1. LA PEDAGOGIA COME SCIENZA:
L’APPROCCIO FENOMENOLOGICO NELLA
PROGETTAZIONE DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI
Sommario
Le prassi educative sono spesso guidate da presupposti
impliciti che, in quanto tali, non sono sottoposti al vaglio della
critica. Tra questi “impliciti” troviamo premesse
epistemologiche e direzioni di senso che, dietro la neutralità delle
tecniche, nascondono strategie di manipolazione e di
riproduzione dei saperi. La ricognizione proposta in questo breve
saggio è finalizzata a disvelare questi “impliciti” per arrivare a
delle prassi pedagogiche più consapevoli.
La nascita delle scienze umane sotto il segno del
positivismo
È nell’ambito culturale del positivismo che viene posto il
problema di rendere scientifico lo studio dell’educazione,
liberandolo dal tradizionale condizionamento della filosofia.
L’idea forte del positivismo si può riconoscere nella fiducia assoluta accordata alla scienza
come paradigma conoscitivo. Ogni problema, quindi anche quelli educativi, potevano e
anzi dovevano divenire oggetto di conoscenza scientifica. Si comprende bene il tentativo
di sottrarre la conoscenza dei fenomeni umani ai limiti della riflessione metafisica,
teologica, filosofica per ricondurla all’interno della trattazione scientifica. La novità
consiste non solo nell’individuare l’oggetto di studio ma anche nel metodo utilizzato, che
è quello del confronto di ipotesi con i fatti. Lo scienziato sociale procede insomma proprio
come un fisico e un chimico in laboratorio. Si valorizzano dunque le ricerche sperimentali
come i più importanti contributi alla conoscenza. C’è un ottimismo di fondo: poter
conoscere “ scientificamente ” ogni tipo di problema concernente l’uomo. L’idea di
scienza pervade ogni campo del sapere. (Gherardi 1995, 30)
È una vicenda analoga a quella che riguarda la nascita
2. della psicologia. Al principio, il discorso sull’anima (psiche:
anima; logos: discorso razionale) è stato affrontato dai filosofi, a
tratti con grande acume (ad esempio, il mito della biga alata nel
Fedro di Platone sembra anticipare le tre istanze psichiche di
Freud).
Con il trionfo del positivismo nel XIX secolo si opera una
netta distinzione tra metafisica (pseudoconoscenza) e fisica
(vera conoscenza): ogni discorso filosofico sull’anima viene
catalogato come metafisica. La Fisica è l’unica scienza ed è
fisica anche ogni scienza umana (la sociologia ad esempio è
chiamata da Comte Fisica Sociale).
Non è l’oggetto di studio ad essere rilevante ma il metodo:
il metodo sperimentale. Qualunque ambito del sapere può essere
scientifico, se si applica il metodo sperimentale.
In questa direzione si muovono i primi passi della
psicologia scientifica, quando nel 1879 nasce a Lipsia il primo
laboratorio di psicologia sperimentale: oggetto di studio sono i
dati immediati della coscienza. Il soggetto studiato è chiamato
dallo sperimentatore a riferire quanto avverte in relazione a certi
stimoli, facendo ricorso all’introspezione.
Questo primo passo verso una psicologia scientifica sarà
per Watson, padre del comportamentismo, ancora troppo
timido. Nel suo La psicologia così come la vede un
comportamentista del 1913 leggiamo:
La psicologia, come la vede il comportamentista, è un settore della scienza
naturale del tutto obiettivo e sperimentale (corsivo nostro). Dal punto di
vista teorico, il suo obiettivo è la previsione ed il controllo del
3. comportamento. Per nessuna ragione l’introspezione fa parte dei metodi da
essa impiegati. In nessun modo il valore scientifico dei dati da essa ottenuti
dipende dalla possibilità di venire interpretati in termini di coscienza.. Il
comportamentista, nel suo sforzo teso a pervenire ad un quadro unitario
del comportamento animale, non traccia alcuna linea di demarcazione tra
l’uomo e l’animale (corsivo nostro).
Per il comportamentista, quindi, comportamento umano e
animale sono equivalenti. Per questo Watson farà riferimento
agli esperimenti di Pavlov sui cani per elaborare la sua teoria S-R
del condizionamento.
La nascita della psicoanalisi provocherà un terremoto: la
scoperta dell’inconscio non solo cambia radicalmente l’oggetto
di studio ma anche i metodi. L’interpretazione dei sogni è
qualcosa che appunto ha a che fare con l’interpretazione e
nessun metodo quantitativo o sperimentale può addentrarsi nella
foresta di simboli dell’inconscio. Inoltre, Freud con Il disagio
della civiltà del 1929 approderà a conclusioni filosofiche che
echeggiano le idee platoniche.
Il progetto di Durkheim per una scienza dell’educazione
Durkheim (1911, tr. it. 1973) ha espresso con forza la
necessità di costituire una scienza dell’educazione, ritenendo
fossero soddisfatte le tre condizioni necessarie per la nascita di
questa disciplina: 1) il riferimento a fatti osservabili, 2) la
possibilità di classificare questi fatti, data la loro omogeneità,
all’interno di una stessa categoria, 3) uno studio disinteressato di
4. questi fatti1 .
I fatti dell’educazione, per Durkheim, sono soggetti a
leggi paragonabili alle leggi della natura: è la società in una
certa fase della sua evoluzione, infatti, a determinare dall’esterno
le pratiche educative, che sono “ cose distinte da noi ”.
L’educazione è definita, quindi, come l’azione di una
generazione sull’altra per consentire l’adattamento sociale. I
fatti che caratterizzano questa azione sono oggetto della scienza
dell’educazione, che dovrebbe scoprire le leggi che dominano
l’evoluzione dei sistemi educativi.
Durkheim, sempre nell’opera citata, traccia una netta linea
di distinzione tra una scienza dell’educazione così intesa e la
pedagogia: mentre una scienza dell’educazione vuole descrivere
o spiegare quello che è o quello che è stato, la pedagogia vuole
determinare “ quello che dovrebbe essere ”. Le scienze
pedagogiche, in altri termini, non rispecchiano fedelmente la
realtà, ma prescrivono regole di condotta; non dicono “ ecco
quello che esiste ed eccone il motivo ”, ma “ ecco quello che si
deve fare ”.
Inoltre, Durkheim distingue l’educazione come esperienza
concreta, una pratica senza teoria per cui è possibile parlare di
“arte ”, dalla pedagogia che definisce “ teoria pratica ”, una
disciplina che non studia scientificamente l’educazione, ma vi
riflette per offrire all’educatore delle idee che ne dirigano
l’attività. Per poter svolgere la sua funzione la pedagogia
dovrebbe però poggiarsi su una scienza dell’educazione, cosi
1
Secondo Durkheim il vero scienziato non giudica, ma si limita a conoscere
la realtà nella sua oggettività.
5. come la chimica applicata è una teoria pratica che mette in opera
la chimica pura. Durkheim conclude, indicando nella sociologia
e nella psicologia le discipline scientifiche in grado di orientare la
pedagogia, dato che la scienza dell’educazione esisteva, allora,
solo come progetto.
Le scienze dell’educazione
Con G. Mialaret (1967, tr. it. 1984) si arriva a parlare di
scienze dell’educazione. Mialaret riprende le definizioni di
Durkheim di “educazione come arte” e di “pedagogia come
riflessione filosofica che indica gli scopi dell’educazione ”. Egli
condivide, inoltre, il pensiero di Durkheim circa la possibilità
dell’educazione di divenire oggetto di conoscenza scientifica,
non di una sola scienza, però, ma di più scienze: oltre alla
sociologia e alla psicologia, Mialaret, indica come scienze
dell’educazione anche le scienze demografiche, economiche,
biologiche, storiche e tutte quelle che hanno rapporti con i
fenomeni educativi.
La pedagogia e l’educazione, che hanno un rapporto
analogo a quello che lega pensiero e azione, non sono, per
Mialaret, pratiche sospese nel vuoto ma si riferiscono a realtà
concrete. È proprio la ricerca delle condizioni più idonee ed
efficaci dell’azione e della riflessione ad aver dato origine a tutta
una serie di discipline generali e particolari che, nel loro insieme,
costituiscono le scienze dell’educazione.
Il passaggio dalla sfera dei valori e della riflessione
6. filosofica a quello dell’azione fa emergere la complessità della
situazione in cui si collocano i fatti educativi, situazione e fatti da
studiare, per Mialaret, con metodi scientifici. Dallo studio
dell’ambiente sociale e familiare (sociopedagogia) allo studio
degli strumenti utili per gli educatori (metodologia pratica
generale e speciale), dagli studi sulle fasi di sviluppo dei bambini
(psicologia genetica) allo studio sul comportamento scolastico
dei bambini (psicopedagogia generale) sono molteplici le
discipline che Mialaret riconosce e indica come scienze
dell’educazione.
In un altro suo scritto Mialaret (1976, tr. it. 1978)
classifica le scienze dell’educazione in tre categorie:
• Scienze che studiano le condizioni generali e locali della
istituzione scolastica (storia dell’educazione, sociologia
scolastica, demografia scolastica, economia
dell’educazione, educazione comparata)
• Scienze che studiano il rapporto pedagogico e lo
specifico atto educativo (psicologia dell’educazione,
scienze della comunicazione, scienze della didattica,
scienze della valutazione)
• Scienze della riflessione e dell’evoluzione (filosofia
dell’educazione, pianificazione dell’educazione e teoria dei
modelli).
Queste discipline condividono un comune oggetto di studio:
le condizioni di esistenza, di funzionamento e di evoluzione
delle situazioni e dei fatti educativi. È proprio questo oggetto
comune a permettere il raggruppamento delle diverse discipline
nella famiglia delle scienze dell’educazione.
7. Visalberghi (1978, 2a ed.1981) fin dal titolo del suo saggio
Pedagogia e scienze dell’educazione, scritto con la
collaborazione di R. Maragliano e B.Vertecchi, ha proposto un
accostamento tra pedagogia e scienze dell’educazione, che
sottolinea il ruolo della pedagogia come luogo della riflessione
sui fatti educativi.
Si tratta, del resto, di un tipo di sviluppo molto simile a quello del rapporto, più
generale, fra filosofia e scienze. La filosofia copriva ai suoi albori tutto il campo delle
scienze, matematica inclusa. Progressivamente nel corso di millenni, il territorio della
filosofia andò riducendosi: matematica astronomia fisica, chimica, biologia, divennero
scienze autonome, e andarono altresì articolandosi nel loro interno…Tuttavia non si parla
seriamente di << morte della filosofia >>, anche se è chiaro a tutti che la situazione è
mutata, e che la filosofia da scienza o pseudo scienza onnicomprensiva e esaustiva si è
trasformata in riflessione critica sulla natura stessa della scienza, sui rapporti delle scienze
tra loro, e soprattutto sul significato che esse hanno nella nostra esistenza…Qualcosa di
simile è accaduto o sta accadendo alla pedagogia. (15-16)
Ma in che senso scienze dell’educazione e filosofia si
possono differenziare? Visalberghi, nello stesso saggio, propone
di riconoscere il carattere di scientificità delle diverse discipline
a partire da due elementi caratterizzanti:
Il primo elemento è metodologico: la scienza si basa su esperienze replicabili… che
autorizzano a fare sensate generalizzazioni e perciò previsioni. Il secondo elemento è
logico-strutturale: una scienza è costituita da un insieme ordinato e coerente di concetti
ben definiti, connessi in proposizioni… fondamentali da cui altre sono deducibili secondo
regole anch’esse ben definite. La prima caratteristica mette in luce soprattutto la natura
empirico-sperimentale della conoscenza scientifica, la seconda dà rilievo preminente alla
struttura di sistema ipotetico-deduttivo, che è specialmente evidente nelle scienze più
mature...Il carattere di << scientificità >> che riconosciamo a certi corpi di conoscenze non
è qualcosa di casuale o capriccioso: esso si rapporta ad almeno uno, se non a tutti e due,
gli elementi che abbiamo chiamato rispettivamente metodologico e logico-strutturale.
(ibidem, 16-17)
8. Visalberghi arriva, quindi, a proporre una rappresentazione
circolare delle diverse scienze dell’educazione, divise tra quattro
settori principali: settore psicologico, settore sociologico, settore
metodologico didattico e settore dei contenuti.
… il nostro schema presenta dei vantaggi, per così dire strutturali. Esso rappresenta bene
la circolarità delle conoscenze pedagogiche, mostra la loro struttura enciclopedica nel senso
originario ed etimologico del termine (en-kyklo-paidéia = cultura in circolo, a tutto
tondo). Non solo, infatti, le scienze contigue di uno stesso settore presentano fra loro
sostanziali affinità, ma lo stesso vale in misura altrettanto elevata fra scienze contigue
appartenenti a settori diversi (cioè fra psicologia sociale e sociologia dei piccoli gruppi,
…). Si tratta insomma di un insieme abbastanza coerente, dotato di una notevole forza di
aggregazione: il termine enciclopedico può essergli applicato, ma non certo nel senso
dell’erudizione dispersiva…La filosofia dell’educazione e/o la pedagogia generale non
entrano nel quadro perché non possono occuparvi una posizione particolare e
determinata, giacché rappresentano un momento di riflessione critica sull’insieme e sulle
sue interrelazioni interne ed esterne (corsivo nostro)… (ibidem, 21-22)
Per Visalberghi, quindi, la pedagogia non può essere
inserita all’interno delle scienze dell’educazione perché con il
termine “pedagogia” intende una riflessione critica sull’insieme
delle varie discipline che costituiscono le scienze
dell’educazione, quindi, non vincolata ai criteri della scientificità
da lui indicati.
La pedagogia come scienza
Bertolini (1988,2a ed. 1990), invece, cerca di fondare la
pedagogia come scienza, a partire dalla critica fenomenologica
delle scienze dei “dati di fatto” e del loro oggettivismo. Per la
fenomenologia, infatti, le scienze dello spirito sono state
assimilate a quelle naturali e la soggettività è stata ridotta
9. anch’essa ad oggettività. Una manifestazione di questa tendenza
è la ricerca dell’esattezza nelle scienze dello spirito, mediante il
metodo matematico-naturale
Questa <<naturalizzazione della sfera psichica>> -per usare un’incisiva espressione di
Husserl- ha reso estremamente difficile la possibilità di cogliere la realtà autentica della
soggettività umana che…è la fonte del << senso >> dell’essere del mondo, ma che
proprio per questo non è mai un che di <<già fatto>> o di << dato definitivamente >>. E
nel medesimo tempo essa ha impedito di rendersi pienamente conto dei grossi limiti
impliciti in certi strumenti sempre più usati anche nelle scienze dello spirito,
dall’osservazione esterna o comportamentale all’analisi statistica, dal reperimento e
dall’uso dei dati demografici a quelli emergenti dall’applicazione di quei test psicologici
che avevano la pretesa di << misurare >>, << di quantificare >> talune facoltà psichiche
dell’individuo, a partire dall’intelligenza. Tutti strumenti, questi, che venivano e tuttora
vengono ancora usati, nel tentativo di rendere << oggettivo >> (e perciò veramente
scientifico, o se si preferisce, credibile) il discorso stesso delle scienze dello spirito.
(1988,2a ed. 1990, 30)
Le tanto celebrate conquiste delle scienze naturali e della
tecnica, però, non hanno impedito una crisi del senso o anche
una crisi della ragione “…se con essa s’intende un’infinita
ricerca della verità che non può essere tradimento per la stessa
umanità” (ibidem, 46). Bertolini attribuisce questa crisi alla
progressiva divaricazione della scienza e della politica dalla
filosofia, l’unica istanza in grado di dare senso e quindi un
orientamento di valore alle varie attività dell’uomo.
In opposizione alle idee positivistiche di Durkheim, che
tendevano ad assimilare il fenomeno educativo a quello naturale
e a rendere “cose distinte da noi ” le pratiche educative,
l’approccio fenomenologico di Bertolini vuole riconoscere la
soggettività dell’educando al centro dell’esperienza educativa,
una soggettività da intendere come coscienza intenzionale.
10. …ogni soggettività, proprio in quanto coscienza intenzionale storicamente
determinata, si costituisce un mondo-per-sé che tuttavia non è mai concluso e
definito. Esso risulta infatti da un’attività intenzionante che prospettando forme
possibili trascende sempre il dato in una dinamica tendente all’infinito…Possiamo
così parlare anche del realizzarsi in ciascun individuo, in quanto coscienza
intenzionale, di una personale visione del mondo, mediante cui egli incorpora
dandogli un senso il mondo esterno (corsivo nostro). Il quale, per ciò stesso, non ha
più i connotati dell’esteriorità in quanto deriva il suo essere << vero >> dal suo
essere dato o verificato all’interno della singola soggettività. Cade così in larga
misura l’idea tradizionale secondo cui i vari << stati >> della soggettività umana…
sarebbero legati causalmente alla realtà esterna che preme su di lei con maggiore o
minore intensità e prepotenza... E’ certamente vero che quella soggettività è
condizionata non solo dalla propria dimensione corporea…, ma anche dalle concrete
realtà esterne con cui è entrata e continuamente entra in contatto. Ma è altrettanto
vero … che essa è dotata della capacità di soggettivizzare quelle stesse realtà, dando
loro un senso e perciò facendole essere in un certo modo piuttosto che in un altro.
Ciò dovrebbe significare che quei comportamenti quotidiani o modi di essere della
singola soggettività, anziché causati dall’esterno, sono di fatto << motivati >>
dall’interno…Se però le cose stanno così, il << senso >> o i molteplici sensi che
un soggetto dà alle molteplici realtà esterne, si trasformano in altrettanti valori…le
operazioni che il soggetto compie in quel suo dare un senso a ciò che è esterno a lui,
si trasformano nella prassi quotidiana in altrettante operazioni di valorizzazione
appunto di ciò che è esterno. (ibidem, 123-124)
Siamo, quindi, molto lontani dal quadro concettuale di
Durkheim, dove la struttura sociale preme e modella l’individuo,
un individuo privo di ciò che lo caratterizza in quanto soggetto: il
suo dare senso al mondo. Per Bertolini, la pedagogia deve essere
una scienza eidetica in grado di comprendere l’intenzionalità
umana; una scienza, cioè, che, mettendo tra parentesi il senso
comune, riesce a cogliere l’essenza dell’esperienza umana, le
sue strutture fondamentali. Sviluppando una rigorosa analisi
fenomenologica, Bertolini arriva a proporre quattro diverse
accezioni di esperienza educativa.
In primo luogo si deve parlare di esperienza educativa (e quindi di eventi educativi)
11. spontanea, naturale. Essa vede protagonista principale l’individuo che si educa, in quanto
è lui che apprende tanto sul piano intellettuale quanto su quello pratico e
comportamentale, pur approfittando delle relazioni con l’altro da sé (oggetti o persone che
siano) che vive in prima persona…
In secondo luogo si deve parlare di un’esperienza educativa …ancora spontanea e naturale,
ma vede tuttavia come protagonisti principali i soggetti più maturi, i quali, mettendosi in
rapporto con i soggetti meno maturi, li stimolano, li condizionano, li aiutano a crescere e
a svilupparsi senza tuttavia impostare questa loro attività in modo razionale o
programmato.
In terzo luogo, si deve parlare di un’esperienza voluta o intenzionale che vede ovviamente
come protagonisti principali i soggetti più maturi (perlopiù i professionisti
dell’educazione) i quali intendono orientare lo sviluppo e la crescita degli individui meno
maturi (perlopiù le nuove generazioni) secondo precise direzioni, ovvero facendo
riferimento a precisi contenuti d’esperienza e ad un’altrettanta precisa tavola di valori.
In quarto luogo e finalmente, si dovrebbe poter parlare di un’esperienza educativa
razionalmente fondata la quale associ al carattere di intenzionalità (di non estemporaneità
e casualità) la capacità di riferirsi a contesti culturali…non ideologicamente predeterminati.
(ibidem,159-160)
La pedagogia vuole essere la coscienza critica
dell’esperienza educativa, intesa nell’ultimo dei quattro sensi.
Tra esperienza educativa e pedagogia si verrebbe a creare una
dialettica a spirale, che permetterebbe alla prima di liberarsi
dall’estemporaneità e dagli ideologismi, mentre la seconda
potrebbe ancorarsi al mondo della vita.
Così, ancora, mentre la prima acquisterebbe la propria autenticità nel suo essere
pedagogicamente fondata (a questo punto si potrebbe dire scientificamente fondata), la
seconda acquisterebbe la propria autenticità o legittimerebbe la propria scientificità nel suo
essere fondata sulla Lebenswelt educativa e dunque nel suo essere empiricamente fondata.
Ciò che significa realizzarsi come discorso a posteriori e dunque di fatto analitico…anziché
come discorso a priori, sostanzialmente metafisico, e la pedagogia, da questo punto di
vista…risulta essere una scienza empirica. (ibidem, 161-162)
L’analisi fenomenologica “ a posteriori ” mira,
innanzitutto, a rintracciare le strutture portanti dell’esperienza
12. educativa, che rappresentano delle costanti nella molteplice
manifestazione dei fenomeni educativi, attraverso il tempo.
Bertolini definisce queste strutture come direzioni intenzionali
originarie, direzioni di senso dell’esperienza educativa. Queste
direzioni intenzionali originarie svolgono sia una funzione
cognitiva, nel senso che permettono una migliore conoscenza
dell’esperienza educativa, sia una funzione metodologico-
pratica, dato che sono in grado di fornire delle indicazioni
positive per la concreta azione educativa.
In sintesi, le direzioni di senso che emergono dall’analisi
fenomenologica sono:
• Sistemicità: nell’esperienza educativa è presente una
natura sistemica, dove entrano in gioco quattro variabili
principali: quella personale o soggettiva, quella sociale od
oggettiva, quella culturale e quella strumentale. Queste
quattro variabili insistono su una situazione problematica
e hanno legami di reciproca dipendenza e vicendevole
condizionamento. Dal punto di vista metodologico-
prassico, la sistemicità dell’esperienza educativa si
traduce nella prospettiva della globalità che comporta la
consapevolezza dell’impossibilità di isolare le singole
variabili del sistema.
Così, per esempio, una specializzazione anche di elevatissima qualità tecnica in
uno di quei fattori o variabili…non può in alcun modo aspirare ad essere
qualificata come correttamente educativa o come pedagogicamente ovvero
scientificamente fondata. È questo il caso di una specializzazione sportiva che
venga ad essere considerata come l’unico vero interesse da perseguire…ma è
anche il caso di un trattamento, pur se altamente sofisticato, di un soggetto
portatore di handicap, trattamento che pretendesse di risolversi solo nel suo
aspetto per così dire tecnico. (ibidem , 174)
13. • Relazione reciproca: questa “ direzione intenzionale ”
squalifica come pedagogicamente non corretta qualsiasi
impostazione unilaterale del rapporto educatore-
educando, dove la comunicazione è a senso unico,
dall’educatore all’educando, ed è finalizzata solo alla “
trasmissione ” di contenuti. Dal punto di vista
metodologico-pratico ne discende il principio di attenersi
alla relazione, una relazione reciproca in cui l’educando è
parte attiva.
• Possibilità: è una “ direzione ” che rimanda all’apertura
verso un futuro non predeterminato e che squalifica come
pedagogicamente scorretta quella esperienza che richiede
solo una passiva ripetizione del già dato. A livello
metodologico-pratico, la direzione della “possibilità” si
traduce nel principio della dilatazione e dell’espansione
dell’esperienza esistenziale dell’educando.
• Irreversibilità: la storicità dell’esperienza umana implica
una impossibilità di tornare indietro che, dal punto di
vista educativo, comporta una precisa assunzione di
responsabilità a non agire in modo casuale e improvvisato,
ma secondo una consapevole progettualità.
• Socialità: a partire dal riconoscimento dell’essere umano
come essere sociale, si possono considerare
pedagogicamente corrette solo quelle esperienze che
tendono a promuovere atteggiamenti come la
cooperazione e la partecipazione.
L’aver rintracciato queste strutture portanti dell’esperienza
14. educativa, direzioni di senso che possono guidare l’azione
educativa, permette, secondo Bertolini, di superare l’impasse di
un approccio solamente empirico.
…il carattere di prescrittività che deve avere la pedagogia richiede la possibilità o la
capacità…di pronunciare giudizi di valore che…le scienze solo empiriche, anche con le
loro più raffinate metodologie, non sono in grado di fondare e giustificare…Ebbene, a noi
pare che la via che ci siamo sforzati di individuare e suggerire per la costruzione di
un’autentica scienza dell’educazione, sia in grado di risolvere anche questo problema. Le
direzioni intenzionali originarie dell’esperienza educativa, proprio per la loro non
aggiuntiva ma intrinseca funzione metodologica, hanno tutte le carte in regola per essere
considerate l’esplicitazione di un vero e proprio dover essere educativo…Più
esplicitamente, hanno tutte le carte in regola per essere considerate come altrettanti valori
finalmente non compromessi o sospetti perché …la loro procedura di determinazione,
assolutamente autonoma, non è stata ideologica…E’ mediante quelle direzioni
intenzionali, d’altro canto, che diventa possibile in ogni momento storico od in ogni
circostanza, compiere (o sapere che si debbono compiere) scelte educative non
estemporanee o di piccolo respiro…ma veramente decisive, capaci cioè di orientare in
modo sicuro l’azione educativa, anche quella di tutti i giorni. Ed è in questo senso che la
pedagogia, così intesa, oltre che essere …una scienza empirica ed una scienza eidetica, si
specifica anche e contemporaneamente come scienza pratica. (ibidem, 198-199)
Una scelta di campo: paradigma positivista o
interpretativo?
Nel saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche
(1962, tr.it. 1969), che ha per oggetto lo sviluppo storico delle
scienze, T. Kuhn rifiuta la tradizionale visione della scienza
come accumulazione progressiva e lineare delle conoscenze,
processo che si verifica solo in tempi “normali”, per sostenere
che esistono anche dei momenti di frattura, momenti
“rivoluzionari”, in cui s’inizia da capo la costruzione di una
nuova struttura concettuale: il paradigma.
15. Kuhn con il termine paradigma intende una prospettiva
teorica, condivisa e riconosciuta da una comunità di scienziati
di una certa disciplina, che opera indirizzando la ricerca in
termini di:
• individuazione e scelta dei fatti rilevanti da studiare;
• formulazione di ipotesi entro cui collocare la spiegazione
del fenomeno osservato
• approntamento delle tecniche di ricerca empirica
necessarie
Si parla di prospettiva teorica e non di teoria perché un
paradigma ha una portata più generale: è una visione del mondo,
una griglia di lettura che precede l’elaborazione teorica.
Per quanto riguarda le scienze sociali, l’elemento debole è la
condivisione di un paradigma da parte della comunità scientifica.
La sociologia sarebbe, quindi, un campo multiparadigmatico. Il
concetto di paradigma nell’ambito delle scienze sociali va quindi
ridefinito come prospettiva teorica globale, ma non esclusiva.
Si colloca, comunque, ad un altro livello rispetto alla teoria,
perché costituisce una visione generale che orienta la riflessione
teorica ed empirica: è quindi pre-teorica.
I paradigmi che si sono imposti nelle scienze sociali sono
principalmente due:
• il paradigma positivista-empirista
• il paradigma dell’interpretativismo
Vediamo come questi paradigmi rispondono alle fondamentali
domande della ricerca sociale: la realtà (sociale) esiste? E’
conoscibile? Come può essere conosciuta?
La prima domanda riguarda la questione ontologica, del
16. <<che cosa>>. Ci si chiede, quindi, se il mondo dei fatti sociali
sia un mondo reale e oggettivo, dotato di una sua autonoma
esistenza al di fuori della mente umana e indipendentemente
dall’interpretazione che ne dà il soggetto. La seconda introduce
la questione epistemologica, relativa al rapporto fra il chi e il
che cosa. Riguarda la conoscibilità della realtà sociale e la
relazione fra studioso e realtà studiata. La terza domanda pone la
questione metodologica, del come la realtà sociale può essere
conosciuta.
Per vedere quali siano le risposte che questi paradigmi
hanno dato alle questioni ontologica, epistemologica e
metodologica, riprendiamo il ragionamento e le conclusioni di
Corbetta (1999).
Il paradigma positivista propone di trasferire allo studio
della realtà sociale gli apparati concettuali, le tecniche di
osservazione e misurazione, gli strumenti d’analisi matematica,
i procedimenti d’inferenza delle scienze naturali. Le risposte
che questo paradigma offre alle tre questioni evidenziate
(ontologica, epistemologica e metodologica) sono:
• Esiste una realtà sociale al di fuori dell’individuo;
• Questa realtà è oggettivamente conoscibile;
• La realtà sociale è studiabile con gli stessi strumenti delle
scienze naturali.
Nel positivismo la forma di conoscenza privilegiata è
l’induzione, operazione logica per cui si passa dal particolare
all’universale. Dall’osservazione empirica e dall’individuazione di
regolarità e ricorrenze nella frazione di realtà studiata si perviene,
quindi, a generalizzazioni o a leggi universali, che assumeranno,
17. nella loro forma più compiuta, i caratteri della causalità.
Ritornando alle tre questioni, si può dire che il paradigma
positivista offra delle risposte che possono essere così definite:
• Ontologia: realismo ingenuo. Questa posizione…può essere sinteticamente
espressa mediante due proposizioni: a) esiste una realtà sociale oggettiva, esterna
all’uomo…b) questa realtà è conoscibile nella sua reale essenza;
• Epistemologia: dualista e oggettivista. Viene affermata la possibilità della
conoscenza grazie a due fatti: a) lo studioso e l’oggetto studiato sono considerate
due entità indipendenti (dualismo); b) lo studioso può studiare l’oggetto senza
influenzarlo o esserne influenzato (oggettività). L’indagine avviene come
attraverso << uno specchio unidirezionale >>. La conoscenza assume la forma di
<< leggi >> fondate sulle categorie di causa-effetto. Esse esistono nella realtà
esterna indipendentemente dagli osservatori e la sovrintendono (<< leggi naturali
>>): il compito dello scienziato è quello di << scoprirle >>. Non viene
paventato alcun rischio che i valori del ricercatore possano deformare la sua lettura
della realtà sociale, né che succeda il contrario. Questa posizione…deriva
necessariamente dalla visione del fatto sociale inteso come dato esterno e
immodificabile.
• Metodologia: sperimentale e manipolativa. I metodi e le tecniche della ricerca
positivista…sono prelevati di peso dalle scienze naturali, nella versione
dell’empirismo classico. Il metodo sperimentale viene assunto a) sia nel suo
modo di procedere induttivo…; b) sia nella sua formalizzazione matematica. La
tecnica ideale resta …quella dell’esperimento, fondata su manipolazione e
controllo delle variabili implicate e sulla separazione-distacco fra osservatore e
osservato. (Corbetta 1999, 26-27)
Il paradigma dell’interpretativismo comprende tutte
quelle correnti teoriche (dal costruttivismo alla fenomenologia)
che condividono una visione non oggettivista della realtà sociale,
che quindi non può essere semplicemente osservata, ma
necessariamente essere <<interpretata>>. Questo approccio
sostiene l’impossibilità di ridurre la soggettività umana a
semplice oggetto di studio, assimilando il mondo degli uomini
al mondo delle cose. Le correnti costruttiviste più radicali
negano l’oggettività stessa del mondo esterno: la realtà sociale in
18. sé non esiste perché tutto è nella mente degli individui. Versioni
più moderate arrivano ad ammettere l’esistenza di strutture
istituite dagli individui nelle loro interazioni, che hanno a loro
volta un’influenza sul comportamento degli individui, in un
processo circolare. Partendo da questo tipo di premesse, è
chiaro che anche le metodologie e le tecniche di ricerca sono
fondamentalmente diverse da quelle del paradigma positivista.
Vediamo ora le risposte che l’interpretativismo offre alle
questioni ontologica, epistemologica e metodologica.
• Ontologia: costruttivismo e relativismo (realtà multiple).<<Costruttivismo >>:
il mondo conoscibile è quello del significato attribuito dagli individui. La
posizione costruttivista radicale esclude virtualmente l’esistenza di un mondo
oggettivo (ogni individuo produce una sua realtà). La posizione più moderata non
si pone il problema dell’esistenza o meno di una realtà esterna alle costruzioni
individuali, affermando tuttavia che solo queste ultime sono conoscibili. <<
Relativismo >>: questi significati, queste costruzioni mentali, variano fra gli
individui; e anche quando non sono strettamente individuali in quanto condivisi
da gruppi di individui, variano fra le diverse culture. Non esiste una realtà sociale
universale valida per tutti gli uomini (<< realtà assoluta >>), ma ne esistono
molteplici ( << realtà multiple >> ), in quanto molteplici e diverse sono le
prospettive con le quali gli uomini vedono e interpretano i fatti sociali.
• Epistemologia: non dualismo e non oggettività… Tende a scomparire la
separazione fra studioso e oggetto-dello-studio, così come quella fra ontologia e
epistemologia. In contrapposizione con la visione positivista, la ricerca sociale
viene definita come <<scienza interpretativa in cerca di significato piuttosto che
scienza sperimentale in cerca di leggi>> (Geertz 1973, tr. it.1987,41), dove le
categorie centrali sono quelle di valore, significato, scopo…
• Metodologia: interazione empatica fra studioso e studiato. L’interazione fra
studioso e studiato nel corso delle fasi empiriche della ricerca non è più valutata
negativamente, ma rappresenta all’opposto la base del processo conoscitivo. Se
lo scopo è quello di pervenire alla comprensione del significato attribuito dal
soggetto alla propria azione, le tecniche di ricerca non possono che essere
qualitative e soggettive, dove per soggettive si intende variabili di volta in volta
a seconda della forma che l’interazione studiante-studiato assume. (ibidem, 38-39)
19. Paradigmi e pedagogia
Ritornando per un momento al progetto di scienza
dell’educazione di Durkheim, di cui abbiamo già sottolineato
l’impostazione positivista, e mettendolo a confronto con la
proposta di pedagogia come scienza empirica, eidetica e pratica,
avanzata da Bertolini a partire da una riflessione di carattere
fenomenologico, risulta ora più chiaro come in questo ambito di
studi si sia verificato un vero e proprio cambiamento di
paradigma, in direzione del paradigma, definito da Corbetta,
dell’interpretativismo. In questo caso, però, non si verifica una
rottura, come ad esempio nella fisica, quando la teoria
quantistica della luce sostituì, consegnandole alla storia della
scienza, le teorie precedenti e la visione generale del mondo che
ne era alla base. Nelle scienze sociali e anche in pedagogia è
opportuno, invece, parlare di campi multiparadigmatici, ambiti
di conoscenza, cioè, dove sono compresenti più paradigmi che
non necessariamente si escludono a vicenda.
Lo stesso Bertolini, riprendendo il dibattito qualità-quantità
nella ricerca pedagogica, ammette l’utilità della ricerca empirica
e quantitativa ai fini di una scienza pedagogica.
La questione, a nostro parere, consiste nel rendersi conto che l’importante è saper
<<leggere>> quei dati mettendoli in relazione con il quadro interpretativo generale che
sappiamo emergere dalle analisi di senso di cui abbiamo parlato…e che ci hanno permesso
di costituire una scienza, oltre che empirica, eidetica e pratica. Non neghiamo che sia
possibile e legittimo compiere delle ricerche empiriche autonome, mossi dal desiderio di
conoscere taluni aspetti della realtà umana vissuta…Ma quel che ci preme qui far notare è
che, rimanendo a questo livello, il discorso che emerge dalla ricerca empirica non acquista
un significato e un valore pedagogici, proprio perché la dimensione del pedagogico…va in
una duplice direzione. Innanzitutto va nella direzione della costruzione di un discorso
20. valutativo (corsivo nostro), sia cercando di cogliere, secondo una metodologia
comprensiva il << senso >> che tutti i dati comunque evidenziati e recepiti hanno per chi
li vive e per chi li deve prendere in considerazione (quindi cercando di cogliere il <<
vissuto >> soggettivo od intersoggettivo di quei dati); sia mettendo a confronto quelle
risultanze con le unità di senso originarie dell’esperienza educativa. In secondo luogo, va
nella direzione della conduzione di un discorso propositivo (corsivo nostro) …in quanto
interessato a modificare la situazione reale (quella comunque rivelatasi anche per mezzo
della ricerca empirica), partendo certamente da quest’ultima ma per orientarla verso i
traguardi (mai definitivi, tuttavia) che quelle stesse unità di senso originarie definiscono in
modo essenziale. (Bertolini 1988, 2a ed.1990, 266-267)
In altri termini, se la ricerca empirica può dire qualcosa di
fondato circa una realtà – i dati della ricerca – è opportuno
tenerne conto ma, allo stesso tempo, è necessario chiedersi cosa
significano quei dati e come si può cambiare la realtà a cui quei
dati fanno riferimento.
Da un punto di vista operativo, questi diversi livelli,
descrizione di una realtà (osservazione), significato di questa
realtà (valutazione) e dimensione progettuale rappresentano
momenti fondamentali dell’intervento educativo.
Premesse epistemologiche e direzioni di senso del lavoro
educativo
Proviamo ora a porre la questione epistemologica della
conoscenza dell’altro all’interno della relazione educativa: la
soggettività dell’educando può essere avvicinata allo stesso
modo dell’oggettività del mondo naturale, osservandola
dall’esterno e, quindi, staccandola da qualsiasi rapporto con la
soggettività dell’osservatore?
Questo interrogativo pone in primo piano il problema delle
premesse epistemologiche e della direzione di senso del lavoro
21. educativo e, in definitiva, delle conseguenze che possono
verificarsi sul piano della relazione con l’educando.
L’interrogarsi sulla possibilità di rendere oggetto di conoscenza
l’educando, infatti, porta con sé altre domande, che riguardano
la possibilità di manipolazione della persona e il suo essere
destinatario passivo delle iniziative altrui. I nuovi quesiti
possono essere così formulati:
• il lavoro educativo è un lavoro sulla persona o con la
persona?
• la persona dell’educando e le persone del suo ambiente
sono i destinatari passivi di un progetto elaborato dai
tecnici o persone che costruiscono un progetto insieme ai
tecnici e agli educatori?
Come credo ora risulti più chiaro, i problemi legati alle
premesse epistemologiche così come quelli delle direzioni di
senso (relazione reciproca o unidirezionale?) sono d’importanza
centrale. Concepire se stessi come osservatori esterni o interni
alla situazione osservata, infatti, vedendo l’altro come oggetto
del proprio osservare o come soggettività pienamente umana,
condiziona profondamente l’atteggiamento verso la persona per
cui si è chiamati ad operare. Analogamente, concepire la
relazione in modo reciproco o, al contrario, in modo
unilaterale, rendendo l’altro oggetto della propria azione,
genera una differenza del tutto simile a quella esistente tra
interazione-comunicazione e trasmissione-manipolazione.
La difficoltà consiste, però, nel fatto che queste premesse e
queste direzioni di senso sono, nella pratica professionale,
perlopiù implicite e date per scontate. Ad esempio:
22. l’osservazione riguarda l’utente del servizio erogato e non la
relazione educatore-educando; si lavora “su…”, preposizione
rivelatrice di un atteggiamento che tende ad oggettivare la
persona dell’educando; infine, i tecnici fanno il progetto e poi la
famiglia è chiamata a “ condividere ” gli obiettivi e le
metodologie proposte.
In una situazione di questo tipo è necessario attuare una
sorta di sospensione del giudizio2 , tendente a mettere tra
parentesi l’atteggiamento che dà per scontato e “naturale” ciò
che è culturalmente costruito.
Come accennato, un esempio dell’atteggiamento
oggettivistico nel lavoro educativo è l’uso frequente della
preposizione “su”: lavorare su qualcuno. Questa preposizione
apparentemente innocente svela, ad una più attenta analisi, una
tendenza ad agire come se l’altro, l’educando, fosse una cosa
del mondo: lavorare “su” rimanda, infatti, alla manipolazione
della materia inorganica: è, in altri termini, un modellare a
proprio piacimento una materia plasmabile. Lavorare “su”
implica, quindi, una concezione della relazione lineare e
unidirezionale: si agisce sull’utente o sullo studente, tramite un
intervento unilateralmente pilotato e controllato dal tecnico. È un
approccio che, per usare le parole di Bertolini, contraddice la
direzione intenzionale originaria della relazione reciproca.
La preposizione rivelatrice di un diverso atteggiamento è
“con”: lavorare con qualcuno. Viene riconosciuta, in questo
caso, la piena soggettività alla persona dell’educando e quindi
2
È il concetto di epoché proprio della fenomenologia che possiamo tradurre
approssimativamente come demistificazione.
23. l’inevitabile reciprocità della relazione.
Gli operatori, in base alle premesse epistemologiche e alle
direzioni di senso, concettualizzano, quindi, non solo la relazione
che intercorre tra se stessi e l’utente, ma anche il proprio agire
in rapporto all’utente. A questo proposito, L. Fruggeri nel suo
saggio Famiglie (1997, 2a ed. 1998) distingue due tipi di
prospettive: quella istruttiva e quella socio-costruzionista.
Sintetizzando, si può in altri termini dire che il modello istruttivo dell’intervento, nelle
sue versioni sociale, medica e pedagogica, è caratterizzato dalle seguenti idee implicite:
a) l’utente, sia esso un singolo individuo o un gruppo familiare, è, in ultima analisi,
oggetto dell’intervento, che è concepito come unilateralmente pilotato e controllato
dall’operatore (corsivo nostro);
b) l’azione dell’operatore è identificata con l’applicazione di teorie, l’attuazione di
protocolli e l’utilizzazione di strumenti;
c) l’esito e l’efficacia di un intervento è funzione della correttezza con cui un operatore
mette in atto i modelli tecnico-scientifici di riferimento.
Partendo da questi presupposti, la conduzione degli interventi si configura come un
percorso unidirezionale che prevede:
• la rilevazione della richiesta dell’utente (la cura di una malattia, l’educazione di
un bambino…)
• l’analisi della situazione o la “diagnosi” del bisogno;
• l’attuazione di una prestazione attraverso l’utilizzazione di strumenti tecnici di
cui è stata precedentemente verificata la validità scientifica e l’efficacia
(Fruggeri 1997, 2a ed. 1998, 182)
Poco più in là, Fruggeri individua il nesso tra questo
modello d’azione e le premesse epistemologiche implicite:
dualismo e oggettivismo.
All’adozione di un modello istruttivo è sottesa un’epistemologia che si fonda sulla
separazione del mondo dell’osservatore da quello dell’osservato. Un’epistemologia che
considera la scienza e le sue applicazioni come domini separati da ogni attività sociale, che
enfatizza dunque metodi, procedure, strumenti e tecniche e ignora il contesto interattivo e
relazionale entro cui tali metodi, tecniche, strumenti e procedure vengono applicati.
(ibidem, 184)
24. Vediamo ora di delineare quella che Fruggeri definisce
come prospettiva socio costruzionista.
Nella prospettiva istruttiva, il risultato dell’intervento dell’operatore è concepito come
esito di un’applicazione di protocolli tecnici, di procedure operative e di teorie di
riferimento; in quella socio-costruzionista, il risultato dell’intervento dell’operatore è
considerato esito di un processo interattivo tra i cui elementi costitutivi figurano i sistemi
di significato e di rappresentazione di tutti i soggetti coinvolti, non presi separatamente,
ma per come si coordinano nell’azione congiunta. (ibidem, 180)
Parlando di prospettiva sociocostruzionista, siamo
all’interno di quello che abbiamo definito paradigma
interpretativo. In questo paradigma la realtà sociale non è
oggettiva, un dato di fatto che prescinde dall’osservatore e dalle
sue interpretazioni: ognuno, infatti, abita una propria realtà, in
parte costruita nell’interazione con gli altri. Nell’interazione,
quindi, è possibile sia la conoscenza dell’altro, mediante
immedesimazione, sia il cambiamento, mediante la costruzione
di una nuova realtà sociale. L’intervento non è più “su”, ma
“con”.
I risultati della ricerca psicosociale…ci inducono piuttosto a considerare famiglie e
operatori come co-attori nel processo di intervento. Queste ricerche hanno evidenziato
come il comportamento interpersonale sia correlato con le rappresentazioni che i soggetti
hanno della situazione interattiva…Il processo interattivo che si svolge nelle situazioni di
comunicazione interpersonale si configura come un processo di coordinamento dei diversi
sistemi di significato a cui i soggetti aderiscono. Se, dunque, ogni interlocutore agisce a
partire dai propri sistemi di rappresentazione, l’esito finale del processo non è tanto
funzione dei singoli sistemi di rappresentazione o dei comportamenti dei singoli
individui, ma dei modi in cui questi si coordinano nello svolgersi della dinamica
interattiva.
(ibidem, 184-185)
25. L’applicazione corretta di procedure e tecniche che
prescinde, però, dal sistema di significati delle persone coinvolte
nell’intervento può produrre risultati paradossali. Ad esempio,
un intervento educativo che ottiene buoni risultati per l’utente
del servizio può provocare, allo stesso tempo, senso di
frustrazione e d’inadeguatezza nei familiari, che sentendosi
sempre più incapaci, tenteranno di boicottare l’intervento stesso.
…i processi interattivi producono esiti (positivi o negativi) al di là di ogni controllo
unilaterale da parte dei singoli partecipanti. Parlare di effetti non voluti implica riconoscere
la presenza di un doppio livello in ogni situazione relazionale. In un’interazione è cioè
possibile distinguere una dimensione strategica (corsivo nostro), connessa alle intenzioni
e agli scopi a partire dai quali ogni partecipante inizia un rapporto e agisce in esso, e una
dimensione costruttiva (corsivo nostro), che riguarda invece la costruzione di realtà sociali
derivanti dall’interazione attivata e alimentata dai partecipanti nel perseguimento degli
scopi che si sono prefissati. Secondo questa chiave di lettura, nella interazione tra operatori
e utenti, l’operatore perseguirà lo scopo di aiutare, facilitare, modificare, istruire, sostenere
un individuo o un gruppo familiare, ma anche questi ultimi, da parte loro, parteciperanno
all’interazione perseguendo gli obiettivi e gli scopi che li hanno portati a rivolgersi alle
agenzie sociali. L’operatore adotterà le strategie che ritiene più adeguate a far fronte alla
richiesta dell’utente, e quest’ultimo, a sua volta, metterà in atto comportamenti che ritiene
utili per il soddisfacimento delle proprie esigenze. Mentre ciò accade, tuttavia, i due
partner danno luogo ad un processo comunicativo attraverso il quale negoziano la
definizione di se stessi, della loro relazione e della situazione in cui sono coinvolti. Essi
costruiscono cioè identità, rapporti, realtà sociali.
(ibidem, 185-186)
Tornando ora al quesito relativo alla possibilità di
osservare l’educando a prescindere da un’osservazione su se
stessi in quanto operatori, proviamo ora a dare una risposta:
laddove l’epistemologia è dualistica e oggettivistica, osservare
l’utente come se si stesse dietro uno specchio unidirezionale è
perfettamente normale (si pensi a certe forme di osservazione
clinica e alla valutazione dell’intelligenza mediante test che
26. misurano “oggettivamente” il Q.I.); quando il paradigma di
riferimento è quello interpretativo e l’epistemologia è non
dualistica e non oggettivistiva, osservare l’altro senza osservare
se stessi non è più possibile: l’osservatore entra a far parte del
contesto osservato.
Assumere una prospettiva costruzionista implica che l’operatore non si limiti ad osservare
gli utenti (individui o gruppi familiari), ma apprenda anche ad osservare se stesso mentre
partecipa alla relazione con l’utente. La prospettiva costruzionista comporta cioè
un’osservazione combinata, non tanto di informazioni o di dati diversi, ma piuttosto di
due diversi tipi di dati o informazioni, che appartengono a due livelli logici distinti e
reciprocamente implicati… E’ la combinazione di informazioni alla quale Bateson ha dato
il nome di doppia descrizione… Un metodo cioè che suggerisce di assumere nell’analisi
del processo d’intervento, un punto di vista “ binoculare ” che combini a) l’osservazione
sull’utente e sulle sue relazioni significative con b) l’osservazione sulla relazione che si
stabilisce fra l’operatore e l’utente, da un lato, e il suo sistema d’appartenenza, dall’altro.
(ibidem, 203-204)
La doppia descrizione è, però, ben poco praticata nel
lavoro educativo. Questo approccio, infatti, risulta essere
“faticoso” perché implica non solo la comprensione dell’altro e
del suo modo di vedere il mondo, ma anche una riflessione
articolata che riguarda:
-le proprie premesse e come queste tendano a costruire la
relazione con l’altro;
-i significati che il proprio intervento assume nel contesto delle
relazioni dell’utente
27. La dimensione progettuale dell’intervento educativo
Affrontiamo ora il tema della dimensione progettuale.
Sviluppare questo tema significa passare dal terreno della teoria
a quello delle pratiche di lavoro, o se si preferisce dalla
dimensione eidetica, per usare un’espressione di Bertolini, a
quella metodologica e pratica. La direzione intenzionale originaria
della “ possibilità ”, infatti, intesa come apertura al futuro ed
espansione del campo d’esperienza dell’educando, richiede, dal
punto di vista metodologico-pratico, l’elaborazione di opportune
procedure operative: la programmazione e il progetto.
La dimensione progettuale del lavoro educativo prende
forma con queste due pratiche di lavoro. È in ambito scolastico
ad affermarsi, a partire dagli anni 70, il termine e la pratica della
programmazione con cui, almeno in un primo tempo,
s’intendeva attribuire agli insegnanti una responsabilità
progettuale, fino ad allora negata. Il termine programmazione, in
un secondo tempo, è entrato in uso anche a proposito degli
interventi educativi extra-scolastici. Come vedremo, però,
questo termine è andato ad occupare un’area di significato
coincidente, almeno in parte, con quella di progetto.
Dal punto di vista storico, è nel 1974 che si parla per la
prima volta di programmazione in un documento ufficiale
(decreto delegato n.416), dove a proposito del collegio dei
docenti si afferma che il collegio “…ha potere deliberante in
materia di funzionamento didattico del circolo o dell’istituto. In
particolare cura la programmazione dell’azione educativa anche
28. al fine di adeguare, nell’ambito degli ordinamenti della scuola
stabiliti dallo Stato, i programmi d’insegnamento alle
specifiche esigenze ambientali (corsivo nostro) e di favorire il
coordinamento interdisciplinare. Esso esercita tale potere nel
rispetto della libertà d’insegnamento garantita a ciascun
insegnante. ”.
S’introduce, così, una dimensione progettuale nel lavoro
educativo, in modo da tradurre le linee programmatiche
generali valide per l’intero territorio nazionale nel contesto
della situazione scolastica locale. Dallo stesso testo emergono
anche altri elementi della programmazione come: definizione
degli obiettivi, organizzazione del processo didattico e scelta
degli strumenti didattici (ad esempio il libro di testo), valutazione
periodica dell’azione didattica, predisposizione di strategie di
recupero.
Nella legge n. 517 del 1977 si afferma con forza che la
finalità fondamentale della scuola dell’obbligo è lo sviluppo della
personalità dell’alunno, attraverso la personalizzazione
dell’intervento educativo-didattico. Per attuare questi interventi
è possibile ricorrere anche ad attività con alunni provenienti da
diverse classi (classi aperte), programmandole sulla base di un
progetto che stabilisce i modi e i tempi.
I nuovi Programmi della scuola media del 1979
chiariscono alcuni punti riguardanti la programmazione:
• La programmazione permette al consiglio di classe e ai
singoli docenti di impostare, a partire dai programmi
delle diverse discipline, i piani didattici, tenendo presenti
la situazione della classe e dei singoli alunni
29. • L’organo competente per la programmazione educativa e
didattica è il consiglio di classe
• La programmazione prevede un progetto educativo e
didattico che comprende:
1. individuazione delle esigenze del contesto socio-
culturale e delle situazioni di partenza degli alunni;
2. definizione degli obiettivi finali, intermedi, immediati
che riguardano l’area cognitiva, l’area non
cognitiva e le loro interazioni;
3. organizzazione delle attività e dei contenuti in
relazione agli obiettivi;
4. individuazione dei metodi, materiali e sussidi;
5. sistematica osservazione dei processi di
apprendimento;
6. processo valutativo e verifica dell’azione didattica
programmata;
7. verifiche del processo didattico che informino sui
risultati raggiunti.
Si delinea, così, sempre più chiaramente una specifica
responsabilità progettuale per gli insegnanti, che ne ridisegna il
ruolo tradizionalmente affidatogli di passivo esecutore di progetti
educativi elaborati da altri. La programmazione è quel processo
che svolge un ruolo di “traduzione” o d’interfaccia tra
programma- realtà locale – singolo individuo. Frabboni
(1990) a questo proposito afferma:
Il curricolo è il percorso formativo di uno specifico grado scolastico…Questo percorso per
godere di “dignità” curricolare deve vedere coesistere (camminare insieme) il Programma
30. (Pa) e la Programmazione (Pe)…E’ possibile appendere sul petto della scuola lo stemma
del curricolo a una condizione: che il Pa e il Pe si diano la mano. Pattuendo, da un lato,
che il Pa (presentandosi corposo e flessibile) permetta alla Pe di modellare (e adattare) il
Pa ad un allievo storico-reale-ambiente, e, dall’altro lato, che la Pe abbia sempre le
gambe dentro al Pa (ne sia, quindi, “fedele” interprete).
Con l’avvento nel nostro ordinamento del principio (e della prassi) della Pe – “educativa”
e “didattica” – l’insegnante è stato posto nelle posizioni di convertire radicalmente la
propria professionalità. Di tramutarsi, in altri termini, da “manovale” ad architetto della
pratica didattica, da mero “esecutore” ad ingegnere dei processi formativi prescritti dal
Legislatore (il Pa). (1990, 156)
Abbiamo visto come, per Bertolini, sia necessario un
rapporto dialettico tra teoria e prassi, in grado di liberare la
pratica dall’estemporaneità e di ancorare la teoria al “ mondo
della vita ”. La programmazione svolge proprio la funzione di
cerniera tra questi due livelli, permettendone l’incontro.
Ricordiamo innanzitutto cosa si deve intendere per programmazione. Con questo termine
noi intendiamo quell’attività di costruzione di un piano, di predisposizione di un progetto
o di individuazione di una strategia che, correlando gli obiettivi generali (quelli che come
sappiamo fanno riferimento agli orientamenti intenzionali originari dell’esperienza
educativa) e quelli specifici di ogni evento educativo (quelli che connotano momento per
momento l’esperienza educativa: nel caso della scuola, per esempio, quelli che ne
scandiscono il programma) con la situazione concreta nella quale e con la quale l’evento
educativo ha luogo, sappia dare un senso pedagogicamente corretto alle scelte
metodologiche e tecniche che occorre compiere. (1988, 2a ed. 1990, 249-250)
Per Bertolini, quindi, la programmazione è un processo
che si articola in diversi punti:
• precisazione degli obiettivi generali ( le direzioni di senso
generali come la relazione reciproca) e degli obiettivi
specifici (informazioni da trasmettere e abilità da
sviluppare)
• conoscenza del contesto sociale in cui si opera e della
31. situazione del singolo educando
• predisposizione del percorso educativo-didattico
• verifica del percorso fatto o in fase di svolgimento
La programmazione, così intesa, è una pratica flessibile, in
grado di adeguarsi dinamicamente alle situazioni, non
coincidente, quindi, con programma, termine che rimanda ad un
percorso rigidamente fissato, valido sempre e per tutti.
Bertolini, inoltre, propone una visione di programmazione
come processo partecipato:
…una delle condizioni di attuazione irrinunciabili per ogni autentica programmazione è
rappresentata dalla capacità (e dalla disponibilità) di coinvolgere in essa tutti i suoi
protagonisti…Ciò vale naturalmente in primo luogo per gli educatori che troppo spesso
sono stati invece considerati dei semplici << esecutori >> di decisioni prese da altri…Ma
vale anche per gli educandi che non debbono essere più vissuti come passivi destinatari
della programmazione educativa e/o didattica (del progetto pedagogico), ma devono
essere riconosciuti come altrettanti suoi irrinunciabili protagonisti, anche se non sempre
consapevoli o consapevoli solo a partire da un certo momento del loro iter formativo
(corsivo nostro). (ibidem, 252-253)
32. Dalla pianificazione alla co-progettazione
Coerentemente con la visione generale della realtà sociale
di tipo positivista, la progettazione è pianificazione.
Progettare secondo l’approccio della pianificazione vuol dire prefigurare, prevedere e
pianificare intenzionalmente e a priori le azioni che le persone dovranno eseguire per poter
raggiungere gli obiettivi prestabiliti…La progettazione come pianificazione è in grado di
eliminare il disordine, in sé negativo, per condurre all’ordine, alla razionalità e alla
linearità; il consulente che deve progettare la riorganizzazione di un reparto ospedaliero
considera le parti che lo compongono come delle variabili totalmente dipendenti,
manipolabili e controllabili dal progettista; anche le persone sono variabili plasmabili per
raggiungere gli obiettivi prestabiliti. Nell’approccio della razionalità assoluta vi è la
convinzione che il dirigente, il consulente, l’operatore che progetta sia colui che definisce
il problema e costruisce una rappresentazione completa e ottimale delle diverse azioni per
la sua soluzione. Il progettista è in grado di raccogliere tutte le informazioni necessarie per
definire le procedure adeguate per raggiungere gli obiettivi.
(F. d’Angella, A. Orsenigo 1997, 54-55)
Questo tipo di progettazione, molto vicina alla
programmazione rigidamente intesa, funziona secondo una
logica ingegneristica, in cui il tecnico che progetta pensa,
disegna e poi lascia che siano altri a tradurre in termini operativi
il progetto. Si afferma, così, una rigida separazione tra chi
progetta e pensa, e chi è chiamato a mettere in pratica, ad
agire, esecutore di idee altrui. Dal punto di vista dell’esecutore,
questo approccio, fornendo precise indicazioni sul da farsi,
riduce i margini d’incertezza e l’ansia che ne potrebbe
conseguire. Il progettista, d’altra parte, si preoccupa solo dei
mezzi e delle tecniche, agendo secondo una ragione strumentale
che espelle gli interrogativi riguardanti i fini. Nell’ambito dei
servizi sociali, però, il fine, i valori e il significato del proprio
agire sono problemi non eludibili.
33. Un approccio che si discosta in parte dalla pianificazione,
ma senza cambiarne la filosofia di fondo è quello del problem
solving., procedura utile per decidere la soluzione soddisfacente
a un problema. La progettazione dell’azione avviene, in questo
caso, mediante una scomposizione del problema in parti
semplici, in modo da individuare le diverse logiche e i saperi
specialistici per affrontarli. Il problem solving permette, in molti
casi, di offrire delle risposte adeguate a specifici problemi,
laddove non è in gioco un cambiamento radicale e ottimale delle
persone. La problematicità di questo approccio risiede,
innanzitutto, nel fatto che l’oggetto-problema sminuzzato non è
più lo stesso oggetto di partenza. Inoltre, non per tutti i problemi
c’è una soluzione.
L’approccio alla progettazione più coerente con una
epistemologia fenomenologica o costruttivista è, invece, quello
della progettazione dialogica o coprogettazione. Al modello del
decisore unico, la progettazione dialogica oppone l’idea e la
prassi del progettare insieme con gli attori sociali presenti sulla
scena dell’intervento. Il primo problema che si pone per questo
tipo di progettazione è quello di una comune definizione del
problema.
Per la progettazione dialogica è fondamentale la costruzione di un significato comune al
problema. Il consulente non definisce a priori il problema e la sua soluzione, ma
contribuisce a far sì che le situazioni problematiche abbiano un riconoscimento parziale. La
condivisione è possibile se si tien conto che ciascun attore utilizza delle personali mappe
cognitive per dare senso e significato alle cose, agli eventi e alle azioni…La progettazione
nel processo di costruzione di un significato condiviso del problema è enunciazione,
scambio, interazione, conflitto fra le diverse mappe, con il grosso sforzo di costruire un
modo << comune >> di leggere, comprendere e interpretare il problema... Il lavoro di
progettazione ha il compito di confrontare e coordinare più mappe e quindi proporre molti
34. modi diversi di vedere il problema. All’inizio il dibattito tra tutte le persone coinvolte
nel progetto non è concentrato sulla ricerca della soluzione del problema, ma piuttosto
su un modo comune di << vedere >> le cose e gli eventi. La progettazione intesa come
costruzione di significati condivisi assume un’ottica di processo di ricerca e di
esplorazione collegabile al filone della ricerca-azione... Nella ricerca-azione tutte le
persone coinvolte nel progetto di ristrutturazione diventano dei ricercatori, nel senso che
contribuiscono a costruire dei significati comuni dei problemi, degli obiettivi condivisi e
delle azioni da intraprendere. (corsivo nostro)
La progettazione come processo volto a costruire significati condivisi e co-costruiti attiva
un processo in cui tutti diventano attori attivi della progettualità; questi sin dall’inizio
partecipano alla definizione di tutte le parti del progetto: dalla definizione di ciò che
costituisce la situazione-problema alla messa a punto delle strategie per risolverlo o per
trovare un modo comune per gestirlo, dall’applicazione delle decisioni alla valutazione
dei risultati ottenuti. (corsivo nostro) (ibidem, 62-63)
Alla luce delle considerazioni svolte, proviamo ora a dare una
prima risposta alla domanda circa la possibilità di costruire un
progetto educativo, in assenza di una rappresentazione condivisa
della situazione problema. Partendo da un approccio alla
progettazione con decisore unico e muovendosi nella logica
della pianificazione, il progetto predisposto dai tecnici può
essere “imposto” in forza di ragioni oggettive di ordine
scientifico. Nel migliore dei casi, il progetto è accettato
favorevolmente perché si riconoscono come proprie le ragioni
“oggettive” prodotte dal tecnico. Una cornice di senso condivisa
e la consapevole accettazione, da parte del destinatario del
progetto, di una relazione asimmetrica, con il tecnico in
posizione dominante in virtù dei suoi saperi, permettono alla
comunicazione di funzionare e al progetto di fondarsi su solide
basi.
Partendo, invece, da una prospettiva fenomenologica o
costruttivista, il modello del decisore unico non è più
praticabile e tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento
35. diventano protagonisti della costruzione del progetto educativo.
In questo caso il tecnico non parte da un progetto e da ipotesi
precostituite, ma si mette in una posizione d’ascolto e prova,
passo dopo passo, a raccogliere nel confronto i tasselli
d’informazione, per sistemarli, poi, in un disegno, da valutare
insieme. Abbiamo già visto e vedremo ancor meglio nel seguito,
quali difficoltà possano presentarsi nell’opera di
“ costruire insieme ” un progetto (i miti familiari, ad esempio,
ma anche le idee distorte degli operatori). Bisognerebbe mettere
in conto, anche nella migliore delle ipotesi, un certo livello di
conflitto, che deriva dal dover confrontare e mettere in
discussione le proprie rappresentazioni. Ma quando, nella fase
pre-intervento, nonostante gli sforzi di mediazione e di
trasformazione del conflitto, permangono, nella lettura della
situazione problematica, distanze tali da pregiudicare il buon
andamento delle fasi successive (identificazione degli obiettivi,
implementazione del progetto, valutazione), l’alternativa che si
pone è: tornare al modello del decisore unico oppure
rinunciare al mandato.
Il progetto di vita
Normalmente, siamo portati a pensare al progetto
educativo, inscrivendolo in un arco di tempo definito, spesso
quello dell’anno scolastico o, allargando l’orizzonte, ad un
progetto che attraversa un ciclo scolastico, ad esempio le scuole
medie. Nel caso di persone con gravi disabilità, dove il carattere
del deficit è permanente e non è possibile pensare ad una
36. “ guarigione ”, occorre proiettarsi più lontano e provare a
mettere a fuoco un progetto di vita, dove a fare da sfondo c’è la
domanda: il futuro che immaginiamo per queste persone è in un
contesto separato (istituzione di varia natura e dimensione) e di
carattere assistenziale o integrato nella nostra comune vita
sociale?
Per approfondire il tema, riporto alcuni passaggi
dell’intervento di E. Montobbio al Convegno Internazionale “La
qualità dell’Integrazione è la qualità della scuola”, tenutosi nel
novembre del 2003.
Cerchiamo di comprendere il significato dell'espressione "progetto di vita" che abbiamo già
indicato come impegnativa e per certi versi difficile da definire e non solo nella disabilità.
Ricordiamo che la mente di tutti gli uomini lavora per progetti e che ogni bambino deve
sentirsi immerso (senza forzature) in una dimensione progettuale, per diventare capace di
formulare per se stesso propri progetti.
Il progetto di vita è un mix inscindibile di pensieri e di sentimenti nel quale immaginario
e intenzionalità programmatoria si bilanciano e si completano mutando lentamente nella
loro proporzione. (corsivo nostro)
Questo mutare è segnato dal passare del tempo, dalla crescita del figlio, ma anche da altre
variabili, quali l'incontro con il limite e con il principio di realtà. Ricorrendo ad una
metafora mi piace immaginare che il sentiero esistenziale delle persone disabili percorra un
crinale fra due versanti: da un lato l’incontro col limite (evento necessario per diventare
grandi) dall’altro il diritto (come per tutti) a spazi di negazione. Più il progetto è integrato
(ad esempio nel lavoro), più l’incontro col limite è necessario, più il progetto è separato
(ad esempio in un Centro Diurno) più sono accettabili fughe nella negazione…
L'apprendimento prodotto dalle esperienze e dalle "situazioni" in cui ci è dato di vivere, è
un elemento significativo nell'equilibrio fra il sogno e le realistiche aperture di credito.
Il progetto di vita può anche essere definito una sorta di piano di azione (corsivo
nostro) che sollecita grandemente le capacità educative, ma anche come abbiamo detto, la
maturità relazionale dei genitori. Si tratta infatti di mettere in campo una serie di
comportamenti motivati e volontari diretti ad uno scopo controllabile socialmente. Questo
piano di azione richiede ai genitori e ai professionisti che li affiancano la capacità di
valutare il futuro possibile per il figlio disabile, anticipandone l'avvenire, e nel contempo
prendendo l'avvio da una corretta valutazione del presente e, man mano che diventano
37. passato, dalle esperienze vissute…(corsivo nostro)
Le persone e quindi anche le persone disabili, non dovrebbero essere al mondo come "cose"
(Moretti direbbe non -persone) ma essere connotate da spazi, anche limitati e mutevoli di
intenzionalità e quindi "aperti al mondo" per quanto riguarda gli atteggiamenti e le azioni.
Non c'è dubbio che la persona disabile è "gettata nel mondo" con la connotazione
ontologica dell’ handicap, cioè in una condizione che non è stata scelta, come accade per
ogni uomo, ma che è oggettivamente vincolante dal punto di vista strutturale e funzionale.
La persona disabile rischia sempre di diventare "cosa del mondo", almeno in parte, perdendo
di conseguenza la possibilità che per lei "il mondo accada" e risultando in qualche misura
dominata da un determinato progetto di mondo. Il bambino disabile è vissuto sovente come
oggetto da riparare piuttosto che come individuo dotato di una propria originalità da far
crescere con il fine di renderlo il più possibile equilibrato, felice e dignitoso…
Il progetto di vita, quindi, riporta al centro dell’attenzione
la soggettività dell’educando, i suoi spazi di libertà, il suo diritto
ad un futuro non completamente preordinato, anche se
inevitabilmente condizionato dal proprio ambiente. Si pone, in
altri termini, il problema della partecipazione al progetto di
tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento, educando
compreso.
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