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Alla cortese attenzione del prof. Belpoliti e del dott. Giardina




          Elaborato di : Mattia Ferrari
          Matricola : 35376
          Esame : Letteratura Italiana 2B - A.A. 2005-2006 (il caso Moro nella letteratura)
Introduzione
Il periodo più travagliato nella storia della nostra giovane Repubblica Italiana è senz’altro
quello dei cosiddetti “anni di piombo”. Questa definizione generalmente ricopre un periodo che
va dalla contestazione degli anni ’60 fino agli anni ’80. Simbolicamente potremmo trovare le
sue estremità più eclatanti nell’intervallo che va dal 12 dicembre 1969 (la strage di Piazza
Fontana) al 2 agosto 1980, giorno dell’attentato alla stazione di Bologna. Questa locuzione
generica, “anni di piombo”, viene a mediare tra una serie di definizioni che si sono nel tempo
sovrapposte, come: "terrorismo di sinistra", "stragismo di destra", "stragismo di stato”. Termini
così contrastanti da farci comprendere immediatamente quale fosse il livello di tensione e di
sospetto verso ogni gruppo con radici estremiste e quale fosse il senso di fiducia nei confronti
delle istituzioni. A tal proposito Pier Paolo Pasolini, poco prima di morire, scrive un articolo di
denuncia nel quale afferma:

           “[...] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di
           cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io
           so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
           succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che
           non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i
           pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
           ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il
           mistero. [...]”1

Uno scritto coraggioso che fu ostracizzato più dai silenzi che dalle polemiche e che non trovò
appoggio nell’intellighenzia italiana. Secondo Pasolini era il suo mestiere di letterato a fornirgli
gli strumenti per la ricerca di una verità che altrimenti sarebbe rimasta nascosta da una classe
politica dove maggioranza e opposizione vanno via via confondendosi e dove il mestiere del
giornalista, almeno in Italia (Pasolini ricorda lo scandalo Watergate, attribuendone però i meriti
ad una concessione del “potere americano” ), è arroccato su posizioni garantiste di comodo.
Una posizione quest’ultima certamente comparabile a quella posteriore di Arbasino nel suo In
questo Stato. La morte di Pasolini sopraggiunge misteriosa poco dopo l’uscita di questo pezzo
ed evita allo scrittore, poeta e regista di assistere al rapimento di Aldo Moro, culminato con la
sua uccisione il 9 maggio 1978, presumibilmente per opera del brigatista Mario Moretti. Nei 55
giorni della sua detenzione nella “prigione del popolo” molti intellettuali intervengono
1
    P.P. Pasolini, Io so, pubblicato dal Corriere della Sera il 14 novembre 1974

                                                                                                        2
scrivendo articoli, saggi e romanzi che affrontano luci ed ombre di questo enigmatico caso.
Nonostante la contemporaneità di queste opere sarebbe poco opportuno considerarle al di fuori
di un contesto letterario, proprio perché, come diceva Pasolini, l’intellettuale compie un lavoro
continuo di acquisizione di elementi anche frammentari e ricostruisce la “verità” anche
immaginando ciò che non si dice, ciò che è taciuto o ciò che semplicemente non traspare agli
occhi comuni, estrapolando dettagli dal linguaggio, dalla forma, dallo stile e, appunto, dal non
detto.
All’apice della produzione scritta sul caso Moro abbiamo certamente “L’affaire Moro” di
Leonardo Sciascia, un libro che l’autore certifica come pamphlet, ma che presenta
un’introduzione di assoluto valore letterario (“una delle più belle pagine della letteratura
italiana degli ultimi trent’anni”, a giudizio di Marco Belpoliti 2 ) e carico di citazioni letterarie
che partecipano alla creazione di un’idea di letteratura di cui l’autore è alla disperata ricerca
durante la stesura di questo libro che vive nei labili confini di una realtà enigmatica. Del resto
per lo scrittore siciliano “La letteratura [...] è la più assoluta forma che la verità possa
assumere” 3 ed effettivamente fra i primi capitoli de L’affaire sono concentrati alcuni rimandi
letterari fra i quali spicca quello a Borges, autore del racconto Pierre Menare, autore del
«Chisciotte », che descrive il lavoro di “copiatura” eseguito da Unamuno sul celebre romanzo
di Cervantes. Sciascia ha l’impressione che tutto l’affaire accada in una dimensione letteraria,
una perfezione da messa in scena che non può che appartenere all’immaginazione 4.


Il linguaggio di e intorno a Moro: verso la non comunicazione, verso la morte
Sciascia cerca di spezzare il linguaggio di Aldo Moro, di giungere ad una sua decodificazione,
di trovare il legame che sussiste fra il Moro dei discorsi in Parlamento, estremamente criptico
ed enigmatico, e il Moro rapito che gradualmente viene spogliato del potere fino a raggiungere
il livello di creatura. La sua eccellenza nel nascondere all’evidenza i fatti con il linguaggio del
potere determina nel Moro prigioniero la capacità di inserire nei suoi messaggi dalla prigione
del popolo qualcosa che, secondo Sciascia, doveva essere decodificato e che invece è stato

2
  M. Belpoliti, L’Affaire Moro: anatomia di un testo in L’uomo solo. L’affaire Moro di Leonardo Sciascia a cura di V.
Vecellio, ed. La Vita Felice, 2002, pag. 22
3
  L. Sciascia, Nero su nero, in Opere 1971”1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1991, pag. 834
4
  L. Sciascia, L’affaire Moro (1978), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2006, p.29

                                                                                                                        3
lasciato a livello del “non detto”. È quello che l’autore definisce un “atroce contrappasso” 5,
ovvero l’essere costretto ad usare quello stile così arzigogolato nella retorica per eludere la
censura delle Brigate Rosse, con l’obbiettivo di essere capito dalla sua “famiglia”, che in primo
luogo, sempre a giudizio di Sciascia, comprende i compagni di partito.
Compagni di partito che però non capiscono, o fanno orecchie da mercante cercando giorno per
giorno di prendere (perdere?) tempo con comunicati intransigenti e vuoti che si appellano ad
una neonata sacralità della ragion di Stato. Se questa viene messa in discussione non rimane che
appellarsi alla necessità di non rendere inutile il sacrificio delle famiglie dei servitori dello Stato
che piangono la scomparsa dei loro cari a causa di attentati terroristici.
Sciascia usa la licenza letteraria anche per spingersi oltre, intravedendo nella vicinanza
dell’On.Taviani al potere statunitense, espressa da Moro in una lettera 6, la possibilità di un
disegno più grande, internazionale, dove più di una componente ha interesse nel vedere Moro
morire nella prigione del popolo. È l’autore stesso a correggere il tiro: “E può darsi che si stia,
qui, facendo un romanzo [...]” 7. Sì, nel giornalismo dell’epoca (e di oggi) non sarebbe
accettabile miscelare ironicamente il linguaggio di Moro e delle B.R. per definire“ il «teppista
di Stato» Taviani” come parte interessata alla morte del presidente democristiano. Ma nell’idea
di ricostruzione di “verità letteraria”, dalla quale è partita questa indagine, tutto è possibile.
Alberto Arbasino analizza, abbastanza cinicamente, proprio il linguaggio dei giornali e degli
italiani nel periodo del caso Moro. I quotidiani offrono una grande quantità di contenuti
codificati nel linguaggio definito “giornalese” che si realizza quando “un gergo pubblicistico
ridotto a pochi luoghi comuni spompati e ossessivi perde presa con la realtà e contatto con
l’informazione” 8, fino ad arrivare ad una comunicazione fatta soltanto di «bla» riportati senza
giudizio di sorta, quasi più per il loro valore fonico che semantico. Per non parlare di quel
“lessico familiare” 9 delle Brigate Rosse che imperversa su tutti i giornali con termini quali
«esproprio» , «esecuzione», «commando», che offrono loro una pubblicità gratuita al terrorismo
più bieco, certificandone in qualche modo l’appartenenza al sistema, molto più dell’eventuale
trattativa alla pari per la liberazione di Moro.
5
   L. Sciascia, L’affaire Moro, op.cit., p. 17
6
   Aldo Moro, Su Paolo Taviani, Lettera n. 13 (recapitata tra il 9 e il 10 aprile, allegata al comunicato n° 5)
7
   L. Sciascia, L’affaire Moro, op.cit., p. 78
8
  A. Arbasino, In questo Stato, Garzanti, 1978, pp. 24”25
9
  Ivi, pp. 14”15

                                                                                                                  4
Arbasino è molto critico riguardo ai comunicati delle B.R., li considera farneticanti nella loro
critica al S.I.M. 10, inconciliabili con una realtà dove l’italiano non è più in grado di produrre
nulla, nemmeno il cibo per la sua sopravvivenza. Ed in effetti il linguaggio dei terroristi è un
“fraseggio astratto e mai realistico” 11:

        “Bisogna stanare dai covi democristiani, variamente mascherati, gli agenti
        controrivoluzionari che nella "nuova" DC rappresentano il fulcro della
        ristrutturazione dello SIM, braccarli ovunque, non concedere loro tregua. [...]
        DISARTICOLARE LE STRUTTURE, I PROGETTI DELLA BORGHESIA
        IMPERIALISTA, ATTACCANDO IL PERSONALE
        POLITICO”ECONOMICO”MILITARE CHE NE E' L'ESPRESSIONE.” 12

Il problema sta proprio nell’idea utopica di poter mettere sotto scacco il potere con questi
mezzi, pubblicizzandosi con azioni di guerriglia armata e comunicati dal linguaggio pomposo,
ricchi di luoghi comuni presi dal secolo precedente, da contrapporre al già citato linguaggio del
«bla» arbasiniano, istituzionalizzato sì in forma moderna, ma sempre faccia di una stessa
medaglia.
Umberto Eco compie un’analisi estremamente lucida, quasi orwelliana:

        “[...] Il sistema delle multinazionali non può vivere in una economia di guerra
        mondiale (e atomica per giunta), ma sa che non può nemmeno ridurre le spinte
        naturali dell'aggressività biologica o dell'insofferenza di popoli o di gruppi.
        Per questo accetta piccole guerre locali, che verranno di volta in volta
        disciplinate e ridotte da oculati interventi internazionali, e dall'altro lato
        accetta appunto il terrorismo. [...] Se le Br hanno ragione nella loro analisi di
        un governo mondiale delle multinazionali, allora devono riconoscere che esse,
        le Br, ne sono la controparte naturale e prevista. Esse devono riconoscere che
        stanno recitando un copione già scritto dai loro presunti nemici. Invece, dopo
        di aver scoperto, sia pure rozzamente, un importante principio di logica dei
        sistemi, le Br rispondono con un romanzo di appendice ottocentesco fatto di
        vendicatori e giustizieri bravi ed efficienti come il conte di Montecristo. Ci
        sarebbe da ridere, se questo romanzo non fosse scritto col sangue.” 13

Ancora una volta un riferimento letterario cerca di esemplificare una situazione critica che pare
dover esistere solo nel romanzo. L’intellettuale non trova infatti che due spiegazioni: la
compartecipazione delle B.R. ad un sistema di potere calcolato oppure una risposta derivante da


10
   S.I.M.= Sistema Imperialista delle Multinazionali
11
   A. Arbasino, op. cit., p. 106
12
   Brigate Rosse, Comunicato n.1 dal rapimento di Moro, 16/03/1978
13
   Umberto Eco, Colpire quale cuore, in Sette anni di desiderio, Tascabili Bompiani, pagg. 109”113, 2004 (l’articolo
viene pubblicato su La Repubblica il 23 marzo 1978 con il titolo La sanguinosa scalata a un paradiso disabitato)

                                                                                                                       5
un sedimento, prima culturale e poi storico, che non sia stato metabolizzato appieno. Risuona
qui l’eco delle parole di Sciascia in Todo Modo, fra le più enigmatiche: la letteratura è

           “un sistema di “oggetti eterni” che variamente, alternativamente,
           imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e a eclissarsi “
           e così via “, alla luce della verità”

Per questo i brigatisti non sono capiti: nonostante si nutrano di televisione14 il loro linguaggio
sanguinario non fa leva sulle masse, che hanno introiettato l’idea di un sistema di potere
inalienabile senza un centro, senza un cuore, pronto all’indebitamento e al compromesso storico
pur di sopravvivere. Anche in Elsa Morante vive il dubbio di qualcosa di non autentico, di già
scritto:

           “Rivolgendomi a voi brigat. [...] io mi sforzo di non dubitare, almeno, che voi
           crediate in buona fede ai motivi dichiarati per le vostre azioni; ossia che voi
           siate davvero, ai vostri propri occhi, dei rivoluzionari” 15

E con tali incertezze, viste le passate esperienze nel ventennio, il giudizio non può che essere
inappellabile:

           “Una società instaurata nel totale disprezzo della persona umana, qualsiasi
           nome voglia darsi, non può essere che oscenamente fascista [...]”16

Quale può essere l’evoluzione del linguaggio di Moro in un simile contesto? Lasciato solo dai
compagni di partito i suoi scritti si fanno meno enigmatici e più diretti, “comincia,
pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma” 17. È lo stesso Moro di sempre che non cambia le
sue posizioni politiche, ma che viene spogliato “naturalmente” ed inesorabilmente del suo ruolo
di potere fino a diventare uomo comune e creatura nelle mani di un destino intriso di
“enigmatiche correlazioni”. Moro cerca di salvarsi, non vuole essere vittima sacrificale del
nuovo senso dello Stato. Ma contemporaneamente i giornali iniziano un’opera di
monumentalizzazione, tracciandone quasi un coccodrillo dall’epitaffio: “il grande statista”.
Sicché finalmente qualcuno si azzarda a dire: “Moro è morto!” 18. Affermazione fra le più
“felici”, visto che se Moro ribadisce la sua posizione sulla liberazione degli ostaggi, Moro viene
14
   questa è l’idea che traspare dal film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, basato sul “libro verità” della brigatista
Anna Laura Traghetti, e della giornalista Paola Tavella: Il prigioniero, Feltrinelli, 2003
15
   E. Morante, Pagine di diario, in Paragone – Letteratura n° 456, febbraio 1988
16
   Ivi
17
   L. Sciascia, L’affaire Moro, op.cit., p. 76
18
   Lo urla un po’ stizzito l’On. Trombadori nei corridoi della Camera

                                                                                                                             6
smentito da chi in precedenza l’ha udito; se Moro si appella al Santo Padre, il santo padre
riafferma primariamente, pur fra virgolette genuflesse, il ruolo istituzionale della DC; se Moro
convoca da presidente un consiglio straordinario della DC, il risultato è una riunione di
gabinetto ben poco fruttuosa ed intransigente, che si appella al sacrificio delle famiglie dei
servitori dello Stato. Quando finalmente tutti capiscono che la situazione è in stallo e che Moro
inizia ad essere davvero scomodo nel suo nuovo ruolo di creatura inerme che troppo sa, arriva il
suo disconoscimento ufficiale. Può forse Moro, da buon cristiano, allontanare da lui il calice
amaro della morte? Può scrivere nelle sue lettere cose come “il mio sangue ricadrebbe su di voi
[...]”, parlare ironicamente de “le ore liete del potere”, definire il suo un “Calvario” ? Il 25
aprile, anniversario della liberazione tanto caro a tutte le parti del compromesso storico (e anche
a chi vi si oppone), gli “amici di Moro” decretano scientificamente la sua totale discontinuità
con il Moro che fu: “non è l’uomo che conosciamo”. Un’affermazione che libera tutti,
finalmente, dal peso di un fantasma che continua a parlare ma che nessuno vuole più ascoltare.
Non stupisce quindi la graduale immedesimazione di Moro come agnello sacrificale, come
figura cristologica che si vede rinnegata dagli amici e che, destinata alla morte, invoca la grazia.
Fortini rimane esterrefatto quanto Moro rispetto al comunicato:

             “«non sei più tu» è una frase che consacra ogni interruzione. È la frase che
            nessun cristiano può pronunciare[...] si abbia il coraggio di dire che non lo si
            accetterebbe anche se fossero dettate [le lettere] in piena libertà; e l’umiltà di
            non concluderne con l’interdizione di un uomo” 19

Anche Claudio Martelli invita polemicamente alla riflessione, riconducendoci a meditare sul
fatto che proprio lo scrivere del prigioniero ha accelerato la sua morte, permettendo ad “amici”
ed avversari di sollazzarsi con il gioco delle differenze, disputandosi l’interpretazione dello stile
quasi fosse la disputa per le vesti di Cristo prima della crocifissione:

            “Costoro sembrano più preoccupati della "memoria" di Moro che non della
            sua vita, e si disputano l'interpretazione di uno stile e di una vita che non è
            ancora perduta. Giornalisti e grafologi non si sa quanto improvvisati hanno
            dissertato non sulla autenticità della calligrafia che tutti riconoscono, ma sulla
            "pendenza" e sulle "cancellature" e "correzioni" per ricavare stampelle alla
            tesi della "inautenticità sostanziale". Come la metafisica anche la
            metagrafologia soccorre chi non ha argomenti.” 20
19
     F. Fortini, Non è lui, in Insistenze, Garzanti, Milano 1985, p. 202
20
     Claudio Martelli, Perché non credere alle sue lettere? , Corriere della Sera, 1 maggio 1978

                                                                                                   7
Ed in effetti proprio i suoi scritti sono l’involucro che segna il graduale dissolvimento della sua
esistenza, sicché, tra la verità e la letteratura, s’impone un terzo elemento, che costringe ad una
differente lettura degli altri due: la morte. 21
E giusto per dare un tocco di gotico a questa vicenda che sempre più pare una questione di
lingua e di letteratura, proprio come nella visione di Sciascia, (“L’idea che domina l’affaire
Moro è che tutto è già stato scritto, tutto già contenuto nella letteratura”.22) arriva l’estremo
tentativo di conoscere il luogo del rapimento di Moro con una seduta spiritica. Sono gli spiriti di
don Luigi Sturzo e La Pira che dopo vari giochetti col piattino compongono il nome “Gradoli”,
via di Roma nella quale si troverà un covo.
        Prodi: “Vi erano anche bambini al di sotto dei dieci anni! [...] Ripeto, a
        posteriori mi sono reso conto che vi è gente che tutte le sere lo fa!”
        Sciascia: “tra i 12, qualcuno aveva pratica di queste cose?”
        Prodi: “Intendiamoci sulla parola pratica, On. Sciascia. Se qualcuno lo aveva
        fatto altre volte voi lo potrete sapere chiedendo agli altri, ma nella nostra
        lettera abbiamo detto che non vi era nessuno che, con intensità, si dedicava a
        questo. Naturalmente vi era qualcuno che, altre volte, l’aveva fatto”
        [...]23
A leggere tutta l’audizione pare davvero di trovarsi nel clima omertoso di certi personaggi di
Sciascia, con Prodi che mette in evidenza atmosfera ludica e pura casualità. C’erano i bambini!
Il caso o lo spirito di Sturzo, sempre per “enigmatiche correlazioni”, svela un nome, Gradoli,
che fra tanti viene scelto come indicativo perché sconosciuto!


Conclusioni
Quello che rimane uno dei misteri italiani più complicati ed oscuri ha dato origine ad un libro
letterario di grande importanza, bistrattato dalla critica prima ancora della sua uscita, ma che
rende impossibile affrontare il caso Moro senza aver letto l’affaire 24. Sciascia, seguendo in
parte la strada tracciata da Pasolini, si interroga sulla possibilità di distinguere verosimile, reale
e realtà, stravolgendone i rapporti. Dobbiamo però interrogarci sulle divagazioni dei romanzi e
dei racconti a noi contemporanei che minano costantemente il concetto di realtà proponendoci
non delle “enigmatiche correlazioni” con colte allusioni letterarie e riflessioni sul non”detto,

21
   M. Belpoliti, L’Affaire Moro: anatomia di un testo, op.cit., pag. 33
22
   M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001, p. 16
23
   Audizione di Romano Prodi presso la commissione Moro, 10 giugno 1981
24
   M. Belpoliti, L’Affaire Moro: anatomia di un testo, op.cit., pag. 31

                                                                                                    8
ma piuttosto offrendoci un percorso che pare agli “illetterati” del tutto fiduciario e suffragato da
    prove che paiono linguisticamente inopinabili. Per rimanere in tema, il caso Moro viene toccato
                    25
    da un libro          che mette in correlazione la seduta spiritica sopraccitata con la rete segreta del
    Gladio dato che in via Gradoli abitava un Ivan Mosca, pittore della loggia massonica di Sion...
    Ma d’altro canto anche una sentenza di condanna in cassazione non eseguita per prescrizione
    può essere interpretata da una giovane avvocatessa strimpellante (ed ora parlamentare: qui le
    “enigmatiche correlazioni”             paiono molto meno indecifrabili...) come una sentenza di
    assoluzione, di conseguenza conviene riappacificarci con la letteratura che ci offre un’ipotesi di
    verità, una finestra su un mondo troppo complesso, o troppo semplice, per essere decodificato
    appieno. Così vediamo Moro uscire dalla sua gabbia e camminare per la città nel film di
    Bellocchio, per pietà della terrorista; sentiamo Luttazzi descrivere grottescamente il corpo di
    Moro, esanime e perforato dalle pallottole, violentato sessualmente, per quei medesimi nuovi
    orefizi sanguinolenti, da Andreotti 26, con la collaborazione di Moretti (capo delle BR?), il quale
    nei libri di Sergio Flamigni assume sempre più il ruolo di burattino della destra e dei servizi
    segreti 27...
    Forse fra le tante pagine letterarie, giornalistiche, grottesche, popolari, filmiche... forse fra le
    pieghe di queste pagine si nascondono elementi di verità celata. Resta il dramma di riconoscere
    che i “fatti sono pochi”, come direbbe Eco, e che quindi forse dovremmo chiederci se la
    letteratura e la finzione del reale non siano l’unico modo per prendere una posizione, in
    un’ideale intrattenimento che fissa su carta la vita, generando la morte.




    Bibliografia
-   M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001
-   M. Belpoliti, L’affaire Moro: anatomia di un testo in L’uomo solo. L’affaire Moro di Leonardo

    25
       Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, il misterioso intermediario, Einaudi
    26
       Daniele Luttazzi, Stanotte e per sempre, disponibile presso http://www.asphalto.org/?post_id=10957
    27
       Sergio Flamigni, La sfinge delle brigate rosse, KAOS Edizioni, 2004

                                                                                                            9
Sciascia a cura di V. Vecellio, ed. La Vita Felice, 2002
-   L. Sciascia, L’affaire Moro (1978), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2006
-   P.P. Pasolini, Io so, in Corriere della Sera,14 novembre 1974
-   A. Arbasino, In questo Stato, Garzanti, 1978
-   F. Fortini, Non è lui, in Insistenze, Garzanti, Milano 1985
-   E. Morante, Pagine di diario, in Paragone – Letteratura n° 456, febbraio 1988
-   C. Martelli, Perché non credere alle sue lettere? , Corriere della Sera, 1 maggio 1978
-   G. Fasanella e G. Rocca, il misterioso intermediario, Einaudi
-   D. Luttazzi, Stanotte e per sempre, http://www.asphalto.org/?post_id=10957
-   S. Flamigni, La sfinge delle brigate rosse, KAOS Edizioni, 2004
-   Audizione di Romano Prodi presso la commissione Moro, 10 giugno 1981, parzialmente disponibile
    presso: http://www.macchianera.net/2006/02/01/il_caso_moro_romano_prodi_via.html
-   M. Bellocchio, Buongiorno, notte , film, Italia 2003




                                                                                               10

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Il caso Aldo Moro nella letteratura

  • 1. Alla cortese attenzione del prof. Belpoliti e del dott. Giardina Elaborato di : Mattia Ferrari Matricola : 35376 Esame : Letteratura Italiana 2B - A.A. 2005-2006 (il caso Moro nella letteratura)
  • 2. Introduzione Il periodo più travagliato nella storia della nostra giovane Repubblica Italiana è senz’altro quello dei cosiddetti “anni di piombo”. Questa definizione generalmente ricopre un periodo che va dalla contestazione degli anni ’60 fino agli anni ’80. Simbolicamente potremmo trovare le sue estremità più eclatanti nell’intervallo che va dal 12 dicembre 1969 (la strage di Piazza Fontana) al 2 agosto 1980, giorno dell’attentato alla stazione di Bologna. Questa locuzione generica, “anni di piombo”, viene a mediare tra una serie di definizioni che si sono nel tempo sovrapposte, come: "terrorismo di sinistra", "stragismo di destra", "stragismo di stato”. Termini così contrastanti da farci comprendere immediatamente quale fosse il livello di tensione e di sospetto verso ogni gruppo con radici estremiste e quale fosse il senso di fiducia nei confronti delle istituzioni. A tal proposito Pier Paolo Pasolini, poco prima di morire, scrive un articolo di denuncia nel quale afferma: “[...] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. [...]”1 Uno scritto coraggioso che fu ostracizzato più dai silenzi che dalle polemiche e che non trovò appoggio nell’intellighenzia italiana. Secondo Pasolini era il suo mestiere di letterato a fornirgli gli strumenti per la ricerca di una verità che altrimenti sarebbe rimasta nascosta da una classe politica dove maggioranza e opposizione vanno via via confondendosi e dove il mestiere del giornalista, almeno in Italia (Pasolini ricorda lo scandalo Watergate, attribuendone però i meriti ad una concessione del “potere americano” ), è arroccato su posizioni garantiste di comodo. Una posizione quest’ultima certamente comparabile a quella posteriore di Arbasino nel suo In questo Stato. La morte di Pasolini sopraggiunge misteriosa poco dopo l’uscita di questo pezzo ed evita allo scrittore, poeta e regista di assistere al rapimento di Aldo Moro, culminato con la sua uccisione il 9 maggio 1978, presumibilmente per opera del brigatista Mario Moretti. Nei 55 giorni della sua detenzione nella “prigione del popolo” molti intellettuali intervengono 1 P.P. Pasolini, Io so, pubblicato dal Corriere della Sera il 14 novembre 1974 2
  • 3. scrivendo articoli, saggi e romanzi che affrontano luci ed ombre di questo enigmatico caso. Nonostante la contemporaneità di queste opere sarebbe poco opportuno considerarle al di fuori di un contesto letterario, proprio perché, come diceva Pasolini, l’intellettuale compie un lavoro continuo di acquisizione di elementi anche frammentari e ricostruisce la “verità” anche immaginando ciò che non si dice, ciò che è taciuto o ciò che semplicemente non traspare agli occhi comuni, estrapolando dettagli dal linguaggio, dalla forma, dallo stile e, appunto, dal non detto. All’apice della produzione scritta sul caso Moro abbiamo certamente “L’affaire Moro” di Leonardo Sciascia, un libro che l’autore certifica come pamphlet, ma che presenta un’introduzione di assoluto valore letterario (“una delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni”, a giudizio di Marco Belpoliti 2 ) e carico di citazioni letterarie che partecipano alla creazione di un’idea di letteratura di cui l’autore è alla disperata ricerca durante la stesura di questo libro che vive nei labili confini di una realtà enigmatica. Del resto per lo scrittore siciliano “La letteratura [...] è la più assoluta forma che la verità possa assumere” 3 ed effettivamente fra i primi capitoli de L’affaire sono concentrati alcuni rimandi letterari fra i quali spicca quello a Borges, autore del racconto Pierre Menare, autore del «Chisciotte », che descrive il lavoro di “copiatura” eseguito da Unamuno sul celebre romanzo di Cervantes. Sciascia ha l’impressione che tutto l’affaire accada in una dimensione letteraria, una perfezione da messa in scena che non può che appartenere all’immaginazione 4. Il linguaggio di e intorno a Moro: verso la non comunicazione, verso la morte Sciascia cerca di spezzare il linguaggio di Aldo Moro, di giungere ad una sua decodificazione, di trovare il legame che sussiste fra il Moro dei discorsi in Parlamento, estremamente criptico ed enigmatico, e il Moro rapito che gradualmente viene spogliato del potere fino a raggiungere il livello di creatura. La sua eccellenza nel nascondere all’evidenza i fatti con il linguaggio del potere determina nel Moro prigioniero la capacità di inserire nei suoi messaggi dalla prigione del popolo qualcosa che, secondo Sciascia, doveva essere decodificato e che invece è stato 2 M. Belpoliti, L’Affaire Moro: anatomia di un testo in L’uomo solo. L’affaire Moro di Leonardo Sciascia a cura di V. Vecellio, ed. La Vita Felice, 2002, pag. 22 3 L. Sciascia, Nero su nero, in Opere 1971”1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1991, pag. 834 4 L. Sciascia, L’affaire Moro (1978), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2006, p.29 3
  • 4. lasciato a livello del “non detto”. È quello che l’autore definisce un “atroce contrappasso” 5, ovvero l’essere costretto ad usare quello stile così arzigogolato nella retorica per eludere la censura delle Brigate Rosse, con l’obbiettivo di essere capito dalla sua “famiglia”, che in primo luogo, sempre a giudizio di Sciascia, comprende i compagni di partito. Compagni di partito che però non capiscono, o fanno orecchie da mercante cercando giorno per giorno di prendere (perdere?) tempo con comunicati intransigenti e vuoti che si appellano ad una neonata sacralità della ragion di Stato. Se questa viene messa in discussione non rimane che appellarsi alla necessità di non rendere inutile il sacrificio delle famiglie dei servitori dello Stato che piangono la scomparsa dei loro cari a causa di attentati terroristici. Sciascia usa la licenza letteraria anche per spingersi oltre, intravedendo nella vicinanza dell’On.Taviani al potere statunitense, espressa da Moro in una lettera 6, la possibilità di un disegno più grande, internazionale, dove più di una componente ha interesse nel vedere Moro morire nella prigione del popolo. È l’autore stesso a correggere il tiro: “E può darsi che si stia, qui, facendo un romanzo [...]” 7. Sì, nel giornalismo dell’epoca (e di oggi) non sarebbe accettabile miscelare ironicamente il linguaggio di Moro e delle B.R. per definire“ il «teppista di Stato» Taviani” come parte interessata alla morte del presidente democristiano. Ma nell’idea di ricostruzione di “verità letteraria”, dalla quale è partita questa indagine, tutto è possibile. Alberto Arbasino analizza, abbastanza cinicamente, proprio il linguaggio dei giornali e degli italiani nel periodo del caso Moro. I quotidiani offrono una grande quantità di contenuti codificati nel linguaggio definito “giornalese” che si realizza quando “un gergo pubblicistico ridotto a pochi luoghi comuni spompati e ossessivi perde presa con la realtà e contatto con l’informazione” 8, fino ad arrivare ad una comunicazione fatta soltanto di «bla» riportati senza giudizio di sorta, quasi più per il loro valore fonico che semantico. Per non parlare di quel “lessico familiare” 9 delle Brigate Rosse che imperversa su tutti i giornali con termini quali «esproprio» , «esecuzione», «commando», che offrono loro una pubblicità gratuita al terrorismo più bieco, certificandone in qualche modo l’appartenenza al sistema, molto più dell’eventuale trattativa alla pari per la liberazione di Moro. 5 L. Sciascia, L’affaire Moro, op.cit., p. 17 6 Aldo Moro, Su Paolo Taviani, Lettera n. 13 (recapitata tra il 9 e il 10 aprile, allegata al comunicato n° 5) 7 L. Sciascia, L’affaire Moro, op.cit., p. 78 8 A. Arbasino, In questo Stato, Garzanti, 1978, pp. 24”25 9 Ivi, pp. 14”15 4
  • 5. Arbasino è molto critico riguardo ai comunicati delle B.R., li considera farneticanti nella loro critica al S.I.M. 10, inconciliabili con una realtà dove l’italiano non è più in grado di produrre nulla, nemmeno il cibo per la sua sopravvivenza. Ed in effetti il linguaggio dei terroristi è un “fraseggio astratto e mai realistico” 11: “Bisogna stanare dai covi democristiani, variamente mascherati, gli agenti controrivoluzionari che nella "nuova" DC rappresentano il fulcro della ristrutturazione dello SIM, braccarli ovunque, non concedere loro tregua. [...] DISARTICOLARE LE STRUTTURE, I PROGETTI DELLA BORGHESIA IMPERIALISTA, ATTACCANDO IL PERSONALE POLITICO”ECONOMICO”MILITARE CHE NE E' L'ESPRESSIONE.” 12 Il problema sta proprio nell’idea utopica di poter mettere sotto scacco il potere con questi mezzi, pubblicizzandosi con azioni di guerriglia armata e comunicati dal linguaggio pomposo, ricchi di luoghi comuni presi dal secolo precedente, da contrapporre al già citato linguaggio del «bla» arbasiniano, istituzionalizzato sì in forma moderna, ma sempre faccia di una stessa medaglia. Umberto Eco compie un’analisi estremamente lucida, quasi orwelliana: “[...] Il sistema delle multinazionali non può vivere in una economia di guerra mondiale (e atomica per giunta), ma sa che non può nemmeno ridurre le spinte naturali dell'aggressività biologica o dell'insofferenza di popoli o di gruppi. Per questo accetta piccole guerre locali, che verranno di volta in volta disciplinate e ridotte da oculati interventi internazionali, e dall'altro lato accetta appunto il terrorismo. [...] Se le Br hanno ragione nella loro analisi di un governo mondiale delle multinazionali, allora devono riconoscere che esse, le Br, ne sono la controparte naturale e prevista. Esse devono riconoscere che stanno recitando un copione già scritto dai loro presunti nemici. Invece, dopo di aver scoperto, sia pure rozzamente, un importante principio di logica dei sistemi, le Br rispondono con un romanzo di appendice ottocentesco fatto di vendicatori e giustizieri bravi ed efficienti come il conte di Montecristo. Ci sarebbe da ridere, se questo romanzo non fosse scritto col sangue.” 13 Ancora una volta un riferimento letterario cerca di esemplificare una situazione critica che pare dover esistere solo nel romanzo. L’intellettuale non trova infatti che due spiegazioni: la compartecipazione delle B.R. ad un sistema di potere calcolato oppure una risposta derivante da 10 S.I.M.= Sistema Imperialista delle Multinazionali 11 A. Arbasino, op. cit., p. 106 12 Brigate Rosse, Comunicato n.1 dal rapimento di Moro, 16/03/1978 13 Umberto Eco, Colpire quale cuore, in Sette anni di desiderio, Tascabili Bompiani, pagg. 109”113, 2004 (l’articolo viene pubblicato su La Repubblica il 23 marzo 1978 con il titolo La sanguinosa scalata a un paradiso disabitato) 5
  • 6. un sedimento, prima culturale e poi storico, che non sia stato metabolizzato appieno. Risuona qui l’eco delle parole di Sciascia in Todo Modo, fra le più enigmatiche: la letteratura è “un sistema di “oggetti eterni” che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e a eclissarsi “ e così via “, alla luce della verità” Per questo i brigatisti non sono capiti: nonostante si nutrano di televisione14 il loro linguaggio sanguinario non fa leva sulle masse, che hanno introiettato l’idea di un sistema di potere inalienabile senza un centro, senza un cuore, pronto all’indebitamento e al compromesso storico pur di sopravvivere. Anche in Elsa Morante vive il dubbio di qualcosa di non autentico, di già scritto: “Rivolgendomi a voi brigat. [...] io mi sforzo di non dubitare, almeno, che voi crediate in buona fede ai motivi dichiarati per le vostre azioni; ossia che voi siate davvero, ai vostri propri occhi, dei rivoluzionari” 15 E con tali incertezze, viste le passate esperienze nel ventennio, il giudizio non può che essere inappellabile: “Una società instaurata nel totale disprezzo della persona umana, qualsiasi nome voglia darsi, non può essere che oscenamente fascista [...]”16 Quale può essere l’evoluzione del linguaggio di Moro in un simile contesto? Lasciato solo dai compagni di partito i suoi scritti si fanno meno enigmatici e più diretti, “comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma” 17. È lo stesso Moro di sempre che non cambia le sue posizioni politiche, ma che viene spogliato “naturalmente” ed inesorabilmente del suo ruolo di potere fino a diventare uomo comune e creatura nelle mani di un destino intriso di “enigmatiche correlazioni”. Moro cerca di salvarsi, non vuole essere vittima sacrificale del nuovo senso dello Stato. Ma contemporaneamente i giornali iniziano un’opera di monumentalizzazione, tracciandone quasi un coccodrillo dall’epitaffio: “il grande statista”. Sicché finalmente qualcuno si azzarda a dire: “Moro è morto!” 18. Affermazione fra le più “felici”, visto che se Moro ribadisce la sua posizione sulla liberazione degli ostaggi, Moro viene 14 questa è l’idea che traspare dal film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, basato sul “libro verità” della brigatista Anna Laura Traghetti, e della giornalista Paola Tavella: Il prigioniero, Feltrinelli, 2003 15 E. Morante, Pagine di diario, in Paragone – Letteratura n° 456, febbraio 1988 16 Ivi 17 L. Sciascia, L’affaire Moro, op.cit., p. 76 18 Lo urla un po’ stizzito l’On. Trombadori nei corridoi della Camera 6
  • 7. smentito da chi in precedenza l’ha udito; se Moro si appella al Santo Padre, il santo padre riafferma primariamente, pur fra virgolette genuflesse, il ruolo istituzionale della DC; se Moro convoca da presidente un consiglio straordinario della DC, il risultato è una riunione di gabinetto ben poco fruttuosa ed intransigente, che si appella al sacrificio delle famiglie dei servitori dello Stato. Quando finalmente tutti capiscono che la situazione è in stallo e che Moro inizia ad essere davvero scomodo nel suo nuovo ruolo di creatura inerme che troppo sa, arriva il suo disconoscimento ufficiale. Può forse Moro, da buon cristiano, allontanare da lui il calice amaro della morte? Può scrivere nelle sue lettere cose come “il mio sangue ricadrebbe su di voi [...]”, parlare ironicamente de “le ore liete del potere”, definire il suo un “Calvario” ? Il 25 aprile, anniversario della liberazione tanto caro a tutte le parti del compromesso storico (e anche a chi vi si oppone), gli “amici di Moro” decretano scientificamente la sua totale discontinuità con il Moro che fu: “non è l’uomo che conosciamo”. Un’affermazione che libera tutti, finalmente, dal peso di un fantasma che continua a parlare ma che nessuno vuole più ascoltare. Non stupisce quindi la graduale immedesimazione di Moro come agnello sacrificale, come figura cristologica che si vede rinnegata dagli amici e che, destinata alla morte, invoca la grazia. Fortini rimane esterrefatto quanto Moro rispetto al comunicato: “«non sei più tu» è una frase che consacra ogni interruzione. È la frase che nessun cristiano può pronunciare[...] si abbia il coraggio di dire che non lo si accetterebbe anche se fossero dettate [le lettere] in piena libertà; e l’umiltà di non concluderne con l’interdizione di un uomo” 19 Anche Claudio Martelli invita polemicamente alla riflessione, riconducendoci a meditare sul fatto che proprio lo scrivere del prigioniero ha accelerato la sua morte, permettendo ad “amici” ed avversari di sollazzarsi con il gioco delle differenze, disputandosi l’interpretazione dello stile quasi fosse la disputa per le vesti di Cristo prima della crocifissione: “Costoro sembrano più preoccupati della "memoria" di Moro che non della sua vita, e si disputano l'interpretazione di uno stile e di una vita che non è ancora perduta. Giornalisti e grafologi non si sa quanto improvvisati hanno dissertato non sulla autenticità della calligrafia che tutti riconoscono, ma sulla "pendenza" e sulle "cancellature" e "correzioni" per ricavare stampelle alla tesi della "inautenticità sostanziale". Come la metafisica anche la metagrafologia soccorre chi non ha argomenti.” 20 19 F. Fortini, Non è lui, in Insistenze, Garzanti, Milano 1985, p. 202 20 Claudio Martelli, Perché non credere alle sue lettere? , Corriere della Sera, 1 maggio 1978 7
  • 8. Ed in effetti proprio i suoi scritti sono l’involucro che segna il graduale dissolvimento della sua esistenza, sicché, tra la verità e la letteratura, s’impone un terzo elemento, che costringe ad una differente lettura degli altri due: la morte. 21 E giusto per dare un tocco di gotico a questa vicenda che sempre più pare una questione di lingua e di letteratura, proprio come nella visione di Sciascia, (“L’idea che domina l’affaire Moro è che tutto è già stato scritto, tutto già contenuto nella letteratura”.22) arriva l’estremo tentativo di conoscere il luogo del rapimento di Moro con una seduta spiritica. Sono gli spiriti di don Luigi Sturzo e La Pira che dopo vari giochetti col piattino compongono il nome “Gradoli”, via di Roma nella quale si troverà un covo. Prodi: “Vi erano anche bambini al di sotto dei dieci anni! [...] Ripeto, a posteriori mi sono reso conto che vi è gente che tutte le sere lo fa!” Sciascia: “tra i 12, qualcuno aveva pratica di queste cose?” Prodi: “Intendiamoci sulla parola pratica, On. Sciascia. Se qualcuno lo aveva fatto altre volte voi lo potrete sapere chiedendo agli altri, ma nella nostra lettera abbiamo detto che non vi era nessuno che, con intensità, si dedicava a questo. Naturalmente vi era qualcuno che, altre volte, l’aveva fatto” [...]23 A leggere tutta l’audizione pare davvero di trovarsi nel clima omertoso di certi personaggi di Sciascia, con Prodi che mette in evidenza atmosfera ludica e pura casualità. C’erano i bambini! Il caso o lo spirito di Sturzo, sempre per “enigmatiche correlazioni”, svela un nome, Gradoli, che fra tanti viene scelto come indicativo perché sconosciuto! Conclusioni Quello che rimane uno dei misteri italiani più complicati ed oscuri ha dato origine ad un libro letterario di grande importanza, bistrattato dalla critica prima ancora della sua uscita, ma che rende impossibile affrontare il caso Moro senza aver letto l’affaire 24. Sciascia, seguendo in parte la strada tracciata da Pasolini, si interroga sulla possibilità di distinguere verosimile, reale e realtà, stravolgendone i rapporti. Dobbiamo però interrogarci sulle divagazioni dei romanzi e dei racconti a noi contemporanei che minano costantemente il concetto di realtà proponendoci non delle “enigmatiche correlazioni” con colte allusioni letterarie e riflessioni sul non”detto, 21 M. Belpoliti, L’Affaire Moro: anatomia di un testo, op.cit., pag. 33 22 M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001, p. 16 23 Audizione di Romano Prodi presso la commissione Moro, 10 giugno 1981 24 M. Belpoliti, L’Affaire Moro: anatomia di un testo, op.cit., pag. 31 8
  • 9. ma piuttosto offrendoci un percorso che pare agli “illetterati” del tutto fiduciario e suffragato da prove che paiono linguisticamente inopinabili. Per rimanere in tema, il caso Moro viene toccato 25 da un libro che mette in correlazione la seduta spiritica sopraccitata con la rete segreta del Gladio dato che in via Gradoli abitava un Ivan Mosca, pittore della loggia massonica di Sion... Ma d’altro canto anche una sentenza di condanna in cassazione non eseguita per prescrizione può essere interpretata da una giovane avvocatessa strimpellante (ed ora parlamentare: qui le “enigmatiche correlazioni” paiono molto meno indecifrabili...) come una sentenza di assoluzione, di conseguenza conviene riappacificarci con la letteratura che ci offre un’ipotesi di verità, una finestra su un mondo troppo complesso, o troppo semplice, per essere decodificato appieno. Così vediamo Moro uscire dalla sua gabbia e camminare per la città nel film di Bellocchio, per pietà della terrorista; sentiamo Luttazzi descrivere grottescamente il corpo di Moro, esanime e perforato dalle pallottole, violentato sessualmente, per quei medesimi nuovi orefizi sanguinolenti, da Andreotti 26, con la collaborazione di Moretti (capo delle BR?), il quale nei libri di Sergio Flamigni assume sempre più il ruolo di burattino della destra e dei servizi segreti 27... Forse fra le tante pagine letterarie, giornalistiche, grottesche, popolari, filmiche... forse fra le pieghe di queste pagine si nascondono elementi di verità celata. Resta il dramma di riconoscere che i “fatti sono pochi”, come direbbe Eco, e che quindi forse dovremmo chiederci se la letteratura e la finzione del reale non siano l’unico modo per prendere una posizione, in un’ideale intrattenimento che fissa su carta la vita, generando la morte. Bibliografia - M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001 - M. Belpoliti, L’affaire Moro: anatomia di un testo in L’uomo solo. L’affaire Moro di Leonardo 25 Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, il misterioso intermediario, Einaudi 26 Daniele Luttazzi, Stanotte e per sempre, disponibile presso http://www.asphalto.org/?post_id=10957 27 Sergio Flamigni, La sfinge delle brigate rosse, KAOS Edizioni, 2004 9
  • 10. Sciascia a cura di V. Vecellio, ed. La Vita Felice, 2002 - L. Sciascia, L’affaire Moro (1978), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 2006 - P.P. Pasolini, Io so, in Corriere della Sera,14 novembre 1974 - A. Arbasino, In questo Stato, Garzanti, 1978 - F. Fortini, Non è lui, in Insistenze, Garzanti, Milano 1985 - E. Morante, Pagine di diario, in Paragone – Letteratura n° 456, febbraio 1988 - C. Martelli, Perché non credere alle sue lettere? , Corriere della Sera, 1 maggio 1978 - G. Fasanella e G. Rocca, il misterioso intermediario, Einaudi - D. Luttazzi, Stanotte e per sempre, http://www.asphalto.org/?post_id=10957 - S. Flamigni, La sfinge delle brigate rosse, KAOS Edizioni, 2004 - Audizione di Romano Prodi presso la commissione Moro, 10 giugno 1981, parzialmente disponibile presso: http://www.macchianera.net/2006/02/01/il_caso_moro_romano_prodi_via.html - M. Bellocchio, Buongiorno, notte , film, Italia 2003 10