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Il danno biologico da vessazione e da violenze morali sul posto 
di lavoro: 
una guerra non dichiarata. 
Dott. Enzo Cordaro, psicoterapeuta, direttore centro per la rilevazione del danno biologico mobbing 
compatibile - ASL RMD - cordaro.enzo@libero.it - www.apolisprevenzione.it 
Dott. Roberto Rossi, psicoterapeuta, responsabile accoglienza centro per la rilevazione del danno biologico 
mobbing compatibile - ASL RMD - rorro@inwind.it 
L’ autorità razionale si fonda sulla competenza 
ed aiuta a crescere coloro che si appoggiano ad essa; 
l’autorità irrazionale si basa sul potere 
e serve a sfruttare la persona che ad essa è asservita. 
Eric Fromm 
Le caratteristiche del contesto lavorativo assumono un’importanza speciale per riuscire a 
comprendere la sofferenza psicologica del singolo individuo che sia intenzionalmente sottoposto a 
relazioni umane disfunzionali e vessanti. L’esperienza di un centro per la valutazione del danno 
biologico mobbing compatibile ha evidenziato, infatti, le specificità di vari contesti lavorativi 
dominati da arroganza, protervia e sopraffazione, caratterizzati dalla consistente presenza di 
emozioni negative, da elementi di disgregazione sociale, da competitività esasperata ed, infine, 
limitati nelle proprie potenzialità da un’organizzazione disfunzionale non orientata primariamente 
al raggiungimento degli obiettivi. 
In un posto di lavoro caratterizzato, invece, da tolleranza, convivenza e accoglienza, l’emozionalità 
è considerata come un valore aggiunto ed un elemento centrale di progettazione: la coesione 
sociale che ne deriva, permette la presenza di una competitività leale e l’organizzazione può così 
esprimere al meglio la propria potenzialità. 
Il contesto lavorativo è comunque il luogo in cui tutte le relazioni e le comunicazioni assumono il 
loro significato, ed il carattere individuale delle persone viene definito, permettendone la crescita a 
livello individuale e sociale. Ne deriva quindi come, a causa di un contesto relazionale vessante e/o 
disfunzionale, il soggetto possa sperimentare una notevole sofferenza psicologica che si può 
concretizzare nelle patologie stress correlate, quali le malattie psicosomatiche, i disturbi 
dell’adattamento (con ansia, depressione, disturbi dell’emotività e della condotta), i disturbi post - 
traumatici da stress; tutte patologie individuate da un Decreto Ministeriale come “malattie
psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione e del lavoro” - (lista n. 2 del DM 14- 
1-08). 
Un altro riferimento legislativo è rappresentato dal D.lgs. 81/08 (e successive modifiche D.lgs. 
106/09) che prevede la precisa responsabilità del datore di lavoro nel garantire l’assenza di rischi 
chimici, fisici, biologici e psicosociali sul posto di lavoro. La novità della legge è la puntuale 
considerazione dei rischi psicosociali che possono portare a patologie stress - correlate sui posti 
di lavoro. Nel caso in cui il lavoratore manifesti una sofferenza psicologica riconducibile 
all’organizzazione lavorativa, scatta l’obbligo per il datore di lavoro di rimuoverne le cause. Se 
fosse accertato il mobbing, verificata la conoscenza di questo da parte del datore di lavoro, si 
configurerebbe la sua colpa per dolo, mentre nel caso di una sua ignoranza dei fenomeni di disagio 
da lavoro, si configurerebbe la sua negligenza, per non aver effettuato interventi atti a rimuovere i 
fattori di rischio psicosociali. In questo quadro, le aggressioni ai danni di un lavoratore, compiute 
nel proprio ambiente, non sono più eventi che “possono succedere”, lasciando alle capacità 
individuali di difesa il compito di far fronte alle violenze morali, ma è individuata in modo preciso la 
responsabilità di chi gestisce l’organizzazione di evitarle a tutti costi, allo stesso modo di come si 
dovrebbe evitare la presenza di rischi fisici o biologici che potrebbero danneggiare la salute del 
lavoratore. 
Il fenomeno del mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica deliberata e ripetuta 
nel tempo ai danni di un membro del gruppo di lavoro, con la finalità di espellerlo, isolandolo dai 
colleghi e provocando sofferenze psicologiche fino a spingerlo all’estromissione dal servizio o 
all’auto - licenziamento. La parola deriva dal verbo inglese to mob (attaccare) ed è stata coniata da 
K. Lorentz per descrivere l’attacco di un gruppo di animali ai danni di un proprio membro, allo 
scopo di escluderlo. 
Le nostre osservazioni hanno categorizzato due forme principali di comportamenti comunicativi 
nell’ambito delle violenze morali: 
1. Comportamenti squalificanti, nei quali la comunicazione nel contesto mobbizzante è basata sul 
rifiuto del ruolo lavorativo della vittima. Il rifiuto non comporta la negazione dell’esistenza del 
mobbizzato. La vittima non è ignorata totalmente come persona: infatti, essa può ottenere 
ancora un minimo di considerazione, ma è squalificata in quanto soggetto lavoratore, perché il 
messaggio relazionale veicolato dai comportamenti del gruppo è: “non fai parte di questo 
gruppo”. Le “costrittività organizzative” prevalenti sono l’assegnazione di compiti lavorativi de-qualificati 
rispetto al profilo professionale posseduto, in modo da confermare un’immagine 
d’incompetenza per la vittima e la sua marginalizzazione ed isolamento che causano un vissuto 
depressivo ed un calo dell’autostima. Inoltre, esercizio esasperato ed eccessivo di forme di 
controllo, lo screditamento della reputazione ridicolizzando, calunniando e attaccando le
diversità di pensiero, i rimproveri ed i richiami per errori normalmente trascurabili, 
contribuiscono a danneggiare l’immagine di sé del colpito, che può reagire ribellandosi ed 
innescando un circuito conflittuale che difficilmente non lascerà i suoi segni, per molto tempo, 
sulla vita personale e familiare. 
2. Se le caratteristiche della comunicazione nel contesto violento sono improntate dalla 
pressoché totale indifferenza dei capi e dei colleghi nei confronti della vittima parliamo di una 
situazione di disconferma, in cui non vengono assegnati né gli strumenti di lavoro, né i compiti 
lavorativi, con inattività forzata, svuotamento delle mansioni e marginalizzazione dalla attività 
lavorativa. Completano il quadro, l’isolamento della persona dal resto del personale, con 
proibizione di rivolgergli la parola e l’inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni 
inerenti all’ordinaria attività di lavoro. Con questa configurazione relazionale e comunicativa, si 
ignora quello che prova e pensa la vittima, con l’obiettivo, spesso raggiunto, di minare la 
capacità di un individuo di padroneggiare il rapporto con gli altri, con se stesso e, addirittura, 
con la realtà. In questo caso, il carattere della violenza esercitata verso il lavoratore ha effetti 
molto più devastanti, in quanto l’attacco è rivolto contro la persona nella sua totalità, ovvero 
contro la sua esistenza relazionale. 
All’interno dell’esperienza da noi effettuata, abbiamo avuto modo di osservare parecchi casi 
provenienti da situazioni altamente gerarchizzate, come le forze armate, la polizia, le guardie 
giurate, i vigili urbani. In questi casi, il contesto relazionale ed organizzativo, che abbiamo visto 
essere particolarmente influente nel mantenimento di un equilibrio psicologico ottimale, è 
caratterizzato da un’organizzazione altamente formale, amministrata centralmente a tutti i livelli 
organizzativi, secondo una struttura piramidale che tende a controllare anche gli aspetti più 
dettagliati della vita privata del soggetto, arrivando ad influire sulle dinamiche relazionali del gruppo 
di lavoro. 
Inoltre, chi vuole farne parte deve manifestare la sua piena identificazione con le intenzioni e le 
finalità espresse dall’istituzione, attraverso una scelta di piena adesione ai valori da essa 
rappresentata: legalità, onestà, rettitudine, importanza del gruppo maggiore di quella dell’individuo, 
obbedienza, difesa dei cittadini, difesa della patria, difesa dei più deboli. Questa piena 
identificazione con l’istituzione, necessaria per farvi parte, può rappresentare un ulteriore fattore 
di fragilità: essersi pienamente identificati con un gruppo d’appartenenza e poi venirne esclusi, 
significa minare ancor di più le basi del proprio senso d’identità. 
Un’altra caratteristica prevalente di questi ambienti lavorativi, è la diversità delle loro regole da 
quelle del mondo lavorativo esterno, che rappresenta una importante fonte di difficoltà e 
sofferenza, in quanto chi è colpito da vessazioni e violenze morali non può essere difeso, come
accadrebbe ad un altro cittadino (grazie alla tutela sindacale, al codice civile): si aggiungerebbe 
quindi un sentimento di estraniazione dalla comunità civile. 
L’elevata concentrazione di potere in poche mani, dovuta alla struttura organizzativa piramidale, 
aumenta il rischio che deviazioni comportamentali individuali possano manifestarsi in 
comportamenti vessatori nei confronti di soggetti sottomessi, senza la possibilità di controlli o 
limitazioni. 
Dalle nostre osservazioni, l’elemento “trigger” (grilletto) che innesca le violenze morali può essere 
rappresentato da uno dei seguenti eventi relazionali sul posto di lavoro: 
1. Il soggetto manifesta sul lavoro un eccessivo zelo o professionalità quando invece il contesto 
richiede complicità nei confronti di comportamenti del gruppo percepiti come irregolari, non 
morali e non etici; oppure il soggetto, di solito un ufficiale, avanza delle proposte di 
innovazione che confliggono con la staticità organizzativa presente nelle forze armate, 
mettendo in crisi antichi e consolidati equilibri. 
2. Vengono richiesti benefit (es. 104, alloggi riservati) ai quali si ha diritto, ma questo entra in 
conflitto con l’usanza vigente dei superiori di concederli solo discrezionalmente, in modo da 
esercitare ulteriormente il proprio potere. 
3. Riorganizzazione: più tipico delle forze di polizia, l’arrivo di una nuova dirigenza richiede una 
fedeltà che la “vecchia guardia” potrebbe non garantire, per cui quest’ultima viene esclusa con 
violenza. 
4. Malattia: una condizione di fragilità, sfruttata per escludere il soggetto che non sarebbe più 
considerato “affidabile”: in realtà viene temuta la rivendicazione di diritti alla malattia collegati. 
Non diversamente dal resto della popolazione degli afferenti al nostro centro, il danno biologico 
rilevato consiste, oltre alle patologie tabellate dal decreto ministeriale del 14-1-08, in disturbi della 
personalità, con difficoltà nello stabilire relazioni interpersonali soddisfacenti, a causa di 
sospettosità, diffidenza, mancanza di fiducia, inibizione nell’espressione dei propri sentimenti; 
depressione; con drastico calo dell’autostima, apatia, difficoltà nell’infuturazione; elevata ansia che 
viene espressa tramite disturbi somatici: insonnia, cefalee, impotenza sessuale, disturbi 
gastrointestinali e dermatologici. Queste condizioni di sofferenza, inoltre, sono alla base di 
importanti compromissioni del funzionamento sociale e familiare dei colpiti. 
Le serie difficoltà psicologiche, certificate dal nostro centro, affondano le loro radici nell’incontro 
fra un’organizzazione caratterizzata da particolari rigidità ed una persona portatrice di importanti 
aspettative esistenziali che cercano di essere soddisfatte facendo parte di un’organizzazione del 
genere. Infatti, dai racconti dei nostri utenti, emergono i loro valori e problematiche che in 
qualche modo hanno rappresentato la spinta a scegliere di lavorare in contesti “militari”:
1. Valori di salvaguardia e protezione dell’altro, che il soggetto vive come particolarmente 
fondanti la propria autostima e senso d’identità, che l’istituzione rappresenta e dovrebbe 
garantire attraverso il rispetto della legalità. 
2. il puntuale rispetto delle regole e delle procedure standardizzate, tipico delle organizzazioni 
altamente gerarchizzate, è un elemento che può garantire a determinate personalità la 
riduzione dell’incertezza e quindi la riduzione della propria ansia personale. 
3. Il rispetto delle regole, della disciplina e della moralità, tipiche delle forze armate o di polizia 
sono “attrattori psicologici” che inducono a farne parte persone provenienti da una tradizione 
familiare di professioni militari, o legali: in qualche modo la scelta della professione del soggetto 
rimane permeata da questi valori, in modo da confermare il mandato familiare. 
4. I soggetti provengono da famiglie in cui la professione militare è considerata fonte di riscatto e 
rivincita sociale (le forze armate sono considerate a livello simbolico come un “buon padre di 
famiglia” che garantisce reddito e rispettabilità). 
Avviene così che il soggetto ricerchi nell’istituzione i suoi valori di riferimento, allo scopo di 
confermare la propria struttura di personalità e continuare a rispettare i valori familiari. Questo 
incontro fra il soggetto e l’istituzione può rivelarsi terreno fertile per le molestie e le violenze 
morali, quando l’istituzione non mantiene le sue premesse valoriali a causa delle sue percepite 
inefficienze, clientele e disorganizzazione: in questo caso, infatti, il soggetto, che sente come tradite 
le premesse, si appella ai valori, che vede compromessi, con rivendicazioni, puntigliosità, 
implementazione di conflittualità anche legali. Inizia così un percorso conflittuale, in cui l’istituzione 
difende se stessa iniziando e/o proseguendo le pratiche vessatorie tese ad escludere il soggetto. 
Il disagio personale che ne deriva rende la persona più fragile ed isolata, in quanto sperimenta un 
forte disequilibrio valoriale che si ripercuote sul senso di autostima e d’identità. 
In un periodo a cavallo fra il 2008 ed il 2009, su un 
campione di 212 utenti, il 9% dei soggetti proveniva da 
organizzazioni altamente gerarchizzate (Fig. 1). 
All’interno di questo campione, vediamo come sono 
rappresentate le varie categorie delle forze armate (Fig. 
2). Per effettuare un confronto con le altre categorie di 
utenti colpiti da mobbing, abbiamo rilevato che il 9% 
proveniva da organizzazioni altamente gerarchizzate, 
Il 5% degli utenti da ASL- aziende ospedaliere, 
Figura 1
Il 4% utenti da banche (compreso Poste Italiane) ed Il 3% degli utenti da TELECOM. Questo 
dimostra come le varie tipologie di forze armate siano ampiamente rappresentate nel campione, 
con una numerosità maggiore rispetto ad altre categorie di lavoratori, relativamente confrontabili 
per importanza e rilevanza. 
Un altro dato da rilevare è quello che evidenzia 
come tra gli utenti provenienti da 
organizzazioni altamente gerarchizzate, il 79% 
avevano un ruolo di quadro o dirigente: è la 
dimostrazione che il mobbing, in questi casi, 
colpisce le persone con più responsabilità che 
possono, quindi, esprimere un maggior grado di 
autonomia decisionale e di opinione; al 
Figura 2 
contrario della popolazione degli utenti, dove il rapporto si inverte: infatti qui la dirigenza / quadri 
è rappresentata solo dal 33% degli utenti. 
Dai dati da noi raccolti risulta, quindi, che il mobbing si esprime nell’ambito delle forze armate con 
le stesse modalità e frequenze con cui si esprime negli altri comparti del lavoro. Con due 
particolarità in più: la prima rappresentata dalla maggiore rigidità ed immobilismo che le istituzioni 
militari devono avere nel loro funzionamento; una rigidità che in alcuni casi va a discapito 
dell’individuazione dei bisogni soggettivi dei suoi membri. La seconda è che la tipicità del lavoro 
non è garantita da una contrattualità sindacale che possa rappresentare la possibilità di gestire il 
conflitto. Non sta a noi dire se le istituzioni militari possono essere organizzate in modo diverso, 
ma sta a noi dire che le peculiarità sopra descritte possono rappresentare un terreno fertile in cui 
una gestione del potere autoritario, può incrementando ulteriormente comportamenti vessatori e 
prevaricatori. 
Se il fenomeno sta emergendo in questo periodo è a causa della maggiore informazione e 
sensibilità dei media, che prima tendevano a liquidare come fenomeni di “nonnismo” i 
maltrattamenti e le violenze morali, con il risultato di considerarli come innocua goliardia, 
stendendo una coltre di indifferenza sulla reale sofferenza di chi ne era colpito. 
Continuare a minimizzare il fenomeno contribuirebbe, oggi, a perpetrare queste forme di violenza 
morale, colludendo con la rigidità organizzativa di istituzioni che devono invece adeguarsi al più 
presto alla nuova cultura di prevenzione dei rischi organizzativi.

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Il danno biologico da vessazione e da violenze morali sul posto di lavoro: una guerra non dichiarata

  • 1. Il danno biologico da vessazione e da violenze morali sul posto di lavoro: una guerra non dichiarata. Dott. Enzo Cordaro, psicoterapeuta, direttore centro per la rilevazione del danno biologico mobbing compatibile - ASL RMD - cordaro.enzo@libero.it - www.apolisprevenzione.it Dott. Roberto Rossi, psicoterapeuta, responsabile accoglienza centro per la rilevazione del danno biologico mobbing compatibile - ASL RMD - rorro@inwind.it L’ autorità razionale si fonda sulla competenza ed aiuta a crescere coloro che si appoggiano ad essa; l’autorità irrazionale si basa sul potere e serve a sfruttare la persona che ad essa è asservita. Eric Fromm Le caratteristiche del contesto lavorativo assumono un’importanza speciale per riuscire a comprendere la sofferenza psicologica del singolo individuo che sia intenzionalmente sottoposto a relazioni umane disfunzionali e vessanti. L’esperienza di un centro per la valutazione del danno biologico mobbing compatibile ha evidenziato, infatti, le specificità di vari contesti lavorativi dominati da arroganza, protervia e sopraffazione, caratterizzati dalla consistente presenza di emozioni negative, da elementi di disgregazione sociale, da competitività esasperata ed, infine, limitati nelle proprie potenzialità da un’organizzazione disfunzionale non orientata primariamente al raggiungimento degli obiettivi. In un posto di lavoro caratterizzato, invece, da tolleranza, convivenza e accoglienza, l’emozionalità è considerata come un valore aggiunto ed un elemento centrale di progettazione: la coesione sociale che ne deriva, permette la presenza di una competitività leale e l’organizzazione può così esprimere al meglio la propria potenzialità. Il contesto lavorativo è comunque il luogo in cui tutte le relazioni e le comunicazioni assumono il loro significato, ed il carattere individuale delle persone viene definito, permettendone la crescita a livello individuale e sociale. Ne deriva quindi come, a causa di un contesto relazionale vessante e/o disfunzionale, il soggetto possa sperimentare una notevole sofferenza psicologica che si può concretizzare nelle patologie stress correlate, quali le malattie psicosomatiche, i disturbi dell’adattamento (con ansia, depressione, disturbi dell’emotività e della condotta), i disturbi post - traumatici da stress; tutte patologie individuate da un Decreto Ministeriale come “malattie
  • 2. psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione e del lavoro” - (lista n. 2 del DM 14- 1-08). Un altro riferimento legislativo è rappresentato dal D.lgs. 81/08 (e successive modifiche D.lgs. 106/09) che prevede la precisa responsabilità del datore di lavoro nel garantire l’assenza di rischi chimici, fisici, biologici e psicosociali sul posto di lavoro. La novità della legge è la puntuale considerazione dei rischi psicosociali che possono portare a patologie stress - correlate sui posti di lavoro. Nel caso in cui il lavoratore manifesti una sofferenza psicologica riconducibile all’organizzazione lavorativa, scatta l’obbligo per il datore di lavoro di rimuoverne le cause. Se fosse accertato il mobbing, verificata la conoscenza di questo da parte del datore di lavoro, si configurerebbe la sua colpa per dolo, mentre nel caso di una sua ignoranza dei fenomeni di disagio da lavoro, si configurerebbe la sua negligenza, per non aver effettuato interventi atti a rimuovere i fattori di rischio psicosociali. In questo quadro, le aggressioni ai danni di un lavoratore, compiute nel proprio ambiente, non sono più eventi che “possono succedere”, lasciando alle capacità individuali di difesa il compito di far fronte alle violenze morali, ma è individuata in modo preciso la responsabilità di chi gestisce l’organizzazione di evitarle a tutti costi, allo stesso modo di come si dovrebbe evitare la presenza di rischi fisici o biologici che potrebbero danneggiare la salute del lavoratore. Il fenomeno del mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica deliberata e ripetuta nel tempo ai danni di un membro del gruppo di lavoro, con la finalità di espellerlo, isolandolo dai colleghi e provocando sofferenze psicologiche fino a spingerlo all’estromissione dal servizio o all’auto - licenziamento. La parola deriva dal verbo inglese to mob (attaccare) ed è stata coniata da K. Lorentz per descrivere l’attacco di un gruppo di animali ai danni di un proprio membro, allo scopo di escluderlo. Le nostre osservazioni hanno categorizzato due forme principali di comportamenti comunicativi nell’ambito delle violenze morali: 1. Comportamenti squalificanti, nei quali la comunicazione nel contesto mobbizzante è basata sul rifiuto del ruolo lavorativo della vittima. Il rifiuto non comporta la negazione dell’esistenza del mobbizzato. La vittima non è ignorata totalmente come persona: infatti, essa può ottenere ancora un minimo di considerazione, ma è squalificata in quanto soggetto lavoratore, perché il messaggio relazionale veicolato dai comportamenti del gruppo è: “non fai parte di questo gruppo”. Le “costrittività organizzative” prevalenti sono l’assegnazione di compiti lavorativi de-qualificati rispetto al profilo professionale posseduto, in modo da confermare un’immagine d’incompetenza per la vittima e la sua marginalizzazione ed isolamento che causano un vissuto depressivo ed un calo dell’autostima. Inoltre, esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, lo screditamento della reputazione ridicolizzando, calunniando e attaccando le
  • 3. diversità di pensiero, i rimproveri ed i richiami per errori normalmente trascurabili, contribuiscono a danneggiare l’immagine di sé del colpito, che può reagire ribellandosi ed innescando un circuito conflittuale che difficilmente non lascerà i suoi segni, per molto tempo, sulla vita personale e familiare. 2. Se le caratteristiche della comunicazione nel contesto violento sono improntate dalla pressoché totale indifferenza dei capi e dei colleghi nei confronti della vittima parliamo di una situazione di disconferma, in cui non vengono assegnati né gli strumenti di lavoro, né i compiti lavorativi, con inattività forzata, svuotamento delle mansioni e marginalizzazione dalla attività lavorativa. Completano il quadro, l’isolamento della persona dal resto del personale, con proibizione di rivolgergli la parola e l’inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti all’ordinaria attività di lavoro. Con questa configurazione relazionale e comunicativa, si ignora quello che prova e pensa la vittima, con l’obiettivo, spesso raggiunto, di minare la capacità di un individuo di padroneggiare il rapporto con gli altri, con se stesso e, addirittura, con la realtà. In questo caso, il carattere della violenza esercitata verso il lavoratore ha effetti molto più devastanti, in quanto l’attacco è rivolto contro la persona nella sua totalità, ovvero contro la sua esistenza relazionale. All’interno dell’esperienza da noi effettuata, abbiamo avuto modo di osservare parecchi casi provenienti da situazioni altamente gerarchizzate, come le forze armate, la polizia, le guardie giurate, i vigili urbani. In questi casi, il contesto relazionale ed organizzativo, che abbiamo visto essere particolarmente influente nel mantenimento di un equilibrio psicologico ottimale, è caratterizzato da un’organizzazione altamente formale, amministrata centralmente a tutti i livelli organizzativi, secondo una struttura piramidale che tende a controllare anche gli aspetti più dettagliati della vita privata del soggetto, arrivando ad influire sulle dinamiche relazionali del gruppo di lavoro. Inoltre, chi vuole farne parte deve manifestare la sua piena identificazione con le intenzioni e le finalità espresse dall’istituzione, attraverso una scelta di piena adesione ai valori da essa rappresentata: legalità, onestà, rettitudine, importanza del gruppo maggiore di quella dell’individuo, obbedienza, difesa dei cittadini, difesa della patria, difesa dei più deboli. Questa piena identificazione con l’istituzione, necessaria per farvi parte, può rappresentare un ulteriore fattore di fragilità: essersi pienamente identificati con un gruppo d’appartenenza e poi venirne esclusi, significa minare ancor di più le basi del proprio senso d’identità. Un’altra caratteristica prevalente di questi ambienti lavorativi, è la diversità delle loro regole da quelle del mondo lavorativo esterno, che rappresenta una importante fonte di difficoltà e sofferenza, in quanto chi è colpito da vessazioni e violenze morali non può essere difeso, come
  • 4. accadrebbe ad un altro cittadino (grazie alla tutela sindacale, al codice civile): si aggiungerebbe quindi un sentimento di estraniazione dalla comunità civile. L’elevata concentrazione di potere in poche mani, dovuta alla struttura organizzativa piramidale, aumenta il rischio che deviazioni comportamentali individuali possano manifestarsi in comportamenti vessatori nei confronti di soggetti sottomessi, senza la possibilità di controlli o limitazioni. Dalle nostre osservazioni, l’elemento “trigger” (grilletto) che innesca le violenze morali può essere rappresentato da uno dei seguenti eventi relazionali sul posto di lavoro: 1. Il soggetto manifesta sul lavoro un eccessivo zelo o professionalità quando invece il contesto richiede complicità nei confronti di comportamenti del gruppo percepiti come irregolari, non morali e non etici; oppure il soggetto, di solito un ufficiale, avanza delle proposte di innovazione che confliggono con la staticità organizzativa presente nelle forze armate, mettendo in crisi antichi e consolidati equilibri. 2. Vengono richiesti benefit (es. 104, alloggi riservati) ai quali si ha diritto, ma questo entra in conflitto con l’usanza vigente dei superiori di concederli solo discrezionalmente, in modo da esercitare ulteriormente il proprio potere. 3. Riorganizzazione: più tipico delle forze di polizia, l’arrivo di una nuova dirigenza richiede una fedeltà che la “vecchia guardia” potrebbe non garantire, per cui quest’ultima viene esclusa con violenza. 4. Malattia: una condizione di fragilità, sfruttata per escludere il soggetto che non sarebbe più considerato “affidabile”: in realtà viene temuta la rivendicazione di diritti alla malattia collegati. Non diversamente dal resto della popolazione degli afferenti al nostro centro, il danno biologico rilevato consiste, oltre alle patologie tabellate dal decreto ministeriale del 14-1-08, in disturbi della personalità, con difficoltà nello stabilire relazioni interpersonali soddisfacenti, a causa di sospettosità, diffidenza, mancanza di fiducia, inibizione nell’espressione dei propri sentimenti; depressione; con drastico calo dell’autostima, apatia, difficoltà nell’infuturazione; elevata ansia che viene espressa tramite disturbi somatici: insonnia, cefalee, impotenza sessuale, disturbi gastrointestinali e dermatologici. Queste condizioni di sofferenza, inoltre, sono alla base di importanti compromissioni del funzionamento sociale e familiare dei colpiti. Le serie difficoltà psicologiche, certificate dal nostro centro, affondano le loro radici nell’incontro fra un’organizzazione caratterizzata da particolari rigidità ed una persona portatrice di importanti aspettative esistenziali che cercano di essere soddisfatte facendo parte di un’organizzazione del genere. Infatti, dai racconti dei nostri utenti, emergono i loro valori e problematiche che in qualche modo hanno rappresentato la spinta a scegliere di lavorare in contesti “militari”:
  • 5. 1. Valori di salvaguardia e protezione dell’altro, che il soggetto vive come particolarmente fondanti la propria autostima e senso d’identità, che l’istituzione rappresenta e dovrebbe garantire attraverso il rispetto della legalità. 2. il puntuale rispetto delle regole e delle procedure standardizzate, tipico delle organizzazioni altamente gerarchizzate, è un elemento che può garantire a determinate personalità la riduzione dell’incertezza e quindi la riduzione della propria ansia personale. 3. Il rispetto delle regole, della disciplina e della moralità, tipiche delle forze armate o di polizia sono “attrattori psicologici” che inducono a farne parte persone provenienti da una tradizione familiare di professioni militari, o legali: in qualche modo la scelta della professione del soggetto rimane permeata da questi valori, in modo da confermare il mandato familiare. 4. I soggetti provengono da famiglie in cui la professione militare è considerata fonte di riscatto e rivincita sociale (le forze armate sono considerate a livello simbolico come un “buon padre di famiglia” che garantisce reddito e rispettabilità). Avviene così che il soggetto ricerchi nell’istituzione i suoi valori di riferimento, allo scopo di confermare la propria struttura di personalità e continuare a rispettare i valori familiari. Questo incontro fra il soggetto e l’istituzione può rivelarsi terreno fertile per le molestie e le violenze morali, quando l’istituzione non mantiene le sue premesse valoriali a causa delle sue percepite inefficienze, clientele e disorganizzazione: in questo caso, infatti, il soggetto, che sente come tradite le premesse, si appella ai valori, che vede compromessi, con rivendicazioni, puntigliosità, implementazione di conflittualità anche legali. Inizia così un percorso conflittuale, in cui l’istituzione difende se stessa iniziando e/o proseguendo le pratiche vessatorie tese ad escludere il soggetto. Il disagio personale che ne deriva rende la persona più fragile ed isolata, in quanto sperimenta un forte disequilibrio valoriale che si ripercuote sul senso di autostima e d’identità. In un periodo a cavallo fra il 2008 ed il 2009, su un campione di 212 utenti, il 9% dei soggetti proveniva da organizzazioni altamente gerarchizzate (Fig. 1). All’interno di questo campione, vediamo come sono rappresentate le varie categorie delle forze armate (Fig. 2). Per effettuare un confronto con le altre categorie di utenti colpiti da mobbing, abbiamo rilevato che il 9% proveniva da organizzazioni altamente gerarchizzate, Il 5% degli utenti da ASL- aziende ospedaliere, Figura 1
  • 6. Il 4% utenti da banche (compreso Poste Italiane) ed Il 3% degli utenti da TELECOM. Questo dimostra come le varie tipologie di forze armate siano ampiamente rappresentate nel campione, con una numerosità maggiore rispetto ad altre categorie di lavoratori, relativamente confrontabili per importanza e rilevanza. Un altro dato da rilevare è quello che evidenzia come tra gli utenti provenienti da organizzazioni altamente gerarchizzate, il 79% avevano un ruolo di quadro o dirigente: è la dimostrazione che il mobbing, in questi casi, colpisce le persone con più responsabilità che possono, quindi, esprimere un maggior grado di autonomia decisionale e di opinione; al Figura 2 contrario della popolazione degli utenti, dove il rapporto si inverte: infatti qui la dirigenza / quadri è rappresentata solo dal 33% degli utenti. Dai dati da noi raccolti risulta, quindi, che il mobbing si esprime nell’ambito delle forze armate con le stesse modalità e frequenze con cui si esprime negli altri comparti del lavoro. Con due particolarità in più: la prima rappresentata dalla maggiore rigidità ed immobilismo che le istituzioni militari devono avere nel loro funzionamento; una rigidità che in alcuni casi va a discapito dell’individuazione dei bisogni soggettivi dei suoi membri. La seconda è che la tipicità del lavoro non è garantita da una contrattualità sindacale che possa rappresentare la possibilità di gestire il conflitto. Non sta a noi dire se le istituzioni militari possono essere organizzate in modo diverso, ma sta a noi dire che le peculiarità sopra descritte possono rappresentare un terreno fertile in cui una gestione del potere autoritario, può incrementando ulteriormente comportamenti vessatori e prevaricatori. Se il fenomeno sta emergendo in questo periodo è a causa della maggiore informazione e sensibilità dei media, che prima tendevano a liquidare come fenomeni di “nonnismo” i maltrattamenti e le violenze morali, con il risultato di considerarli come innocua goliardia, stendendo una coltre di indifferenza sulla reale sofferenza di chi ne era colpito. Continuare a minimizzare il fenomeno contribuirebbe, oggi, a perpetrare queste forme di violenza morale, colludendo con la rigidità organizzativa di istituzioni che devono invece adeguarsi al più presto alla nuova cultura di prevenzione dei rischi organizzativi.