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Le Tre Corone
Dante, Petrarca, Boccaccio e
l’espansione del fiorentino letterario
Nell’ultimo ventennio del XIII sec. si sviluppa tra Bologna e Firenze lo stilnovismo, un movimento
poetico, in cui si intrecciano etica scolastica e cristiana, che innova profondamente le tematiche
amorose, immettendovi venature intellettuali e psicologiche. È Dante Alighieri che nella sua
Commedia conia il sintagma “dolce stil novo” per riferirsi alla svolta poetica di questa scuola della
quale lui stesso fece parte (Purgatorio, XXIV, 49-57).
Oltre al fiorentino Dante, i principali stilnovisti sono il bolognese Guido Guinizelli (indicato da Dante
come il caposcuola), Cino da Pistoia e i fiorentini Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Essi assimilano e
filtrano le forme linguistiche della lirica siculo-toscana (abbandonando molti sicilianismi e gallicismi),
selezionando i dati della tradizione ed elaborando una lingua raffinata, antirealistica e illustre.
Dolce Stilnovo
L’esperienza stilnovistica di Dante è contenuta
nelle Rime giovanili e nelle liriche della Vita Nova,
prosimetro composto tra il 1282 e il 1293, e
conferma i caratteri linguistici dello stilnovo con un
progressivo abbandono dei sicilianismi e
provenzalismi (per es. i termini astratti in -anza,
come beninanza, dilettanza, possanza, orranza)
troppo vistosi.
Dante e il Dolce Stilnovo
La nobilitazione si esprime in una riduzione dei tratti locali e di tutto ciò risulta
particolaristico. Gli elementi siciliani che permangono nelle poesie di Dante sono
quelli ormai istituzionalizzati nella lirica (come i monottonghi in core, pensero o il
condizionale in -ia, saria 'sarei, sarebbe'), ma vengono trasformati in elementi
fiorentini nelle parti in prosa, meno legata ai modelli poetici tradizionali (cuore,
muovere, sarei ecc.).
Da Vita Nova, cap. XXIV, di Dante Alighieri
Onde io poi, ripensando, propuosi di scrivere per rima a lo mio primo amico (tacendomi certe
parole le quali pareano da tacere), credendo io che ancor lo suo cuore mirasse la bieltade di
questa Primavera gentile; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Io mi senti’ svegliar.
Io mi senti’ svegliar dentro a lo core
un spirito amoroso che dormia:
e poi vidi venir da lungi Amore
allegro sì, che appena il conoscia,
dicendo: "Or pensa pur di farmi onore";
e ’n ciascuna parola sua ridia.
E poco stando meco il mio segnore,
guardando in quella parte onde venia,
io vidi monna Vanna e monna Bice
venire inver lo loco là ’v’io era,
l’una appresso de l’altra maraviglia;
e sì come la mente mi ridice,
Amor mi disse: "Quell’è Primavera,
e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia".
È dello stesso Dante l’opera che costituisce la prima
riflessione teorica e storica sulle lingue volgari e sulla
tradizione di poesia volgare dai siciliani ai siculo-toscani,
dai trovatori provenzali allo Stilnovo:
il De vulgari eloquentia, un trattato in latino rimasto
interrotto (possediamo solo il I libro e parte del II)
composto nell'esilio tra il 1303 e il 1304.
Oggetto principale del trattato è una ricerca di stile
poetico. Si parla cioè del volgare come elaborazione
artistica e come strumento di comunicazione letteraria di
alto livello, che va definito nelle sue caratteristiche.
De vulgari eloquentia
Prima di affrontare il tema centrale Dante affronta un ampio e importantissimo excursus
sull’origine del linguaggio e delle lingue e un esame della frammentazione geografica e
linguistica dell'Europa, fino ad arrivare all'area italiana e alla trattazione del volgare
italico (vulgare latium).
De vulgari eloquentia
La lingua italiana è “lingua del sì” secondo la tripartizione dantesca delle lingue latine in base alla
loro particella affermativa: lingua d’oïl nella Francia del nord, progenitrice dell'odierno francese;
lingua d’oc nella Francia del sud, progenitrice dell'occitano; lingua del sì, l’italiano.
Mostrando una grande attenzione alle
variazioni linguistiche (talvolta
segnalate anche all'interno della stessa
città, come nel caso di Bologna), Dante
individua l'esistenza di quattordici
principali varietà di volgari parlati
nella Penisola italica.
De vulgari eloquentia
Dal capitolo XI del I libro la trattazione si rivolge alla ricerca di una lingua comune
altamente letteraria. Condannati duramente i volgari giudicati peggiori (il friulano, il
milanese, il romanesco…), giudica più positivamente il siciliano, non però quello plebeo,
ma quello elaborato artisticamente dai poeti federiciani (che però creda essere quello
ibridato dei canzonieri toscani!) e il bolognese letterario e colto di Guinizzelli.
Il volgare letterario che Dante come lingua letteraria comune non può essere una lingua
municipale, perché deve appartenere a tutt’Italia e deve essere illustre (cioè raffinato
letterariamente), cardinale (perché attorno ai suoi cardini si muovono le varietà volgari),
aulico (perché se in Italia ci fosse un'aula, cioè una reggia, vi si dovrebbe parlare quel
volgare), curiale (perché degno di una curia, ovvero un’assemblea legislativa, un
tribunale supremo).
A definire il volgare illustre letterario Dante dedica i restanti 14 capitoli del II libro: esso
esige una scelta accuratissima quanto a tipologia di rime, suoni, forme e impone di
selezionare selezionare (cribrare) con criterio rigoroso solo le voci più elette (grandiosa
vocabula).
De vulgari eloquentia
La riflessione di Dante sul volgare prosegue nel suo
Convivio, opera scritta in volgare tra il 1304 e il 1307 di
carattere poetico-dottrinale. In questo prosimetro si
parla anche del rapporto tra volgare e latino: a
quest’ultimo Dante riconosce un maggior prestigio
letterario, ma al volgare attribuisce il merito di essere
accessibile a un più largo pubblico.
La scelta linguistica di Dante, che verrà consacrata dalla
Commedia, nel Convivio è già pienamente consapevole
e fiduciosa delle possibilità letterarie del volgare.
Il Convivio
Nelle parole conclusive del Convivio la nuova lingua è esaltata (I, XII, 12):
“Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà
lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce”.
Dante aveva intuito che, perché il “sole nuovo”, il volgare, arrivasse a
splendere definitivamente doveva raggiungere una dignità pari a quella
del latino.
Questo risultato era possibile solo con l'impiego in opere di indiscusso
valore letterario e di larga diffusione anche tra i non litterati.
Questo accadde, grazie soprattutto alle “Tre Corone” (come saranno
chiamati da Bembo), i tre grandi scrittori che, pur nella loro diversità,
contribuirono a innalzare letterariamente il fiorentino, a espandere la
lingua di Firenze fuori della Toscana e a decretarne il primato tra i
volgari della Penisola: Dante con la Commedia, Petrarca con il
Canzoniere e Boccaccio con il Decameron.
Il primato delle Tre Corone
Non ci sono giunte versioni autografe del capolavoro, scritto negli anni dell’esilio da
Firenze (probabilmente 1304-08 Inferno; 1308-12 Purgatorio; 1316-21 Paradiso).
Abbiamo, invece, circa seicento copie manoscritte (prima dell’invenzione della stampa),
che documentano la grande fortuna e popolarità della Commedia già a poca distanza dalla
morte del poeta.
Come risulta da varie testimonianze, il poema veniva diffuso anche oralmente, letto e
commentato, recitato a memoria e cantato, in privato e in pubblico, anche tra la gente
umile (per esempio Franco Sacchetti, nel Trecentonovelle, racconta di un fabbro e di un
asinaio che, lavorando, cantavano “il Dante”).
La Commedia
La Commedia è linguisticamente
la più fiorentina delle opere
dantesche e rappresenta un
momento di fondamentale
importanza per la storia della
lingua italiana.
Nella Commedia il poeta inventa un nuovo metro narrativo, la terzina, e sperimenta una
pluralità e una mescolanza degli stili (normalmente non ammessa nella lirica alta, ma
legittimata dalla varietà di tematiche, di situazioni, di personaggi che caratterizza
l'opera). Ciò si traduce in un vivace plurilinguismo:
• verticale, perché Dante attinge a tutte le varietà grammaticali del fiorentino tardo-
duecentesco, la base linguistica dell’opera, dal livello colto e medio (che io vadi) a
quello plebeo (sapavam ‘sapevamo’), da quello arcaizzante (vederai) a quello
innovativo (vedrai), con una continua alternanza di registri e una fitta presenza di
allotropi (cantaro/cantarono)
• orizzontale, perché nel tessuto sostanzialmente fiorentino della Commedia entrano
forme non fiorentine, sicilianismi della tradizione come aggio o vorria (su cui però
prevalgo no le forme fiorentine), latinismi come nimico, patre, gallicismi come
palagio, speglio (in alternanza con palazzo, specchio, e si trova anche il latineggiante
speculi), e poche forme della Toscana non fiorentina o dell'area mediana, come
fènno ‘fecero’ (pisano-lucchese) e vonno ‘vanno’
La Commedia
Anche il lessico ricchissimo dell’opera presenta simili caratteristiche:
• Dante attinge a piene mani alle varietà lessicali del fiorentino, scendendo fino ai
livelli più popolari e realistici (cul, merda, puzza), sfruttando doppioni come sorella,
serrocchia (più popolare), e impiegando fiorentinismi esclusi nel De vulgari
eloquentia per lo stile elevato della lirica, come introcque ‘frattanto’
• attinge anche ai gallicismi, in misura ridotta, come visaggio ‘viso’, dolzore ‘dolcezza’,
ai latinismi , largamente immessi in funzione nobilitante, e incrementati nel Paradiso
(cubare ‘giacere’, labere ‘scorrere’ ecc.)
• tecnicismi delle lingue speciali come idropesì ‘idropisìa’, cenit ‘zenit’
• voci inventate da Dante stesso per soddisfare la sua continua ricerca espressiva,
come i verbi parasintetici insemprarsi ‘durare per sempre’, arruncigliare ‘afferrare
con un uncino’.
• pochi vocaboli di altri volgari, come il settentrionalismo co ‘capo’, talora usati per
caratterizzare mimeticamente il personaggio, come il lucchesismo issa ‘ora’,
pronunciato da Bonagiunta Orbicciani da Lucca.
La Commedia
Grazie all’importanza del tema e alla grandezza artistica della
Commedia, la sua divulgazione fu precoce, rapida e arrivò fino agli strati
più popolari.
Essa contribuì all’affermazione del fiorentino in aree esterne alla
Toscana già nei primi decenni del Trecento, in particolare nell’area
veneto-emiliana, che aveva ospitato il poeta esule. Il capolavoro
dantesco è subito presente, come modello linguistico, nei
componimenti di poeti veneti (Giovanni Quirini), ed è significativo che
già nel 1332 il padovano Antonio da Tempo, in un trattato in latino di
metrica, riconoscesse che la lingua toscana era magis apta, più adatta
alla letteratura delle altre, e inoltre era magis communis atque
intelligibilis (‘più comune e comprensibile’).
Divulgazione della Commedia
Per l'unificazione della lingua poetica fu decisiva
l’esperienza lirica di Francesco Petrarca che offrì un
modello esemplare (codificato centocinquant’anni
dopo da Pietro Bembo) che rimase invariato almeno
fino a metà dell’Ottocento.
Il poeta iniziò a scrivere il suo Canzoniere per Laura
verso il 1336-38 (il titolo originale latino era Rerum
vulgarium fragmenta, ‘frammenti di cose in volgare’),
Il Canzoniere
ma continuò a rivedere e a correggere i componimenti fino alla sua morte (1374), con
un incessante lavoro di riscrittura, che possiamo verificare attraverso le copie autografe
dell’opera che ci sono rimaste.
Ci sono pervenute, infatti, la redazione più antica del Canzoniere, il cosiddetto 'codice
degli abbozzi' (il Vaticano latino 3196), e quella definitiva (il Vaticano latino 3195), in
parte trascritta da un allievo di Petrarca, il copista ravennate Giovanni Malpaghini.
Le correzioni tra le prime e le ultime versioni dell’opera non riguardano tanto il codice linguistico: le
scelte delle varianti avvengono in un sistema linguisticamente solido, già statico, un fiorentino
letterario nuovo, che scarta ogni elemento basso e municipale, e che include elementi della
tradizione precedente, dai siciliani allo Stilnovo.
Prima redazione del sonetto CLXXXVIII
(Vaticano latino 3196)
Redazione definitiva del sonetto CLXXXVIII
(Vaticano latino 3195)
Almo Sol, quella luce ch’io sola amo,
tu prima amasti, al suo fido soggiorno
vivesi or senşa par, poi che l’addorno
suo male e nostro vide in prima Adamo.
Stiamo a vederla: al suo amor [ti] chiamo,
che già seguisti; or fuggi e fai d’intorno
ombrare i poggi, e te ne porti il giorno,
e fuggendo mi toi quel ch’i’ più bramo.
L’ombra che cade da quel’ humil colle,
ove favilla il mio soave foco,
ove ’l gran lauro fu picciola verga,
crescendo a poco a poco, agli occhi tolle
la dolce vista del beato loco,
ove ’l mio cor co la sua donna alberga.
Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo,
tu prima amasti, or sola al bel soggiorno
verdeggia, e senza par poi che l’addorno
suo male e nostro vide in prima Adamo.
Stiamo a mirarla: i’ ti pur prego e chiamo,
o Sole; e tu pur fuggi, e fai d’intorno
ombrare i poggi, e te ne porti il giorno,
e fuggendo mi toi quel ch’i’ più bramo.
L’ombra che cade da quel’ humil colle,
ove favilla il mio soave foco,
ove ’l gran lauro fu picciola verga,
crescendo mentr’io parlo, agli occhi tolle
la dolce vista del beato loco,
ove ’l mio cor co la sua donna alberga.
Il lessico è volutamente circoscritto a un inventario ristretto di parole, mentre abbondano
le perifrasi vaghe e nobilitanti (colei che sola a me par donna ecc.) e le dittologie
sinonimiche (aspro e feroce, consuma e strugge ecc.).
La lingua di Petrarca svolge un’azione fondamentale di filtro-selezione e di consacrazione
definitiva nella lingua poetica di un modello unitario:
• riduce drasticamente la presenza dei gallicismi mantenendo però vitali forme come
augello, veglio, e solo pochissimi suffissati in -anza, come rimembranza
• seleziona anche i sicilianismi codificando tipi come core e foco e istituzionalizzando
l’alternanza col fiorentino in tipi come vène e viene, aggio e ho, ave e ha, sarìa e sarei
(e altri condizionali in -ia), ecc.
Conserva una rima siciliana (voi: altrui, CXXVIII, 72) e la talvolta la rima grafica ma non
fonica (tipo còre: amóre).
Il Canzoniere petrarchesco fornì un modello linguistico alto e selettivo. Esso consentiva,
nella sua ristrettezza di lingua tecnica, specializzata, estranea alle esigenze concrete della
comunicazione, una grande facilità di imitazione e di riuso per i rimatori successivi.
Il Canzoniere
Se la lezione del Petrarca fu determinante per la storia
della lingua poetica, per la prosa è stato altrettanto
fondamentale il modello di Giovanni Boccaccio, in
particolare del Decameron. L’opera inaugura nella nostra
tradizione linguistico-letteraria il genere della prosa
narrativa, di intrattenimento ed era dichiaratamente
rivolta a un pubblico ampio e anche non letterato,
prevalentemente femminile, e fu subito diffusa
largamente attraverso gli ambienti mercantili.
Il Decameron
Alla varietà delle situazioni narrative e di personaggi, appartenenti a ceti sociali
differenti, messi in scena nelle cento novelle, corrisponde una straordinaria capacità
di variare gli stili e la lingua. Una pluralità di livelli espressivi e di varietà linguistiche,
dotte e popolari, idiomatiche, si alternano e si intrecciano nell'opera, senza
sminuirne la base linguistica fiorentina, la letterarietà di fondo e il gusto per l’ornato
retorico.
Anche del Decameron possediamo l'autografo, il codice
berlinese Hamilton 90 che Boccaccio scrisse attorno al 1370.
La prima redazione dell'opera risale però all’età giovanile
(circa 1349-51), ed è stata individuata nel codice Parigino
Italiano 482 della Biblioteca Nazionale di Parigi, compilato da
un mercante fiorentino verso il 1365.
Proprio nell’elaborazione linguistica dal primo al secondo
Decameron si riconosce, nonostante l’azione del copista, la
tendenza da un lato verso usi fiorentini medi, più correnti al
suo tempo, dall’altro verso una coloritura formale, con intenti
talora realistici o parodici, che sfrutta le varietà basse della
lingua o volgari diversi, come il veneto, il genovese, il
siciliano, il romanesco, secondo la tradizione comica degli
improperia (cioè di poesie composte per denigrare le parlate
locali, di cui dà già esempi Dante nel De vulgari eloquentia).
Il Decameron
Nelle sue novelle Boccaccio sperimenta una serie di strategie per riprodurre e
caratterizzare i registri colloquiali e il parlato, soprattutto…
• il che polivalente (E seco nella sua cella la menò che [‘in modo che’] niuna persona se
n’accorse)
• l’uso ridondante dei pronomi (che mi potrestu’ far tu?)
• gli anacoluti e le concordanze a senso (Calandrino, se la prima gli era paruta amara,
questa gli parve amarissima)
• un ampio repertorio di segnali discorsivi, di forme esclamative come gnaffé, deh
ecc., e di alterati, come foresozza 'contadinotta', mercantuzzo ecc.
Sono procedimenti mimetici di cui si approprieranno gli scrittori di novelle successivi,
con esiti diversi e con maggiori difficoltà per i non toscani, per simulare nei loro scritti la
lingua viva e parlata. Nel Cinquecento anche gli autori di commedie non potranno
prescindere dal modello decameroniano per l’invenzione del dialogo teatrale, destinato
a restare debitore di Boccaccio almeno fino all'Ottocento.
Il Decameron
Per la prosa italiana il Decameron esercitò una funzione esemplare, consacrata dal
Bembo, che Io elesse a modello, soprattutto per lo stile elevato, che caratterizza larga
parte dell'opera, come le cornici e le novelle “tragiche” della X giornata.
Qui Boccaccio elabora una sintassi complessa, latineggiante, con ampi periodi che si
sviluppano mediante gli accumuli di subordinate - con abbondanza di gerundiali,
participiali, infinitive - che spesso precedono la proposizione principale situata alla fine,
ricchezza di nessi connettivi (per ciò che, come che, appresso che, mentre che, conciò sia
che ecc.), uso di inversioni e separazione di elementi sintattici e frasali, verbo posto in
fondo.
Un esempio di frase complessa tratto dal Decameron (X, 4, 16):
“Di che ella dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendé che ella poté, e appresso il
pregò, per quello amore il quale egli l’aveva già portato e per cortesia di lui, che in casa
sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come
il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare.”
Il Decameron
Le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, come di molti altri autori del passato oggi si possono facilmente trovare
e scaricare gratuitamente on line in versione digitale.
Uno dei siti più ricchi e affidabili per testi d’autore digitalizzati è www.liberliber.it.
Liber Liber ospita il progetto Manuzio, che ha lo scopo di digitalizzare capolavori della letteratura (e altri
prodotti culturali) che non siano coperti da copyright e di offrirne la condivisione gratuita a tutti (anche con
accorgimenti tecnici per non vedenti e ad altri portatori di handicap).

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022 Le Tre Corone della lingua italiana

  • 1. Le Tre Corone Dante, Petrarca, Boccaccio e l’espansione del fiorentino letterario
  • 2. Nell’ultimo ventennio del XIII sec. si sviluppa tra Bologna e Firenze lo stilnovismo, un movimento poetico, in cui si intrecciano etica scolastica e cristiana, che innova profondamente le tematiche amorose, immettendovi venature intellettuali e psicologiche. È Dante Alighieri che nella sua Commedia conia il sintagma “dolce stil novo” per riferirsi alla svolta poetica di questa scuola della quale lui stesso fece parte (Purgatorio, XXIV, 49-57). Oltre al fiorentino Dante, i principali stilnovisti sono il bolognese Guido Guinizelli (indicato da Dante come il caposcuola), Cino da Pistoia e i fiorentini Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Essi assimilano e filtrano le forme linguistiche della lirica siculo-toscana (abbandonando molti sicilianismi e gallicismi), selezionando i dati della tradizione ed elaborando una lingua raffinata, antirealistica e illustre. Dolce Stilnovo
  • 3. L’esperienza stilnovistica di Dante è contenuta nelle Rime giovanili e nelle liriche della Vita Nova, prosimetro composto tra il 1282 e il 1293, e conferma i caratteri linguistici dello stilnovo con un progressivo abbandono dei sicilianismi e provenzalismi (per es. i termini astratti in -anza, come beninanza, dilettanza, possanza, orranza) troppo vistosi. Dante e il Dolce Stilnovo La nobilitazione si esprime in una riduzione dei tratti locali e di tutto ciò risulta particolaristico. Gli elementi siciliani che permangono nelle poesie di Dante sono quelli ormai istituzionalizzati nella lirica (come i monottonghi in core, pensero o il condizionale in -ia, saria 'sarei, sarebbe'), ma vengono trasformati in elementi fiorentini nelle parti in prosa, meno legata ai modelli poetici tradizionali (cuore, muovere, sarei ecc.).
  • 4. Da Vita Nova, cap. XXIV, di Dante Alighieri Onde io poi, ripensando, propuosi di scrivere per rima a lo mio primo amico (tacendomi certe parole le quali pareano da tacere), credendo io che ancor lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Io mi senti’ svegliar. Io mi senti’ svegliar dentro a lo core un spirito amoroso che dormia: e poi vidi venir da lungi Amore allegro sì, che appena il conoscia, dicendo: "Or pensa pur di farmi onore"; e ’n ciascuna parola sua ridia. E poco stando meco il mio segnore, guardando in quella parte onde venia, io vidi monna Vanna e monna Bice venire inver lo loco là ’v’io era, l’una appresso de l’altra maraviglia; e sì come la mente mi ridice, Amor mi disse: "Quell’è Primavera, e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia".
  • 5. È dello stesso Dante l’opera che costituisce la prima riflessione teorica e storica sulle lingue volgari e sulla tradizione di poesia volgare dai siciliani ai siculo-toscani, dai trovatori provenzali allo Stilnovo: il De vulgari eloquentia, un trattato in latino rimasto interrotto (possediamo solo il I libro e parte del II) composto nell'esilio tra il 1303 e il 1304. Oggetto principale del trattato è una ricerca di stile poetico. Si parla cioè del volgare come elaborazione artistica e come strumento di comunicazione letteraria di alto livello, che va definito nelle sue caratteristiche. De vulgari eloquentia Prima di affrontare il tema centrale Dante affronta un ampio e importantissimo excursus sull’origine del linguaggio e delle lingue e un esame della frammentazione geografica e linguistica dell'Europa, fino ad arrivare all'area italiana e alla trattazione del volgare italico (vulgare latium).
  • 6. De vulgari eloquentia La lingua italiana è “lingua del sì” secondo la tripartizione dantesca delle lingue latine in base alla loro particella affermativa: lingua d’oïl nella Francia del nord, progenitrice dell'odierno francese; lingua d’oc nella Francia del sud, progenitrice dell'occitano; lingua del sì, l’italiano.
  • 7. Mostrando una grande attenzione alle variazioni linguistiche (talvolta segnalate anche all'interno della stessa città, come nel caso di Bologna), Dante individua l'esistenza di quattordici principali varietà di volgari parlati nella Penisola italica. De vulgari eloquentia
  • 8. Dal capitolo XI del I libro la trattazione si rivolge alla ricerca di una lingua comune altamente letteraria. Condannati duramente i volgari giudicati peggiori (il friulano, il milanese, il romanesco…), giudica più positivamente il siciliano, non però quello plebeo, ma quello elaborato artisticamente dai poeti federiciani (che però creda essere quello ibridato dei canzonieri toscani!) e il bolognese letterario e colto di Guinizzelli. Il volgare letterario che Dante come lingua letteraria comune non può essere una lingua municipale, perché deve appartenere a tutt’Italia e deve essere illustre (cioè raffinato letterariamente), cardinale (perché attorno ai suoi cardini si muovono le varietà volgari), aulico (perché se in Italia ci fosse un'aula, cioè una reggia, vi si dovrebbe parlare quel volgare), curiale (perché degno di una curia, ovvero un’assemblea legislativa, un tribunale supremo). A definire il volgare illustre letterario Dante dedica i restanti 14 capitoli del II libro: esso esige una scelta accuratissima quanto a tipologia di rime, suoni, forme e impone di selezionare selezionare (cribrare) con criterio rigoroso solo le voci più elette (grandiosa vocabula). De vulgari eloquentia
  • 9. La riflessione di Dante sul volgare prosegue nel suo Convivio, opera scritta in volgare tra il 1304 e il 1307 di carattere poetico-dottrinale. In questo prosimetro si parla anche del rapporto tra volgare e latino: a quest’ultimo Dante riconosce un maggior prestigio letterario, ma al volgare attribuisce il merito di essere accessibile a un più largo pubblico. La scelta linguistica di Dante, che verrà consacrata dalla Commedia, nel Convivio è già pienamente consapevole e fiduciosa delle possibilità letterarie del volgare. Il Convivio Nelle parole conclusive del Convivio la nuova lingua è esaltata (I, XII, 12): “Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce”.
  • 10. Dante aveva intuito che, perché il “sole nuovo”, il volgare, arrivasse a splendere definitivamente doveva raggiungere una dignità pari a quella del latino. Questo risultato era possibile solo con l'impiego in opere di indiscusso valore letterario e di larga diffusione anche tra i non litterati. Questo accadde, grazie soprattutto alle “Tre Corone” (come saranno chiamati da Bembo), i tre grandi scrittori che, pur nella loro diversità, contribuirono a innalzare letterariamente il fiorentino, a espandere la lingua di Firenze fuori della Toscana e a decretarne il primato tra i volgari della Penisola: Dante con la Commedia, Petrarca con il Canzoniere e Boccaccio con il Decameron. Il primato delle Tre Corone
  • 11. Non ci sono giunte versioni autografe del capolavoro, scritto negli anni dell’esilio da Firenze (probabilmente 1304-08 Inferno; 1308-12 Purgatorio; 1316-21 Paradiso). Abbiamo, invece, circa seicento copie manoscritte (prima dell’invenzione della stampa), che documentano la grande fortuna e popolarità della Commedia già a poca distanza dalla morte del poeta. Come risulta da varie testimonianze, il poema veniva diffuso anche oralmente, letto e commentato, recitato a memoria e cantato, in privato e in pubblico, anche tra la gente umile (per esempio Franco Sacchetti, nel Trecentonovelle, racconta di un fabbro e di un asinaio che, lavorando, cantavano “il Dante”). La Commedia La Commedia è linguisticamente la più fiorentina delle opere dantesche e rappresenta un momento di fondamentale importanza per la storia della lingua italiana.
  • 12. Nella Commedia il poeta inventa un nuovo metro narrativo, la terzina, e sperimenta una pluralità e una mescolanza degli stili (normalmente non ammessa nella lirica alta, ma legittimata dalla varietà di tematiche, di situazioni, di personaggi che caratterizza l'opera). Ciò si traduce in un vivace plurilinguismo: • verticale, perché Dante attinge a tutte le varietà grammaticali del fiorentino tardo- duecentesco, la base linguistica dell’opera, dal livello colto e medio (che io vadi) a quello plebeo (sapavam ‘sapevamo’), da quello arcaizzante (vederai) a quello innovativo (vedrai), con una continua alternanza di registri e una fitta presenza di allotropi (cantaro/cantarono) • orizzontale, perché nel tessuto sostanzialmente fiorentino della Commedia entrano forme non fiorentine, sicilianismi della tradizione come aggio o vorria (su cui però prevalgo no le forme fiorentine), latinismi come nimico, patre, gallicismi come palagio, speglio (in alternanza con palazzo, specchio, e si trova anche il latineggiante speculi), e poche forme della Toscana non fiorentina o dell'area mediana, come fènno ‘fecero’ (pisano-lucchese) e vonno ‘vanno’ La Commedia
  • 13. Anche il lessico ricchissimo dell’opera presenta simili caratteristiche: • Dante attinge a piene mani alle varietà lessicali del fiorentino, scendendo fino ai livelli più popolari e realistici (cul, merda, puzza), sfruttando doppioni come sorella, serrocchia (più popolare), e impiegando fiorentinismi esclusi nel De vulgari eloquentia per lo stile elevato della lirica, come introcque ‘frattanto’ • attinge anche ai gallicismi, in misura ridotta, come visaggio ‘viso’, dolzore ‘dolcezza’, ai latinismi , largamente immessi in funzione nobilitante, e incrementati nel Paradiso (cubare ‘giacere’, labere ‘scorrere’ ecc.) • tecnicismi delle lingue speciali come idropesì ‘idropisìa’, cenit ‘zenit’ • voci inventate da Dante stesso per soddisfare la sua continua ricerca espressiva, come i verbi parasintetici insemprarsi ‘durare per sempre’, arruncigliare ‘afferrare con un uncino’. • pochi vocaboli di altri volgari, come il settentrionalismo co ‘capo’, talora usati per caratterizzare mimeticamente il personaggio, come il lucchesismo issa ‘ora’, pronunciato da Bonagiunta Orbicciani da Lucca. La Commedia
  • 14. Grazie all’importanza del tema e alla grandezza artistica della Commedia, la sua divulgazione fu precoce, rapida e arrivò fino agli strati più popolari. Essa contribuì all’affermazione del fiorentino in aree esterne alla Toscana già nei primi decenni del Trecento, in particolare nell’area veneto-emiliana, che aveva ospitato il poeta esule. Il capolavoro dantesco è subito presente, come modello linguistico, nei componimenti di poeti veneti (Giovanni Quirini), ed è significativo che già nel 1332 il padovano Antonio da Tempo, in un trattato in latino di metrica, riconoscesse che la lingua toscana era magis apta, più adatta alla letteratura delle altre, e inoltre era magis communis atque intelligibilis (‘più comune e comprensibile’). Divulgazione della Commedia
  • 15. Per l'unificazione della lingua poetica fu decisiva l’esperienza lirica di Francesco Petrarca che offrì un modello esemplare (codificato centocinquant’anni dopo da Pietro Bembo) che rimase invariato almeno fino a metà dell’Ottocento. Il poeta iniziò a scrivere il suo Canzoniere per Laura verso il 1336-38 (il titolo originale latino era Rerum vulgarium fragmenta, ‘frammenti di cose in volgare’), Il Canzoniere ma continuò a rivedere e a correggere i componimenti fino alla sua morte (1374), con un incessante lavoro di riscrittura, che possiamo verificare attraverso le copie autografe dell’opera che ci sono rimaste. Ci sono pervenute, infatti, la redazione più antica del Canzoniere, il cosiddetto 'codice degli abbozzi' (il Vaticano latino 3196), e quella definitiva (il Vaticano latino 3195), in parte trascritta da un allievo di Petrarca, il copista ravennate Giovanni Malpaghini.
  • 16. Le correzioni tra le prime e le ultime versioni dell’opera non riguardano tanto il codice linguistico: le scelte delle varianti avvengono in un sistema linguisticamente solido, già statico, un fiorentino letterario nuovo, che scarta ogni elemento basso e municipale, e che include elementi della tradizione precedente, dai siciliani allo Stilnovo. Prima redazione del sonetto CLXXXVIII (Vaticano latino 3196) Redazione definitiva del sonetto CLXXXVIII (Vaticano latino 3195) Almo Sol, quella luce ch’io sola amo, tu prima amasti, al suo fido soggiorno vivesi or senşa par, poi che l’addorno suo male e nostro vide in prima Adamo. Stiamo a vederla: al suo amor [ti] chiamo, che già seguisti; or fuggi e fai d’intorno ombrare i poggi, e te ne porti il giorno, e fuggendo mi toi quel ch’i’ più bramo. L’ombra che cade da quel’ humil colle, ove favilla il mio soave foco, ove ’l gran lauro fu picciola verga, crescendo a poco a poco, agli occhi tolle la dolce vista del beato loco, ove ’l mio cor co la sua donna alberga. Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, tu prima amasti, or sola al bel soggiorno verdeggia, e senza par poi che l’addorno suo male e nostro vide in prima Adamo. Stiamo a mirarla: i’ ti pur prego e chiamo, o Sole; e tu pur fuggi, e fai d’intorno ombrare i poggi, e te ne porti il giorno, e fuggendo mi toi quel ch’i’ più bramo. L’ombra che cade da quel’ humil colle, ove favilla il mio soave foco, ove ’l gran lauro fu picciola verga, crescendo mentr’io parlo, agli occhi tolle la dolce vista del beato loco, ove ’l mio cor co la sua donna alberga.
  • 17. Il lessico è volutamente circoscritto a un inventario ristretto di parole, mentre abbondano le perifrasi vaghe e nobilitanti (colei che sola a me par donna ecc.) e le dittologie sinonimiche (aspro e feroce, consuma e strugge ecc.). La lingua di Petrarca svolge un’azione fondamentale di filtro-selezione e di consacrazione definitiva nella lingua poetica di un modello unitario: • riduce drasticamente la presenza dei gallicismi mantenendo però vitali forme come augello, veglio, e solo pochissimi suffissati in -anza, come rimembranza • seleziona anche i sicilianismi codificando tipi come core e foco e istituzionalizzando l’alternanza col fiorentino in tipi come vène e viene, aggio e ho, ave e ha, sarìa e sarei (e altri condizionali in -ia), ecc. Conserva una rima siciliana (voi: altrui, CXXVIII, 72) e la talvolta la rima grafica ma non fonica (tipo còre: amóre). Il Canzoniere petrarchesco fornì un modello linguistico alto e selettivo. Esso consentiva, nella sua ristrettezza di lingua tecnica, specializzata, estranea alle esigenze concrete della comunicazione, una grande facilità di imitazione e di riuso per i rimatori successivi. Il Canzoniere
  • 18. Se la lezione del Petrarca fu determinante per la storia della lingua poetica, per la prosa è stato altrettanto fondamentale il modello di Giovanni Boccaccio, in particolare del Decameron. L’opera inaugura nella nostra tradizione linguistico-letteraria il genere della prosa narrativa, di intrattenimento ed era dichiaratamente rivolta a un pubblico ampio e anche non letterato, prevalentemente femminile, e fu subito diffusa largamente attraverso gli ambienti mercantili. Il Decameron Alla varietà delle situazioni narrative e di personaggi, appartenenti a ceti sociali differenti, messi in scena nelle cento novelle, corrisponde una straordinaria capacità di variare gli stili e la lingua. Una pluralità di livelli espressivi e di varietà linguistiche, dotte e popolari, idiomatiche, si alternano e si intrecciano nell'opera, senza sminuirne la base linguistica fiorentina, la letterarietà di fondo e il gusto per l’ornato retorico.
  • 19. Anche del Decameron possediamo l'autografo, il codice berlinese Hamilton 90 che Boccaccio scrisse attorno al 1370. La prima redazione dell'opera risale però all’età giovanile (circa 1349-51), ed è stata individuata nel codice Parigino Italiano 482 della Biblioteca Nazionale di Parigi, compilato da un mercante fiorentino verso il 1365. Proprio nell’elaborazione linguistica dal primo al secondo Decameron si riconosce, nonostante l’azione del copista, la tendenza da un lato verso usi fiorentini medi, più correnti al suo tempo, dall’altro verso una coloritura formale, con intenti talora realistici o parodici, che sfrutta le varietà basse della lingua o volgari diversi, come il veneto, il genovese, il siciliano, il romanesco, secondo la tradizione comica degli improperia (cioè di poesie composte per denigrare le parlate locali, di cui dà già esempi Dante nel De vulgari eloquentia). Il Decameron
  • 20. Nelle sue novelle Boccaccio sperimenta una serie di strategie per riprodurre e caratterizzare i registri colloquiali e il parlato, soprattutto… • il che polivalente (E seco nella sua cella la menò che [‘in modo che’] niuna persona se n’accorse) • l’uso ridondante dei pronomi (che mi potrestu’ far tu?) • gli anacoluti e le concordanze a senso (Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima) • un ampio repertorio di segnali discorsivi, di forme esclamative come gnaffé, deh ecc., e di alterati, come foresozza 'contadinotta', mercantuzzo ecc. Sono procedimenti mimetici di cui si approprieranno gli scrittori di novelle successivi, con esiti diversi e con maggiori difficoltà per i non toscani, per simulare nei loro scritti la lingua viva e parlata. Nel Cinquecento anche gli autori di commedie non potranno prescindere dal modello decameroniano per l’invenzione del dialogo teatrale, destinato a restare debitore di Boccaccio almeno fino all'Ottocento. Il Decameron
  • 21. Per la prosa italiana il Decameron esercitò una funzione esemplare, consacrata dal Bembo, che Io elesse a modello, soprattutto per lo stile elevato, che caratterizza larga parte dell'opera, come le cornici e le novelle “tragiche” della X giornata. Qui Boccaccio elabora una sintassi complessa, latineggiante, con ampi periodi che si sviluppano mediante gli accumuli di subordinate - con abbondanza di gerundiali, participiali, infinitive - che spesso precedono la proposizione principale situata alla fine, ricchezza di nessi connettivi (per ciò che, come che, appresso che, mentre che, conciò sia che ecc.), uso di inversioni e separazione di elementi sintattici e frasali, verbo posto in fondo. Un esempio di frase complessa tratto dal Decameron (X, 4, 16): “Di che ella dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendé che ella poté, e appresso il pregò, per quello amore il quale egli l’aveva già portato e per cortesia di lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare.” Il Decameron
  • 22. Le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, come di molti altri autori del passato oggi si possono facilmente trovare e scaricare gratuitamente on line in versione digitale. Uno dei siti più ricchi e affidabili per testi d’autore digitalizzati è www.liberliber.it. Liber Liber ospita il progetto Manuzio, che ha lo scopo di digitalizzare capolavori della letteratura (e altri prodotti culturali) che non siano coperti da copyright e di offrirne la condivisione gratuita a tutti (anche con accorgimenti tecnici per non vedenti e ad altri portatori di handicap).

Notas del editor

  1. La fonologia (o fonematica) è lo studio dei fonemi e si distingue dalla fonetica che è lo studio dei foni.
  2. Nella Commedia ritroviamo Bonagiunta Orbicciani da Lucca nel XXIV che spiega a Dante di come il suo “dolce stil novo” abbia superato la propria poesia e quella del Notaio Jacopo da Lentini, mentre nel XVI ritroviamo Guido Guinizzelli, il caposcuola dello stilnovo (insieme ad Arnaut Daniel, maestro dei trovatori) che polemizza contro la poesia di Guittone d’Arezzo.
  3. La Vita Nova è un prosimetron, ovvero un'opera parte in versi e parte in prosa, composto tra il 1282 e il 1293. Si tende, insomma, a una forma di sublimazione letteraria del roseo-fiorentino. Tale processo favorisce, anche per la concomitanza di altri fattori (scambi commerciali e mercantili, rapporti politici e amministrativi, correnti artistiche e presenza di artisti), la penetrazione dei modelli toscani in altre regioni, soprattutto nel Settentrione e nel Veneto .
  4. Conoscia > avrei riconosciuto (condizionale passato) Questo è un pezzo del brano che introduce il sonetto XXIV della Vita Nova nel quale Dante scrive al suo primo amico Cavalcanti di aver avuto una visione della sua donna (Monna Giovanna) che, anticipando la venuta di Beatrice, viene paragonata alla Primavera che precede l’Estate e, nel precedente brano in prosa (basandosi sul di lei nome) a San Giovanni Battista che anticipa l’avvento di Cristo.
  5. Tale espressione è anche immortalata nella Divina Commedia di Dante (Inf. XXXIII, vv. 79-80) «del bel paese là dove 'l sì suona» Come era normale per un autore medievale Dante credeva che la le lingue si fossero divise dopo il mito mitico della torre di Babele che interrompe il monolinguismo della lingua di Adamo. Da questa frattura, secondo la tradizione ebraica, si originano le settanta lingue del mondo. Dante indica che le lingue europee si dividerebbero tre ceppi: le lingue latine, greche e germaniche.
  6. Per esempio i bolognesi di Borgo San Felice parlano in modo diverso da quelli di Strada Maggiore
  7. Il Convivio è un prosimetro di argomento morale e filosofico in quattro libri (1304-07)
  8. «in pochissimo tempo sì grandi ali le diedero, che fuori la spinsero dal suo nido, e la fecero volare per tutta l'Italia». La metafora suggestiva è di Giuseppe Parini, nelle sue Lezioni di Belle Lettere.
  9. L’opera è denominata solo Commedia da Dante; l'aggettivo Divina risale a Boccaccio, che fu anche trascrittore e commentatore dell'opera
  10. I termini più latineggianti li troviamo in paradiso (il latinissimo “speculi” è nel XXIX). Il fantozziano “che io vadi” invece era una variante alta di “che io vada” ed è messo in bocca nel III del Purgatorio a Manfredi, figlio di Federico II e ultimo imperatore degli Hohenstaufen.
  11. Della parola “puzza” c’è anche un occorrenza in Paradiso (però è inserita nell’invettiva di San Pietro contro i papi che hanno reso Roma, il “suo cimitero” una “cloaca”). “Verbi parasintetici” significa che sono composti dall’aggiunta sia di suffissi che di prefissi.
  12. Le correzioni in questo caso non riguardano il codice linguistico. Le scelte delle varianti avvengono in un sistema linguisticamente solido, già statico. Qui le correzioni servono a rendere più evidente il triangolo dei personaggi della poesia, io-poeta, il Sole-Apollo e la fronda d’alloro-Laura. Il Sole, divinizzato (almo, ‘sacro’), legato ad Apollo, dio solare delle arti, non ferma il suo corso nonostante le preghiere del poeta e presto l’ombra oscurerà il luogo in cui “alberga” la fronda, il lauro, che il poeta come il dio Apollo ama (il lauro è sempre il simbolo della sua donna Laura).
  13. Core ha la O aperta, mentre amore ce l’ha chiusa.
  14. l Decameron è una raccolta di cento novelle che hanno per cornice narrativa un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, che per dieci giorni si trattengono fuori da Firenze per sfuggire alla peste nera del 1348 e che a turno si raccontano delle novelle di taglio spesso umoristico e con frequenti richiami all'erotismo bucolico del tempo