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Imprese a finalità sociale:
un’alternativa istituzionale per la
gestione dei servizi pubblici locali?
Colloquio Scientifico IRIS network
Brescia, 25-26 maggio 2012

Davide Dal Maso dalmaso@avanzi.org
Davide Zanoni zanoni@avanzi.org
Avanzi. Sostenibilità Per Azioni, 0230516023




Sommario
Introduzione ................................................................................................................................... 2
Ambito di riflessione ....................................................................................................................... 3
Valutazione critica della situazione attuale .................................................................................... 5
Proposta ......................................................................................................................................... 6
Condizioni abilitanti ........................................................................................................................ 9
Il caso della gestione dell’acqua, SPL per eccellenza ................................................................. 10
Riferimenti bibliografici ................................................................................................................. 11
Introduzione

L’articolo che qui presentiamo si inserisce nel dibattito sulla privatizzazione dei servizi pubblici
locali (SPL), per offrire un contributo alla ricerca e alla definizione di modelli alternativi di
gestione e di produzione di beni e servizi di interesse collettivo.
Il punto di partenza del nostro ragionamento è rappresentato dalla necessità di superare la
dicotomia pubblico-privato, provando ad immaginare un’alternativa istituzionale che tenga
conto sia dei bisogni e dei diritti delle comunità sia della necessità di efficienza e di efficacia
delle aziende di gestione. A nostro avviso il dibattito sulla riforma dei servizi pubblici locali è
ancora polarizzato su posizioni ideologiche che limitano la capacità di trovare soluzioni
innovative. Da un lato si ritiene infatti che la gestione dei servizi pubblici a scala locale debba
essere affidata al pubblico in quanto unico garante dell’interesse collettivo, dall’altro si
evidenziano i limiti della gestione pubblica e la necessità di privatizzare o di esternalizzare il
servizio per aumentarne qualità ed efficienza.
Obiettivo di questo contributo è quello di presentare un’alternativa ai modelli esistenti e
verificare se e in quali condizioni possa rappresentare una strada percorribile. Il modello che
intendiamo discutere è quello dell’impresa a finalità sociale e ambientale (IFS), così come
definito in precedenti pubblicazioni (Dal Maso, Zanoni 2011): le IFS sono aziende, esercitate
sia in forma di società di capitali sia cooperativa, in cui il rapporto tra scopi e vincoli è invertito
rispetto alla tipica impresa capitalistica. In altre parole, la funzione obiettivo è volta alla
generazione del valore sociale, essendo sottoposta al vincolo della sostenibilità economica.
Questa impostazione non preclude la possibilità di distribuire parte degli utili, ma riduce il
rischio che la massimizzazione del profitto diventi l’unico o il principale obiettivo di chi gestisce
l’impresa. Da questo punto di vista, il modello dell’IFS si differenzia dall’impresa sociale ex
d.lgs. 155/2006.
Il nostro sforzo, in sintesi, sarà quello di comprendere a livello teorico se le IFS siano
effettivamente in grado di assicurare il massimo beneficio per le comunità locali in condizioni
di efficienza gestionale, superando alcune imperfezioni di mercato (come per esempio le
asimmetrie informative) e bilanciando le conseguenze di alcune specifiche condizioni (come
per esempio le posizioni di monopolio naturale) tipiche dei SPL.
La tesi che vogliamo proporre non è che l’IFS possa funzionare sempre e comunque come
l’opzione migliore, ma verificare piuttosto in quali condizioni e per quali ragioni possa davvero
rappresentare un modello di riferimento.
Nel primo capitolo si definisce l’ambito nel quale andremo a sviluppare la nostra riflessione,
per ridurre le incertezze legate al concetto di servizio pubblico locale e specificarne le
caratteristiche fondamentali.
Nel secondo capitolo si discute l’evoluzione della gestione dei SPL negli ultimi decenni,
mettendo in luce alcune derive dell’approccio “pubblicistico” o “privatistico” come la
burocratizzazione e corruzione da un lato, e l’appiattimento sulle aspettative dei mercati
finanziari dall’altro.
Nel terzo capitolo si presenta l’impresa a finalità sociale e ambientale (IFS), concentrando la
nostra attenzione sull’allocazione dei diritti di proprietà e sulla governance di impresa quali
elementi fondamentali per conseguire l’allineamento tra gli interessi dei soggetti coinvolti
(fornitori di capitale, clienti/utenti, comunità locali).
Nel quarto capitolo si analizzano alcune condizioni di contesto che possono favorire la
creazione e lo sviluppo di imprese a finalità sociale soprattutto a scala locale, quali il civismo
delle comunità e il grado di prossimità al cittadino e utente del servizio.
Infine nel quinto capitolo si ripercorre la vicenda referendaria sulla tutela dell’acqua pubblica
per “verificare” in un caso concreto se il modello di impresa a finalità sociale possa
considerarsi una via di uscita percorribile.



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Ambito di riflessione

Il concetto di servizi pubblici locali (SPL), come anche del resto public utilities, non ha un
significato univoco e una precisa delimitazione. In origine, un servizio si definiva pubblico in
quanto esercitato esclusivamente e direttamente da un soggetto pubblico secondo modalità
indicate dalla legge. In seguito, questa impostazione soggettiva è stata superata da un
concetto oggettivo di pubblico servizio che lo qualifica in base alla sua rispondenza alla
pubblica utilità ed al pubblico interesse, a prescindere dal soggetto che lo esercita.
Ai fini del nostro ragionamento, adottiamo questo seconda impostazione: un servizio si
definisce pubblico non per la natura del soggetto che lo gestisce direttamente che può essere
pubblico o privato o multi-stakeholder, ma per il fatto di essere rivolto al pubblico e di avere
una finalità sociale, quella di soddisfare un bisogno individuale o collettivo.
Un ente gestore viene dunque valutato per la capacità di produrre in modo efficiente e alle
migliori condizioni possibili un servizio che per sua natura non è profittevole (o comunque non
può garantire ampi margini) ma che può generare alto valore sociale e ambientale. Ciò che
più conta dal nostro punto di vista è dunque la fornitura di beni essenziali per gli individui e la
collettività, a prescindere dalla natura dei soggetti coinvolti nella gestione. Questo perché
riteniamo che possano esistere dei modelli di impresa alternativi a quelli esistenti in grado di
essere sostenibili economicamente e di produrre allo stesso tempo servizi ad alto valore
sociale e ambientale.
Ancora, se prima il ragionamento era: servizio di utilità pubblica – fornitura pubblica versus
servizio commerciale – fornitura privata, la logica che guida il nostro ragionamento è
differente e ci porta a rispondere alla seguente domanda: quale istituzione può essere in
grado di fornire un servizio di utilità pubblica in modo economicamente sostenibile, senza
obiettivi speculativi, finalizzato alla creazione di valore sociale?
Un secondo elemento che aiuta a definire meglio l’oggetto della nostra analisi è la diretta
corrispondenza tra la responsabilità degli enti locali nella gestione dei servizi pubblici e la
promozione di utilità sociale. Questo legame è sancito anche nel testo unico sulle autonomie
locali (art. 112 della legge 267/2000) secondo cui gli enti locali, nell'ambito delle rispettive
competenze, provvedono alla gestione (diretta o indiretta) dei servizi pubblici che abbiano per
oggetto produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo
delle comunità locali. Ma la corrispondenza tra responsabilità e finalità sociale è ancora
verificata o nei modelli prevalenti esistono forze distorsive che tendono ad allentarla? La
responsabilità degli enti locali è ancora rivolta esclusivamente alla produzione di beni e servizi
a finalità sociale in grado di garantire il benessere della comunità locale?

Il concetto di SPL che andiamo ad investigare si basa dunque su due questioni rilevanti:
     - può esistere un’istituzione che si prefigge l’obiettivo di creare valore sociale tramite la
         fornitura di servizi pubblici locali e che sia sostenibile dal punto di vista economico
     - esiste ancora uno stretto legame tra responsabilità degli enti locali e benessere della
         comunità nell’offerta di servizi pubblici locali.

In termini più operativi, ci concentriamo su una categoria ristretta di SPL in parte coincidente
con i settori di attività delle public utilities: energia, servizi idrici, gestione rifiuti, trasporti locali.
Le public utilities non producono beni pubblici ovvero beni che è difficile, o impossibile,
produrre per trarne un profitto privato, ma forniscono beni privati che hanno due
caratteristiche opposte ai beni pubblici (come definiti dalle discipline economiche):
     - rivalità nel consumo - il consumo di un bene privato da parte di un individuo implica
         l'impossibilità per un altro individuo di consumarlo allo stesso tempo;




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-     escludibilità nel consumo - una volta che il bene pubblico è prodotto, è possibile
          impedirne la fruizione da parte di consumatori.
Tuttavia questi beni sono considerati essenziali per il benessere degli individui e della
collettività (valore sociale) e strategici in quanto rappresentano input per i processi produttivi
(valore economico). Ecco perché è necessario che i SPL abbiamo determinate caratteristiche
che massimizzino il valore sociale da un lato e il valore economico dall’altro.
In particolare ci riferiamo a:
     - efficienza economica / economie di scala
     - uso razionale delle risorse naturali / esternalità
     - qualità del servizio
     - prezzo / accessibilità / universalità

Ribaltando sul gestore tali caratteristiche possiamo delineare alcuni requisiti che un modello
di impresa nel settore dei SPL dovrebbe soddisfare:
     - produrre un servizio senza sprecare risorse economiche dunque essere efficiente
        (bilanciare il monopolio naturale)
     - considerare i costi e i benefici sociali e ambientali generati dall’attività di impresa
        (considerare le esternalità negative e positive)
     - favorire la convergenza di interessi tra proprietari e utenti (limitare le asimmetrie
        informative)
     - garantire l’accessibilità a tutti i cittadini
     - garantire la migliore qualità del servizio ad un prezzo (tariffa) contenuto.

Nella fornitura di servizi pubblici locali esiste la possibilità che l’industria si configuri come un
“monopolio naturale”. Questo significa che data l’esistenza di economie di scala legate a
fattori tecnologici o naturali, la funzione di costo è sub-additiva: per ogni dato livello di
produzione Q, il costo sostenuto da una singola impresa C(Q) è inferiore alla somma dei costi
sostenuti da più imprese per la produzione di entità frazionate di Q. In pratica, una sola
impresa è in grado di produrre a condizioni più vantaggiose rispetto a due o più imprese. La
presenza di economie di scala, in passato, era diffusa in quasi tutti i servizi pubblici, quali
l’energia elettrica, il gas, l’acqua, i trasporti, le telecomunicazioni. In pratica, in tutti quei servizi
dove esisteva una infrastruttura di rete distributiva che determinava elevati costi infrastrutturali
(fissi) e, di conseguenza, una riduzione dei costi medi al crescere del livello di produzione. A
seguito dei processi di liberalizzazione e di innovazione, in molti settori o fasi produttive non
esistono più economie di scala, dunque l’efficienza economica del monopolio non è più
verificata e altri assetti di mercato possono produrre lo stesso servizio a minori costi per la
società.
Un secondo requisito è legato ad un’altra causa di fallimento del mercato, vale a dire quella
costituita dalla presenza di esternalità positive o negative nella produzione di servizi pubblici.
Com’è noto dalla teoria economica, le esternalità sorgono quando i costi ed i benefici sociali
non coincidono con i costi ed i ricavi dell’impresa. Se i costi di produzione dell’impresa non
considerano anche gli eventuali costi sociali (per esempio l’inquinamento atmosferico dovuto
alla produzione di energia elettrica da combustibili fossili) sopportati da terzi o dalla collettività
in generale, si avrà un livello di produzione e un’allocazione di risorse non efficiente per la
società nel suo complesso. Allo stesso modo, la mancata considerazione dei benefici esterni
alla produzione determina una allocazione di risorse inferiore a quella efficiente. L’impresa
che abbiamo in mente dovrebbe adottare un sistema di valutazione della performance che
tenga conto dei costi e dei ricavi diretti ma anche dei costi e dei benefici sociali indiretti,
perché sia effettivamente in grado di assicurare il massimo beneficio per le comunità locali in
condizioni di efficienza gestionale.
Un altro requisito che dovrebbe avere un’impresa di produzione di servizi pubblici locali è
quello di favorire la convergenza di interessi tra proprietari e utenti. Uno dei fattori caratteristici
di questo mercato è infatti l’asimmetria informativa esistente tra regolatore e operatori:
l’attività di regolazione dovrebbe infatti controllare il comportamento da parte degli operatori,




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in mercati concorrenziali o monopolistici, per garantire un servizio di qualità al minor prezzo
possibile, ma sappiamo bene quanto questo possa risultare difficile. Se invece la proprietà
dell’impresa si avvicina quanto più possibile all’utenza, la corrispondenza tra il produttore, che
ha come obiettivo il recupero dei costi, e il consumatore che vuole ottenere un servizio di
qualità al minor prezzo, determina la convergenza di interessi contrapposti. In questo caso la
regolamentazione da parte dello stato non sarebbe necessaria.

Un elemento ulteriore da considerare è l’estensione del servizio per garantirne l’accessibilità a
tutti i cittadini: in quanto servizi essenziale, la pubblica amministrazione deve offrire o
richiedere una copertura universale e questa imposizione può risultare più agevole nel caso di
controllo diretto o di impresa singola (gestore unico) piuttosto che di concorrenza tra più
imprese. Tuttavia ciò che più interessa è sottolineare il fatto che un’impresa attiva nella
fornitura di servizi pubblici deve garantire un’offerta indiscriminata e soddisfare l’interesse di
tutta la comunità.

Infine il requisito della migliore qualità a tariffe contenute dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le
imprese attive nella fornitura di un servizio pubblico, dato che per definizione si tratta di attività
economiche che mirano a soddisfare quei bisogni così largamente avvertiti, da essere
considerati propri di una collettività. Ma naturalmente in regime di libera concorrenza questo
elemento necessita di una stretta regolamentazione, a meno che per sua natura l’impresa sia
in qualche modo vincolata alla creazione di valore sociale e ambientale prima ancora che alla
produzione di valore economico. E qui ci ricolleghiamo all’idea di fondo del nostro contributo,
ovvero che anche attraverso la libera iniziativa privata, realizzata in un mercato libero o
regolamentato, si possono produrre servizi di pubblica utilità, e che anche l’impresa possa
creare benefici sociali non come sottoprodotto ma come risultato perseguito di una missione
dichiarata.




Valutazione critica della situazione attuale

Il sistema dei SPL è passato nel tempo da una situazione iniziale in cui le amministrazioni
pubbliche garantivano questi servizi in prima persona a quello attuale, in cui la gestione è
trasferita in capo a società commerciali. In alcuni casi, porzioni più o meno ampie del capitale
di queste società sono state cedute a soggetti finanziari o industriali, o addirittura collocate sui
mercati, attraverso la quotazione in borsa. Il percorso è passato quindi attraverso due
passaggi fondamentali, che talvolta sono stati confusi parlando genericamente di
“privatizzazione”, ma che in realtà esprimono due elementi qualitativamente diversi: da un
lato, il passaggio da un veicolo di natura pubblicistica ad uno di natura privatistica
(privatizzazione delle forme); dall’altro, la vendita delle quote di capitale (privatizzazione della
proprietà).
La prima trasformazione rispondeva alla necessità di uscire dall’ambito della pubblica
amministrazione e di consentire, in questo modo, l’accesso a modalità di gestione più
efficienti – soprattutto nelle aree delle risorse umane, dell’amministrazione e della finanza,
delle forniture, ma anche, in alcuni casi, di quelle tecniche e commerciali.
La vera soluzione di continuità è però rappresentata dalla privatizzazione del capitale, che ha
finito inevitabilmente con l’influenzare la missione stessa delle imprese, che è passata dal
servizio al cittadino in condizioni di economicità alla creazione di valore per gli azionisti
attraverso la fornitura di servizi a dei cittadini. Questa situazione ha introdotto una divergenza
tra gli interessi e le aspettative degli attori coinvolti, che si è espressa in misura più o meno
forte a seconda della quota assegnata ad azionisti diversi dalle amministrazioni locali. Nei
casi in cui è intervenuta anche la quotazione in borsa, questa frizione si è ulteriormente
esacerbata.




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In altri termini, il mantenimento dei diritti di proprietà in mano pubblica ha contenuto la spinta
verso la ricerca dello shareholder value che potevano teoricamente derivare dalla natura for
profit del veicolo societario – per il fatto che azionisti e clienti, sia pure con qualche
mediazione istituzionale, di fatto coincidevano. Invece, con la privatizzazione del capitale,
questa identità è venuta a mancare e si sono create le condizioni per il potenziale conflitto.
Le cronache dei giornali locali registrano frequentemente polemiche tra cittadini,
amministratori locali e soggetti gestori per la qualità dei servizi o per il loro prezzo. A torto o a
ragione, il peggioramento della prima e l’aumento del secondo vengono collegati alla
necessità per le imprese di remunerare “qualcun altro”. La cosa è peraltro del tutto logica: chi
effettua un investimento con obiettivi di natura essenzialmente finanziaria sarà interessato a
massimizzarne il ritorno anche a scapito degli altri stakeholder (i lavoratori e, più ancora, i
clienti). In una situazione di monopolio naturale o di quasi-monopolio di fatto come quella in
cui vengono erogati i SPL, il gioco è piuttosto facile.
Naturalmente, attraverso il controllo delle tariffe o la definizione di standard di servizio, è
possibile limitare la possibilità per il soggetto gestore di perseguire gli obiettivi più cari agli
investitori finanziari, ma si tratta pur sempre di contenere una spinta “naturale”, che cercherà
di esprimersi, in un modo o nell’altro. Il tentativo delle amministrazioni locali di controllare i
comportamenti opportunistici dei manager, poi, è ostacolato dalla posizione di obiettivo
vantaggio che questi ultimi si trovano a ricoprire in termini di asimmetria informativa. Una volta
esternalizzata la gestione del servizio, le amministrazioni perdono un patrimonio di
conoscenza tecnica e gestionale, vengono escluse da flussi informativi determinanti e
rimangono confinate ai margini dell’esercizio dell’impresa. In queste condizioni, mancano
degli strumenti per valutare nel merito le strategie industriali e finanziarie e non possono che
limitarsi ad un ruolo di ratifica.
In alcuni casi si è assistito al paradosso per cui le amministrazioni locali hanno “superato a
destra” gli investitori finanziari – cioè si sono comportate con ancor maggior cinismo nei
confronti dell’impresa di SPL di quanto non abbiano fatto (o non avrebbero potuto fare) gli altri
azionisti: a causa della sempre maggiore scarsità di risorse messe a disposizione dai
trasferimenti dello Stato, infatti, gli enti locali hanno cercato di coprire i disavanzi di bilancio
attraverso i proventi finanziari derivanti dalle quote di partecipazione nelle società di SPL.
Queste “galline dalle uova d’oro” sono state ipersfruttate con successive richieste di
distribuzione di dividendi straordinari – arrivando anche a compromettere gli equilibri di
prudente gestione e a inibire una sana politica di investimento.
In conclusione, non è sempre o solo la natura pubblica o privata del soggetto gestore a fare la
differenza nei comportamenti, quanto la natura pubblicistica o privatistica del veicolo
utilizzato: laddove si è optato per la quotazione in borsa, quasi sistematicamente si è dato
spazio alle pressioni che andavano nella direzione della soddisfazione degli interessi degli
investitori finanziari, anche in presenza di un’amministrazione pubblica come socio di
maggioranza.




Proposta

Il problema centrale nell’attuale regime dei servizi pubblici locali è dunque l’esistenza di un
trade off tra la creazione di valore economico (per gli azionisti) e la creazione di valore sociale
(per i cittadini).
Da una parte gli azionisti di un’impresa multi-utility spa quotata tendono a ricercare il massimo
rendimento dell’investimento e dunque a condizionare la gestione verso la massimizzazione
del profitto anche a discapito del rapporto qualità/prezzo del servizio offerto alla comunità.
Quanto discusso in precedenza ci permette di capire che questa pressione non dipende dalla
natura pubblica o privata degli azionisti (shareholders): anche le pubbliche amministrazioni
che detengono quote di maggioranza possono mettere pressione sulla gestione delle public
utilities per ricavare margini con cui finanziare la spesa corrente.



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Ecco allora che in questi casi il bene o servizio prodotto viene “trasformato” a tutti gli effetti in
un bene privato, cioè un bene da cui è possibile trarre un profitto facendo leva sull’escludibilità
(es. riducendo l’estensione di un servizio di trasporto pubblico in area non facilmente
accessibili) o indebolendo i requisiti di accessibilità e universalità tramite un aumento delle
tariffe.
Dall’altra parte i cittadini utenti e le comunità locali in senso lato richiedono la fornitura di un
servizio essenziale per il proprio benessere che abbia determinate caratteristiche:
universalità, continuità, qualità, tariffe contenute. In un certo senso pretendono la fornitura di
un bene privato in regime di bene pubblico, cioè come se il servizio debba essere garantito a
prescindere e magari anche gratuitamente: non capitata a tutti noi aprendo l’acqua dal
rubinetto di compiere un gesto automatico privo di qualsiasi connotazione di consumo? Non a
casa la percezione della gratuità a volte si trasforma in convinzione e questo impedisce di
responsabilizzare il consumo e ridurre gli sprechi. E’ legittimo pretendere un servizio di qualità
a prezzo contenuto, ma il prezzo deve rispecchiare la scarsità della risorsa e non i costi
impliciti delle perdite nella distribuzione o ancora peggio la remunerazione del capitale degli
azionisti.
Come superare dunque questo trade off?
Il modello di impresa a finalità sociale e ambientale (IFS) che proponiamo può essere una
soluzione in quanto favorisce l’allineamento degli interessi contrapposti. Vediamo in che
modo. Le IFS hanno come obiettivo quello di generare valore sociale e ambientale e non di
massimizzare il valore economico per l’azienda (profitto). Come anticipato, le IFS possono
remunerare il capitale, in quanto una corretta retribuzione dei fattori produttivi al pari della
contabilizzazione dei costi sociali provocati dal consumo di beni comuni (come ad esempio
l’inquinamento in atmosfera) è alla base della gestione e allocazione efficiente delle risorse di
una comunità. È bene rimarcare che, da un punto di vista giuridico, lʼIFS non rappresenta una
categoria che si aggiunge alle forme di organizzazione oggi previste dall’ordinamento, ma
piuttosto una qualifica che può essere attribuita a soggetti, più precisamente a società, che
decidano di darsi una missione sociale e che esercitano un’attività ad alto valore sociale e
ambientale attraverso un modello gestionale responsabile e ricercano un equilibrio nella
creazione e nella distribuzione del valore tra tutti gli stakeholder. Quindi, le IFS non sono
affatto organizzazioni non profit, quanto piuttosto imprese che offrono un dividendo misto,
risultante di componenti economiche (profitto calmierato), sociali e ambientali.

Nel caso dei servizi pubblici locali, ci troviamo di fronte a beni e servizi che per natura hanno
un valore economico, sia per il gestore che li fornisce che per le imprese della comunità che
possono utilizzarli come input, ma soprattutto hanno un intrinseco valore sociale.
Una IFS che produce un servizio pubblico locale si pone dunque nelle condizioni ideali per
ottimizzare la produzione di valore sociale e ambientale tramite la fornitura di un servizio di
qualità a tariffe contenute.
Questo può avvenire perché le IFS hanno determinate caratteristiche relative a:
     - statuto/missione
     - diritti di proprietà
     - modello di governance

La missione riportata nello statuto di un IFS deve avere una finalità sociale e/o ambientale:
l’impresa si impegna alla creazione di valore sociale per la comunità di appartenenza. La
finalità sociale dovrebbe essere anche l’impegno degli enti locali (vedi cap.1) cui è affidata la
gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto proprio la produzione di beni e attività
rivolte a realizzare fini sociali. Come abbiamo detto questo impegno o meglio questa
responsabilità da parte di alcune amministrazioni pubbliche è venuta meno, generando un
problema di qualità e costi dei servizi. Il vincolo statutario di una società può tuttavia essere
disatteso, in presenza di pressioni interne o di altre condizioni di mercato, soprattutto in
assenza di controlli specifici. Per questo è importante andare oltre questa prima condizione




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che di per sé non offre sufficienti garanzie per affidare ad un’impresa sociale la gestione di un
SPL.
Come si diceva, il problema del disallineamento di interessi deriva dagli assetti proprietari e
dalla distribuzione dei diritti di proprietà. Quando la proprietà è detenuta da diversi investitori è
necessario considerare attentamente le loro aspettative per evitare che il loro interesse vada
a confliggere con quello degli utenti e delle comunità.
La convergenza di interessi tra azionista (shareholder) e utente (stakeholder) è il punto
cruciale: più aumenta la distanza, anche spaziale, tra questi attori, più si corre il rischio che la
gestione vengano condizionata da logiche speculative e che la qualità del servizio si riduca.
Se l’azionista non ha un reale interesse nel servizio offerto in qualità di utente o di
amministratore locale della comunità servita, tenderà a massimizzare il valore economico per
l’impresa a discapito della finalità sociale. Se invece, come ad esempio nelle cooperative di
utenza, i cittadini di una comunità si organizzano per produrre e consumare direttamente un
determinato servizio, si ottiene la perfetta coincidenza tra soci/azionisti e utenti: l’interesse dei
primi a recuperare i costi viene mediato dall’interesse degli stessi in qualità di utenti ad avere
un servizio di qualità al minor prezzo possibile.
In questo caso, la regolazione da parte dello stato non sarebbe necessaria, dato
l’allineamento di interessi prevalente nella compagine sociale. Ma la cooperazione di utenza
(Mori, 2011) presenta alcuni limiti legati alla scala dimensionale e all’estensione dei servizi
offerti: la formula sembra di grande interesse per iniziative di carattere locale, ma laddove sia
richiesta la generazione di economie di scala o l’accesso al mercato dei capitali per sostenere
investimenti significativi non sembra la soluzione ottimale. E’ infatti molto difficile che una
cooperativa, per sua natura e per approccio culturale, si apra al mercato per aumentare la
propria capitalizzazione: è vero che esistono soci sovventori ma un investitore di solito non
accetta di buon grado a logica di una testa un voto.

Ma se non sono gli utenti a detenere la proprietà esclusiva, se non è l’amministrazione
pubblica, e se l’impresa vuole comunque aumentare la propria capitalizzazione, senza
rinunciare alla finalità sociale, quale soluzione si può prospettare? Da questo punto di vista
una IFS che persegue una missione innanzitutto sociale, finisce col selezionare gli investitori
in base alla natura dei loro obiettivi e riduce la contrapposizione tra interessi. Un investitore
con un obiettivo (anche) sociale (cfr. social venture, impact investing, borsa sociale, etc.) è
disposto ad investire in una IFS di trasporto pubblico accettando il fatto che l’impresa possa
ridurre i propri margini per mantenere attive delle linee poco o per nulla profittevoli ma che
mantengono un legame con una comunità remota. A questo riguardo è fondamentale la
misurazione del valore sociale del servizio, al fine di dimostrare agli azionisti che la loro
rinuncia a una parte della componente economica dell’investimento è stata bilanciata dalla
produzione di un beneficio per la comunità.

Tuttavia qualora l’imprese avesse un assetto proprietario non in linea con quanto specificato,
la natura di impresa a finalità sociale potrebbe essere in qualche modo compromessa. Risulta
così determinante considerare il sistema di gestione e di governance quale terza condizione
necessaria. Il governo di una società di capitali, a differenza di una cooperativa, si basa sul
principio di “un’azione, un voto” e dunque il potere decisionale sta nelle mani di chi detiene la
maggioranza delle azioni. Il potere decisionale dei piccoli azionisti e degli stakeholders è
dunque limitato almeno da un punto di vista teorico. In un’ottica di democrazia economica,
quindi, il modello di IFS cooperativa, offrirebbe un quadro più favorevole al controllo da parte
dei cittadini/utenti, tuttavia esistono molti esempi di cooperative gestite in modo non
democratico e soprattutto nulla vieta che si possano applicare regole democratiche alle
società di capitale. La partecipazione degli stakeholders, in questo caso degli utenti del
servizio, dipende più dalle regole autonome dell’impresa (a partire dallo statuto) che dalle
norme di ordinamento giuridico generale. Gli stili di gestione e i sistemi di corporate




Avanzi. Sostenibilità Per Azioni                                                                  8
1
governance dipendono solo in parte dagli assetti proprietari, e possono essere anche
fortemente orientati in un senso o in un altro, previo accordo dei soggetti che collaborano alla
realizzazione del sistema-impresa. Peraltro, la qualifica di IFS rappresenta un attributo delle
società di capitale, quindi non tanto un dato che si acquisisce una volta per tutte, in base a
una dichiarazione di intenti, quanto piuttosto una circostanza la cui sussistenza deve essere
continuamente provata, attraverso una serie di dimostrazioni verificabili.



Condizioni abilitanti

Gli argomenti svolti sopra tendono a dimostrare come l’effettivo perseguimento degli interessi
collettivi in condizioni di efficienza gestionale non possa essere fatto dipendere da un singolo
fattore. Non è necessariamente la proprietà pubblica, non è nemmeno la forma giuridica del
veicolo. L’uno e l’altro sono ovviamente importanti, ma occorrono condizioni di contesto che
consentano l’esplicitazione delle potenzialità di un sistema alternativo. Le riconduciamo
essenzialmente a due categorie: da un lato, il civismo delle comunità locali; dall’altro, la
qualità dei meccanismi gestionali.
Sotto il primo profilo, è chiaro che una governance allargata funziona se le opportunità di
partecipazione vengono colte dai portatori di interesse. La trasparenza della gestione ha
senso se gli stakeholder esercitano forme di controllo diffuso. La minimizzazione delle
esternalità negative viene premiata se vi sono soggetti che si fanno carico degli interessi
sociali. In altre parole, è il capitale sociale di cui dispone una comunità a fare la differenza. Se
tra gli attori sociali vi sono relazioni “dense”, cioè continue, ricche, pluridirezionali, è probabile
che chi ha responsabilità di scelta si senta controllato più da vicino – ma anche, in positivo,
che possa essere premiato quando effettivamente persegue gli interessi comuni. Viceversa,
una comunità distratta, indifferente o “abituata al peggio”, è probabilmente più pronta a
tollerare anche comportamenti opportunistici o autointeressati da parte degli amministratori
delle società di SPL.
Il secondo dei due fattori citati, è, se possibile, più complesso. Infatti, la forma dell’IFS
esprime le sue caratteristiche più positive quando si realizza in contesti locali delimitati
(situazione che facilita l’interazione diretta con le comunità locali). Ma, come abbiamo detto
altrove, la piccola dimensione può essere motivo di inefficienza, nella misura in cui non
consente di cogliere i benefici delle economie di scala e delle economie di scopo. Il punto è
perciò quello di capire come sia possibile perseguire i vantaggi che derivano sia dalla piccola
sia dalla grande dimensione. La risposta può essere individuata nella creazione di strutture “a
rete”, cioè di forme di aggregazione tra IFS di dimensioni locali per la gestione delle attività in
cui il fattore dimensionale è determinante nell’abbattimento dei costi o nel raggiungimento di
condizioni di efficienza (per esempio, l’amministrazione, la finanza o gli acquisti). In questo
modo, le singole IFS di SPL potrebbero mantenere il presidio di prossimità, che ha il suo
punto più sensibile nella relazione con la clientela e con gli attori sociali del territorio,
delegando ad un soggetto partecipato anche da altre IFS omologhe la gestione delle altre
funzioni. Rimane oggetto di riflessione la scelta tra un modello di integrazione territoriale (cioè
un’aggregazione di tutte le IFS di SPL a livello, per esempio, regionale) o settoriale (che
riguarderebbe, in questo caso, tutte le IFS che gestiscono un determinato SPL). Peraltro, in
diversi ambiti, dalla distribuzione al bancario, si registrano da decenni esperienze simili di
successo.




1
  Per corporate governance si intende lʼinsieme di regole, relazioni, processi e sistemi aziendali che definiscono la
distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i partecipanti -dirigenti, amministratori, azionisti, dipendenti e altre
parti interessate- alla vita di una società.




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Il caso della gestione dell’acqua, SPL per
eccellenza

Il caso della gestione del servizio idrico è particolarmente interessante ai fini della nostra
riflessione, per diversi motivi. Il primo è che si tratta di un SPL essenziale – forse il più
essenziale tra tutti. Il secondo, conseguenza del primo, è che il tema è politicamente
sensibile, anche in relazione al passaggio referendario dei mesi scorsi; il dibattito sulla riforma
del sistema è assai acceso e si presta ad una polarizzazione ideologica che potrebbe venire
sparigliata da una proposta innovativa. Il terzo è che la prassi ha prodotto una certa varietà di
forme di gestione: in alcuni casi, si è proceduto all’affidamento a soggetti industriali esterni
alla sfera pubblica, in altri si è proseguito con modalità più tradizionali. Peraltro, con
riferimento a quest’ultimo aspetto, è interessante notare come la prassi mostri casi positivi o
negativi sia nell’una sia nell’altra delle situazioni stigmatizzate.

L’abrogazione di alcune norme chiave in materia di disciplina del servizio idrico operata dai
referendum popolari del 2011, richiede, sotto il profilo sia tecnico sia politico, un ripensamento
del sistema di gestione del ciclo dell’acqua. L’occasione è perciò propizia per introdurre una
nuova modalità di esercizio delle attività ad esso connesse che preveda appunto l’utilizzo di
forme alternative di impresa. Da un lato, infatti, le sollecitazioni della società civile
(chiaramente espresse nella volontà referendaria) vanno nella direzione della
pubblicizzazione; dall’altro, la situazione delle reti e degli impianti richiede l’investimento di
ingenti capitali e capacità manageriali evolute, fattori entrambi poco disponibili alla pubblica
amministrazione intesa in senso stretto.
La posizione politica avversa alla privatizzazione non si concentra sullo strumento
dell’impresa in quanto tale, ma sul rischio che gli interessi economici di soggetti privati possa
prevalere su quelli collettivi. Da questo punto di vista, l’IFS può costituire una soluzione che
produce vantaggi per tutti gli attori in gioco, richiedendo rinunce contenute. Come detto,
infatti, essa può essere esercitata attraverso società commerciali, in grado di raccogliere
capitali (di rischio e di debito) e di permettere una gestione manageriale, non limitata dai
vincoli burocratici della gestione pubblica. Per converso, però, il limite statutario alla
remunerazione degli azionisti privati e dei manager contiene il rischio di comportamenti
opportunistici con orizzonti di breve periodo da parte dei soggetti privati.

L’attualità, inoltre, offre un’ulteriore opportunità, rappresentata dalla recente approvazione del
cosiddetto decreto “liberalizzazioni”. Esso individua la gara in regime di concorrenza come
formula generale per l’affidamento dei SPL. Il ruolo delle ex municipalizzate rimarrà
probabilmente ancora centrale in forza della posizione di fatto che hanno acquisito, ma non è
escluso che, col tempo, siano esposte al rischio di venire soppiantate da altri soggetti esterni,
più efficienti anche se meno radicati. La possibilità di continuare a garantire i servizi attraverso
modalità “tradizionali” è residuale e circoscritta ai casi in cui venga creata un’unica società in
house risultante dalla integrazione operativa di preesistenti gestioni in affidamento diretto e
gestioni in economia, tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito. La
soppressione delle preesistenti gestioni e la costituzione dell'unica azienda in capo alla
società in house devono essere perfezionati entro il termine del 31 dicembre 2012. Ciò
significa che nei prossimi nove mesi le amministrazioni locali dovranno ridefinire una strategia
di servizio ed eventualmente rimettere mano alla organizzazione delle società private a
capitale pubblico che operano nei territori.




Avanzi. Sostenibilità Per Azioni                                                                 10
Riferimenti bibliografici

AA.VV., I beni della comunità, a cura di Flaviano Zandonai, in Communitas, maggio 2011
Citroni, G. , Pubblico e privato nelle società partecipate degli enti locali, in Rivista Italiana di
Scienza Politica – Anno XXXIX, n.1, 2009
Dal Maso D., Zanoni D., “Sostenere concretamente l’economia civile attraverso la creazione
di un mercato di capitali per Imprese a finalità sociale”, in Libro bianco sul Terzo settore (a
cura di Zamagni S.), il Mulino, Bologna, 2011
Dal Maso D., Zanoni D., “Verso la Borsa Sociale”, in Aretè - Quadrimestrale dell’Agenzia per
le Onlus, Maggioli Editore, Rimini, 3/2009
Dal Maso D., Zanoni D., “Un mercato dei capitali per imprese a scopo sociale”, in Areté -
Quadrimestrale dell’Agenzia per le Onlus, Maggioli Editore, Rimini, 2/2008
Mori, P., La cooperazione di utenza nei servizi pubblici: un’indagine comparativa, Euricse
Research Report n.2/11
Panella, G., Economia e politiche dell’ambiente, Carocci, Roma, 2002




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Imprese a finalità sociale: un’alternativa istituzionale per la gestione dei servizi pubblici locali?

  • 1. Imprese a finalità sociale: un’alternativa istituzionale per la gestione dei servizi pubblici locali? Colloquio Scientifico IRIS network Brescia, 25-26 maggio 2012 Davide Dal Maso dalmaso@avanzi.org Davide Zanoni zanoni@avanzi.org Avanzi. Sostenibilità Per Azioni, 0230516023 Sommario Introduzione ................................................................................................................................... 2 Ambito di riflessione ....................................................................................................................... 3 Valutazione critica della situazione attuale .................................................................................... 5 Proposta ......................................................................................................................................... 6 Condizioni abilitanti ........................................................................................................................ 9 Il caso della gestione dell’acqua, SPL per eccellenza ................................................................. 10 Riferimenti bibliografici ................................................................................................................. 11
  • 2. Introduzione L’articolo che qui presentiamo si inserisce nel dibattito sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali (SPL), per offrire un contributo alla ricerca e alla definizione di modelli alternativi di gestione e di produzione di beni e servizi di interesse collettivo. Il punto di partenza del nostro ragionamento è rappresentato dalla necessità di superare la dicotomia pubblico-privato, provando ad immaginare un’alternativa istituzionale che tenga conto sia dei bisogni e dei diritti delle comunità sia della necessità di efficienza e di efficacia delle aziende di gestione. A nostro avviso il dibattito sulla riforma dei servizi pubblici locali è ancora polarizzato su posizioni ideologiche che limitano la capacità di trovare soluzioni innovative. Da un lato si ritiene infatti che la gestione dei servizi pubblici a scala locale debba essere affidata al pubblico in quanto unico garante dell’interesse collettivo, dall’altro si evidenziano i limiti della gestione pubblica e la necessità di privatizzare o di esternalizzare il servizio per aumentarne qualità ed efficienza. Obiettivo di questo contributo è quello di presentare un’alternativa ai modelli esistenti e verificare se e in quali condizioni possa rappresentare una strada percorribile. Il modello che intendiamo discutere è quello dell’impresa a finalità sociale e ambientale (IFS), così come definito in precedenti pubblicazioni (Dal Maso, Zanoni 2011): le IFS sono aziende, esercitate sia in forma di società di capitali sia cooperativa, in cui il rapporto tra scopi e vincoli è invertito rispetto alla tipica impresa capitalistica. In altre parole, la funzione obiettivo è volta alla generazione del valore sociale, essendo sottoposta al vincolo della sostenibilità economica. Questa impostazione non preclude la possibilità di distribuire parte degli utili, ma riduce il rischio che la massimizzazione del profitto diventi l’unico o il principale obiettivo di chi gestisce l’impresa. Da questo punto di vista, il modello dell’IFS si differenzia dall’impresa sociale ex d.lgs. 155/2006. Il nostro sforzo, in sintesi, sarà quello di comprendere a livello teorico se le IFS siano effettivamente in grado di assicurare il massimo beneficio per le comunità locali in condizioni di efficienza gestionale, superando alcune imperfezioni di mercato (come per esempio le asimmetrie informative) e bilanciando le conseguenze di alcune specifiche condizioni (come per esempio le posizioni di monopolio naturale) tipiche dei SPL. La tesi che vogliamo proporre non è che l’IFS possa funzionare sempre e comunque come l’opzione migliore, ma verificare piuttosto in quali condizioni e per quali ragioni possa davvero rappresentare un modello di riferimento. Nel primo capitolo si definisce l’ambito nel quale andremo a sviluppare la nostra riflessione, per ridurre le incertezze legate al concetto di servizio pubblico locale e specificarne le caratteristiche fondamentali. Nel secondo capitolo si discute l’evoluzione della gestione dei SPL negli ultimi decenni, mettendo in luce alcune derive dell’approccio “pubblicistico” o “privatistico” come la burocratizzazione e corruzione da un lato, e l’appiattimento sulle aspettative dei mercati finanziari dall’altro. Nel terzo capitolo si presenta l’impresa a finalità sociale e ambientale (IFS), concentrando la nostra attenzione sull’allocazione dei diritti di proprietà e sulla governance di impresa quali elementi fondamentali per conseguire l’allineamento tra gli interessi dei soggetti coinvolti (fornitori di capitale, clienti/utenti, comunità locali). Nel quarto capitolo si analizzano alcune condizioni di contesto che possono favorire la creazione e lo sviluppo di imprese a finalità sociale soprattutto a scala locale, quali il civismo delle comunità e il grado di prossimità al cittadino e utente del servizio. Infine nel quinto capitolo si ripercorre la vicenda referendaria sulla tutela dell’acqua pubblica per “verificare” in un caso concreto se il modello di impresa a finalità sociale possa considerarsi una via di uscita percorribile. Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 2
  • 3. Ambito di riflessione Il concetto di servizi pubblici locali (SPL), come anche del resto public utilities, non ha un significato univoco e una precisa delimitazione. In origine, un servizio si definiva pubblico in quanto esercitato esclusivamente e direttamente da un soggetto pubblico secondo modalità indicate dalla legge. In seguito, questa impostazione soggettiva è stata superata da un concetto oggettivo di pubblico servizio che lo qualifica in base alla sua rispondenza alla pubblica utilità ed al pubblico interesse, a prescindere dal soggetto che lo esercita. Ai fini del nostro ragionamento, adottiamo questo seconda impostazione: un servizio si definisce pubblico non per la natura del soggetto che lo gestisce direttamente che può essere pubblico o privato o multi-stakeholder, ma per il fatto di essere rivolto al pubblico e di avere una finalità sociale, quella di soddisfare un bisogno individuale o collettivo. Un ente gestore viene dunque valutato per la capacità di produrre in modo efficiente e alle migliori condizioni possibili un servizio che per sua natura non è profittevole (o comunque non può garantire ampi margini) ma che può generare alto valore sociale e ambientale. Ciò che più conta dal nostro punto di vista è dunque la fornitura di beni essenziali per gli individui e la collettività, a prescindere dalla natura dei soggetti coinvolti nella gestione. Questo perché riteniamo che possano esistere dei modelli di impresa alternativi a quelli esistenti in grado di essere sostenibili economicamente e di produrre allo stesso tempo servizi ad alto valore sociale e ambientale. Ancora, se prima il ragionamento era: servizio di utilità pubblica – fornitura pubblica versus servizio commerciale – fornitura privata, la logica che guida il nostro ragionamento è differente e ci porta a rispondere alla seguente domanda: quale istituzione può essere in grado di fornire un servizio di utilità pubblica in modo economicamente sostenibile, senza obiettivi speculativi, finalizzato alla creazione di valore sociale? Un secondo elemento che aiuta a definire meglio l’oggetto della nostra analisi è la diretta corrispondenza tra la responsabilità degli enti locali nella gestione dei servizi pubblici e la promozione di utilità sociale. Questo legame è sancito anche nel testo unico sulle autonomie locali (art. 112 della legge 267/2000) secondo cui gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione (diretta o indiretta) dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo delle comunità locali. Ma la corrispondenza tra responsabilità e finalità sociale è ancora verificata o nei modelli prevalenti esistono forze distorsive che tendono ad allentarla? La responsabilità degli enti locali è ancora rivolta esclusivamente alla produzione di beni e servizi a finalità sociale in grado di garantire il benessere della comunità locale? Il concetto di SPL che andiamo ad investigare si basa dunque su due questioni rilevanti: - può esistere un’istituzione che si prefigge l’obiettivo di creare valore sociale tramite la fornitura di servizi pubblici locali e che sia sostenibile dal punto di vista economico - esiste ancora uno stretto legame tra responsabilità degli enti locali e benessere della comunità nell’offerta di servizi pubblici locali. In termini più operativi, ci concentriamo su una categoria ristretta di SPL in parte coincidente con i settori di attività delle public utilities: energia, servizi idrici, gestione rifiuti, trasporti locali. Le public utilities non producono beni pubblici ovvero beni che è difficile, o impossibile, produrre per trarne un profitto privato, ma forniscono beni privati che hanno due caratteristiche opposte ai beni pubblici (come definiti dalle discipline economiche): - rivalità nel consumo - il consumo di un bene privato da parte di un individuo implica l'impossibilità per un altro individuo di consumarlo allo stesso tempo; Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 3
  • 4. - escludibilità nel consumo - una volta che il bene pubblico è prodotto, è possibile impedirne la fruizione da parte di consumatori. Tuttavia questi beni sono considerati essenziali per il benessere degli individui e della collettività (valore sociale) e strategici in quanto rappresentano input per i processi produttivi (valore economico). Ecco perché è necessario che i SPL abbiamo determinate caratteristiche che massimizzino il valore sociale da un lato e il valore economico dall’altro. In particolare ci riferiamo a: - efficienza economica / economie di scala - uso razionale delle risorse naturali / esternalità - qualità del servizio - prezzo / accessibilità / universalità Ribaltando sul gestore tali caratteristiche possiamo delineare alcuni requisiti che un modello di impresa nel settore dei SPL dovrebbe soddisfare: - produrre un servizio senza sprecare risorse economiche dunque essere efficiente (bilanciare il monopolio naturale) - considerare i costi e i benefici sociali e ambientali generati dall’attività di impresa (considerare le esternalità negative e positive) - favorire la convergenza di interessi tra proprietari e utenti (limitare le asimmetrie informative) - garantire l’accessibilità a tutti i cittadini - garantire la migliore qualità del servizio ad un prezzo (tariffa) contenuto. Nella fornitura di servizi pubblici locali esiste la possibilità che l’industria si configuri come un “monopolio naturale”. Questo significa che data l’esistenza di economie di scala legate a fattori tecnologici o naturali, la funzione di costo è sub-additiva: per ogni dato livello di produzione Q, il costo sostenuto da una singola impresa C(Q) è inferiore alla somma dei costi sostenuti da più imprese per la produzione di entità frazionate di Q. In pratica, una sola impresa è in grado di produrre a condizioni più vantaggiose rispetto a due o più imprese. La presenza di economie di scala, in passato, era diffusa in quasi tutti i servizi pubblici, quali l’energia elettrica, il gas, l’acqua, i trasporti, le telecomunicazioni. In pratica, in tutti quei servizi dove esisteva una infrastruttura di rete distributiva che determinava elevati costi infrastrutturali (fissi) e, di conseguenza, una riduzione dei costi medi al crescere del livello di produzione. A seguito dei processi di liberalizzazione e di innovazione, in molti settori o fasi produttive non esistono più economie di scala, dunque l’efficienza economica del monopolio non è più verificata e altri assetti di mercato possono produrre lo stesso servizio a minori costi per la società. Un secondo requisito è legato ad un’altra causa di fallimento del mercato, vale a dire quella costituita dalla presenza di esternalità positive o negative nella produzione di servizi pubblici. Com’è noto dalla teoria economica, le esternalità sorgono quando i costi ed i benefici sociali non coincidono con i costi ed i ricavi dell’impresa. Se i costi di produzione dell’impresa non considerano anche gli eventuali costi sociali (per esempio l’inquinamento atmosferico dovuto alla produzione di energia elettrica da combustibili fossili) sopportati da terzi o dalla collettività in generale, si avrà un livello di produzione e un’allocazione di risorse non efficiente per la società nel suo complesso. Allo stesso modo, la mancata considerazione dei benefici esterni alla produzione determina una allocazione di risorse inferiore a quella efficiente. L’impresa che abbiamo in mente dovrebbe adottare un sistema di valutazione della performance che tenga conto dei costi e dei ricavi diretti ma anche dei costi e dei benefici sociali indiretti, perché sia effettivamente in grado di assicurare il massimo beneficio per le comunità locali in condizioni di efficienza gestionale. Un altro requisito che dovrebbe avere un’impresa di produzione di servizi pubblici locali è quello di favorire la convergenza di interessi tra proprietari e utenti. Uno dei fattori caratteristici di questo mercato è infatti l’asimmetria informativa esistente tra regolatore e operatori: l’attività di regolazione dovrebbe infatti controllare il comportamento da parte degli operatori, Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 4
  • 5. in mercati concorrenziali o monopolistici, per garantire un servizio di qualità al minor prezzo possibile, ma sappiamo bene quanto questo possa risultare difficile. Se invece la proprietà dell’impresa si avvicina quanto più possibile all’utenza, la corrispondenza tra il produttore, che ha come obiettivo il recupero dei costi, e il consumatore che vuole ottenere un servizio di qualità al minor prezzo, determina la convergenza di interessi contrapposti. In questo caso la regolamentazione da parte dello stato non sarebbe necessaria. Un elemento ulteriore da considerare è l’estensione del servizio per garantirne l’accessibilità a tutti i cittadini: in quanto servizi essenziale, la pubblica amministrazione deve offrire o richiedere una copertura universale e questa imposizione può risultare più agevole nel caso di controllo diretto o di impresa singola (gestore unico) piuttosto che di concorrenza tra più imprese. Tuttavia ciò che più interessa è sottolineare il fatto che un’impresa attiva nella fornitura di servizi pubblici deve garantire un’offerta indiscriminata e soddisfare l’interesse di tutta la comunità. Infine il requisito della migliore qualità a tariffe contenute dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le imprese attive nella fornitura di un servizio pubblico, dato che per definizione si tratta di attività economiche che mirano a soddisfare quei bisogni così largamente avvertiti, da essere considerati propri di una collettività. Ma naturalmente in regime di libera concorrenza questo elemento necessita di una stretta regolamentazione, a meno che per sua natura l’impresa sia in qualche modo vincolata alla creazione di valore sociale e ambientale prima ancora che alla produzione di valore economico. E qui ci ricolleghiamo all’idea di fondo del nostro contributo, ovvero che anche attraverso la libera iniziativa privata, realizzata in un mercato libero o regolamentato, si possono produrre servizi di pubblica utilità, e che anche l’impresa possa creare benefici sociali non come sottoprodotto ma come risultato perseguito di una missione dichiarata. Valutazione critica della situazione attuale Il sistema dei SPL è passato nel tempo da una situazione iniziale in cui le amministrazioni pubbliche garantivano questi servizi in prima persona a quello attuale, in cui la gestione è trasferita in capo a società commerciali. In alcuni casi, porzioni più o meno ampie del capitale di queste società sono state cedute a soggetti finanziari o industriali, o addirittura collocate sui mercati, attraverso la quotazione in borsa. Il percorso è passato quindi attraverso due passaggi fondamentali, che talvolta sono stati confusi parlando genericamente di “privatizzazione”, ma che in realtà esprimono due elementi qualitativamente diversi: da un lato, il passaggio da un veicolo di natura pubblicistica ad uno di natura privatistica (privatizzazione delle forme); dall’altro, la vendita delle quote di capitale (privatizzazione della proprietà). La prima trasformazione rispondeva alla necessità di uscire dall’ambito della pubblica amministrazione e di consentire, in questo modo, l’accesso a modalità di gestione più efficienti – soprattutto nelle aree delle risorse umane, dell’amministrazione e della finanza, delle forniture, ma anche, in alcuni casi, di quelle tecniche e commerciali. La vera soluzione di continuità è però rappresentata dalla privatizzazione del capitale, che ha finito inevitabilmente con l’influenzare la missione stessa delle imprese, che è passata dal servizio al cittadino in condizioni di economicità alla creazione di valore per gli azionisti attraverso la fornitura di servizi a dei cittadini. Questa situazione ha introdotto una divergenza tra gli interessi e le aspettative degli attori coinvolti, che si è espressa in misura più o meno forte a seconda della quota assegnata ad azionisti diversi dalle amministrazioni locali. Nei casi in cui è intervenuta anche la quotazione in borsa, questa frizione si è ulteriormente esacerbata. Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 5
  • 6. In altri termini, il mantenimento dei diritti di proprietà in mano pubblica ha contenuto la spinta verso la ricerca dello shareholder value che potevano teoricamente derivare dalla natura for profit del veicolo societario – per il fatto che azionisti e clienti, sia pure con qualche mediazione istituzionale, di fatto coincidevano. Invece, con la privatizzazione del capitale, questa identità è venuta a mancare e si sono create le condizioni per il potenziale conflitto. Le cronache dei giornali locali registrano frequentemente polemiche tra cittadini, amministratori locali e soggetti gestori per la qualità dei servizi o per il loro prezzo. A torto o a ragione, il peggioramento della prima e l’aumento del secondo vengono collegati alla necessità per le imprese di remunerare “qualcun altro”. La cosa è peraltro del tutto logica: chi effettua un investimento con obiettivi di natura essenzialmente finanziaria sarà interessato a massimizzarne il ritorno anche a scapito degli altri stakeholder (i lavoratori e, più ancora, i clienti). In una situazione di monopolio naturale o di quasi-monopolio di fatto come quella in cui vengono erogati i SPL, il gioco è piuttosto facile. Naturalmente, attraverso il controllo delle tariffe o la definizione di standard di servizio, è possibile limitare la possibilità per il soggetto gestore di perseguire gli obiettivi più cari agli investitori finanziari, ma si tratta pur sempre di contenere una spinta “naturale”, che cercherà di esprimersi, in un modo o nell’altro. Il tentativo delle amministrazioni locali di controllare i comportamenti opportunistici dei manager, poi, è ostacolato dalla posizione di obiettivo vantaggio che questi ultimi si trovano a ricoprire in termini di asimmetria informativa. Una volta esternalizzata la gestione del servizio, le amministrazioni perdono un patrimonio di conoscenza tecnica e gestionale, vengono escluse da flussi informativi determinanti e rimangono confinate ai margini dell’esercizio dell’impresa. In queste condizioni, mancano degli strumenti per valutare nel merito le strategie industriali e finanziarie e non possono che limitarsi ad un ruolo di ratifica. In alcuni casi si è assistito al paradosso per cui le amministrazioni locali hanno “superato a destra” gli investitori finanziari – cioè si sono comportate con ancor maggior cinismo nei confronti dell’impresa di SPL di quanto non abbiano fatto (o non avrebbero potuto fare) gli altri azionisti: a causa della sempre maggiore scarsità di risorse messe a disposizione dai trasferimenti dello Stato, infatti, gli enti locali hanno cercato di coprire i disavanzi di bilancio attraverso i proventi finanziari derivanti dalle quote di partecipazione nelle società di SPL. Queste “galline dalle uova d’oro” sono state ipersfruttate con successive richieste di distribuzione di dividendi straordinari – arrivando anche a compromettere gli equilibri di prudente gestione e a inibire una sana politica di investimento. In conclusione, non è sempre o solo la natura pubblica o privata del soggetto gestore a fare la differenza nei comportamenti, quanto la natura pubblicistica o privatistica del veicolo utilizzato: laddove si è optato per la quotazione in borsa, quasi sistematicamente si è dato spazio alle pressioni che andavano nella direzione della soddisfazione degli interessi degli investitori finanziari, anche in presenza di un’amministrazione pubblica come socio di maggioranza. Proposta Il problema centrale nell’attuale regime dei servizi pubblici locali è dunque l’esistenza di un trade off tra la creazione di valore economico (per gli azionisti) e la creazione di valore sociale (per i cittadini). Da una parte gli azionisti di un’impresa multi-utility spa quotata tendono a ricercare il massimo rendimento dell’investimento e dunque a condizionare la gestione verso la massimizzazione del profitto anche a discapito del rapporto qualità/prezzo del servizio offerto alla comunità. Quanto discusso in precedenza ci permette di capire che questa pressione non dipende dalla natura pubblica o privata degli azionisti (shareholders): anche le pubbliche amministrazioni che detengono quote di maggioranza possono mettere pressione sulla gestione delle public utilities per ricavare margini con cui finanziare la spesa corrente. Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 6
  • 7. Ecco allora che in questi casi il bene o servizio prodotto viene “trasformato” a tutti gli effetti in un bene privato, cioè un bene da cui è possibile trarre un profitto facendo leva sull’escludibilità (es. riducendo l’estensione di un servizio di trasporto pubblico in area non facilmente accessibili) o indebolendo i requisiti di accessibilità e universalità tramite un aumento delle tariffe. Dall’altra parte i cittadini utenti e le comunità locali in senso lato richiedono la fornitura di un servizio essenziale per il proprio benessere che abbia determinate caratteristiche: universalità, continuità, qualità, tariffe contenute. In un certo senso pretendono la fornitura di un bene privato in regime di bene pubblico, cioè come se il servizio debba essere garantito a prescindere e magari anche gratuitamente: non capitata a tutti noi aprendo l’acqua dal rubinetto di compiere un gesto automatico privo di qualsiasi connotazione di consumo? Non a casa la percezione della gratuità a volte si trasforma in convinzione e questo impedisce di responsabilizzare il consumo e ridurre gli sprechi. E’ legittimo pretendere un servizio di qualità a prezzo contenuto, ma il prezzo deve rispecchiare la scarsità della risorsa e non i costi impliciti delle perdite nella distribuzione o ancora peggio la remunerazione del capitale degli azionisti. Come superare dunque questo trade off? Il modello di impresa a finalità sociale e ambientale (IFS) che proponiamo può essere una soluzione in quanto favorisce l’allineamento degli interessi contrapposti. Vediamo in che modo. Le IFS hanno come obiettivo quello di generare valore sociale e ambientale e non di massimizzare il valore economico per l’azienda (profitto). Come anticipato, le IFS possono remunerare il capitale, in quanto una corretta retribuzione dei fattori produttivi al pari della contabilizzazione dei costi sociali provocati dal consumo di beni comuni (come ad esempio l’inquinamento in atmosfera) è alla base della gestione e allocazione efficiente delle risorse di una comunità. È bene rimarcare che, da un punto di vista giuridico, lʼIFS non rappresenta una categoria che si aggiunge alle forme di organizzazione oggi previste dall’ordinamento, ma piuttosto una qualifica che può essere attribuita a soggetti, più precisamente a società, che decidano di darsi una missione sociale e che esercitano un’attività ad alto valore sociale e ambientale attraverso un modello gestionale responsabile e ricercano un equilibrio nella creazione e nella distribuzione del valore tra tutti gli stakeholder. Quindi, le IFS non sono affatto organizzazioni non profit, quanto piuttosto imprese che offrono un dividendo misto, risultante di componenti economiche (profitto calmierato), sociali e ambientali. Nel caso dei servizi pubblici locali, ci troviamo di fronte a beni e servizi che per natura hanno un valore economico, sia per il gestore che li fornisce che per le imprese della comunità che possono utilizzarli come input, ma soprattutto hanno un intrinseco valore sociale. Una IFS che produce un servizio pubblico locale si pone dunque nelle condizioni ideali per ottimizzare la produzione di valore sociale e ambientale tramite la fornitura di un servizio di qualità a tariffe contenute. Questo può avvenire perché le IFS hanno determinate caratteristiche relative a: - statuto/missione - diritti di proprietà - modello di governance La missione riportata nello statuto di un IFS deve avere una finalità sociale e/o ambientale: l’impresa si impegna alla creazione di valore sociale per la comunità di appartenenza. La finalità sociale dovrebbe essere anche l’impegno degli enti locali (vedi cap.1) cui è affidata la gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto proprio la produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali. Come abbiamo detto questo impegno o meglio questa responsabilità da parte di alcune amministrazioni pubbliche è venuta meno, generando un problema di qualità e costi dei servizi. Il vincolo statutario di una società può tuttavia essere disatteso, in presenza di pressioni interne o di altre condizioni di mercato, soprattutto in assenza di controlli specifici. Per questo è importante andare oltre questa prima condizione Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 7
  • 8. che di per sé non offre sufficienti garanzie per affidare ad un’impresa sociale la gestione di un SPL. Come si diceva, il problema del disallineamento di interessi deriva dagli assetti proprietari e dalla distribuzione dei diritti di proprietà. Quando la proprietà è detenuta da diversi investitori è necessario considerare attentamente le loro aspettative per evitare che il loro interesse vada a confliggere con quello degli utenti e delle comunità. La convergenza di interessi tra azionista (shareholder) e utente (stakeholder) è il punto cruciale: più aumenta la distanza, anche spaziale, tra questi attori, più si corre il rischio che la gestione vengano condizionata da logiche speculative e che la qualità del servizio si riduca. Se l’azionista non ha un reale interesse nel servizio offerto in qualità di utente o di amministratore locale della comunità servita, tenderà a massimizzare il valore economico per l’impresa a discapito della finalità sociale. Se invece, come ad esempio nelle cooperative di utenza, i cittadini di una comunità si organizzano per produrre e consumare direttamente un determinato servizio, si ottiene la perfetta coincidenza tra soci/azionisti e utenti: l’interesse dei primi a recuperare i costi viene mediato dall’interesse degli stessi in qualità di utenti ad avere un servizio di qualità al minor prezzo possibile. In questo caso, la regolazione da parte dello stato non sarebbe necessaria, dato l’allineamento di interessi prevalente nella compagine sociale. Ma la cooperazione di utenza (Mori, 2011) presenta alcuni limiti legati alla scala dimensionale e all’estensione dei servizi offerti: la formula sembra di grande interesse per iniziative di carattere locale, ma laddove sia richiesta la generazione di economie di scala o l’accesso al mercato dei capitali per sostenere investimenti significativi non sembra la soluzione ottimale. E’ infatti molto difficile che una cooperativa, per sua natura e per approccio culturale, si apra al mercato per aumentare la propria capitalizzazione: è vero che esistono soci sovventori ma un investitore di solito non accetta di buon grado a logica di una testa un voto. Ma se non sono gli utenti a detenere la proprietà esclusiva, se non è l’amministrazione pubblica, e se l’impresa vuole comunque aumentare la propria capitalizzazione, senza rinunciare alla finalità sociale, quale soluzione si può prospettare? Da questo punto di vista una IFS che persegue una missione innanzitutto sociale, finisce col selezionare gli investitori in base alla natura dei loro obiettivi e riduce la contrapposizione tra interessi. Un investitore con un obiettivo (anche) sociale (cfr. social venture, impact investing, borsa sociale, etc.) è disposto ad investire in una IFS di trasporto pubblico accettando il fatto che l’impresa possa ridurre i propri margini per mantenere attive delle linee poco o per nulla profittevoli ma che mantengono un legame con una comunità remota. A questo riguardo è fondamentale la misurazione del valore sociale del servizio, al fine di dimostrare agli azionisti che la loro rinuncia a una parte della componente economica dell’investimento è stata bilanciata dalla produzione di un beneficio per la comunità. Tuttavia qualora l’imprese avesse un assetto proprietario non in linea con quanto specificato, la natura di impresa a finalità sociale potrebbe essere in qualche modo compromessa. Risulta così determinante considerare il sistema di gestione e di governance quale terza condizione necessaria. Il governo di una società di capitali, a differenza di una cooperativa, si basa sul principio di “un’azione, un voto” e dunque il potere decisionale sta nelle mani di chi detiene la maggioranza delle azioni. Il potere decisionale dei piccoli azionisti e degli stakeholders è dunque limitato almeno da un punto di vista teorico. In un’ottica di democrazia economica, quindi, il modello di IFS cooperativa, offrirebbe un quadro più favorevole al controllo da parte dei cittadini/utenti, tuttavia esistono molti esempi di cooperative gestite in modo non democratico e soprattutto nulla vieta che si possano applicare regole democratiche alle società di capitale. La partecipazione degli stakeholders, in questo caso degli utenti del servizio, dipende più dalle regole autonome dell’impresa (a partire dallo statuto) che dalle norme di ordinamento giuridico generale. Gli stili di gestione e i sistemi di corporate Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 8
  • 9. 1 governance dipendono solo in parte dagli assetti proprietari, e possono essere anche fortemente orientati in un senso o in un altro, previo accordo dei soggetti che collaborano alla realizzazione del sistema-impresa. Peraltro, la qualifica di IFS rappresenta un attributo delle società di capitale, quindi non tanto un dato che si acquisisce una volta per tutte, in base a una dichiarazione di intenti, quanto piuttosto una circostanza la cui sussistenza deve essere continuamente provata, attraverso una serie di dimostrazioni verificabili. Condizioni abilitanti Gli argomenti svolti sopra tendono a dimostrare come l’effettivo perseguimento degli interessi collettivi in condizioni di efficienza gestionale non possa essere fatto dipendere da un singolo fattore. Non è necessariamente la proprietà pubblica, non è nemmeno la forma giuridica del veicolo. L’uno e l’altro sono ovviamente importanti, ma occorrono condizioni di contesto che consentano l’esplicitazione delle potenzialità di un sistema alternativo. Le riconduciamo essenzialmente a due categorie: da un lato, il civismo delle comunità locali; dall’altro, la qualità dei meccanismi gestionali. Sotto il primo profilo, è chiaro che una governance allargata funziona se le opportunità di partecipazione vengono colte dai portatori di interesse. La trasparenza della gestione ha senso se gli stakeholder esercitano forme di controllo diffuso. La minimizzazione delle esternalità negative viene premiata se vi sono soggetti che si fanno carico degli interessi sociali. In altre parole, è il capitale sociale di cui dispone una comunità a fare la differenza. Se tra gli attori sociali vi sono relazioni “dense”, cioè continue, ricche, pluridirezionali, è probabile che chi ha responsabilità di scelta si senta controllato più da vicino – ma anche, in positivo, che possa essere premiato quando effettivamente persegue gli interessi comuni. Viceversa, una comunità distratta, indifferente o “abituata al peggio”, è probabilmente più pronta a tollerare anche comportamenti opportunistici o autointeressati da parte degli amministratori delle società di SPL. Il secondo dei due fattori citati, è, se possibile, più complesso. Infatti, la forma dell’IFS esprime le sue caratteristiche più positive quando si realizza in contesti locali delimitati (situazione che facilita l’interazione diretta con le comunità locali). Ma, come abbiamo detto altrove, la piccola dimensione può essere motivo di inefficienza, nella misura in cui non consente di cogliere i benefici delle economie di scala e delle economie di scopo. Il punto è perciò quello di capire come sia possibile perseguire i vantaggi che derivano sia dalla piccola sia dalla grande dimensione. La risposta può essere individuata nella creazione di strutture “a rete”, cioè di forme di aggregazione tra IFS di dimensioni locali per la gestione delle attività in cui il fattore dimensionale è determinante nell’abbattimento dei costi o nel raggiungimento di condizioni di efficienza (per esempio, l’amministrazione, la finanza o gli acquisti). In questo modo, le singole IFS di SPL potrebbero mantenere il presidio di prossimità, che ha il suo punto più sensibile nella relazione con la clientela e con gli attori sociali del territorio, delegando ad un soggetto partecipato anche da altre IFS omologhe la gestione delle altre funzioni. Rimane oggetto di riflessione la scelta tra un modello di integrazione territoriale (cioè un’aggregazione di tutte le IFS di SPL a livello, per esempio, regionale) o settoriale (che riguarderebbe, in questo caso, tutte le IFS che gestiscono un determinato SPL). Peraltro, in diversi ambiti, dalla distribuzione al bancario, si registrano da decenni esperienze simili di successo. 1 Per corporate governance si intende lʼinsieme di regole, relazioni, processi e sistemi aziendali che definiscono la distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i partecipanti -dirigenti, amministratori, azionisti, dipendenti e altre parti interessate- alla vita di una società. Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 9
  • 10. Il caso della gestione dell’acqua, SPL per eccellenza Il caso della gestione del servizio idrico è particolarmente interessante ai fini della nostra riflessione, per diversi motivi. Il primo è che si tratta di un SPL essenziale – forse il più essenziale tra tutti. Il secondo, conseguenza del primo, è che il tema è politicamente sensibile, anche in relazione al passaggio referendario dei mesi scorsi; il dibattito sulla riforma del sistema è assai acceso e si presta ad una polarizzazione ideologica che potrebbe venire sparigliata da una proposta innovativa. Il terzo è che la prassi ha prodotto una certa varietà di forme di gestione: in alcuni casi, si è proceduto all’affidamento a soggetti industriali esterni alla sfera pubblica, in altri si è proseguito con modalità più tradizionali. Peraltro, con riferimento a quest’ultimo aspetto, è interessante notare come la prassi mostri casi positivi o negativi sia nell’una sia nell’altra delle situazioni stigmatizzate. L’abrogazione di alcune norme chiave in materia di disciplina del servizio idrico operata dai referendum popolari del 2011, richiede, sotto il profilo sia tecnico sia politico, un ripensamento del sistema di gestione del ciclo dell’acqua. L’occasione è perciò propizia per introdurre una nuova modalità di esercizio delle attività ad esso connesse che preveda appunto l’utilizzo di forme alternative di impresa. Da un lato, infatti, le sollecitazioni della società civile (chiaramente espresse nella volontà referendaria) vanno nella direzione della pubblicizzazione; dall’altro, la situazione delle reti e degli impianti richiede l’investimento di ingenti capitali e capacità manageriali evolute, fattori entrambi poco disponibili alla pubblica amministrazione intesa in senso stretto. La posizione politica avversa alla privatizzazione non si concentra sullo strumento dell’impresa in quanto tale, ma sul rischio che gli interessi economici di soggetti privati possa prevalere su quelli collettivi. Da questo punto di vista, l’IFS può costituire una soluzione che produce vantaggi per tutti gli attori in gioco, richiedendo rinunce contenute. Come detto, infatti, essa può essere esercitata attraverso società commerciali, in grado di raccogliere capitali (di rischio e di debito) e di permettere una gestione manageriale, non limitata dai vincoli burocratici della gestione pubblica. Per converso, però, il limite statutario alla remunerazione degli azionisti privati e dei manager contiene il rischio di comportamenti opportunistici con orizzonti di breve periodo da parte dei soggetti privati. L’attualità, inoltre, offre un’ulteriore opportunità, rappresentata dalla recente approvazione del cosiddetto decreto “liberalizzazioni”. Esso individua la gara in regime di concorrenza come formula generale per l’affidamento dei SPL. Il ruolo delle ex municipalizzate rimarrà probabilmente ancora centrale in forza della posizione di fatto che hanno acquisito, ma non è escluso che, col tempo, siano esposte al rischio di venire soppiantate da altri soggetti esterni, più efficienti anche se meno radicati. La possibilità di continuare a garantire i servizi attraverso modalità “tradizionali” è residuale e circoscritta ai casi in cui venga creata un’unica società in house risultante dalla integrazione operativa di preesistenti gestioni in affidamento diretto e gestioni in economia, tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito. La soppressione delle preesistenti gestioni e la costituzione dell'unica azienda in capo alla società in house devono essere perfezionati entro il termine del 31 dicembre 2012. Ciò significa che nei prossimi nove mesi le amministrazioni locali dovranno ridefinire una strategia di servizio ed eventualmente rimettere mano alla organizzazione delle società private a capitale pubblico che operano nei territori. Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 10
  • 11. Riferimenti bibliografici AA.VV., I beni della comunità, a cura di Flaviano Zandonai, in Communitas, maggio 2011 Citroni, G. , Pubblico e privato nelle società partecipate degli enti locali, in Rivista Italiana di Scienza Politica – Anno XXXIX, n.1, 2009 Dal Maso D., Zanoni D., “Sostenere concretamente l’economia civile attraverso la creazione di un mercato di capitali per Imprese a finalità sociale”, in Libro bianco sul Terzo settore (a cura di Zamagni S.), il Mulino, Bologna, 2011 Dal Maso D., Zanoni D., “Verso la Borsa Sociale”, in Aretè - Quadrimestrale dell’Agenzia per le Onlus, Maggioli Editore, Rimini, 3/2009 Dal Maso D., Zanoni D., “Un mercato dei capitali per imprese a scopo sociale”, in Areté - Quadrimestrale dell’Agenzia per le Onlus, Maggioli Editore, Rimini, 2/2008 Mori, P., La cooperazione di utenza nei servizi pubblici: un’indagine comparativa, Euricse Research Report n.2/11 Panella, G., Economia e politiche dell’ambiente, Carocci, Roma, 2002 Avanzi. Sostenibilità Per Azioni 11