dimentichiamo che a quello sciopero aderì persino la Confesercenti. Se si tiene conto che fino a qualche anno
prima “l’acculturata classe operaia del Petrolchimico” era egemonizzata da Potere Operaio si comprende il salto qualitativo. Gli sviluppi politici che seguirono
negli anni successivi, la felice scelta di Gianni Pellicani, autorevole vicesindaco di Venezia, di nominare Vezio De Lucia a segretario del comprensorio per il
piano urbanistico, portarono alla eliminazione della “terza zona” imponendo di restituire la parte già imbonita “alla libera espansione delle maree”.
Ma questi frutti matureranno solo nel ’75. Tornando a quel cruciale 1973, di grande interesse è la sua relazione al Congresso della Camera del Lavoro, il 24
maggio, al Capannone del Petrolchimico. La novità che egli propone consiste nel tentativo “di uscire dalla dicotomia tra lotte aziendali e grandi manifestazioni
per obiettivi generali” come si definiva allora la strategia delle riforme che sarà definitivamente sancita al congresso nazionale di Bari. I tempi sono maturi per
“aprire una vertenza sul territorio” partendo dall’ambiente per “risalire a una prospettiva di riassetto del polo, degli insediamenti urbani, dei servizi sociali”.
Solo con quest’articolazione – prosegue – sarà possibile far vivere “ la battaglia per le riforme, da quella sanitaria a quella della casa, dei trasporti, dei
servizi.” Quello che immagina e propone è un complesso sistema di livelli negoziali coerenti tra di loro che partendo dai luoghi di lavoro risalgono via via su
“per li rami” fino agli obiettivi “più generali” che riconducono alla necessità di “dare uno sbocco politico” alle lotte. Ne affida la gestione al “Consiglio
intercategoriale di zona”, che nelle intenzioni sarebbe dovuto diventare il secondo livello unitario del sindacato. Di questo si parlava a Bari nelle sei giornate di
congresso nazionale della CGIL che anch’io, allora giovane dirigente dei tessili di Vicenza, ho avuto il privilegio di vivere intensamente, con Gildo e Neno, con
Sergio Garavini che era il nostro autorevole punto di riferimento. Nel suo intervento Neno invita il congresso ad “approfondire meglio le ragioni della stasi del
movimento, delle difficoltà di articolazione del movimento con obiettivi concreti a livello territoriale e settoriale”. Ne individua le cause nella mancata
continuità” tra “le piattaforme rivendicative contrattuali e gli obiettivi più generali per l’occupazione, lo sviluppo e il Mezzogiorno”. Suona come critica, fatta
come sempre con molto garbo, all’impostazione della relazione di Luciano Lama. Egli infatti avverte “la necessità di non scindere la proposta politica da un
grande movimento di massa che ne costituisca il segno politico” che va costruito subito con “l’obiettivo di una risposta immediata e non episodica contro
l’attacco al potere d’acquisto dei salari scatenato attraverso la manovra inflazionistica”. Inoltre invita a far marciare la strategia delle riforme rimettendola con i
piedi saldamente a terra, perseguendo “obiettivi concreti” individuando priorità nei consumi sociali a partire “dall’esigenza di rilanciare sin da ora l’obiettivo
della gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo”.
Dieci anni dopo, quando anch’io, appena eletto segretario generale aggiunto della Camera del Lavoro di Venezia, mi proposi l’obiettivo di riportare le
manifestazioni nel cuore di Venezia chiesi consigli a Neno. Complice la grande nevicata del 16 dicembre del 1983, non fui altrettanto fortunato. Ma , questa è
un’altra storia. Quello che però a distanza di così tanto era ancora vivo era la “vertenza territoriale Venezia” che da quel 1973 diventa un riferimento costante
dell’iniziativa del sindacato veneziano, nella quale confluiscono tutte le spinte rivendicative. Il tempo l’aveva certamente logorata, perché ne erano venuti a
meno molti dei presupposti su cui era nata, ma non cancellata.
Questo lascito politico fu importante anche per mantenere un filo unitario dopo la drammatica rottura del 14 febbraio 1984. Per continuare nelle lotte di Porto
Marghera ma anche sviluppare la nostra iniziativa per la “salvaguardia” di Venezia e della sua laguna. Per tutelare, come dicemmo finalmente qualche anno
dopo, “la città più moderna del mondo”.
continuità” tra “le piattaforme rivendicative contrattuali e gli obiettivi più generali per l’occupazione, lo sviluppo e il Mezzogiorno”. Suona come critica, fatta
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Omaggio a un grande sindacalista

  • 1. Omaggio a un grande sindacalista di OSCAR MANCINI 01 Maggio 2013 Il ricordo di un sindacalista, Nazareno (Neno) Coldagelli, e un racconto di momenti importanti della nostra storia: la lotta alla Marzotto di Vicenza, che aprì il “68” italiano, e quella a Porto Marghera, che fu alla base degli sforzi per il risanamento della città. Soprattutto una testimonianza di ciò che intelligenza critica e dedizione morale possono fare quando incontrano la volontà di riscatto degli sfruttati. Ho di fronte a me la foto di Neno all’ultima manifestazione nazionale della FIOM a Roma. Gli sono accanto. Intorno a noi tante bandiere rosse. Sono quelle della FIOM di Vicenza. Vicenza, ancora Vicenza, la terra che entrambi abbiamo frequentato, seppur con qualche scansione temporale, nell’«età dell’oro». NENO A VICENZA. L’esperienza vicentina, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, fu decisiva nella formazione di quella straordinaria figura di uomo e di dirigente sindacale che è stata Neno Coldagelli. A Vicenza – egli scrive – “diventai sindacalista a tutti gli effetti”. E, aggiunge: “La vicenda della Marzotto è quella che più mi ha segnato”. Più volte abbiamo parlato nel corso degli anni di questo storico, duro scontro di classe, lungamente preparato, evento anticipatore dell’autunno caldo. Tutt’altro che una “Jacquerie” come finalmente riconoscono la maggior parte degli storici. Neno rivendica la “giustezza e la lungimiranza” delle scelte compiute allora e ne attribuisce gran parte del merito al suo amico Ermenegildo Palmieri, che considera “il protagonista assoluto della lotta”. Ho riconosciuto in questo scritto lo stile attraverso cui Neno si relazionava anche con noi, allora giovani dirigenti sindacali promossi a ruoli di grande responsabilità già nei primissimi anni settanta. Era appena stato eletto segretario generale della Camera del Lavoro di Venezia, ma abitava ancora a Vicenza con la famiglia, quando lo conobbi nel gennaio del 1972. Veniva nella piccola sede della Camera del Lavoro in Contrà Corpus Domini, forse per terminare il passaggio di consegne a Gildo. Anche lui, come me, era venuto da fuori e comprese subito il mio stato d’animo determinato dalla durezza dell’impatto che subivo con una realtà in cui il predominio della DC era così pervasivo della cultura dominante e del sistema di potere. Ciò mi appariva in contraddizione con il “mito”, che per anni avevo coltivato, di quella classe operaia che aveva prodotto “l’avvenimento topico del Sessantotto”. Devo a lui la comprensione dell’assenza di un rapporto diretto tra combattività operaia e coscienza politica. In breve tempo anch’io compresi che a contrastare quell’egemonia “non c’era una pattuglia di disperati e vinti ma una CGIL e un PCI che imponevano uno stile e una capacità di combattimento attiva e intransigente, una martellante presenza sul campo, particolarmente nella fabbrica” che richiedevano una dedizione assoluta e totalizzante alla causa. L’ambiente nel quale avemmo il privilegio di essere inseriti era un luogo di unificazione generazionale, profondamente plasmato da questi uomini tenaci e combattivi e da un gruppo dirigente solidale e coeso che aveva nel Partito la sponda dell’ingraiano Romano Carotti con il quale Neno “si trova a proprio agio” ma ciò non lo metteva ovviamente al riparo né dagli strali che gli riserva Cossutta né dalle raccomandazioni alla prudenza che ripetutamente venivano da una parte della CGIL Nazionale. Già, perché Neno è figlio della “sinistra sindacale” della quale – scrive Giuseppe Pupillo – “Coldagelli e Palmieri sono stati interpreti intelligenti e dinamici” conferendo alla CGIL Vicentina “una vivacità che difficilmente si ritrova negli anni successivi”. Sono gli anni del superamento delle Commissioni Interne sostituite dal “Sindacato dei Consigli” e dell’unità sindacale costruita “dal basso”. E’ questa una storia di successi che dimostra che si può essere radicali nell’impostazione, coraggiosamente innovatori nelle scelte politiche, ma non minoritari. Al contrario, Neno e Gildo dimostrano, in quegli anni cruciali, che una CGIL di assoluta minoranza dentro “la sagrestia d’Italia” può diventare - e diventa- egemone nelle scelte delle politiche sindacali e crescere anche dal punto di vista organizzativo.
  • 2. A questa impostazione culturale Neno rimase profondamente legato per tutta la sua vita. Ne è testimonianza anche la bella lettera che mi ha inviato il 18 settembre del 2008 per commentare con acutezza e molta generosità “La statua nella polvere”, il libro da me curato sulle lotte operaie del sessantotto a Valdagno. Nel suo denso scritto s’interroga sulle ragioni della scomparsa dei Consigli dei Delegati. Non considera esauriente l’analisi contenuta nella lunga citazione di Bruno Trentin che nel ’98 ne attribuisce sostanzialmente le cause alla loro burocratizzazione, per il venir meno del faticoso esercizio della democrazia. “Parole sante” scrive Neno, ma si chiede “è solo questo?” Egli ci propone la seguente riflessione: “ La forza originaria del Consiglio dei delegati risiedeva certo nella democrazia, ma si nutriva di una politica sindacale di grande spessore che, per dirla in soldoni, aveva al suo centro la contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro esercitata sul campo dal delegato di gruppo omogeneo, effettivo strumento di democrazia e di rinnovamento del sindacato. La mia convinzione è che la democrazia è stata sovrastata dalla burocrazia quando è venuta a meno quella politica e gli ambiti della contrattazione si sono sempre più risolti in termini quantitativi. Nella crisi dei Consigli ha naturalmente concorso la fine della fase fordista e l’inizio degli effetti della globalizzazione. Dentro questo quadro oggettivo va però anche collocata la responsabilità soggettiva della CGIL, dalla politica dell’EUR agli accordi del ‘92/’93, che hanno definitivamente ossificato il concetto di contrattazione. E qui purtroppo c’entra anche Bruno”. Dalla sua bella e ricca testimonianza sul quinquennio vicentino emerge la conferma di come sia esistita una relazione dialettica tra le “istanze della base” e l’intelligenza politica dei suoi dirigenti ( che egli con il “suo caratteristico understatement” attribuisce solo agli altri), tra “spontaneità operaia” e comportamenti soggettivi dei quadri dirigenti e la loro totale dedizione alla causa. E’ senza dubbio vero che in quella fase il mercato del lavoro fa lievitare il potere contrattuale; che l’ideologia del benessere e del miracolo economico contribuiscono a legittimare richieste e aspettative; che il clima politico nel mondo stava mutando. Ma tutto ciò non basta a spiegare la riscossa operaia e un ciclo così prolungato di lotta che non ha paragoni in Europa: il maggio francese durò “l’espace du un matin”. Vi contribuisce il fatto che, come scrive Asor Rosa, “solo in Italia – solo in Italia in tutto il mondo – movimento operaio e movimento studentesco crebbero solidalmente, tendendosi la mano”. Vi contribuisce fortemente la tenacia del sindacato di classe nel partire dall’interesse concreto senza smarrire la visione politica. Al suo interno vi ha un ruolo decisivo quella “sinistra sindacale” che faceva capo alla “FIOM e a Garavini” a cui Neno s’ispirava e si sentiva di appartenere. “Una minoranza”, egli ci dice “da testimone diretto”, perché “settori importanti” del sindacato assumono “molto burocraticamente” i Consigli dei Delegati anche quando essi “straripano”. Vi contribuisce l’esperienza di lotta dei sopravvissuti nuclei operai rimasti fedeli ai valori anticapitalisti e antifascisti che Neno incontrerà nelle due principali fabbriche metalmeccaniche: la Pellizzari di Arzignano e le Smalterie di Bassano. Vi contribuisce la scelta di puntare su una forma di contrattazione articolata incentrata sulla “contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro” che si traduceva in “una politica rivendicativa che poneva al centro i problemi degli organici, dei carichi di lavoro, degli orari e dei turni, della difesa della salute, con una presenza martellante di fronte alle fabbriche”. Questo racconta Neno parlando simpaticamente del “leggendario” suo amico Palmieri che, nelle calure estive “non aveva il tempo di cambiare le gomme da neve” e “soffiando e sbuffando intorno al ciclostile, sfornava migliaia di volantini al giorno che distribuiva la mattina successiva davanti alle fabbriche Marzotto e Lanerossi che da sole allora occupavano ventimila persone.” Volantini che parlavano delle specifiche condizioni di lavoro in quella determinata fabbrica precedentemente scandagliate attraverso il metodo dell’ “inchiesta operaia” creando così coscienza collettiva.Volantini che indicano la strada da seguire nella contrattazione attraverso la conquista del diritto di tutti i lavoratori di “eleggere su scheda bianca i comitati di reparto”. Volantini che in alcune occasioni si trasformano in schede referendum per ottenere un consenso di massa alla proclamazione dello sciopero indetto dalla sola CGIL. “Questa iniziativa” – racconta Piero Fortunato – “riesce a ribaltare i rapporti di forza con il padrone e gli altri sindacati proprio mantenendo legami con la condizione operaia e promuovendo la partecipazione operaia alle scelte per cambiarla”. Una linea questa – commenterà molti anni dopo Neno - che “non è una banale versione operaista allora in voga in Italia. Centrale non è il salario, ma la conquista di elementi di potere e di democrazia all’interno dei luoghi di
  • 3. lavoro”. Essa richiedeva -aggiungo io- una concezione dell’unità sindacale come conquista dal “basso”, nella lotta, con la partecipazione e il protagonismo di tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti. Una concezione processuale dell’unità che non esclude confronti anche aspri, che passa attraverso un travaglio, una capacità di legittimarsi attraverso la verifica del mandato dei lavoratori organizzati e non organizzati, salvaguardando il pluralismo culturale. NENO A VENEZIA Quando Neno giunge a Venezia nel dicembre del 1971, trova una situazione di forte tensione sociale e di effervescenza sindacale. I lavoratori della SAVA in lotta contro la chiusura della fabbrica avevano piantato la tenda in piazza Ferretto. A novembre c’era stato lo sciopero generale, il quarto, che aveva riguardato tutta la provincia. Il 2 dicembre una cinquantina di operai della Montedison e dell’impresa Fochi venivano intossicati dal fosgene, il micidiale gas usato nella prima guerra mondiale. Non perde tempo. Si butta nella lotta. Già il 9 gennaio organizza una manifestazione antifascista intorno alla tenda della SAVA alla quale partecipano operai e studenti. Il 24 è insieme agli operai della SAVA che occupano il Municipio di Mestre. Lo stesso giorno viene chiusa un’altra fabbrica, l’Allumina. Immediata è la reazione: il giorno dopo è sciopero generale dell’industria con assemblea generale al capannone del Petrochimico che Neno conclude. Questo ciclo di lotte si compie con l’accordo del 10 febbraio che prevede la garanzia dei livelli di occupazione attraverso l’intervento delle Partecipazioni Statali nelle due fabbriche di alluminio. Nel frattempo si susseguono le fughe di fosgene che intossicano i lavoratori del Petrolchimico e delle imprese d’appalto. Le lotte riescono in modo eccellente ma Neno ne coglie il limite: tra queste e la pratica possibilità di prefigurare un qualche elemento di “diverso sviluppo” la distanza è grande. Quello che manca è un progetto di riordino dei settori industriali, di unificazione delle lotte e degli obiettivi. Non bastano gli scioperi generali per tenere saldamente insieme l’aristocrazia operaia del Petrolchimico, “i quadristi che controllano cicli complessi”, con la “rude razza pagana” dei meccanici e degli edili, con “i negri di Porto Marghera” delle imprese d’appalto che costruiscono il Petrolchimico2 ed effettuano “ i lavori più pesanti e pericolosi” nella manutenzione degli impianti, esponendosi alle fughe di fosgene. Questi ultimi costituiscono un cospicuo “serbatoio mobile di manodopera” a basso costo e ad altissima flessibilità e precarietà. Al cospetto di una classe operaia differenziata serve una piattaforma unificante. Essa viene costruita in progress. Innanzitutto si punta al reimpiego dei lavoratori delle imprese - licenziati in seguito alla conclusione della costruzione del Petrolchimico 2 - nei lavori di manutenzione e d’investimento tesi a salvaguardare la salute e la sicurezza che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto saldarsi con le lotte per il rinnovo del contratto nazionale dei chimici che prendono avvio con lo sciopero dell’8 giugno e si concludono a ottobre, dopo quasi 100 ore di duri scioperi articolati. L’esito non è però ritenuto soddisfacente dai lavoratori. Infatti, le assemblee della Montefibre e del Petrolchimico respingono l’accordo nazionale. Questo esito rafforza in Neno la convinzione che salute, qualità del lavoro, inquadramenti professionali, orari e occupazione devono saldarsi. Per questo imposta una piattaforma sulla salute che successivamente si tradurrà nel felice slogan “fermata, risanamento, riavvio” degli impianti pericolosi e nocivi. Una piattaforma salute si rende urgente se si considera che dal dicembre 1971 al novembre 1973 si registra una lunga e tragica sequenza di fughe di gas -“41 casi, con 1000 operai colpiti di cui 133 ricoverati in ospedale”- tanto che nel gennaio del 73 l’ispettorato del lavoro aveva adottato il sorprendente provvedimento secondo cui “tutti i dipendenti delle 205 aziende operanti a Porto Marghera(..) dovranno essere muniti di maschera individuale respiratoria”. Un’assemblea dei delegati, lo stesso giorno, respinge indignata il provvedimento. Il 12 gennaio del 73, gli operai sfilano indossando polemicamente le maschere antigas durante una grande manifestazione a Mestre (e un’altra a Venezia). Neno Coldagelli, durante il comizio conclusivo in Piazza Ferretto rilancerà la battuta subito circolata nelle fabbriche: “È più conveniente per gli industriali mettere le maschere ai lavoratori che alle ciminiere!” Ma non basta. La classe operaia di Porto Marghera per svolgere un ruolo egemone (in senso gramsciano), per essere “classe dirigente”, deve rappresentare “l’interesse generale”. Ecco allora che si propone di allargare il tema: dalla fabbrica alla società. Senza dimenticare però mai l’insegnamento di Sergio Garavini: mantenere saldamente le radici in fabbrica è essenziale perché “nessuna classe operaia sconfitta in fabbrica potrà mai battersi per le riforme sociali”. Con questa consapevolezza imposta la piattaforma territoriale.
  • 4. LA LEGGE SPECIALE Solo nel 1973, sette anni dopo la drammatica alluvione del novembre 1966, fu approvata, dopo una lunghissima e faticosa discussione in parlamento, sulla stampa, nel sindacato, la legge speciale per la “salvaguardia” e la “vitalità socioeconomica” della città e della sua laguna. Schematizzando potremmo dire che le esigenze della tutela prevalevano alla scala nazionale e internazionale mentre la vitalità raccoglieva il consenso di quasi tutte le forze politiche e sindacali veneziane. Tra i temi più discussi all’interno del movimento sindacale vi erano quelli della portualità e della cosiddetta “terza zona industriale”, circa quattromila ettari, nella laguna Sud di Porto Marghera, assurta a simbolo della prospettiva di gigantismo industriale perseguita a Venezia negli anni Sessanta. Ancora nel dicembre 71, la DC e la giunta comunale neocentrista tentano di sfruttare a proprio favore la chiusura della SAVA per denunciare “le smanie vincolistiche” con la connivenza intenzionale o oggettiva dei “nemici della terza zona”. La DC tenta in tal modo di rompere l’unità sindacale e la rete dei rapporti che si stanno tessendo “a sinistra” con l’obiettivo di unificare in una sola piattaforma le critiche al modello di sviluppo imperniato sull’espansione fisica di Porto Marghera, che muovono a partire dalla contestazione operaia all’organizzazione del lavoro, dei ritmi, della nocività e infine dalle preoccupazioni di tutela degli equilibri idrogeologici, ambientali, di assetto territoriale. Il tentativo democristiano di riegemonizzare la CISL non passa, grazie anche al ruolo crescente assunto al suo interno dalla FIM CISL di Bruno Geromin. Così la Federazione CGIL,CISL,UIL scende in campo il 14 ottobre del ’72 con un corteo da Mestre a San Marco, contro una pessima legge speciale appena approvata dal Senato “con i voti dei fascisti” e l’opposizione del PSI. Da quel momento è un susseguirsi di scioperi articolati per categoria fino al grande e memorabile evento. E’ il 21 febbraio del 1973 quando a Venezia è sciopero generale di tutta la provincia contro quella pessima legge speciale e a sostegno della vertenza territoriale. Scrivono le cronache: “Un corteo enorme attraversa per due ore una città paralizzata e raggiunge Piazza San Marco, dove parla Luciano Lama, davanti a 40.000 persone, in una delle più grandi manifestazioni mai effettuate a Venezia”. Si trattò di un momento decisivo nella storia del movimento sindacale: da un’impostazione fortemente operaista ad una visione che collega “fabbrica e società” fino ad assumere il tema delle alleanze. Non dimentichiamo che a quello sciopero aderì persino la Confesercenti. Se si tiene conto che fino a qualche anno prima “l’acculturata classe operaia del Petrolchimico” era egemonizzata da Potere Operaio si comprende il salto qualitativo. Gli sviluppi politici che seguirono negli anni successivi, la felice scelta di Gianni Pellicani, autorevole vicesindaco di Venezia, di nominare Vezio De Lucia a segretario del comprensorio per il piano urbanistico, portarono alla eliminazione della “terza zona” imponendo di restituire la parte già imbonita “alla libera espansione delle maree”. Ma questi frutti matureranno solo nel ’75. Tornando a quel cruciale 1973, di grande interesse è la sua relazione al Congresso della Camera del Lavoro, il 24 maggio, al Capannone del Petrolchimico. La novità che egli propone consiste nel tentativo “di uscire dalla dicotomia tra lotte aziendali e grandi manifestazioni per obiettivi generali” come si definiva allora la strategia delle riforme che sarà definitivamente sancita al congresso nazionale di Bari. I tempi sono maturi per “aprire una vertenza sul territorio” partendo dall’ambiente per “risalire a una prospettiva di riassetto del polo, degli insediamenti urbani, dei servizi sociali”. Solo con quest’articolazione – prosegue – sarà possibile far vivere “ la battaglia per le riforme, da quella sanitaria a quella della casa, dei trasporti, dei servizi.” Quello che immagina e propone è un complesso sistema di livelli negoziali coerenti tra di loro che partendo dai luoghi di lavoro risalgono via via su “per li rami” fino agli obiettivi “più generali” che riconducono alla necessità di “dare uno sbocco politico” alle lotte. Ne affida la gestione al “Consiglio intercategoriale di zona”, che nelle intenzioni sarebbe dovuto diventare il secondo livello unitario del sindacato. Di questo si parlava a Bari nelle sei giornate di congresso nazionale della CGIL che anch’io, allora giovane dirigente dei tessili di Vicenza, ho avuto il privilegio di vivere intensamente, con Gildo e Neno, con Sergio Garavini che era il nostro autorevole punto di riferimento. Nel suo intervento Neno invita il congresso ad “approfondire meglio le ragioni della stasi del movimento, delle difficoltà di articolazione del movimento con obiettivi concreti a livello territoriale e settoriale”. Ne individua le cause nella mancata
  • 5. continuità” tra “le piattaforme rivendicative contrattuali e gli obiettivi più generali per l’occupazione, lo sviluppo e il Mezzogiorno”. Suona come critica, fatta come sempre con molto garbo, all’impostazione della relazione di Luciano Lama. Egli infatti avverte “la necessità di non scindere la proposta politica da un grande movimento di massa che ne costituisca il segno politico” che va costruito subito con “l’obiettivo di una risposta immediata e non episodica contro l’attacco al potere d’acquisto dei salari scatenato attraverso la manovra inflazionistica”. Inoltre invita a far marciare la strategia delle riforme rimettendola con i piedi saldamente a terra, perseguendo “obiettivi concreti” individuando priorità nei consumi sociali a partire “dall’esigenza di rilanciare sin da ora l’obiettivo della gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo”. Dieci anni dopo, quando anch’io, appena eletto segretario generale aggiunto della Camera del Lavoro di Venezia, mi proposi l’obiettivo di riportare le manifestazioni nel cuore di Venezia chiesi consigli a Neno. Complice la grande nevicata del 16 dicembre del 1983, non fui altrettanto fortunato. Ma , questa è un’altra storia. Quello che però a distanza di così tanto era ancora vivo era la “vertenza territoriale Venezia” che da quel 1973 diventa un riferimento costante dell’iniziativa del sindacato veneziano, nella quale confluiscono tutte le spinte rivendicative. Il tempo l’aveva certamente logorata, perché ne erano venuti a meno molti dei presupposti su cui era nata, ma non cancellata. Questo lascito politico fu importante anche per mantenere un filo unitario dopo la drammatica rottura del 14 febbraio 1984. Per continuare nelle lotte di Porto Marghera ma anche sviluppare la nostra iniziativa per la “salvaguardia” di Venezia e della sua laguna. Per tutelare, come dicemmo finalmente qualche anno dopo, “la città più moderna del mondo”.
  • 6. continuità” tra “le piattaforme rivendicative contrattuali e gli obiettivi più generali per l’occupazione, lo sviluppo e il Mezzogiorno”. Suona come critica, fatta come sempre con molto garbo, all’impostazione della relazione di Luciano Lama. Egli infatti avverte “la necessità di non scindere la proposta politica da un grande movimento di massa che ne costituisca il segno politico” che va costruito subito con “l’obiettivo di una risposta immediata e non episodica contro l’attacco al potere d’acquisto dei salari scatenato attraverso la manovra inflazionistica”. Inoltre invita a far marciare la strategia delle riforme rimettendola con i piedi saldamente a terra, perseguendo “obiettivi concreti” individuando priorità nei consumi sociali a partire “dall’esigenza di rilanciare sin da ora l’obiettivo della gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo”. Dieci anni dopo, quando anch’io, appena eletto segretario generale aggiunto della Camera del Lavoro di Venezia, mi proposi l’obiettivo di riportare le manifestazioni nel cuore di Venezia chiesi consigli a Neno. Complice la grande nevicata del 16 dicembre del 1983, non fui altrettanto fortunato. Ma , questa è un’altra storia. Quello che però a distanza di così tanto era ancora vivo era la “vertenza territoriale Venezia” che da quel 1973 diventa un riferimento costante dell’iniziativa del sindacato veneziano, nella quale confluiscono tutte le spinte rivendicative. Il tempo l’aveva certamente logorata, perché ne erano venuti a meno molti dei presupposti su cui era nata, ma non cancellata. Questo lascito politico fu importante anche per mantenere un filo unitario dopo la drammatica rottura del 14 febbraio 1984. Per continuare nelle lotte di Porto Marghera ma anche sviluppare la nostra iniziativa per la “salvaguardia” di Venezia e della sua laguna. Per tutelare, come dicemmo finalmente qualche anno dopo, “la città più moderna del mondo”.