1. UEnergia
La Commissione il 28 maggio ha pubblicato la propria strategia per la sicurezza energetica. Shale gas?
Cattura e confinamento della CO2? Nucleare? Rinnovabili? Quale la soluzione?
Roberto Meregalli, 6 giugno 2014
www.martinbuber.eu – www.energiafelice.it
“A mano a mano che l'energia è diventata parte vitale dell'economia europea e degli stili di vita moderni, è
diventato naturale aspettarsi forniture energetiche sicure: accesso ininterrotto alle fonti di energia ad un
prezzo accessibile.” Così inizia lo studio presentato dalla Commissione Europea a corredo della propria
comunicazione relativa alla sicurezza energetica1
. Ed è innegabile che “Ci aspettiamo di trovare la benzina
alle pompe, gas per riscaldamento ed energia elettrica senza limiti”; senza alcuna consapevolezza di quanto
sia complesso mantenere in piedi un sistema che risponda ad ogni nostra esigenza, di quanto sia onerosa la
complessa infrastruttura che sta dietro alla presa di corrente di casa nostra o al distributore di benzina presso
cui ci riforniamo.
La crisi Russia-Ukraina ha riacceso i riflettori, anche della stampa non specializzata, sul tema della sicurezza
energetica e della dipendenza europea dai fossili oltreconfine e la Commissione, il 28 maggio, ha rilasciato la
sua strategia. Ma iniziamo dando un’occhiata al nostro conto energetico.
L’Europa consuma meno
La domanda globale di energia in Europa è cresciuta lentamente nel periodo dal 1995 al 2006 per poi
gradualmente calare ad un valore oggi inferiore del 6% a quello del 2006, calo dovuto a diversi fattori, in
particolare efficienza e crisi economica.
Andamento domanda energia in UE‐28 (in migliaia di tonnellate equivalenti di petrolio)
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http://ec.europa.eu/energy/doc/20140528_energy_security_communication.pdf
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2. In questi anni il consumo di carbone è sceso dal 21 al 17%, quello del petrolio dal 37% al 24%, il gas invece
è aumentato dal 20 al 23%, costante rimane l’apporto del nucleare (13%). E’ invece raddoppiato quello delle
rinnovabili, salito all’11% nel 2012.
Bruciamo risorse altrui
Negli ultimi vent’anni la dipendenza dall’estero è cresciuta perché i giacimenti europei di petrolio, gas e
carbone hanno ridotto la loro produzione e continueranno a farlo. Così importiamo sempre più dall’estero,
anche se dal 2006 è da registrare una importante novità: le fonti rinnovabili (insieme a una riduzione dei
consumi), hanno bloccato la crescita dell’import e stabilizzato il nostro livello di dipendenza.
Comunque nel 2012 abbiamo dipeso dall’estero per il 90% del petrolio, per il 66% del gas, per il 62% del
carbone e per il 95% dell’uranio. Per completezza va aggiunto che importiamo anche una piccola quota di
fonti rinnovabili (il 4%), sottoforma di biomassa liquida e/o solida che bruciamo nelle centrali.
A preoccupare oggi è la dipendenza dal gas, dipendenza espressa anche in termini di numero di fornitori: per
alcuni paesi esiste un solo paese fornitore e la dipendenza è totale, come mostra il grafico che segue.
La forte dipendenza da un numero esiguo di fornitori è legata anche alla tipologia di approvvigionamento,
poiché se il gas arriva totalmente via tubo, l’import è vincolato al paese da cui ha origine l’infrastruttura.
Più flessibilità offrono i terminali di rigassificazione poiché via nave il gas liquefatto può giungere da diversi
paesi a seconda dei contratti di volta in volta stipulati; per questo da tempo l’Unione spinge per la creazione
di questi impianti.
I preconsuntivi del 2013 rivelano che il 39% del gas importato è giunto dalla Russia, il 34% dalla Norvegia e
il 13% dall’Algeria; la spesa è stata di 87 miliardi di euro.
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Rigassificatori
A ben guardare però la capacità di importazione via nave non è molto inferiore rispetto a quella via tubo,
perché attualmente l’UE ha una capacità di import via gasdotti pari a 8.776 GWh al giorno e via LNG di
6.170 GWh/giorno. Via nave però si importa solo il 15% (dato 2012) del gas, come mai? Probabilmente
perché chi esporta gas liquefatto preferisce venderlo dove può ricavare maggiori ricavi – dove il gas si può
vendere ai maggiori prezzi – e questo mercato attualmente è quello asiatico. Questo dato ci fa comprendere
che non basta avere rigassificatori, serve che ci siano paesi esportatori dotati di impianti di liquefazione e che
abbiano interesse a vendere all’Europa. In sintesi, l’infrastruttura è necessaria ma all’interno di una cornice
politica ed economica.
Fatto sta che la capacità di rigassificazione in Europa è pari a 200 miliardi di metri cubi l’anno e se saranno
realizzati I progetti pianificati entro il 2020 salirà a 275 miliardi. Il grado di utilizzazione è però limitato al
25%. Nel 2013 ben 58 miliardi di metri cubi di capacità non sono stati utilizzati in Spagna, 44 in Gran
Bretagna, 15 in Francia, 6 in Italia.
Contratti
Un altro aspetto da considerare relativamente alle importazioni via gasdotto riguarda i contratti, storicamente
le forniture sono regolate da contratti pluriennali che prevedono un ritiro minimo ed uno massimo e un
prezzo ancorato a quello del petrolio (nel 1012 si valuta che il 57% delle forniture UE lo siano state). Negli
ultimi due anni molti di questi contratti sono statti rinegoziati per ridurne l’onerosità vista la convenienza del
mercato spot. L’Europa è legata ai propri fornitori da circa 300 contratti di lunga durata:
approssimativamente un terzo ha durata decennale, un terzo ventennale e un terzo supera i vent’anni. Alcuni
paesi dipendono da un numero di contratti che si può contare con le dita di una mano, altri (Italia compresa)
ne hanno attivi più di una trentina e sono meno soggetti a rischi.
La strategia
La strategia della commissione, partendo dalla sottolineatura del fatto che ogni giorno l’Unione spende più di
un miliardo di euro per importare fossili, si pone giustamente l’obiettivo di “ridurre la dipendenza da
particolari fonti, fornitori e vie di importazione”.
Nel concreto però non appare molto convincente.
Da un lato contiene indicazioni assolutamente condivisibili anche se poco concrete, come l’invito a moderare
la domanda di energia, a sviluppare nuove tecnologie, a migliorare il coordinamento fra i diversi stati, a
rafforzare meccanismi di solidarietà.
Ragionevoli sono le indicazioni a continuare l’integrazione dei mercati, a diversificare fonti e fornitori, ma
manca di incisività sul punto focale: come aumentare le fonti locali?
Si invita allo sviluppo delle fonti fossili disponibili in Europa (Mare del Nord, Mediterraneo orientale e Mar
Nero), anche se la stessa UE nei documenti correlati ammette che le riserve convenzionali di gas stimate
sono pari a 1.412 Mtep, sufficienti per meno di 4 anni di consumi europei.
Si scrive che lo shale gas potrebbe parzialmente compensare il declino dei giacimenti convenzionali
indicando che “è necessaria una accurata analisi delle riserve non convenzionali europee alfine di rendere
possibile una produzione commerciale”, si promette “il lancio di una rete scientifica e tecnologica europea
sull’estrazione non convenzionale di idrocarburi” ma per sole, vento, acqua, geotermia e biomasse, pur
sottolineando che hanno fatto risparmiare almeno 30 miliardi di euro l’anno, la commissione si limita a
raccomandare di “continuare lo sviluppo delle fonti rinnovabili per raggiungere il target al 2020 nell’ambito
di un approccio orientato al mercato”, segnalando i problemi legati ai costi e al loro impatto sui fatidici
mercati, poiché è innegabile come il “Davide fotovoltaico” abbia messo all’angolo il gigante delle utility.
Eppure potenzialmente sono queste le fonti che possono renderci davvero più indipendenti e darci maggiore
sicurezza; sono le rinnovabili ad essere raddoppiate nell’ultima decade e riguardano elettricità e
riscaldamento. Nel settore elettrico, l’unico con statistiche precise, nel 2012 sono stati prodotti 799 miliardi
di chilowattora (TWh), il 13% in più in un solo anno, pari al 24% di tutta l’elettricità prodotta in Europa.
Proprio oggi (giovedì 6 giugno), l’Agenzia ONU Irena ha presentato uno studio dell’Agenzia Internazionale
per l’Energia che prevede il raddoppio nel mondo entro il 2030 a costi inferiori a quelli delle fosisli.
Nella comunicazione occupa spazio la cattura ed il sequestro del carbonio (CCS), tecnologia che
permetterebbe di continuare a bruciare carbone, nonostante negli ultimi anni non risultino passi avanti in
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questa direzione. La commissione sottolinea invece “la necessità di ulteriori sforzi in ricerca, sviluppo e
applicazioni” per beneficiare di questa tecnologia. Non manca la parte dedicata all’elettricità prodotta dal
nucleare che “costituisce una attendibile fonte di elettricità di base libera da emissioni, che gioca un ruolo
chiave nella sicurezza energetica”, la raccomandazione della commissione è di non affidarsi ad imprese
russe per la fornitura del combustibile dei reattori. Un messaggio diretto, fra le altre, all’Enel che per i suoi
reattori in Slovacchia si rifornisce proprio dalla russa Tvel.
In sintesi, la strategia appare piuttosto generica e, come spesso accade, per non scontentare nessuno, accorpa
tutto lo scibile senza definire linee prioritarie. Nelle misure a breve termine, l’unica precisa è l’indicazione a
bloccare la costruzione del gasdotto Southstream, progetto che avrebbe dovuto collegare Europa e Russia
eliminando dal transito paesi extracomunitari.
Quale soluzione allora?
La situazione europea è realmente una condizione di dipendenza energetica e siccome la dipendenza
energetica significa anche dipendenza politica ed economica, urge una soluzione che deve avere un orizzonte
temporale adeguato.
Se nel campo della riduzione dei consumi domestici (elettricità e riscaldamento) le recenti direttive hanno
posto obiettivi rilevanti, nei trasporti va focalizzata l’attenzione perché la gran parte del petrolio ci serve per
muoverci e quindi la mobilità va ridisegnata.
Relativamente al capitolo gas, questa fonte serve a produrre elettricità e calore, nell’elettrico le rinnovabili
sono già disponibili, per il riscaldamento e per cucinare si può spostare sull’elettrico, attraverso cucine a
induzione e pompe di calore, parte dei consumi, aumentando così la domanda elettrica con buona pace di chi
è preoccupato dell’impatto delle rinnovabili sui mercati esistenti.
Le aspettative verso la CCS e lo shale gas sono roba vecchia, nel senso che rappresentano il tentativo di non
cambiare nulla fidando di soluzioni sperimentate. Ma al momento la prima è una tecnologia costosa che non
mostra apprendimenti (ricorda molto il nucleare!), per lo shale gas il discorso è più complesso. Gli annunci
di Obama dopo la crisi Ukraina-Russia hanno fatto balenare la facile soluzione di una sostituzione del gas
russo con quello statunitense, ovviamente non via tubo, ma via nave sottoforma di gas liquefatto.
Ma non sarà così. A parte il fatto che il primo impianto di liquefazione USA sarà pronto entro il 2017 e
quindi bisognerà aspettare il 2020 per ipotizzare l’arrivo di quantità decenti in Europa (il primo contratto è
stato firmato da Enel con Cheniere Energy per rifornire le centrali spagnole), non è neppure detto che questo
accada. Il perché è presto detto.
Lo shale gas e lo shale oil hanno rivoluzionato il quadro energetico statunitense ponendolo di fronte ad un
cambio radicale di strategia geoenergetica: da import oriented ad export oriented. Importare si inquadrava in
una strategia di controllo in alcuni paesi e di spinta verso le proprie multinazionale ad entrare in alcuni
mercati regionali. I dollari servivano in Venezuela, Messico, Arabia, Angola e Nigeria, diventare ora un
esportatore significa influire sull’economia e le relazioni con tutti questi paesi.
Inoltre lo shale gas ha abbassato i prezzi all’interno degli USA a valori che hanno permesso una sorta di
rinascita industriale. Tutti sanno che quanto più si esporta gas, tanto più il prezzo sul mercato domestico si
allinea a quello internazionale, il che annullerebbe il vantaggio per l’industria americana, quindi gli USA
esporteranno gas ma sulle quantità non c’è certezza.
Queste riflessioni servono a mettere in guardia dall’illusione di facili soluzioni, quella vera che può garantire
all’Europa di non dover dipendere da Russia o Stati Uniti è di sviluppare tecnologie in grado di consumare
meno e di sviluppare le proprie risorse rinnovabili. Anche perché, tornando allo shale gas, quello che è
accaduto in America in Europa non accadrà, a differenza dei giacimenti convenzionali lo shale gas è fatto di
un una miriade di pozzetti che hanno un picco di produzione nelle prime 4/5 settimane e poi si esauriscono in
uno/due anni, per cui il numero di pozzetti da scavare aumenta in maniera esponenziale, in una logica per cui
il terreno diventa un groviera (ignoriamo qui le conseguenze sull’ambiente).
Questo negli USA è successo perché ci sono tante piccole imprese dotate della necessaria tecnologia, bassa
densità abitativa e i diritti minerari sono privati (quello che sta sotto casa mia è mio). Tutte condizioni che in
Europa non ci sono, per cui pensare di sfruttare lo shale gas in Europa emulando l’America è velleitario.
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La comunicazione della Commissione si conclude con una frase che ha la sensazione di avere un ruolo
cosmetico ma che invece deve essere centrale: la sicurezza energetica è inseparabile dagli obiettivi per il
2030 sul clima.
Clima, sicurezza ed ambiente devono essere i riferimenti nel disegno di un nuovo sistema energetico, non il
mercato. O facciamo questa scelta o l’economia anziché strumento per vivere (meglio) si confermerà
strumento di schiavitù per la maggior parte di noi. Al nuovo Parlamento Europeo tocca questa entusiasmante
sfida.