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NE’ CARI ANZIANI NE’ NONNINI. VECCHIO E’ UNA PAROLA PIENA DI DIGNITA’
Intervista a Nicola Palmarini, Direttore dell’UK National Innovation Centre for Ageing
a cura di Emanuela Notari
Photo by �� Claudio Schwarz | @purzlbaum on Unsplash
Nicola Palmarini non ama i giri di parole e la prima cosa che mi dice, spiazzandomi un filo, è: “noi
siamo vecchi. Proviamo ad evitare di cercare un altro modo di dirlo per non offenderci. Si chiama
così, se forse impariamo a dirlo possiamo capirlo.” Non so la sua età ma nessuno dei due è troppo
lontano dai 60, collocandosi un po’ prima o un po’ dopo.
Dentro di me qualcosa però si ribella.
Circa due settimane fa quando si era all’inizio dello sviluppo pandemico ed erano stati diramati i
primi allarmi alla popolazione over 65, Lella Costa aveva commentato risentita dalle pagine de La
Repubblica che non si sentiva affatto fragile per aver superato i 65… Qui si apre la questione. Non
è la categoria di età che qualifica la fragilità quanto lo status clinico. Qualche giorno dopo le
raccomandazioni sarebbero state corrette e indirizzate agli over 65 con malattie pregresse e agli
over 75 in genere. Un fattore più soggettivo che oggettivo per la fascia 65/75 e un fattore più
oggettivo che soggettivo per la fascia di età successiva.
Purtroppo, ci portiamo dietro le categorie imposte dall’ex età pensionistica e prima che si decida
che non si è anziani almeno prima dei 75 ci vorrà tempo. Se la produzione e la comunicazione
considerano tutti vecchi oltre i 65, appoggiando la propria pigrizia mentale alle categorie Istat, le
persone intorno ai 60 anni non si sentiranno mai rappresentate.
Nicola Palmarini ha preso le redini del centro britannico per l’innovazione nell’invecchiamento da
ottobre 2019 e quindi la pandemia ha sorpreso la sua attività nel bel mezzo della definizione delle
nuove linee guida e degli obiettivi futuri.
Rispetto ad altre strutture simili il Centro di Ricerca di Newcastle, una delle città più riconosciute
nella riqualificazione degli spazi e infrastrutture urbani nell’ottica di una società sempre più
attempata, ha un grande punto di differenza: conta su una comunità di 8.000 individui over 55 che
collabora con il centro nel pensiero, disegno e sviluppo di prodotti e servizi per anziani e per i loro
stakeholders, ma anche preziosi nel monitoraggio delle reazioni e preoccupazioni delle persone
più esposte agli effetti di questa pandemia, per le quali, oltretutto, l’isolamento stringe
ulteriormente le maglie di una solitudine che era già intensa.
“In Inghilterra c’è una grande cultura anche degli investimenti di ricerca in questa materia. Pochi
sanno che l’Inghilterra è forse l’unico paese al mondo con un budget definito, dove, su 4 filoni
strategici, uno è dedicato espressamente all’invecchiamento della popolazione (ndr. Vedi nostro
articolo “La differenza tra cavalcare l’onda e aspettare che ci sommerga”), insieme con le auto a
guida autonoma, il climate change e l’intelligenza artificiale. Attraverso alcune affermazioni del
governo che poi sono state fortunatamente ritirate abbiamo sfiorato l’idea di sacrificare una
generazione al futuro dell’Inghilterra, per fortuna adesso non se ne parla più. Il politico non
necessariamente rappresenta la sensibilità della popolazione. Ma c’è un’altra ragione per la quale
il tema degli anziani è così sentito in Inghilterra: il gap tra il sud dell’Inghilterra, rappresentato dal
“magnete’ Londra, e il resto del paese dal punto di vista della disuguaglianza economica che tocca
in maniera significativa la popolazione over 65 nelle aree rurali.
Da dove nasce l’esperienza di NewCastle?
Si è costruita intorno alla città la sensibilità a un tema considerato cruciale. Sia in termini
accademici, quindi di ricerca, sia nella traduzione della ricerca in pratica che viaggia su due assi.
Uno è rappresentato dal centro che dirigo, che è nato poco più di quattro anni fa e che ha come
scopo trasformare la promessa di una economia della longevità in servizi, prodotti e modelli di
business innovativi, tangibili e pratici, in modo che sia le imprese, sia le organizzazioni pubbliche
possano capire dove risieda l’opportunità economica, e la sua ricaduta positiva sul territorio. Così
che l’ineguaglianza sociale ed economica, fattori cruciali per immaginare uno sviluppo sostenibile,
siano compensate da una vera economia di settore, invece di pensare a investimenti a pioggia in
grado di tappare una falla, ma non di permettere di costruire in modo scalabile.
A questo proposito lavoriamo su due dimensioni: una è quella usuale del ROI, return on
investment, mentre l’altra, che ci interessa sicuramente di più, è una metrica che potremmo
definire di ROS, return on society.
Il lavoro del centro è far incontrare innovatori, imprese, organizzazioni e persone – i loro bisogni
ma soprattutto i loro desideri - e far emergere le opportunità inespresse e farle validare dalla
nostra comunità di quasi 8.000 membri.
Co-design e ascolto sono le attività tipiche di quel paradigma strategico che abbiamo definito
“ageing intelligence” e che abbiamo registrato come marchio proprio per costruirvi attorno un
approccio operativo e da condividere con altri Centri. Noi cerchiamo di sintetizzare l’intelligenza
che serve per trovare soluzioni alle necessità di una popolazione in continuo invecchiamento. Da
una parte raccogliamo l’intelligenza che già esiste da qualche parte nel mondo, soluzioni che sono
già state pensate e realizzate in diversi contesti e parti del mondo - e dall’altra raccogliamo e
stimoliamo l’intelligenza che deriva dall’esclusivo connubio di esperienza ed età che è proprio
della nostra community.
Quando mi dicono che i 75 di oggi sono i 65 di ieri, io dico no. La biologia e la ricerca e la
farmacologia ci hanno aiutato ad estendere la nostra aspettativa di vita e a invecchiare meglio, ma
quei 10 anni di differenza sono un valore aggiunto, si tratta di una combinazione unica di tempo
ed esperienza che si può letteralmente estrarre e riutilizzare e mettere a fattor comune, anziché
sprecare o denigrare come spesso facciamo.
Queste persone che in modo così repentino bolliamo come fragili da parcheggiare a casa, in realtà
sono forti della loro stessa vita e storia, ma bisogna ricordarlo, in primis, a noi stessi. Solo così
potremmo cercare di cambiare una narrazione fortemente discriminante che pervade stampa,
opinione pubblica e politici. Tutta la comunità degli over 55/60 è un perno della società anche e
soprattutto in frangenti come questo, dove sembra invece rappresentare uno scarto, un peso, il
“pericolo”. Le idee che possono aiutarci a provare a risolvere questo terribile momento che stiamo
vivendo non devono necessariamente venire dall’MIT tanto per citare un classico: magari sono
nascoste in una casa della campagna inglese, frutto di una specie di meta-intelligenza che è il vero
valore che la vecchiaia può offrire alla società, la difficoltà sta nell’estrarlo e nel definirlo.
Il linguaggio è un problema nel quale mi imbatto costantemente. Anche lei pensa che vada
ripensato?
Quando circa un mese fa sono uscite in Italia le prime spigolature su come vengono trattati i
vecchi nel nostro paese, e mi piace usare la parola vecchi perché non amo gli eufemismi, sono
venuti fuori il “nonnino” del personaggio di Lino Banfi e persino il “cari anziani” di De Bortoli che
ha dovuto metterci l’aggettivo “cari” per poterne pronunciare il nome, anche se stava parlando
della loro forza in un, comunque, bellissimo articolo.
Con il contenuto dici una cosa, con la grammatica ne dici un’altra. Se cominciamo a togliere
vezzeggiativi e diminutivi, parliamo dei nostri anziani, dei nostri vecchi e dei nostri nonni.
Non c’è niente di male nell’essere vecchi. Se ci pensi è paradossale come tutti siamo attratti
dall’idea di vivere a lungo, ma nessuno lo sia da quella dell’invecchiare. Ciò nasconde di certo lo
spettro della morte, ma anche una società perennemente centrata sul mito della giovinezza.
Il problema si presenta quando l’età diventa una discriminazione, codificata come “ageism” in
inglese e il fatto che non esista una traduzione propria in Italiano ce la dice lunga: se non c’è
ancora nemmeno una parola per dire la discriminazione nei confronti dell’età, allora non ci deve
sorprendere tutto questo funambolismo semantico intorno all’invecchiamento.
Qualche anno fa Severgnini lo tradusse facilmente con anzianismo, ma l’ageismo è un costrutto
più sofisticato, è una discriminazione sulla base dell’età anagrafica e quindi riguarda sia gli anziani
che i giovani.
Forse quando le pensioni saranno a 70 anni si smetterà di includere i 60enni che non si sentono
vecchi nella categoria degli anziani. Forse bisognerebbe far partire la vecchiaia dai 75.
E’ molto probabile ma le statistiche dicono che nemmeno i 75enni si sentono vecchi (almeno non
per il 70% stando a un recente sondaggio). E’ cambiata la barra dei 65 che continuiamo a tenere
per una questione di economia politica, ancora legati al tema della pensione sul quale abbiamo
costruito il concetto di vecchiaia.
Questo è il grande salto culturale che ci troviamo davanti, svincolare la vecchiaia dalla pensione.
E’ ovvio che vi sono professioni usuranti per i quali è fondamentale il traguardo di una pausa dal
lavoro, ma per tanti altri bisognerebbe che si cominciassero a riconsiderare le fasi delle vita adulta
e il lavoro. Il lavoro è fonte di dignità per la persona e la nostra Costituzione lo dice chiaramente,
perché disegna in modo compiuto e organico il senso del nostro contributo di individui allo
sviluppo della società.
E’ tempo che si cambi la narrazione della vecchiaia e con essa cosa significhi essere vecchi in
questa fase della nostra storia.
Questa categoria di persone che è stata più brutalmente attaccatadalla pandemia è anche
quella che può risollevare le sorti del paese?
Assolutamente, ma sembra una narrazione difficile da comprendere per la politica.
Guarda il caso di Greta. Lei non ha mai detto che i vecchi hanno portato il mondo sull’orlo del
baratro e si meritano di morire, ma è passata una parte di questa narrazione. Mentre sono i vecchi
che hanno più interesse a risolvere i problemi del pianeta perché i loro figli e nipoti ci possano
vivere. La narrazione è spesso frutto di una sintesi brutale.
Anche dopo questo virus dobbiamo mirare alla collaborazione tra generazioni diverse.
C’è quindi ampio spazio per capire come la Longevity Economy possa avere ricadute positive
non solo sul ROI delle aziende ma anche sul ROS del paese.
Qui a Newcastle c’è una banca che ha adottato la strategia opposta a quella dei grandi brand del
settore. Sono una specie di cassa rurale e ogni volta che un grosso brand chiude una sede in
qualche zona tra le meno centrali, loro aprono lì. La loro sede non è la sede classica della banca,
ma uno sportello dentro le biblioteche e all’interno degli spazi sociali, adottando una strategia di
prossimità. Lo fanno come forma di business, ma al contempo aiutano la comunità che ha una
grande liquidità di cui non sa che fare. Tutto il personale ha fatto un corso per imparare ad avere a
che fare con una clientela con decadimenti cognitivi. Poi hanno capito che estendere le loro
conoscenze a tutto l’ambito commerciale intorno a loro avrebbero potuto creare un vantaggio per
la comunità e hanno regalato i corsi per formare impiegati e commessi di tutti i negozi intorno a
loro. Quindi dove ci sono loro, il circondario sa come interagire con una persona con, ad esempio,
una leggera demenza.
A dispetto di quello che può farci pensare una certa cultura cattolica del rifiuto della ricchezza,
ritorno sociale e ritorno economico possono, devono andare insieme, ed elevare il ritorno sulla
società in termini di ampiezza di impatto e velocità di esecuzione. È ora di dimostrarlo, è ora di
metterlo in pratica. Ce lo chiede la società in cui viviamo, ce lo chiediamo, in fondo, noi stessi.

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  • 1. NE’ CARI ANZIANI NE’ NONNINI. VECCHIO E’ UNA PAROLA PIENA DI DIGNITA’ Intervista a Nicola Palmarini, Direttore dell’UK National Innovation Centre for Ageing a cura di Emanuela Notari Photo by �� Claudio Schwarz | @purzlbaum on Unsplash Nicola Palmarini non ama i giri di parole e la prima cosa che mi dice, spiazzandomi un filo, è: “noi siamo vecchi. Proviamo ad evitare di cercare un altro modo di dirlo per non offenderci. Si chiama così, se forse impariamo a dirlo possiamo capirlo.” Non so la sua età ma nessuno dei due è troppo lontano dai 60, collocandosi un po’ prima o un po’ dopo. Dentro di me qualcosa però si ribella. Circa due settimane fa quando si era all’inizio dello sviluppo pandemico ed erano stati diramati i primi allarmi alla popolazione over 65, Lella Costa aveva commentato risentita dalle pagine de La Repubblica che non si sentiva affatto fragile per aver superato i 65… Qui si apre la questione. Non è la categoria di età che qualifica la fragilità quanto lo status clinico. Qualche giorno dopo le raccomandazioni sarebbero state corrette e indirizzate agli over 65 con malattie pregresse e agli over 75 in genere. Un fattore più soggettivo che oggettivo per la fascia 65/75 e un fattore più oggettivo che soggettivo per la fascia di età successiva. Purtroppo, ci portiamo dietro le categorie imposte dall’ex età pensionistica e prima che si decida che non si è anziani almeno prima dei 75 ci vorrà tempo. Se la produzione e la comunicazione considerano tutti vecchi oltre i 65, appoggiando la propria pigrizia mentale alle categorie Istat, le persone intorno ai 60 anni non si sentiranno mai rappresentate.
  • 2. Nicola Palmarini ha preso le redini del centro britannico per l’innovazione nell’invecchiamento da ottobre 2019 e quindi la pandemia ha sorpreso la sua attività nel bel mezzo della definizione delle nuove linee guida e degli obiettivi futuri. Rispetto ad altre strutture simili il Centro di Ricerca di Newcastle, una delle città più riconosciute nella riqualificazione degli spazi e infrastrutture urbani nell’ottica di una società sempre più attempata, ha un grande punto di differenza: conta su una comunità di 8.000 individui over 55 che collabora con il centro nel pensiero, disegno e sviluppo di prodotti e servizi per anziani e per i loro stakeholders, ma anche preziosi nel monitoraggio delle reazioni e preoccupazioni delle persone più esposte agli effetti di questa pandemia, per le quali, oltretutto, l’isolamento stringe ulteriormente le maglie di una solitudine che era già intensa. “In Inghilterra c’è una grande cultura anche degli investimenti di ricerca in questa materia. Pochi sanno che l’Inghilterra è forse l’unico paese al mondo con un budget definito, dove, su 4 filoni strategici, uno è dedicato espressamente all’invecchiamento della popolazione (ndr. Vedi nostro articolo “La differenza tra cavalcare l’onda e aspettare che ci sommerga”), insieme con le auto a guida autonoma, il climate change e l’intelligenza artificiale. Attraverso alcune affermazioni del governo che poi sono state fortunatamente ritirate abbiamo sfiorato l’idea di sacrificare una generazione al futuro dell’Inghilterra, per fortuna adesso non se ne parla più. Il politico non necessariamente rappresenta la sensibilità della popolazione. Ma c’è un’altra ragione per la quale il tema degli anziani è così sentito in Inghilterra: il gap tra il sud dell’Inghilterra, rappresentato dal “magnete’ Londra, e il resto del paese dal punto di vista della disuguaglianza economica che tocca in maniera significativa la popolazione over 65 nelle aree rurali. Da dove nasce l’esperienza di NewCastle? Si è costruita intorno alla città la sensibilità a un tema considerato cruciale. Sia in termini accademici, quindi di ricerca, sia nella traduzione della ricerca in pratica che viaggia su due assi. Uno è rappresentato dal centro che dirigo, che è nato poco più di quattro anni fa e che ha come scopo trasformare la promessa di una economia della longevità in servizi, prodotti e modelli di business innovativi, tangibili e pratici, in modo che sia le imprese, sia le organizzazioni pubbliche
  • 3. possano capire dove risieda l’opportunità economica, e la sua ricaduta positiva sul territorio. Così che l’ineguaglianza sociale ed economica, fattori cruciali per immaginare uno sviluppo sostenibile, siano compensate da una vera economia di settore, invece di pensare a investimenti a pioggia in grado di tappare una falla, ma non di permettere di costruire in modo scalabile. A questo proposito lavoriamo su due dimensioni: una è quella usuale del ROI, return on investment, mentre l’altra, che ci interessa sicuramente di più, è una metrica che potremmo definire di ROS, return on society. Il lavoro del centro è far incontrare innovatori, imprese, organizzazioni e persone – i loro bisogni ma soprattutto i loro desideri - e far emergere le opportunità inespresse e farle validare dalla nostra comunità di quasi 8.000 membri. Co-design e ascolto sono le attività tipiche di quel paradigma strategico che abbiamo definito “ageing intelligence” e che abbiamo registrato come marchio proprio per costruirvi attorno un approccio operativo e da condividere con altri Centri. Noi cerchiamo di sintetizzare l’intelligenza che serve per trovare soluzioni alle necessità di una popolazione in continuo invecchiamento. Da una parte raccogliamo l’intelligenza che già esiste da qualche parte nel mondo, soluzioni che sono già state pensate e realizzate in diversi contesti e parti del mondo - e dall’altra raccogliamo e stimoliamo l’intelligenza che deriva dall’esclusivo connubio di esperienza ed età che è proprio della nostra community. Quando mi dicono che i 75 di oggi sono i 65 di ieri, io dico no. La biologia e la ricerca e la farmacologia ci hanno aiutato ad estendere la nostra aspettativa di vita e a invecchiare meglio, ma quei 10 anni di differenza sono un valore aggiunto, si tratta di una combinazione unica di tempo ed esperienza che si può letteralmente estrarre e riutilizzare e mettere a fattor comune, anziché sprecare o denigrare come spesso facciamo. Queste persone che in modo così repentino bolliamo come fragili da parcheggiare a casa, in realtà sono forti della loro stessa vita e storia, ma bisogna ricordarlo, in primis, a noi stessi. Solo così potremmo cercare di cambiare una narrazione fortemente discriminante che pervade stampa, opinione pubblica e politici. Tutta la comunità degli over 55/60 è un perno della società anche e soprattutto in frangenti come questo, dove sembra invece rappresentare uno scarto, un peso, il “pericolo”. Le idee che possono aiutarci a provare a risolvere questo terribile momento che stiamo vivendo non devono necessariamente venire dall’MIT tanto per citare un classico: magari sono nascoste in una casa della campagna inglese, frutto di una specie di meta-intelligenza che è il vero valore che la vecchiaia può offrire alla società, la difficoltà sta nell’estrarlo e nel definirlo. Il linguaggio è un problema nel quale mi imbatto costantemente. Anche lei pensa che vada ripensato? Quando circa un mese fa sono uscite in Italia le prime spigolature su come vengono trattati i vecchi nel nostro paese, e mi piace usare la parola vecchi perché non amo gli eufemismi, sono venuti fuori il “nonnino” del personaggio di Lino Banfi e persino il “cari anziani” di De Bortoli che ha dovuto metterci l’aggettivo “cari” per poterne pronunciare il nome, anche se stava parlando della loro forza in un, comunque, bellissimo articolo. Con il contenuto dici una cosa, con la grammatica ne dici un’altra. Se cominciamo a togliere vezzeggiativi e diminutivi, parliamo dei nostri anziani, dei nostri vecchi e dei nostri nonni. Non c’è niente di male nell’essere vecchi. Se ci pensi è paradossale come tutti siamo attratti dall’idea di vivere a lungo, ma nessuno lo sia da quella dell’invecchiare. Ciò nasconde di certo lo spettro della morte, ma anche una società perennemente centrata sul mito della giovinezza. Il problema si presenta quando l’età diventa una discriminazione, codificata come “ageism” in inglese e il fatto che non esista una traduzione propria in Italiano ce la dice lunga: se non c’è
  • 4. ancora nemmeno una parola per dire la discriminazione nei confronti dell’età, allora non ci deve sorprendere tutto questo funambolismo semantico intorno all’invecchiamento. Qualche anno fa Severgnini lo tradusse facilmente con anzianismo, ma l’ageismo è un costrutto più sofisticato, è una discriminazione sulla base dell’età anagrafica e quindi riguarda sia gli anziani che i giovani. Forse quando le pensioni saranno a 70 anni si smetterà di includere i 60enni che non si sentono vecchi nella categoria degli anziani. Forse bisognerebbe far partire la vecchiaia dai 75. E’ molto probabile ma le statistiche dicono che nemmeno i 75enni si sentono vecchi (almeno non per il 70% stando a un recente sondaggio). E’ cambiata la barra dei 65 che continuiamo a tenere per una questione di economia politica, ancora legati al tema della pensione sul quale abbiamo costruito il concetto di vecchiaia. Questo è il grande salto culturale che ci troviamo davanti, svincolare la vecchiaia dalla pensione. E’ ovvio che vi sono professioni usuranti per i quali è fondamentale il traguardo di una pausa dal lavoro, ma per tanti altri bisognerebbe che si cominciassero a riconsiderare le fasi delle vita adulta e il lavoro. Il lavoro è fonte di dignità per la persona e la nostra Costituzione lo dice chiaramente, perché disegna in modo compiuto e organico il senso del nostro contributo di individui allo sviluppo della società. E’ tempo che si cambi la narrazione della vecchiaia e con essa cosa significhi essere vecchi in questa fase della nostra storia. Questa categoria di persone che è stata più brutalmente attaccatadalla pandemia è anche quella che può risollevare le sorti del paese? Assolutamente, ma sembra una narrazione difficile da comprendere per la politica. Guarda il caso di Greta. Lei non ha mai detto che i vecchi hanno portato il mondo sull’orlo del baratro e si meritano di morire, ma è passata una parte di questa narrazione. Mentre sono i vecchi che hanno più interesse a risolvere i problemi del pianeta perché i loro figli e nipoti ci possano vivere. La narrazione è spesso frutto di una sintesi brutale. Anche dopo questo virus dobbiamo mirare alla collaborazione tra generazioni diverse. C’è quindi ampio spazio per capire come la Longevity Economy possa avere ricadute positive non solo sul ROI delle aziende ma anche sul ROS del paese. Qui a Newcastle c’è una banca che ha adottato la strategia opposta a quella dei grandi brand del settore. Sono una specie di cassa rurale e ogni volta che un grosso brand chiude una sede in qualche zona tra le meno centrali, loro aprono lì. La loro sede non è la sede classica della banca, ma uno sportello dentro le biblioteche e all’interno degli spazi sociali, adottando una strategia di prossimità. Lo fanno come forma di business, ma al contempo aiutano la comunità che ha una grande liquidità di cui non sa che fare. Tutto il personale ha fatto un corso per imparare ad avere a che fare con una clientela con decadimenti cognitivi. Poi hanno capito che estendere le loro conoscenze a tutto l’ambito commerciale intorno a loro avrebbero potuto creare un vantaggio per la comunità e hanno regalato i corsi per formare impiegati e commessi di tutti i negozi intorno a loro. Quindi dove ci sono loro, il circondario sa come interagire con una persona con, ad esempio, una leggera demenza. A dispetto di quello che può farci pensare una certa cultura cattolica del rifiuto della ricchezza, ritorno sociale e ritorno economico possono, devono andare insieme, ed elevare il ritorno sulla società in termini di ampiezza di impatto e velocità di esecuzione. È ora di dimostrarlo, è ora di metterlo in pratica. Ce lo chiede la società in cui viviamo, ce lo chiediamo, in fondo, noi stessi.