2. quaderni di RESTORE 08
L’impresa sociale di comunità:
dalla definizione all’azione
Paola Piazzi, Sergio Remi
3.
4. quaderni di RESTORE 08
1. dsfdsfds sociale di comunità:
L’impresa
dalla definizione all’azione
Paola Piazzi, Sergio Remi
5.
6. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
5
quaderni di RESTORE 08
Prefazione ai “Quaderni di Restore”
Nel corso degli ultimi anni la struttura dei bisogni sociali si è profondamente modificata
e sempre più spesso le problematiche tradizionali sono affiancate da problemi più com-
plessi e urgenti, che riguardano in particolare: anziani non autosufficienti a domicilio,
persone a rischio di povertà, minori con problemi educativi, donne disoccupate spesso
con figli in giovane età.
I modelli di intervento esistenti sono in grado solo in piccola parte di affrontare questi
problemi. Anche le imprese sociali, che si sono sviluppate velocemente a partire dagli
anni ’80 e risultano oggi piuttosto consolidate, sembrano avere perso parte della loro
capacità innovativa e stanno sempre più adottando modelli gestionali e di produzione
dei servizi uniformati a quelli degli enti pubblici.
Il progetto Equal Restore (Rafforzare l’Economia Sociale Trentina Organizzando Reti) è
un progetto finanziato dalla Comunità Europea, che intende ricercare una risposta alle
nuove esigenze di welfare emergenti dalle realtà locali.
L’opportunità individuata è stata quella di creare sul territorio alcune imprese sociali
di comunità intese come organizzazioni che operano nei sistemi di protezione sociale
producendo beni che incrementano la coesione sociale, attraverso processi dinamici
di inclusione e sviluppo locale. Sono contraddistinte da un approccio che riconosce il
carattere multidimensionale ed evolutivo dei bisogni e dunque la necessità di rispondervi
attraendo e combinando risorse di natura diversa.
Per poter progettare queste attività, si è definito a livello concettuale e applicato le ca-
ratteristiche istituzionali delle imprese sociali di comunità, quindi individuato gli indicatori
di performance e dimostrato l’esistenza di un valore aggiunto sociale rispetto ad altri
modelli organizzativi e di governance.
In un secondo momento si sono individuati i requisiti normativi e giuridici relativi al funzio-
namento e alla gestione delle imprese sociali di comunità, con riferimento alla normativa
nazionale e comunitaria.
In questa serie di “quaderni” sono pubblicati i report derivanti dalla ricerca effettuata sulle
imprese sociali di comunità.
Il primo report riporta la sintesi dello studio di buone prassi a livello nazionale nel quale
è possibile cogliere le principali caratteristiche delle imprese sociali di comunità a partire
dal modo in cui queste imprese utilizzano in termini operativi le dimensioni fondanti della
loro identità, ovvero quella comunitaria e quella imprenditoriale.
Il secondo report descrive la nozione di governance rimandando, in termini generali, agli
assetti proprietari e ai processi decisionali dell’impresa, a chi controlla e al come viene
controllata l’impresa, per perseguire quali scopi e in relazione a quali interessi. In questo
7. 6
quaderni di RESTORE 08
ambito, l’elemento che più connota il sistema di governance delle imprese sociali di
comunità è dato dal coinvolgimento di stakekolder diversi (per numero e tipologie) che
contribuiscono a definire la mission e il percorso di sviluppo dell’impresa stessa
Il terzo report affronta il tema della qualità come processo di formalizzazione dei fattori
che contribuiscono a identificare e valorizzare le peculiarità di queste imprese. Si è quindi
cercato di evidenziare e far emergere i fattori di identità nei quali si riconoscono le realtà
che stanno cercando di costruire imprese sociali di comunità o che stanno emergendo
dal dibattito in corso sulle nuove forme di gestione delle imprese sociali
Il quarto report è finalizzato ad individuare i limiti del welfare locale analizzando gli aspetti
organizzativi e gestionali delle imprese sociali e verificando le condizioni e le opportunità
di implementazione delle imprese sociali di comunità sul territorio
Il quinto è finalizzato, ad individuare il posizionamento dell’impresa sociale di comunità
all’interno del welfare trentino, evidenziandone opportunità e vincoli per la definizione di
sviluppo per queste realtà imprenditoriali.
Il sesto definisce, offre metodologie e strumenti per la valutazione della qualità nelle
imprese sociali, mentre il settimo quaderno indaga se e quale tipo di bilancio sociale
possa supportare la dimensione comunitaria dell’impresa sociale, in particolare miglio-
rare la sua capacità di coinvolgimento degli stakeholder e la sua partecipazione a reti di
governance territoriale.
Questo ottavo e ultimo quaderno racconta le undici sperimentazioni di impresa sociale
di comunità sviluppate nell’ambito del progetto Equal Restore e realizzate in provincia di
Trento, descrivendo processi e percorsi di queste esperienze pilota.
8. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
7
quaderni di RESTORE 08
Indice
INTRODUZIONE
La lezione di Restore: elementi di apprendimento .......................................................................................... 11
per innovare le politiche di welfare
di Flaviano Zandonai
PARTE PRIMA: L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ
1. L’impresa sociale di comunità ............................................................................................................................... 17
2. La comunità locale come risorsa di sviluppo ..................................................................................... 20
3. L’attualità del modello cooperativo: fare comunità nella modernizzazione ... 25
4. L’impresa sociale nell’epoca del “capitalismo personale” .................................................. 28
5. Produrre senso (e responsabilità) ...................................................................................................................... 32
6. Accompagnare il welfare mix del “sindaco imprenditore” .................................................. 34
PARTE SECONDA: I CASI
1. Carzano: la famiglia cooperativa come strumento di coesione sociale ............ 43
2. Trento Nord: il catering multietnico ................................................................................................................. 47
3. Giudicarie: fare coalizione per costruire il distretto dell’economia solidale ... 50
4. Lavis: l’impresa sociale nella filiera hard della subfornitura manifatturiera ..... 53
5. Tres: l’autosufficienza energetica di una piccola comunità ............................................... 55
6. Vigolo Vattaro: dalla comunità ospitale alla rete di servizi di ........................................... 59
assistenza e cura
7. Prabubolo: l’inserimento lavorativo in agricoltura per la ....................................................... 62
valorizzazione dei beni comuni
8. Alta Val Di Non: l’impresa sociale nell’economia dell’intrattenimento ................. 65
9. Val di Sole: il convento di Terzolas nei circuiti del turismo dell’incontro ............ 65
10. Arco di Trento: Bar Salute .......................................................................................................................................... 72
11. Pergine: un tentativo (fallito) di progettazione urbanistica partecipata ............... 75
9.
10. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
9
quaderni di RESTORE 08
Introduzione
La lezione di Restore: elementi di apprendimento
per innovare le politiche di welfare
Flaviano Zandonai
I gestori di Restore sanno bene che i risultati di questa iniziativa e di altre progettualità
simili non coincidono solo con gli indicatori di impatto proposti nei formulari e nei docu-
menti di programmazione, ma riguardano piuttosto il raggiungimento di quegli obiettivi
che sostanziano l’impostazione strategica del progetto e, più in generale, della sua linea
di finanziamento. Nel caso di Restore, e dell’intera azione Equal che lo ha co-finanziato,
l’obiettivo era di creare connessioni stabili e biunivoche tra interventi settoriali (inclusione,
pari opportunità, occupabilità, ecc.) e processi di sviluppo socio economico a livello lo-
cale. Nella fase conclusiva è dunque necessario non solo chiudere le singole attività, ma
soprattutto, come insegnano i teorici del project cycle management, “portare a sistema”
l’innovazione. In questo modo si potrà realizzare un duplice obiettivo: in primo luogo
garantire la continuità di quanto sperimentato oltre l’orizzonte progettuale; in secondo
luogo contribuire al rinnovamento delle politiche ordinarie di sviluppo, arricchendole con
gli apprendimenti realizzati “in corso d’opera”.
Quale è stato il contributo di Restore da questo punto di vista?
In termini generali si può sostenere che il progetto ha ulteriormente confermato come
in Trentino (e in altri contesti) la creazione d’impresa nell’ambito dei sistemi di welfare
rappresenti, come indicava l’ormai famoso libro bianco “Delors”1, un “bacino” tutt’altro
che esaurito per migliorare aspetti sostanziali della qualità della vita quali inclusione,
benessere, occupazione, ecc. Si tratta quindi di andare oltre un approccio meramente
sperimentale, riconoscendo che le iniziative d’impresa per la protezione e la coesione
sociale rappresentano un vero e proprio “asset” territoriale, disponibile soprattutto in
ambito locale. Negli ultimi anni, grazie anche a risorse dedicate come quelle dei fondi
strutturali europei, si sono potute avviare e consolidare numerose iniziative imprendito-
riali che hanno saputo far emergere bisogni insoddisfatti, non limitandosi però ad attività,
pur lodevoli, di advocacy, ma impegnandosi contestualmente nella produzione di beni e
servizi in grado di rispondere a tali esigenze. Si tratta in particolare di cooperative sociali
che producono servizi socio-assistenziali ed educativi e che organizzano percorsi di
inserimento lavorativo per fasce deboli della popolazione, ma anche di altre soggettività
1
Delors J. (1994), Crescita, Competitività, occupazione, Commissione dell’Unione Europea: Libro Bianco sullo
sviluppo. Unione Europea, Bruxelles.
11. 10
quaderni di RESTORE 08
nonprofit – associazioni, fondazioni, ecc. – oltre che di forme imprenditoriali a governan-
ce “ibrida” che hanno consolidato reti composte da più soggetti pubblici e privati.
Restore ha contributo in modo decisivo a precisare i tratti di un inedito modello impren-
ditoriale – l’impresa sociale di comunità – che risulta particolarmente adatto ad opera-
re con efficacia nelle dinamiche, spesso non agevoli da “leggere” e da governare, dei
sistemi di welfare contemporanei. Di questa forma d’impresa, il progetto ha analizzato
i contorni teorici2, i sistemi di governance3 e i rapporti con suoi principali interlocutori
pubblici4. Inoltre ne ha valutato il profilo di qualità5 e definito il sistema di rendicontazione
sociale6 oltre a studiarne le condizioni di fattibilità nel sistema di welfare Trentino7. Que-
sta poderosa azione di sviluppo è stata sostenuta non solo attraverso la produzione di
conoscenza di tipo tecnico-gestionale8, ma anche attraverso alcune sperimentazioni sul
campo, i cui “cantieri” sono descritti in questa pubblicazione.
Da questo crogiolo di riflessioni teoriche, analisi empiriche e azioni di sviluppo l’impresa
sociale di comunità emerge nella forma di coalizione composta da attori diversi, radicati
in ambito locale ma strutturalmente connessi a contesti più ampi, che si costituisce in-
torno ad attività specifiche di produzione attraverso le quali risponde a finalità protezione
sociale riconosciute come di “interesse generale”. Questa soluzione gestionale sembra
possedere alcuni attributi finalistici e strutturali che la rendono concorrenziale rispetto ad
altre modalità oggi adottate per coordinare la produzione di beni di welfare. L’impresa
sociale di comunità, infatti, non è certamente riconducibile alle forme di neo-municipali-
smo che vedono alcuni enti pubblici, soprattutto locali, (ri) appropriarsi del governo ma
anche della produzione del welfare (magari attraverso agenzie e società controllate).
Ma d’altro canto la stessa forma d’impresa non può essere interpretata come mero
esito di politiche di outsourcing (ancora da parte di soggetti pubblici ma non solo) che
frammentano il welfare in prestazioni di servizio sempre più inefficaci rispetto al carattere
complesso – perché dinamico e multidimensionale – dei bisogni emergenti. Va notato,
peraltro, che proprio su questo ultimo fronte una parte non residuale delle forme orga-
nizzative e giuridiche più coerenti con questo modello d’impresa – cooperative sociali
2
Demozzi M, Zandonai F. (a cura di) (2007), L’impresa sociale di comunità. Definizione, processi di sviluppo e
struttura organizzativa, Quaderni di Restore 01, Trento.
3
Fazzi L. (2007), Governance, partecipazione e impresa sociale, Quaderni di Restore 02, Trento.
4
Bombardelli M., Mendola R. (a cura di) (2008), L’impresa sociale di comunità nel quadro normativo vigente:
opportunità e vincoli, Quaderni di Restore 05, Trento.
5
Bertin G., Sonda G., Margheri C. (a cura di) (2007), I fattori di qualità dell’impresa sociale di comunità, Quaderni
di Restore 03, Trento; Bertin G., Sonda G., Palutan C. (a cura di) (2008), Definire e valutare la qualità nelle
imprese sociali Percorso metodologico e strumenti di analisi, Quaderni di Restore 06, Trento.
6
De Vogli S. (a cura di) (2008), Il bilancio sociale: strumento dell’impresa sociale di comunità, Quaderni di
Restore 07, Trento.
7
Boccagni P., Zandonai F. (a cura di) (2007), I limiti del welfare trentino. Le culture regolative dei servizi, il ruolo
delle imprese sociali, i bisogni emergenti, Quaderni di Restore 04, Trento.
8
Demozzi M., Zandonai F. (a cura di) (2008), Impresa sociale di comunità. Strumenti per la creazione e la
gestione, Edizioni 31, Trento.
12. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
11
e altre organizzazioni di terzo settore – hanno subito una “deriva” che le ha portate ad
quaderni di RESTORE 08
adottare in maniera acritica strategie e comportamenti riconducibili più agli attributi delle
istituzioni di stato e mercato piuttosto che a quegli elementi di peculiarità di cui si trova
riscontro nel dettato normativo di riferimento9 e soprattutto nelle loro culture originarie.
Il recupero della dimensione comunitaria delle imprese che già si definiscono e sono
normate come “sociali” rappresenta quindi una questione dirimente per giungere ad una
legittimazione sostanziale e non meramente formale di questa nuova forma di regola-
zione della vita economica e sociale. I principali elementi di “valore aggiunto” derivanti
dall’avvio di nuove imprese sociali di comunità o dalla ristrutturazione di imprese sociali
in senso comunitario sono i seguenti.
In primo luogo è possibile integrare a livello locale soggetti che svolgono ruoli diversi
– anche non specialistici – nell’ambito della protezione sociale, superando così la già
citata tendenza alla frammentazione per ricomporre attività e servizi in forma di beni
relazionali che rispondono ad esigenze “complessive” della vita delle persone e delle
comunità locali (si pensi, a solo titolo di esempio, a temi “caldi” come salute, sicurezza,
formazione). La produzione di beni di welfare nell’ottica dell’impresa sociale di comunità
non prevede quindi di accentrare in un singolo soggetto la produzione, ma piuttosto di
valorizzare le vocazioni e le competenze specifiche di ognuno (anche quelle nascoste o
di cui si è scarsamente consapevoli), inserendole in una rete che assume la conforma-
zione di una “filiera” basata su attributi di localizzazione territoriale, di specializzazione
d’ambito e di integrazione funzionale.
In secondo luogo le imprese comunitarie sono in grado di attrarre risorse di diversa natu-
ra (da transazioni di mercato, da redistribuzione, da donazioni, economiche e non, ecc.)
che altri soggetti (sia pubblici che privati) non considerano tali o, nel migliore dei casi,
considerano come residuali. Si tratta quindi di un notevole elemento di valore, soprattut-
to in una congiuntura come quella attuale dove si assiste ad un ridimensionamento del
sostegno pubblico al welfare. Per un’impresa sociale si tratta quindi di mettere in atto
percorsi di attivazione, “ibridazione” e redistribuzione di risorse facendo leva su di un
ampia platea di stakeholder comunitari e non, adottando a tal fine necessarie procedure
di rendicontazione rispetto alle finalità e ai risultati ottenuti.
In terzo luogo si può operare per una maggiore interazione tra attività di programmazio-
ne e di implementazione delle politiche legate al welfare e più in generale allo sviluppo
locale nel suo complesso, favorendo così un allargamento della governance territoriale
anche a quei soggetti, come le imprese sociali, che pur essendo di natura privata per-
seguono chiare “finalità pubbliche”. In molti contesti si sono avviati in questi ultimi anni
percorsi di policy making, la cui efficacia è comunque direttamente legata alla capacità
di creare uno scambio biunivoco con le prassi di servizio.
9
A livello nazionale il principale riferimento è la legge sull’impresa sociale (n. 118/05 e successivi decreti). Per
quanto riguarda invece il contesto trentino importanti elementi di riconoscimento si possono trovare nella nuova
legge di riforma del welfare (l.r. n. 13/07).
13. 12
quaderni di RESTORE 08
In quarto luogo si può garantire una maggiore condivisione delle informazioni e del-
le conoscenze, agendo soprattutto sui legami di natura fiduciaria già esistenti o da
stimolare tra singole persone e organizzazioni, in modo da superare (o quantomeno
ridurre) le consistenti “asimmetrie informative” che determinano in buona parte la qua-
lità delle relazioni tra gli attori del welfare (produttori, fruitori, finanziatori).
Infine, consentire un più facile accesso all’esercizio dell’attività d’impresa anche a
soggetti che non detengono significative quote di capitale economico, ma che sono
comunque disponibili a “mettere in gioco” altre risorse, ad esempio in termini di moti-
vazioni di natura estrinseca – legate alla qualità delle relazioni interne e all’equità come
principio di regolazione del governo organizzativo – che in imprese con una esplicita
finalità sociale possono trovare un’adeguata soddisfazione.
L’aver non solo definito ma soprattutto sperimentato l’impresa sociale di comunità ha
consentito al progetto Restore di individuare con una certa precisione alcuni elementi
di attenzione o snodi critici che caratterizzano i percorsi di sviluppo di queste iniziative.
Essi fanno riferimento ai principali elementi costitutivi di questa particolare forma d’im-
presa ovvero mission, sistema di governance, processi produttivi, capitale umano.
> Rispetto alla mission risulta di cruciale importanza il carattere dinamico e co-costruito
degli obiettivi di “interesse generale” dell’impresa. Nessuno degli stakeholder coinvol-
ti, per quanto rilevante, è in grado di avocare a sé in via esclusiva la determinazione di
ciò che si definisce come interesse generale in una comunità, perché significherebbe
adottare modalità semplificate di lettura dei bisogni ma anche di individuazione delle
risposte più adeguate.
> Rispetto alla governance pare necessario garantire non solo basse barriere per l’ac-
cesso agli organismi decisionali, ma contemporaneamente prevedere precise assun-
zioni di responsabilità da parte dei portatori di interesse coinvolti, pena il rischio di
disgregazione della coalizione comunitaria a causa dell’assenza o della scarsa entità
dei “costi di uscita”. Inoltre occorre bilanciare la presenza degli stakeholder istituzio-
nali (enti pubblici, imprese, ecc.) e delle espressioni meno formalizzate del tessuto
comunitario, in quanto la preponderanza degli uni a scapito degli altri può generare
squilibrio nelle azioni di sviluppo promosse da queste imprese: da un lato potrebbero
emergere difficoltà nel sostenere iniziative imprenditoriali con carattere di continuità
ed efficacia; dall’altro un’eccessiva formalizzazione dei network tra soggetti locali e
non, rischia di involvere in senso autoreferenziale.
> Rispetto alla produzione emerge la rilevanza di attività di natura “pre-imprenditoriale”
che non prevedono cioè la presenza di processi produttivi già pienamente strutturati,
ma piuttosto lo svolgimento di attività di empowerment del tessuto comunitario in
modo da creare le condizioni per l’avvio di un’iniziativa d’impresa in grado di fun-
zionare a fronte di bisogni non sempre strutturati in domanda di servizi e a risorse
differenziate e non immediatamente fruibili.
> Rispetto al capitale umano è possibile sottolineare l’esigenza di rafforzare le compe-
tenze di costruzione e gestione di reti (networking) a tutti i livelli dell’organizzazione,
14. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
13
evitando che il “portafoglio” di relazioni dell’intera organizzazione coincida con quello
quaderni di RESTORE 08
in possesso di un numero limitato di dirigenti.
Oltre al suo oggetto di intervento, un ulteriore importante elemento di apprendimento
di Restore riguarda la sua forma di gestione. La “partnership di sviluppo” costituita da
rilevanti attori locali (enti pubblici, imprese sociali e soggetti della conoscenza) ha rap-
presentato una modalità gestionale inedita, strettamente legata al successo del pro-
getto. La presenza di un organismo in forma reticolare radicato localmente e integrato
“verticalmente” a livello meso (grazie alla rete di sostegno provinciale e alle iniziative di
mainstreaming in ambito inter-regionale) e macro (grazie al progetto transnazionale) ha
garantito, infatti, una maggiore coesione interna delle “filiere” settoriali (le sperimentazio-
ni territoriali), ma anche più opportunità di interagire con i processi di sviluppo locale. È
quindi necessario individuare anche per il sistema gestionale e di governo alcune condi-
zioni per la permanenza e la continuità nel tempo.
La questione è cruciale perché pone al centro della discussione l’impostazione dei fondi
strutturali. Ma esistono anche altre motivazioni, più concrete. Ad esempio, i progetti
europei del prossimo periodo di programmazione confermeranno a livello di gestione
l’impostazione di Equal, ed inoltre altre linee di finanziamento (sia pubbliche che private,
come le fondazioni bancarie) intendono proporre, e in qualche caso rafforzare, il carat-
tere reticolare della gestione (si pensi agli “organismi intermediari” per le sovvenzioni
globali che distribuiscono “piccoli sussidi per l’inserimento lavorativo”).
Ecco quindi qualche indicazione, tutta da verificare, utile soprattutto ad alimentare il
dibattito.
> In primo luogo, la fase di progettazione dovrebbe essere oggetto di attenta valu-
tazione non solo per quanto riguarda il contenuto delle singole attività, ma anche guar-
dando all’impostazione e al funzionamento dell’organismo di gestione. Si potrebbero,
ad esempio, premiare attività di networking che insistono per tutto l’arco di esecuzione
del progetto, come elemento sostanziale della missione della partnership di sviluppo.
> In secondo luogo dovrebbe esserci maggiore attenzione rispetto alle modalità adot-
tate per dare sostegno alle sperimentazioni, valutando positivamente tutte quelle iniziati-
ve volte ad “accreditare” il progetto all’interno dei sistemi istituzionali dove si definiscono
e si implementano le politiche locali, anche per recuperare nuove risorse aggiuntive
rispetto al finanziamento comunitario.
> Infine, bisognerebbe stimolare forme di governance che, da un lato, confermino il
carattere multi-stakeholder delle partnership, ma, d’altro canto, contribuiscano a raffor-
zare i legami di interdipendenza attraverso una più chiara formalizzazione di ruoli e di
responsabilità non solo rispetto alla specifica quota di budget o fase di pertinenza, ma
soprattutto rispetto alle finalità del progetto. È necessario, in altri termini, passare ad una
modalità di gestione basata sull’attribuzione di responsabilità di processo e non solo
rispetto all’esecuzione di uno specifico compito.
In definitiva, la ricerca di una maggiore coesione delle partnership rispetto agli obiettivi
dei progetti può contribuire non solo alla replicabilità di progetti come Restore, ma più
15. 14
quaderni di RESTORE 08
in generale al rafforzamento di un paradigma di sviluppo incentrato sulla dimensione
locale. Si tratta, va ribadito, di un contesto dove forme organizzative come l’impresa
sociale di comunità potranno trovare, anche in futuro, il loro ambito privilegiato di azione,
ricercando così in forma autonoma nuove opportunità di crescita e di affermazione.
17. 16
quaderni di RESTORE 08
Desideriamo ringraziare Michele Odorizzi, vicepresidente della Federazione Trentina della
Cooperazione e coordinatore del progetto Restore, Pietro Scarpa consigliere delegato
allo sviluppo del consorzio Con.Solida e referente generale delle sperimentazioni.
Li ringraziamo innanzitutto per quanto hanno creduto nell’idea dell’impresa sociale di
comunità e per il loro impegno affinché non rimanesse solo un’idea.
Li ringraziamo poi per averci coinvolti nel percorso di conoscenza e valutazione delle
imprese sociali di comunità nate nell’ambito di Restore, percorso che è poi diventato
questo quaderno. Infine ringraziamo i referenti delle singole sperimentazioni che si sono
resi disponibili a raccontare e a raccontarsi.
Paola Piazzi e Sergio Remi
18. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
17
quaderni di RESTORE 08
1. L’impresa sociale di comunità
Questo testo racconta undici sperimentazioni di impresa sociale di comunità realizzate
in provincia di Trento. Undici casi che descrivono i processi di trasformazione di diversi
territori trentini dentro la modernità, dando voce, forma e sostanza ad una rinnovata
voglia di mutualismo.
Queste esperienze sono state sviluppate nell’ambito del Progetto Equal Restore, un pro-
getto europeo gestito dalla Federazione Trentina della Cooperazione in collaborazione
con l’Università di Trento (ISSAN), il Consorzio dei Comuni Trentini e l’Istituto Regionale
di Ricerche Scienze Sociali Trentino. Restore è una sigla ottenuta unendo le iniziali della
frase: Rafforzare l’Economia Sociale Trentina Organizzando Reti.
Il Progetto nasce per promuovere nuovi modelli di impresa sociale che siano espressio-
ne delle comunità locali del territorio trentino, con particolare attenzione per le periferie,
le aree di recente urbanizzazione e i piccoli comuni. Nucleo centrale dell’intero percorso
è la realizzazione di alcune esperienze pilota di imprese sociali di comunità, che offrano
nuove opportunità di occupazione e si vadano ad innestare nell’ambito di comunità
locali che si auto-organizzano imprenditorialmente per dare risposte a propri specifici
bisogni.
Espressione del territorio, le imprese sociali di comunità sono organizzazioni private o
pubblico-private senza scopo di lucro che producono in modo professionale e continua-
tivo beni e servizi finalizzati al miglioramento della qualità della vita delle persone e delle
comunità locali. L’obiettivo di perseguire l’interesse generale delle comunità richiede
un’organizzazione capace di valorizzare risorse locali – sociali economiche e territoriali
– di diversa natura. Per questa ragione prevedono sistemi di governo e gestione basati
sulla presenza di soggetti diversi: utenti, lavoratori, volontari, associazioni, imprese profit,
enti pubblici e privati. Ognuno di essi è chiamato, secondo le proprie possibilità, a dare
un apporto secondo principi di partecipazione e mutualismo.
Il mutualismo è tema certamente storico e quindi ormai di lunga data, ma che oggi
richiede di essere rivisitato alla luce delle tante trasformazioni sociali di cui più o meno
quotidianamente siamo testimoni. In questo scenario si vanno delineando diverse forme
di auto-organizzazione dal basso, storiche e innovative, che rispondono ai bisogni com-
plessi di una società in transizione come quella attuale. È, infatti, questa la specificità
dell’impresa sociale di comunità: non solo un’impresa orientata al sociale, erogatrice di
servizi alla collettività, ma un modello di infrastrutturazione sociale adeguato ai tempi.
Tramontate o in via di dismissione le tutele della contrattazione e del welfare fordista,
oggi la vita sociale non trova sponde su cui appoggiarsi per assorbire il rischio diffuso,
che ciascuno avverte come proprio e personale. Riemerge con forza una domanda di
auto-organizzazione, di condivisione che può e deve trovare risposta nella crescita di
forme auto-organizzate di mutualismo, tutela, rappresentanza dei bisogni sociali.
Le politiche tradizionali di welfare hanno sempre assunto le politiche sociali come com-
pensazione o rimedio ai “guasti” provocati dal mercato. In questo modo “sociale” e
“mercato” rappresentavano i poli alternativi di un discorso pubblico entro cui ricercare
19. 18
quaderni di RESTORE 08
solo una sorta di equilibrio tra dinamiche fra loro antagoniste. Da un lato, il mercato che
avvantaggia pochi soggetti, destruttura il sistema di relazioni sociali, dissolve apparte-
nenze e identità, dall’altro, le politiche sociali che intervengono a ricomporre i cocci con
servizi di protezione, assistenza, recupero; in ogni caso, “dopo” che il tessuto sociale si
è frantumato.
Il privato sociale è stato parte integrante di questo discorso pubblico. Ma, se da un lato
è riscontrabile un inglobamento dell’impresa sociale nel più ampio sistema pubblico di
erogazione di servizi socio-assistenziali – di cui l’impresa sociale spesso è un terminale
sul territorio – dall’altro lato, la recente e consistente crescita del settore no profit evi-
denzia l’affermarsi di tendenze che hanno a che fare con una più ampia concezione di
welfare, che incrocia le tematiche dello sviluppo economico e della coesione sociale in
una prospettiva di sviluppo locale.
È una tendenza lenta e progressiva di cui poco si parla. Mentre si sfarinano i distretti
produttivi, crescono sul territorio i microdistretti del sociale. Dal ‘96 al 2003 le piccole
società cooperative sono cresciute del 12%. Sono 6.150 in tutta Italia queste strutture
che fanno welfare locale, di comunità. Si aggregano in reti come quella del Consorzio
Gino Mattarella (CGM) che, con 1200 tra cooperative e consorzi, rappresenta la più
importante rete italiana di cooperazione sociale. Vi lavorano 35mila addetti più 5mila
volontari, con un’età media di 29 anni e un reddito di 800 euro al mese. Per numero,
sono più degli operai Fiat in Italia. Per stipendio, prendono meno di un metalmeccanico.
Si occupano di quel ciclo antico che chiamiamo welfare, fatto di infanzia, lavoro, famiglie,
previdenza e vecchiaia. Gestiscono asili comunali e aziendali, cooperative per l’inseri-
mento lavorativo di personale svantaggiato e comunità per il disagio psichico. Senza le
cooperative sociali il nostro welfare sarebbe oggi ben poca cosa. È come se, nell’iper-
moderna società globale, si fosse scongelata una memoria antica, fatta di luoghi e azioni
di comunità, che aveva avuto il suo momento forte agli albori del’900.
Stiamo oggi assistendo ad un processo di espansione di quel campo di attività che non
appartiene né allo stato né al mercato, e che ha come finalità ultima quella di produrre
coesione ed inclusione sociale, senza trascurare aspetti come la competitività del siste-
ma, la razionalizzazione delle risorse e la messa a valore di ogni singolo aspetto della vita
produttiva e riproduttiva.
In molti casi, sono state le stesse cooperative sociali a “creare” il loro mercato, e cioè,
a mobilitare una domanda di prestazioni, attraverso la “differenziazione funzionale” del
servizio pubblico. Questo è avvenuto attraverso percorsi e sperimentazioni molteplici. La
cooperativa di tipo B, ad esempio, anticipa cronologicamente la nascita dei servizi per
l’impiego dei disabili dell’amministrazione nell’operatività locale del modello del welfare
to work; è una forma di organizzazione del bisogno d’integrazione sociale attraverso il
lavoro preesistente alle politiche di esternalizzazione di servizi degli Enti Locali, in seguito
divenuti il principale “mercato” di queste imprese. Analogamente, taluni servizi di edu-
cativa territoriale e di assistenza domiciliare per gli anziani non esistevano alcuni anni
prima, così come non esistevano le residenze per utenti dei servizi di salute mentale
prima della chiusura degli ospedali psichiatrici, né le comunità di recupero per tossico-
20. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
19
dipendenti prima del boom dell’eroina negli anni ’70. In altri casi ancora, l’azione delle
quaderni di RESTORE 08
imprese sociali ha stimolato una risposta istituzionale all’esigenza, espressa da ampi
settori della collettività, di maggiore libertà nella scelta dei servizi, o di diversificazione e
qualità delle prestazioni.
Questi esempi sono richiamati per evidenziare come la crescita del terzo settore non sia
da ricercare prevalentemente nel contenimento della spesa pubblica, o nell’esternalizza-
zione dell’amministrazione pubblica, quanto nella capacità di organizzare una domanda
presente in modo diffuso nella società, cui in precedenza si offrivano risposte in termini
di welfare di prossimità, fatto di economia domestica o di reciprocità gratuita, per sod-
disfarla mediante soluzioni strutturate sotto il profilo imprenditoriale e professionale. Il
processo, in altri termini, si è connotato come mediazione dell’innovazione sociale e
suo trasferimento in ingegneria istituzionale, o, se si vogliono utilizzare altre categorie,
come imprenditorialità volta a colmare un “buco strutturale” dell’economia, in questo
caso pubblica.
I dati sulla crescita del settore no profit evidenziano come le politiche sociali possono,
a buon diritto essere oggi assunte, al pari del mercato, come produttrici di ricchezza e
di occupazione. Senza naturalmente assimilare i problemi sociali a quelli di mercato e
senza negare le specificità proprie delle politiche socio-assistenziali, occorre perseguire
con forza una “nuova via”. Quella che coniuga protezione sociale e solidarietà sociale da
un lato, con produzione di reddito e di nuove opportunità economiche dall’altro. Ma, di
nuovo, non nel senso di limitarsi a sommare le due cose, promovendo un po’ l’una e un
po’ l’altra. Ma nel senso di vedere le potenzialità di mercato, e quindi di lavoro, delle poli-
tiche sociali. Data, infatti, una base di interventi per loro natura “fuori mercato” e destinati
a rimanere tali in quanto rivolti a soggetti in ogni caso esclusi dal mercato, una politica
autenticamente riformatrice non può fare a meno di cimentarsi con le sfide del mercato
a partire dal modo stesso di intendere gli interventi in campo sociale.
Non si tratta tanto di privatizzare, portando sul mercato gli attuali circuiti di previdenza,
assistenza e di cura; quanto di dare un maggior potere di selezione e di spesa ai diretti
interessati, favorendo le forme di mutualismo e di condivisione che possono nascere
“dal basso”.
L’obiettivo fondamentale è quello di sostenere più alti livelli di socialità avviando azioni
di economia solidale (di welfare mix) che sappiano riconciliare i valori dell’imprenditoria-
lità e della solidarietà. In altri termini, un “progetto per il sociale” non solo finalizzato a
raccogliere le “vittime della competitività”, ma orientato a ridurre le barriere tra risorse
(finanziarie, umane, organizzative) per una progettualità sociale capace di valorizzare il
ruolo e l’impegno del terzo settore, che, unendo solidarietà e imprenditorialità, genera
occasioni di lavoro e flessibilità.
La qualità dei servizi di previdenza, assistenza e di cura può crescere, a costi contenuti,
se si mettono in campo capitali personali e reti relazionali capaci di rispondere a bisogni
complessi, con una sensibilità e una dedizione che spesso devono eccedere la pura
convenienza economica.
Sfruttando il meccanismo della socialità e della comunità, le cooperative sociali rappre-
21. 20
quaderni di RESTORE 08
sentano i luoghi in cui la gente ritrova il gusto di auto-organizzarsi per trovare, in termini
autoimprenditoriali, una risposta ai propri bisogni. L’impresa sociale di comunità punta,
infatti, a rendere imprenditoriale il sociale, tradizionalmente considerato improduttivo, a
trasformare in ricchezza risorse e culture inutilizzate o spesso trattate come costi.
La ricchezza presente nel sociale, e generalmente considerata improduttiva, è compo-
sta di quattro risorse essenziali:
> risorse umane inutilizzate, ossia quella rilevante quota di cittadini costituita da di-
soccupati, immigrati, malati, carcerati, alcolisti e tossicodipendenti, ufficialmente non
esclusa dal lavoro, ma nei fatti tagliata fuori ciclo della produzione;
> culture d’impresa, competenze e conoscenze escluse dalla produzione. Ci riferiamo
a quelle capacità di invenzione e di rischio espresse dai mondi ‘marginali’ e neu-
tralizzate, costrette a vivere in ghetti, o a sopravvivere negli interstizi dell’economia
informale;
> risorse pubbliche inutilizzate, come edifici pubblici, beni culturali e ambientali abban-
donati a se stessi o, peggio, sottoposti ad azione volontariamente corrosiva, ma an-
che le piazze o i giardini trasformati in terre di nessuno;
> risorse pubbliche, come quelle assistenziali e quelle legate alla formazione e alla am-
ministrazione, trattate come costi.
Queste risorse sono ritrattate dall’impresa sociale di comunità e trasformate da costi in
ricchezza e patrimoni pubblici. Ciò avviene, quando il soggetto cui è rivolto un servizio è
coinvolto nella sua progettazione, o quando il territorio è attivato, sollecitato a partecipa-
re, a fornire proposte, sviluppare idee.
Quando il welfare di prossimità non tiene più e quanto alla spesa pubblica da sola non
basta, le cooperative sociali si posizionano in mezzo. Attualizzano l’azione di comunità,
pur avendo presente che, come avverte lo storico inglese E. Hobsbawn,10 “mai il termine
comunità è stato usato in modo tanto insensato come nei decenni in cui le comunità
nel senso sociologico del termine sono diventate sempre più difficili da trovare nella vita
reale”.
Comunità è una parola pesante in una società che celebra come mito e rito l’individua-
lismo compiuto. Ma così nascono le cooperative sociali. Rispondono ad un bisogno di
comunità, in assenza della comunità. Ciò porta la riflessione alla questione più grande
del fare società, che non è solo questione sociale.
2. La comunità locale come risorsa di sviluppo
Il mondo delle cooperative sociali coniuga in modo nuovo due meccanismi antichissimi,
precapitalistici: il meccanismo della solidarietà sociale che rimanda alla teoria del dono, e
il meccanismo cooperativo-mutualistico che ha infrastrutturato il passaggio delle società
10
E. Hobsbawn, The age of extremis, cit. in Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma, 2001.
22. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
21
locali dall’economia agricola all’economia industriale. Oggi questi meccanismi rappre-
quaderni di RESTORE 08
sentano il massimo della modernità. Certamente non bisogna riproporre il passato, ma
si deve ricordare che gli elementi di auto-organizzazione del sociale hanno le loro radici
nel passato.
Nella realtà trentina, le teorie del dono rimandano ad un mondo agro-silvo-pastorale,
dove il donare una mucca a chi l’aveva persa permetteva di conservare l’equilibrio e la
sopravvivenza della comunità stessa, dove la manutenzione del territorio era garantita
delle antiche regole degli usi civici e dove l’economia era infrastrutturata da micro au-
tonomie funzionali d’uso collettivo quali la segheria, la cantina, il macello, o il caseificio
ternario. Un’attitudine ad auto-organizzarsi attorno ai propri bisogni che dava luogo a
istituzioni di comunità come sono ad esempio, ancora oggi nei paesi trentini, i vigili del
fuoco volontari o il consorzio elettrico comunale.
Il mercato nello sviluppo capitalistico agli albori del ‘900 creò un vuoto di socializza-
zione: distrusse la vecchia economia, l’agricoltura, la famiglia patriarcale. Non riuscì a
dare una risposta ai bisogni della gente, compresi i bisogni delle persone e dei territori
collocati alla periferia del nuovo sistema industriale in formazione. Il vuoto di socializza-
zione divenne allora il terreno di sviluppo di un’alternativa possibile, ovvero della forma
di impresa cooperativa.
Mutue, cooperative, leghe ed associazioni condividevano un obiettivo fondamentale:
fornire beni e servizi al minor costo possibile, per servire l’interesse reciproco dei membri
della comunità e, in senso più ampio, garantire un servizio d’interesse comune che lo
Stato era ancora lungi dall’assicurare. Nascono i circuiti mutualistici del credito, della
previdenza e della tutela contro le malattie. Nascono le cooperative di consumo. Nasce
un fiorente movimento di cooperative agricole e di cooperative di produzione. E, insieme
a queste imprese, nasce un movimento cooperativo che fa da collante e da guida alle
singole iniziative.
Lo sviluppo trentino si è tradizionalmente formato sulle reti corte della comunità e del-
l’identità locale, e la dimensione cooperativo-mutualistica costituisce uno dei fondamen-
ti dello sviluppo socio-economico trentino dove gli alti livelli di coesione sociale hanno
tradizionalmente alimentato i processi di crescita economica delle comunità locali.
Le piccole reti corte identitarie e comunitarie si sono evolute dolcemente in rapporto con
la modernizzazione. Si è reagito alla modernità che veniva avanti spostando verso l’alto
il baricentro identitario e comunitario passando dalla comunità di paese alla comunità di
valle per poi evolversi verso un’identità di provincia autonoma.
È in questa transizione che si sviluppa il sistema cooperativo che fa sistema del piccolo
agricoltore portandolo a produrre latte, formaggio, mele, miele, piccoli frutti in forma
cooperativa. Così come le pro-loco sono state nei fatti i primi motori locali di quella
economia del turismo e dell’intrattenimento che realizza una rete di accoglienza in grado
di reggere la modernizzazione turistica, il sistema delle banche di credito cooperativo
è diventato l’autonomia funzionale di valle che accompagna quel mix tra attività delle
famiglie, attività agricola, attività turistica e cooperazione diffusa.
Oggi, anche in una situazione come quella trentina, relativamente protetta dallo statuto
23. 22
quaderni di RESTORE 08
di autonomia, la globalizzazione si fa sentire e mette sotto sforzo le società locali. I mu-
tamenti riguardano i processi materiali di creazione del valore economico e dunque le
strutture economico produttive, ma anche il ruolo e il sistema delle relazioni degli attori
che alimentano le forme di convivenza sulle quali si è storicamente fondato lo sviluppo
locale del Trentino.
Il conflitto che ne nasce non è solo connesso alla diffusione di modelli di consumo e di
organizzazione del territorio omologanti, ma anche al fatto che la globalizzazione porta ine-
vitabilmente con sè un aumento del clima competitivo capace di spiazzare economie locali
e modelli produttivi che non hanno saputo sviluppare quelle competenze distintive che con-
sentono di trovare spazio e ruolo nei processi di modernizzazione economica e sociale.
Per governare i processi di modernizzazione e globalizzazione è fondamentale, oggi
come allora, ripartire dalle comunità locali, avendo chiaramente presente che di fronte
a processi di innovazione economica e istituzionale che vengono calati dall’alto, molte
società locali fanno fatica a metabolizzare la modernità che avanza. In molte realtà locali
emerge una sorta di “malessere antropologico” determinato da due categorie tipiche
della modernità:
> da una parte lo sradicamento, il sentire venir meno le proprie radici identitarie, comuni-
tarie, sostituite da modelli sociali, culturali e di uso del territorio, spesso omologanti;
> dall’altra lo spaesamento, il sentirsi letteralmente “senza più paese”, di fronte a pro-
cessi di erosione dei beni pubblici, ai processi di spopolamento ed invecchiamento
della popolazione.
Emerge quindi spesso un atteggiamento di “localismo”, che è in parte generato da timori
per i troppo rapidi processi di modernizzazione, ma che in larga misura si appoggia an-
che su solide e perfettamente comprensibili esigenze di mantenere le proprie tradizioni,
la qualità del proprio territorio, la qualità delle relazioni sociali che caratterizzano ancora,
in queste aree, la dimensione comunitaria.
Questa domanda di “localismo”, o se vogliamo di autogoverno dei propri processi di
sviluppo da parte delle comunità locali, va adeguatamente interpretata, accompagnata
e valorizzata nell’ambito delle politiche di sviluppo locale.
Iniziative come i Patti territoriali realizzati in Trentino, ma anche altre iniziative più o meno
istituzionali di coinvolgimento delle comunità locali su alcune grandi scelte strategiche di
sviluppo, evidenziano come nelle comunità locali trentine vi sia ormai una consapevolez-
za generalizzata che assumere la modernità come riferimento per le proprie strategie di
sviluppo, non significa negare la tradizionale identità di un territorio; al contrario, un’iden-
tità locale forte è oggi il presupposto per stare nella modernità.
Si sta nella globalizzazione se si hanno competenze distintive, riconoscibili, difficilmente
riproducibili e banalizzabili, capaci di produrre valore aggiunto nelle reti globali. Vi è la
consapevolezza che modernizzazione non significa necessariamente compromissione
dell’ambiente e dei rapporti sociali, al contrario è possibile osservare:
> come la qualità di un territorio sia un bene considerato sempre più prezioso anche sul
piano economico, molte realtà territoriali e imprenditoriali hanno imparato a fare della
qualità ambientale un proprio vantaggio competitivo ed un’opportunità di business;
24. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
23
> come i meccanismi di coesione sociale, di identità locale e la vivacità della cultura
quaderni di RESTORE 08
locale siano considerate una precondizione essenziale per sviluppare offerte e com-
petenze distintive e nel determinare, di conseguenza, l’efficienza e lo sviluppo del
territori montani, in un’ottica di modernizzazione sostenibile.
Nelle economie locali delle tante valli trentine, hanno ormai preso corpo culture dello
sviluppo che pongono il territorio e la sua qualità al centro dei propri processi di crescita,
sono cresciuti interessi economici fondati su una duplice specializzazione: geografica
da un lato, ed economica dall’altro. Il che, sempre più spesso, si traduce in politiche di
qualità dei prodotti, della vita e dell’ambiente circostante e in una declinazione di questi
aspetti in tutti i settori di attività economica e sociale (turismo, agricoltura, agroalimenta-
re, industria, servizi sociali).
Chiaramente, le comunità locali trentine non sono tutte uguali, esprimono differenti ca-
pacità di raccordarsi con la moderna economia dei flussi.
Sul territorio troviamo comunità depotenziate dove i flussi della modernizzazione si ma-
nifestano attraverso l’erosione di beni pubblici e fenomeni di spopolamento. Qui la do-
manda di sviluppo si esprime principalmente attraverso il mantenimento del reticolo
locale che consente di fare comunità (il mantenimento del negozio11 o del bar di paese,
di un minimo di struttura sanitaria, della scuola, di piccole autonomie funzionali locali
quali la latteria, il macello, la cantina sociale). Solo in alcuni casi la comunità locale è in
grado di darsi quel minimo di organizzazione interna per tentare di valorizzare alcune
potenzialità inespresse, principalmente in campo turistico, agricolo, artigiano (un po’ di
agriturismo, un prodotto locale, un bene ambientale o culturale da valorizzare).
Sul territorio troviamo poi comunità inerziali. Sono le comunità collocate ai margini dei
flussi, quelle che soltanto indirettamente sono toccate dai processi di sviluppo che inte-
ressano territori contigui o poli di sviluppo da cui queste comunità sono dipendenti (ad
esempio i territori che gravitano maggiormente sulle aree urbane o che sono prossimi
ad aree di forte sviluppo turistico). Il problema dello sviluppo per queste comunità è
connettersi a quei flussi che le coinvolgono solo in maniera tangenziale. La domanda
di territorio si esprime a volte rivendicando quelle infrastrutture che potrebbero consen-
tire un’integrazione con vicini poli di sviluppo (a seconda i casi: la strada, l’impianto di
risalita, l’area artigianale o servizi e funzioni urbane qualificate…) altre volte sviluppando
conflittualità per le esternalità che si è costretti a subire (a seconda i casi: traffico, inqui-
namento, seconde case, quartieri dormitorio…). Anche queste realtà a volte faticano a
strutturare forme coalizionali e progettualità locali forti, prevalentemente per il fatto che
le proprie risorse strategiche sono assorbite dai vicini poli di sviluppo.
Sul territorio troviamo poi comunità operose, ovvero realtà territoriali in cui gli attori locali
sono reattivi alle sollecitazioni dei flussi. In queste aree il problema consiste nell’innesca-
re processi di sviluppo capaci di fare rete corta di territorio per sviluppare poi rete lunga
di mercato. Emblematiche sono quelle realtà locali trentine che fanno patto territoriale,
11
Si veda il caso di Carzano.
25. 24
quaderni di RESTORE 08
distretto, filiera produttiva. La domanda di territorio è funzionale alla valorizzazione di
specificità locali e all’integrazione del sistema locale. Ciò significa che la montagna, il suo
ambiente, le sue tradizioni, la sua agricoltura, il suo artigianato costituiscono un’unica of-
ferta. Specificità geografica e specificità economica diventano indistinguibili. La monta-
gna è un unico prodotto e come tale viene promosso. Le progettualità in questi contesti
si sostanziano con un intreccio di fattori di sviluppo sia materiali che immateriali e a volte
giungono a delineare anche forme di autogoverno e di proiezione esterna delle proprie
dinamiche di sviluppo (associazioni e unioni di comuni, agenzie di sviluppo, politiche di
sviluppo integrato e sostenibile, azioni di marketing territoriale, politiche distrettuali e di
filiera12, la creazione di multiutilities dei servizi13, di marchi di territorio,….).
Sul territorio troviamo, infine, comunità “glocali”. Il riferimento è a quegli attori e a quei
territori montani che hanno già elaborato un proprio rapporto con la globalizzazione (in
Trentino il riferimento può essere fatto all’area metropolitana di Trento e Rovereto e ai “di-
stretti” turistici più affermati). Qui il tema dello sviluppo è l’efficienza delle reti che connet-
tono il locale con il globale. Queste comunità glocali si costruiscono attorno a qualche
“autonomia funzionale”, dando a questo termine un’accezione ampia, comprendente
tutte quelle strutture che hanno come mission la gestione dei flussi:
> i flussi di merci e persone che rimandano alle questioni delle grandi infrastrutture, delle
piattaforme logistiche, ma anche al tema delicato dell’immigrazione e dei modelli di
accoglienza14;
> i flussi di sapere, informazione, competenze che rimandano alle questioni dell’univer-
sità, della formazione, dei poli tecnologici, dell’innovazione, dei nuovi lavori cognitivi;
> ci sono poi i flussi finanziari che rimandano all’ingresso di grandi gruppi bancari su
questo territorio, al processo di aggregazione delle Casse Rurali, al ruolo delle fonda-
zioni bancarie e private a supporto dello sviluppo locale15;
> i flussi turistici che rimandano alla crescita di un’articolata economia dell’intratteni-
mento16.
Si potrebbe continuare…. Qui il problema dello sviluppo è fare in modo che i flussi non
sorvolino il territorio o, ancor peggio, vi atterrino con pure logiche di sfruttamento desta-
bilizzando le forme di convivenza consolidate a livello locale. Il tema è come elaborare un
rapporto con la globalizzazione che veda un protagonismo forte degli attori locali e che
sia capace di arricchire e valorizzare la dimensione locale.
I sistemi locali trentini letti attraverso le categorie dei flussi e delle identità locali disegna-
no una geografia articolata, con differenti problematiche e strategie di sviluppo locale.
È fondamentale che le politiche di sviluppo locale sappiano accompagnare, in modo
integrato, tutte queste diverse dimensioni comunitarie, identitarie, territoriali e che si
12
Si vedano i casi delle Giudicarie e di Lavis.
13
Si veda il caso di Tres.
14
Si veda il caso di Trento Nord.
15
Si veda il caso di Prabubolo.
16
Si vedano i casi della Val di Non e della Val di sole.
26. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
25
fondino sulla consapevolezza che, a fronte dei processi di apertura connessi ai processi
quaderni di RESTORE 08
di globalizzazione, le realtà locali appaiono sempre più come un bacino entro cui le virtù
della cittadinanza hanno modo di diventare risorsa di sviluppo economico e moltiplica-
tore di benessere.
Un accettabile grado di coesione sociale, intesa come dotazione di beni relazionali e
virtù civiche, costituisce non solo un patrimonio delle forme di convivenza, ma anche un
fattore di competitività del tessuto economico.
Le categorie di identità e comunità locale, in rapporto ai processi di modernizzazione,
possono fornire un’importante chiave di interpretazione dei diversi contesti locali per
impostare politiche di sviluppo che, da un lato, sappiano valorizzare gli elementi di mo-
dernizzazione sostenibile presenti nelle realtà locali, anche in quelle considerate margi-
nali, e dall’altro, valorizzino il ruolo ed il protagonismo delle comunità locali nella piena
applicazione del principio di sussidiarietà e di autodeterminazione dei propri percorsi di
sviluppo.
La costruzione di reti di coesione sociale, economica ed istituzionale è la specificità del-
l’impresa sociale di comunità. Una specificità che si esprime nella capacità di costruire
comunità artificiale a fronte della dissoluzione della comunità originale indotta dai pro-
cessi di modernizzazione.
In tal senso, la cooperativa sociale di comunità rappresenta una sorta di ritorno alle
origini – ma anche un elemento di innovazione - nell’ambito del movimento coopera-
tivo. Un movimento cooperativo in grado di recuperare, attualizzandolo, il programma
originario di rifondazione del rapporto tra cittadinanza e statualità, fondato su elementi
di protagonismo dal basso, sull’intreccio tra volontariato e professionismo sociale, sulla
produzione di reti di autogoverno delle comunità.
3. L’attualità del modello cooperativo: fare comunità nella modernizzazione
Durante la lunga stagione fordista, che ha caratterizzato la seconda metà del secolo
scorso, l’organizzazione sociale è stata garantita dalle capacità di integrazione della
grande impresa e della pubblica amministrazione (welfare). Le capacità di collaborazione
e integrazione dal basso espresse dal movimento cooperativo hanno trovato una pro-
pria nicchia importante, sia sul piano economico, sia sul piano sociale, ma comunque
relegata a culture politiche (bianca o rossa) e realtà territoriali (Trentino, Emilia Romagna,
Toscana,….).
L’organizzazione fordista suggeriva ai portatori di bisogni (consumo, welfare) e di risorse
(lavoro, competenze, risparmio) la soluzione della delega alle grandi tecnostrutture del-
l’impresa e della pubblica amministrazione: una soluzione comoda, priva di rischi (appa-
renti), e tale da incentivare il disinteresse per le relazioni sociali e per il significato politico
delle stesse: tutte cose delegate, anch’esse, ai professionisti della rappresentanza e ad
amministratori competenti.
La grande impresa fordista assumeva su di sé il rischio, forte delle sue capacità di con-
27. 26
quaderni di RESTORE 08
trollo e di negoziazione schermando i suoi contraenti: esentava dal rischio il lavoratore
dipendente cui era garantito un posto di lavoro, una professionalità, una vita remunerata
al servizio dell’azienda; toglieva le castagne dal fuoco allo Stato, cui era garantito un
flusso crescente di entrate per alimentare i servizi di welfare. Il welfare era pubblico,
garantito, universale: un diritto soggettivo.
Il lavoro dipendente si proponeva come “classe generale” e dunque rappresentante
anche di quel lavoro autonomo, indipendente, atipico che – in quanto lavoro – poteva
essere differente solo in superficie, ma doveva avere, si supponeva, gli stessi bisogni, le
stesse capacità, le stesse tutele del lavoro dipendente. La grande impresa pretendeva
per sè tutto il palcoscenico della teoria e della pratica, lasciando alla piccola impresa
ruoli di comparsa o poco più.
Poi qualcosa è saltato: le grandi organizzazioni fordiste si sono spogliate dei rischi as-
sunti in precedenza, riportandoli sulla società, ovvero su tutte le persone. Le grandi
imprese hanno cominciato a dimagrire, mentre la quota occupazionale nelle piccole
imprese è cresciuta. Il lavoro dipendente è entrato in sofferenza, mentre i nuovi lavori
sono in grande maggioranza fuori norma. Il welfare pubblico e universale ha cominciato
a scricchiolare, lasciando spazi crescenti ai privati, al volontariato, a forme mutualistiche
di azione. Tutto è posto a rischio, e tutto deve dunque trovare una nuova normazione.
Oggi, sono sempre più numerosi i singoli e i gruppi che si sentono, consapevolmente o
inconsapevolmente, “orfani del fordismo”. Curiosamente questa categoria comprende
anche chi, come il sindacato, vedeva l’ordine fordista come controparte da contrastare
e costringere alla trattativa. La scena politica si divide oggi tra un neofordismo conserva-
tore che cerca di difendere tutto il difendibile ed un postfordismo fondamentalista, che
usa la clava del mercato, della deregulation e della tecnologia per scompaginare l’ordine
fordista, però senza preoccuparsi di ricostruire un nuovo ordine, dotato di senso, al
posto della casa fordista demolita.
Il venir meno delle garanzie offerte dalle tecnostrutture ha cominciato a cambiare gli at-
teggiamenti delle persone, perché ciascuno percepisce che non basta farsi rappresen-
tare da qualche partito o da qualche sindacato ad un tavolo di trattative aperto presso
lo Stato o presso la grande impresa che tutto controlla e tutto garantisce. Lavoratori,
consumatori, imprenditori, risparmiatori, cittadini si trovano sempre meno “protetti” dai
sistemi esperti (tecnostrutture pubbliche e private) e comprendono che bisogna diventa-
re più autonomi e più intelligenti per gestire i propri rischi, senza delegare troppo.
Si diffonde la consapevolezza che bisogna darsi da fare per trovare risposte auto-orga-
nizzate al rischio incombente e diffuso. Man mano che il rischio si diffonde, ci si rende
conto del fatto che i diversi rischi che gravano su una persona non possono essere
più affrontati individualmente. La strada maestra è dunque quella di assumere rischi in
comune in maniera consapevole. È di nuovo il momento della condivisione auto-orga-
nizzata.
Nel momento stesso in cui si ha una condivisione consapevole dei rischi comuni, si sta
facendo cooperazione: ci si dota di forme di condivisione auto-organizzata e volontaria
per affrontare bisogni comuni e per valorizzare risorse che possono meglio rendere se
28. L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ: DALLA DEFINIZIONE ALL’AZIONE
27
utilizzate insieme. La condivisione auto-organizzata e volontaria non è soltanto a carat-
quaderni di RESTORE 08
tere mutualistico, ma ha un aspetto imprenditivo: ci si imprenditorializza insieme per con-
dividere le perdite e i profitti di attività dall’esito incerto. Che poi, questa imprenditorialità
condivisa prenda la forma di società a responsabilità limitata, di società cooperativa o di
un’associazione no profit è semplicemente un aspetto di tecnica giuridica.
La ri-diffusione del rischio nel corpo sociale promette di aprire una stagione di speri-
mentazione e di ricerca delle forme più adeguate per gestire i rischi in modo condiviso,
sociale. È una stagione in cui comunità vecchie e nuove possono rinascere dal basso,
acquistando peso e spessore dopo essere state de-potenziate dalla concorrenza del
welfare fordista, e in cui comincia nuovamente a contare – per avere accesso ai circuiti
comunitari – la partecipazione diretta delle persone, la condivisione di una visione del
mondo o di progetti da realizzare, l’assunzione di responsabilità collettive.
È questo il grande spazio in cui la cooperazione può ritrovare di nuovo un vento a fa-
vore: quando molte persone, abituate a una logica individualistica, prendono coscienza
dell’importanza dello stare insieme, in quel momento l’orologio della storia comincia di
nuovo a battere le ore della cooperazione.
Per accompagnare questo processo non è sufficiente “trattare” con lo Stato per ot-
tenere più occupazione, più welfare e più servizi, ma diventa fondamentale favorire lo
sviluppo delle condizioni sociali di self-employment, dei servizi universali che “abilitano”
le persone a crescere e rischiare, e delle comunità in cui diventa possibile condividere
bisogni e risorse.
L’impresa sociale di comunità ha spazi crescenti di progettazione e sperimentazione di
processi di integrazione e coesione sociale nuovi, per l’elaborazione di nuove forme di
rappresentanza, ed anche di nuove istituzioni postfordiste. Contrariamente a quanto
pensano e dicono i fondamentalisti del postfordismo, non abbiamo semplicemente bi-
sogno di meno istituzioni e di meno regole. Abbiamo invece bisogno di nuove istituzioni
e di nuove regole.
In tal senso, l’impresa sociale di comunità è uno strumento che consente di ricostruire
dal basso le istituzioni e le organizzazioni che servono per rispondere ai bisogni. Avendo
presente che la ricomposizione dei bisogni e degli interessi ha perso i suoi automatismi.
Oggi ci si deve mutualizzare tra diversi, non esiste più la comunità naturale di riferimento,
non esiste più la comune condizione operaia (industriale o agricola) di un tempo, manca
l’accezione del lavoro come principio ordinatorio del sociale. Il lavoro si pone oggi all’in-
terno di un’altra prospettiva: quella di un capitalismo personale che, andando oltre l’oriz-
zonte individualistico in cui fino ad oggi è cresciuto, comincia a risocializzare l’economia
degli investimenti personali, recuperando il senso collettivo del lavorare e del produrre.
Il mutualismo deve oggi entrare in relazione con la nuova composizione sociale e le
nuove forme di lavoro, sia attraverso l’innesto di nuove pratiche su quei soggetti della
società di mezzo che hanno mantenuto viva e sviluppato la tradizione nascosta del
mutualismo (credito cooperativo, fondazioni bancarie e private, cooperazione sociale,
volontariato, mutualismo del capitalismo molecolare, etc.), sia attraverso le carsiche vie
dell’auto-organizzazione dei nuovi soggetti sociali.
29. 28
quaderni di RESTORE 08
4. L’impresa sociale nell’epoca del “capitalismo personale”
Durante la lunga stagione fordista lo “stare insieme” e il “lavorare insieme” non sono af-
fatto usciti dall’agenda politica o dalle possibilità del vivere quotidiano. Il riferimento non
lo troviamo tanto o solo nel mondo della cooperazione, che per quanto importante non
ha certo svolto un ruolo egemone (perlomeno a livello nazionale), ma nel sorgere e nel
rapido svilupparsi di forme di capitalismo personale che si sono proposte come alterna-
tiva praticabile – e spesso vincente – rispetto al modello fordista della grande impresa.
Nei distretti industriali, ad esempio, centinaia di imprese e migliaia di persone hanno
imparato a “stare insieme” e a “lavorare insieme”. Magari diffidando l’uno dall’altro, sal-
vo riconoscersi nelle virtù ideali del comune territorio. Nelle catene di fornitura, terzisti
e committenti imparano a lavorare in rete, mettendo insieme ordini e rischi, capitali e
competenze.
L’organizzazione sociale non ha cessato di esprimere forme di integrazione a base ter-
ritoriale in cui persone, imprese, interessi diversi si ingegnano a mettersi in rete, a fare
del rapporto con l’altro una risorsa produttiva. L’esperienza della piccola impresa ha
mostrato come sia possibile lavorare in un altro modo, ossia dando potere, intelligenza
e responsabilità a chi è direttamente a contatto con i problemi ed a chi è direttamente
interessato a risolverli, evitando al tempo stesso di frammentare gli interessi e le già
scarse energie dedicate ai problemi.
Il capitalismo personale, quello di una piccola azienda appartenente ad un distretto, dei
lavoratori autonomi di seconda generazione, dei lavoratori atipici, dei nuovi lavorato-
ri della conoscenza, ha caratteristiche straordinariamente simili a quelle di un’impresa
cooperativa:
> Si tratta di una forma di auto-organizzazione. Il piccolo imprenditore non delega ad
altri il problema di trovarsi il lavoro, i clienti o i fornitori. Moltissimi neo-imprenditori si
sono “messi in proprio” perché non avevano un lavoro soddisfacente come lavoratori
dipendenti, o perchè era l’unico modo di inserirsi nel mercato del lavoro; la neo-im-
prenditorialità, il mettersi in proprio nasce spesso da un bisogno di auto-organizzarsi,
per soddisfare un problema che il mercato, nel suo automatismo, non risolve in modo
soddisfacente.
> La condivisione a prima vista sembra essere un evidente elemento distintivo del socio
di una cooperativa e non del “capitalista personale”. In realtà nel capitalismo persona-
le ci sono molti elementi di condivisione. La piccola impresa, in Italia, non sarebbe mai
potuta diventare un’impresa moderna se avesse operato in modo isolato. Il piccolo
imprenditore non può essere moderno, quindi all’altezza delle sfide competitive, se
non appartiene a un circuito più grande. La vita dell’impresa dipende dalle dotazioni
di capitale cognitivo e capitale relazionale che è dato da forme di condivisione con
il sistema di subfornitura, con il territorio di cui fa parte, con la famiglia e le relazioni
personali.
> Mentre la condivisione realizzata dalle cooperative è volontaria, cioè implica una deci-
sione, una scelta personale, nel capitalismo personale questa condivisione è, in gran
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parte, involontaria (fenomeni di emulazione, contaminazioni e scambi di innovazione
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nella supply chain, diffusione di competenze a livello locale). E, anche nei casi in cui
è volontaria (consorzi, reti, distretti, comunità professionali), si organizza in modo da
dare luogo a soluzioni reversibili. I fornitori e i clienti restano di solito gli stessi e si
fidano l’uno dell’altro, rinnovando i contratti che li legano. Ma si tratta ogni volta di
una scelta che viene fatta daccapo, senza alcuna garanzia a priori di continuità e di
dipendenza reciproca.
Il capitalismo personale è oggi composto dagli artigiani, dai commercianti, dai piccoli
imprenditori, dai professionisti del lavoro autonomo. Ma anche dai lavoratori “della co-
noscenza” cioè quei lavoratori che investono su se stessi – sulla propria carriera pro-
fessionale – dentro e fuori le aziende. E poi da tutte quelle professioni nate intorno alla
New Economy e alle ICT. Infine, il lavoro autonomo di seconda generazione e il lavoro di
primo ingresso, comprendendo in questa categoria le forme di lavoro atipico, part-time
o temporaneo, le partite I.V.A., i collaboratori coordinati e continuativi ecc.
I capitalisti personali sono coloro che nell’intraprendere una propria attività vedono pos-
sibilità di affermazione soggettiva, di promozione di sé; non necessariamente la sempli-
ce emancipazione da uno stato di bisogno, ma la possibilità di affermare un progetto,
un’idea, un proprio disegno di realizzazione. In questo è messa inevitabilmente in gioco
la soggettività delle persone, i loro interessi, ma anche i loro gusti, gli orientamenti etici e
culturali e perfino gli affetti e le passioni.
Questa composizione sociale, che ha dato vita alle forme organizzate di capitalismo per-
sonale nei distretti industriali, nelle catene di fornitura, negli accentramenti metropolitani,
ha fatto propria l’istanza dell’auto-organizzazione, vicina agli ideali e alla tradizione del
movimento cooperativo; realizza forme di condivisione oggettiva che potrebbero, anche
queste, essere vicine alla logica della cooperazione. Ma rimane soggettivamente lonta-
no dallo spirito della condivisione volontaria, propria della cooperazione, perché non ha
perseguito la condivisione come orientamento personale e come criterio di interazione
sociale.
Oggi però le cose stanno cambiando. L’evoluzione del capitalismo personale, in epoca
postfordista, punta a rendere volontaria – e non più involontaria, spontaneistica – l’ade-
sione a forme di condivisione auto-organizzata. Gli attori del capitalismo personale co-
minciano a capire che se vogliono andare avanti nel loro sviluppo devono soggettiva-
mente non solo ammettere la condivisione, ma anche organizzarla, promuoverla, assu-
merla come bandiera a livello territoriale e di filiera produttiva. Dopo aver avuto i vantaggi
imprevisti e non programmati dello stare insieme, cominciano a pensare e a credere a
forme condivise di azione, valutate ex ante e vincolanti nelle prospettive future.
Le forme che cominciano ad essere trovate per sviluppare piani di investimento di in-
teresse comune e per assumere rischi condivisi non sono troppo differenti – almeno
nello spirito – da quelle che hanno caratterizzato in passato il movimento cooperativo:
anche adesso si tratta di rendere collettivi i bisogni e di valorizzare insieme le risorse di
ciascuno.
Anche se le forme destinate a svolgere ruoli di comune interesse possono assumere una
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forma privatistica (consorzi, associazioni, gruppi di impresa, comunità professionali, ac-
cordi di filiera, piani di distretto, patti territoriali, nuove strutture di rappresentanza, ecc.)
la loro costituzione materiale richiama un fine mutualistico di reciproco riconoscimento,
di condivisione dei rischi e dei fini, di partecipazione ad un tessuto sociale che si dota
delle risorse di cittadinanza necessarie per abilitare le forze dei singoli, consentendo loro
di diventare capitasti personali competitivi, non destinati all’estinzione, all’esclusione o
alla marginalità.
Oggi, l’investimento a rischio sulle proprie capacità professionali è una pratica neces-
saria per accedere al mercato del lavoro e di conseguenza sempre diffusa a tutti i livelli
e in tutti i ruoli dell’organizzazione sociale. Questo impone l’attivazione di politiche che
promuovano la cultura di impresa e l’autoimprenditorialità come mezzi di inclusione so-
ciale, focalizzandosi in particolare sull’individuo: sulle sue competenze, responsabilità,
diritti, autonomia, capacità di assunzione del rischio. Nel capitalismo personale l’attività
economica propriamente intesa si confonde con la vita personale e da questa in certa
misura finisce per dipendere. Le nuove forme del lavoro portano nella sfera produttiva
e rendono rilevanti – dal punto di vista immediatamente produttivo – bisogni di welfare
inerenti alla vita privata, cui i nuovi lavoratori devono trovare risposta pena la riduzione
del tempo lavoro disponibile per la produzione o la riduzione della motivazione con cui ci
si impegna nella carriera professionale.
Il welfare diventa in tal senso, un fattore produttivo, una “risorsa abilitante” che consente
alle persone di rispondere efficacemente alle esigenze produttive perché i servizi di wel-
fare danno loro un retroterra adeguato alla copertura dei loro bisogni di base. La casa,
la scuola per i figli, la mobilità, la salute, la qualità della vita, la previdenza e l’assistenza,
il rischio di un reddito che non può essere dato per sicuro, ma che non può lasciare
scoperta la famiglia che su di esso conta, sono problemi personali che intersecano la
vita lavorativa e imprenditoriale. È quindi dentro gli abiti della riproduzione sociale che
le onde lunghe delle trasformazioni sociali tendono ad innescare tentativi di risposta al
disagio della tarda modernità.
All’interno di questo discorso, il capitalismo personale può fornire nuove opportunità di
notevole interesse, perché non è solo un modello nuovo e originale di produrre. Rap-
presenta anche un fattore di inclusione sociale che merita la dovuta attenzione da parte
delle istituzioni pubbliche. Si pensi alle sempre più numerose imprese fondate e gestite
da immigrati extracomunitari. Abituati a pensare il lavoro degli immigrati solo in termini di
offerta a basso costo di forza-lavoro e di occupazione di posti che la manodopera ita-
liana non è più disponibile a ricoprire, ci troviamo ora a fare i conti con una generazione
di neo-imprenditori che nei settori più diversi produce e compete alle stesse condizioni
di tutti gli altri imprenditori. Al contempo, non possiamo più pensare il problema dell’in-
clusione solo in termini di politiche sociali a favore degli immigrati, replicando lo schema
che assimila l’extracomunitario all’indigente tout court.
Il capitalismo personale stravolge i termini del problema. Intanto l’esperienza di lavoro
autonomo consente un inserimento nel mercato del lavoro in attività non residuali e non
necessariamente giocate sulle variabili di costo. In secondo luogo, non diversamente
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che per gli imprenditori italiani, mobilita e sviluppa competenze lavorative e relazionali
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che sono tipiche del nuovo lavoro imprenditoriale. Tutto questo costituisce in sé un
potente meccanismo di integrazione nelle comunità locali che si fonda certamente sulla
ricchezza prodotta, ma anche sul riconoscimento delle capacità e sulla stima verso gli
sforzi compiuti per ricoprire la posizione di imprenditore. Infine, proprio queste risorse di
reddito e riconoscimento sociale sono suscettibili di allargamento oltre la cerchia dei di-
retti imprenditori beneficiari: i legami che questi ultimi intrattengono con le rispettive co-
munità immigrate possono innescare meccanismi imitativi ed emulativi tali da estendere
ad una platea più ampia di soggetti i benefici dell’inclusione sperimentata da alcuni.
Utilizzando il concetto di capitalismo personale, la rappresentazione dei bisogni e delle
opportunità può essere organizzata con riferimento non ad una particolare categoria (il
lavoro autonomo) che si contrappone ad altre categorie; ma con riferimento ad un mo-
dello di sviluppo (il capitalismo personale) che, caratterizza l’economia italiana, identifica
un interesse di tipo generale, o meglio un terreno di azione in cui gli interessi di fondo
delle nuove forme del lavoro si intersecano con quelli del sistema generale.
Il capitalismo personale non è il terreno elettivo degli egoismi individuali temperati dagli
automatismi del mercato, ma, al contrario, è il contesto adatto per far crescere una
nuova rete di comprensione e di protezione sociale, da parte di coloro che corrono rischi
simili e sentono bisogni simili. Dai rischi e dal bisogno diffuso, nasce la forza – anche
produttiva – delle comunità che forniscono alle persone la solidarietà di un contesto
comunitario a base famigliare, amicale, locale, professionale, intellettuale.
Emerge oggi l’esigenza di accompagnare il processo di “imprenditorializzazione del la-
voro” con attività di animazione, sensibilizzazione e formazione alla cultura di impresa
volte a incrementare la dotazione di capitale umano (che è costituto dalle competenze,
dalle abilità, dalle capacità dei soggetti di assumersi il rischio di un’attività imprenditoria-
le) e con politiche coalizionali volte a rafforzare la dotazione di capitale sociale, ovvero il
patrimonio di reti e relazioni attivabili a fini produttivi (filiere produttive, forme consortili,
associative, cooperative, contaminazioni tra vecchia e nuova economia ecc.). Tali po-
litiche coalizionali dovranno creare, al contempo, un ambiente favorevole alla crescita
dell’imprenditorialità, facilitando l’accesso alle reti, ai saperi, ai servizi, all’innovazione, al
credito e favorendo il rapporto con la burocrazia e la concorrenza ecc.
Emerge l’esigenza di puntare sulla promozione di azioni finalizzate a garantire le pari op-
portunità, la diffusione del lavoro a tempo parziale e delle forme di integrazione del reddi-
to; la realizzazione di iniziative per la conciliazione tra vita familiare e vita professionale.
Emerge infine l’esigenza di rendere l’occupazione indipendente meno precaria, aumen-
tando il grado di autonomia dei soggetti e riducendo la dimensione del rischio e dell’in-
certezza. L’obiettivo è estendere le forme di tutela, garanzia e rappresentanza alle forme
di lavoro autonomo attualmente non coperte, attraverso la sperimentazione di nuove
forme locali di mutualismo e protezione sociale (previdenza, maternità, malattia ecc.).
La capacità dell’impresa sociale di rispondere a queste esigenze fa si che questa si
inserisca con un ruolo di protagonista nell’alveo del capitalismo personale. Anzi, essa
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stessa è un soggetto del capitalismo personale. Il lavoro nell’impresa sociale è per de-
finizione caratterizzato da elementi di auto-organizzazione e condivisione volontaria, un
lavoro ricco di soggettività, valori, passioni e relazioni, in cui le persone cercano un ruolo
nella società che sia profittevole, ma anche carico di significati e perciò un lavoro che
non soddisfa solo bisogni individuali, ma fornisce anche un ritorno valoriale per il senso
che gli altri gli attribuiscono.
Nel capitalismo personale si lavora comunicando, mettendo in gioco soggettività e valori
declinati sul piano, molto concreto, della comunicazione sociale. In tal senso il lavoro
nell’impresa sociale non è dissimile da quelle professioni che fanno della comunicazione
il principale contenuto di valore economico e lavorativo.
L’impresa sociale di comunità è uno dei nuovi attori che si presentano sulla scena pub-
blica disegnata dalla fine dello stato assistenziale. Un nuovo attore il cui profilo deriva dal
fatto di collocarsi sul discrimine tra diversi sistemi. Anzitutto, il sistema del Welfare, di cui
certamente ripropone le finalità di inclusione sociale e di tutela dei soggetti, in particolar
modo di quelli più deboli. In secondo luogo, il sistema del mercato, del quale condivide
le logiche di impresa che devono informare anche le nuove forme di inclusione sociale e
le forme di autosostentamento economico e finanziario.
Tuttavia, le profonde differenze dalle logiche dello Stato e del mercato risiedono nel fatto
che finalità e modalità d’azione dell’impresa sociale (di comunità) sono rappresentate
dalla costruzione del legame sociale. ovvero dalla costruzione delle reti di relazioni at-
traverso cui ricercare l’inclusione dei soggetti, il soddisfacimento di bisogni individuali e
collettivi di una comunità e l’autosostentamento dell’impresa.
5. Produrre senso (e responsabilità)
Auto-organizzazione significa costruzione del legame sociale e comunitario dal basso,
in base all’iniziativa delle persone che, al contrario di quanto fanno gli “individui” (isolati),
mettono in gioco il capitale sociale (il patrimonio di relazioni e di fiducia) di cui dispongo-
no. La ricerca di qualità implica la costruzione di reti sociali ed economiche che mettono
insieme, prima di tutto, il senso che le persone danno alle loro iniziative congiunte.
Condividere progetti assumendosene rischi e responsabilità significa, infatti, anche as-
segnare un senso alle cose, elaborare la propria identità, collocandosi in un campo di
possibilità non vincolato ai soli requisiti di efficienza economica. In queste scelte, che
riguardano il senso e il fine attribuito alle cose, torna ad essere importante il punto di
vista etico-culturale
L’impresa-comunità si legittima in base ad una ricerca di senso capace di motivare,
legare, mobilitare le energie personali di lavoratori, consumatori, risparmiatori, imprendi-
tori, cittadini intorno a disegni condivisi e a rischi assunti in comune. Oggi sempre più ciò
che tiene insieme l’economia è il senso delle cose, la ragione per cui le cose si fanno, il
loro significato. Questo vale per tutti i livelli dell’azione.
I lavoratori cercano un senso nel loro lavoro, in modo da poter esercitare la propria fun-