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Cosa c’insegna il caso Facebook-Cambridge Analytica sul mondo
dell’advertising?
di Pasquale Borriello
Come la tecnologia sta cambiando il marketing e la comunicazione. Pasquale Borriello è
amministratore delegato di Arkage (Artattack Group), ha un background in filosofia e
matematica e una specializzazione in marketing in Canada.
27/03/2018
Il caos generato dal caso Facebook-Cambridge Analytica, ha portato l’attenzione sul vero tema dell’advertising
degli ultimi anni: il valore dei dati degli utenti.
Marketing Technology
2. Prima era “solo” un problema di brand safety o magari di trasparenza sulla pianificazione, ma ora è un
problema che riguarda tutto e tutti. Ci sentiamo assediati da chi vuole i nostri dati per fornirci pubblicità iper-
targettizzate a cui non possiamo resistere. Figuriamoci se si tratta di pubblicità con fini politici. E intanto non
facciamo che ricevere avvisi pop-up che ci chiedono di consentire il tracking della nostra attività di navigazione.
Questo potrà solo aumentare in vista dell’entrata in vigore del nuovo GDPR, il nuovo regolamento privacy
dell’Unione Europea.
Questa potrebbe essere l’occasione per un grande chiarimento nelmondo dell’advertising digitale e in generale
delle tecnologie pubblicitarie più avanzate (ad tech) che vengono viste spesso con sospetto dagli utenti.
L’ad tech è la rivoluzione dell’advertising perché permette efficacia e performance incredibili, e verrà applicata
anche ai media tradizionali come la TV. Ma assieme ad una grande opportunità c’è la grande responsabilità di
chiarire cosa gli inserzionisti fanno con i dati degli utenti e come evitano di renderci vittime potenziali di
manipolazioni di tutti i tipi.
Questa rivoluzione (positiva) è possibile, a patto chele agenzie e le aziende comincino a parlare il linguaggio
degli utenti: non il legalese, non il tecnichese né il facebookese che è stato tanto criticato nella risposta di
Zuckerberg. Semplicemente il linguaggio degli utenti ‘normali’ come tutti noi. I dati sono l’oro nero delle grandi
tech companies – e non solo, anche di alcuni editori – ed è importante che chiunque ne faccia uso impari a
spiegare esattamente cosa ci sta facendo.
Il problema c’è, inutile nasconderlo. Se pensate che i banner che vi seguono ovunque senza motivo siano
inquietanti, sentite questa: il 76% dei siti mondiali contiene cookie di tracciamento di Google nascosti (il 24%
contiene i tracking di Facebook).
E questo non riguarda solo le grandi piattaforme: il 68% degli utenti non si fida di come i brand utilizzano le
proprie informazioni personali.
Non si tratta solo di una compliance legale-amministrativa ma di un problema difiducia e di vicinanza al
cliente: questo scenario spaventa il consumatore e lo allontana dal brand, invece di avvicinarlo. E lo allontana
dall’advertising stessa.
Spetta a noi invertire la tendenza per riacquisire la fiducia del pubblico. Per farlo, sono sicuro che non basterà
un flag su un form per dare il consenso a chissà quale utilizzo dei dati. Servirà invece rinnovare ancora una volta
l’advertising dalla base, fornendo all’utente quello che vuole (contenuti di valore!), parlando il più possibile la sua
stessa lingua (umana!).
Se volete approfondire il tema, potete contattarmi via email o su Twitter @pazborriello.
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