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L’età della codificazione
La normalizzazione dell’italiano come
lingua di cultura dalle Prose di Bembo al
Vocabolario della Crusca
Il 1525, l’anno di pubblicazione delle Prose di Bembo, segna una data fondamentale per
la storia dell'italiano: il trattato, promovendo il fiorentino letterario trecentesco a unico
modello di lingua letteraria, forniva agli scriventi non toscani e all’editoria volgare un
punto di riferimento sicuro, e avviava una ricchissima produzione a stampa di ispirazione
bembiana, con scopi pratici e didattici.
Grammatiche, prontuari, lessici resero più immediatamente utilizzabili le indicazioni
contenute nelle Prose, e contribuirono a diffondere la norma in Italia anche tra i non
letterati.
Il successo delle Prose
Il ferrarese Alberto Acarisio riadatta a manuale alfabetico il dialogo bembiano,
rendendolo così più facilmente consultabile, col Vocabolario, grammatica e
ortografia de la lingua volgare con isposizione di molti luoghi di Dante, del
Petrarca e del Boccaccio del (1543).
Altri testi teorico-normativi importanti, sulla scia della teoria bembiana, furono
le Osservazioni nella volgar lingua di Lodovico Dolce (1550), i Commentarii della
Lingua italiana di Girolamo Ruscelli (1581) e le Regole grammaticali del
napoletano Marcantonio Flaminio (1581).
Anche fuori dall’Italia il grande prestigio europeo dell’italiano letterario
determina la precoce diffusione della norma bembiana, a partire dalla
Grammaire italienne composée en françois, pubblicata a Parigi da Jean Pierre de
Mesmes nel 1549.
Il successo delle Prose
Anche le prime raccolte lessicografiche si rifanno alla norma fondata sul
fiorentino letterario trecentesco: Le tre fontane di Niccolò Liburnio (1526),
basato sugli esempi degli «eloquentissimi scrittori toschi» Dante, Petrarca e
Boccaccio; il Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi del napoletano Fabricio
Luna (1536).
La fabrica del mondo di Francesco Alunno di Ferrara (1548) è il primo esempio di
vocabolario metodico, ordinato non alfabeticamente ma per concetti.
Le conseguenze di questo imponente processo di “normazione”, avviato dalle
Prose, furono di grande rilievo sugli usi letterari. Nel giro di pochi decenni, il
fiorentino letterario trecentesco venne studiato e imitato da un numero sempre
più grande di scriventi italiani: in tempi e modi diversi divenne, come Bembo
aveva auspicato, la lingua italiana letteraria.
Il successo delle Prose
Un esempio emblematico di revisione linguistica in
direzione “bembiana” di un’opera letteraria fu la
correzione dell’Orlando Furioso (1a ed. 1516; 2a ed. 1521;
3a ed. 1532) ad opera dello stesso autore, Ludovico
Ariosto, la cui ammirazione per il Bembo è testimoniata
anche dai versi aggiunti nell’ultima edizione (1532) :
«là veggo Pietro / Bembo ch’il puro e dolce idioma nostro
/ levato fuor del volgar uso tetro / quale esser dee, ci ha
col suo esempio mostro» (XLVI, 15).
La correzione dell’Orlando Furioso
Il «volgar uso tetro» era la sregolata lingua di koinè, che aveva contrassegnato
esperienze ibride come quella dell’Orlando Innamorato boiardesco, e, in
misura minore, lo stesso Furioso delle prime due edizioni, anteriori alle Prose.
• La prima edizione del 1516 ha ancora una veste linguistica ricca di tratti
padani e latineggianti (forme senza anafonesi, come gionto; oscillazioni nell’uso
delle doppie e forme come giaccio 'ghiaccio', solfo 'zolfo', trassinare 'trascinare';
il tipo cantarò; latinismi come formidato 'temuto' ecc.) .
• L’edizione del 1521 mostra poche correzioni (ma significative sono le
indicazioni già in senso toscano, forse suggerite dalle Regole del Fortunio,
nell’errata corrige: sommo e non summo, riverire e non reverire, del e non dil).
• L’ultima versione, del 1532, è invece il risultato di un massiccio lavoro
correttorio per l’adesione di Ariosto, anche se con qualche incertezza, alla norma
di Bembo: in questa direzione vanno correzioni come suspetto > sospetto, li colpi
> i colpi, il scudo > lo scudo, avemo > abbiamo, io andavo > io andava, arrivarà >
arriverà ecc., e anche tipi come presto > tosto, o cavai sostituito dal
petrarcheggiante destrier.
La correzione dell’Orlando Furioso
Un altro caso esemplare di correzione è quello del Cortegiano di Baldassar
Castiglione. L’autore fece nel 1524, in vista della stampa, una redazione definitiva
del trattato, apportandovi correzioni che però non ne mutarono la fisionomia
sostanzialmente “lombarda”.
L’ultima revisione in tipografia fu invece attuata dall’editore, Giovan Francesco
Valerio (nobile di Venezia amico del Bembo) che, per la sua stampa del 1528,
diede al testo uniformità grammaticale e veste linguistica toscaneggiante,
correggendo sistematicamente forme come iudicio > giudicio, dil > del, fussero >
fossero, forno/furno > furono ecc. e assicurando al Cortegiano, grazie anche
all’adattamento linguistico, il grande successo che ottenne in Italia e in Europa.
La vicenda editoriale del Cortegiano mostra il ruolo centrale dei correttori
editoriali e della stampa nella diffusione di una lingua letteraria unitaria, di una
sua norma e di una sua standardizzazione.
La correzione del Cortegiano
Gli ambienti fiorentini non accolsero favorevolmente le Prose di Bembo, che
esaltava solo il fiorentino letterario trecentesco a scapito del fiorentino vivo
contemporaneo e sminuiva la grandezza linguistica di Dante.
Proprio alla rivalutazione del fiorentino vivo e di Dante si mossero i letterati
legati all’Accademia fiorentina (Giambullari, Varchi, Lenzoni, Gelli, …).
Pier Francesco Giambullari pubblicò a Firenze (nel 1552 circa) la prima
grammatica di toscano vivo diretta a non toscani: Regole de la lingua che si
parla et scrive in Firenze, che raccoglieva in forma di “Regole” gli usi correnti del
fiorentino colto accanto a quelli della tradizione letteraria (come i tipi io amavo
e io fussi all’epoca correnti e io amava e io fossi arcaicizzanti).
Tra le sue regole Giambullari stabilì anche (per primo e in contrasto con la
tradizione umanistica) che il grafema h non andava usato per ragioni
etimologiche, ma solo grafico-distintive (come segno diacritico).
Pier Francesco Giambullari
Benedetto Varchi fu il mediatore tra le posizioni più
fiorentiniste e quella classicista arcaicizzante di Bembo.
Egli pubblicò nel 1549 l’edizione fiorentina delle Prose
bembiane, e compose (tra il 1560 e il 1565) il dialogo
Hercolano, uscito postumo nel 1570.
Nell’opera Varchi distingueva la lingua come fatto vivo e
naturale, dallo stile, come elaborazione letteraria,
Benedetto Varchi
e conciliava il principio della «fiorentinità viva, sul piano della lingua [...] e il
principio - derivato dal Bembo - della letterarietà sul piano dello stile».
Egli poneva così in primo piano la natura parlata della lingua (mentre per
Bembo la lingua era prima di tutto scritta) rivendicando però anche l’importante
azione regolatrice degli scrittori.
Sotto l’influenza di Varchi, nel secondo Cinquecento gli
ambienti culturali fiorentini assimilarono e adattarono
la soluzione letteraria di Bembo, tentando di ridare a
Firenze il ruolo di “legislatrice” della lingua.
Nel 1583 fu fondata l’Accademia della Crusca,
un’associazione letteraria che, soprattutto grazie al
grande impegno filologico-grammaticale di Leonardo
Salviati, compilò la grande opera del Vocabolario degli
Accademici della Crusca.
L’Accademia della Crusca
La prima edizione del Vocabolario uscì a Venezia nel 1612, ma lo spoglio degli
autori «citati» fu compiuto, con coerenza metodologica, da un gruppo che
lavorò tra il 1591 e il 1595, seguendo proprio le indicazioni teoriche del Salviati.
Salviati affermava la perfezione naturale (la purità) della
lingua fiorentina trecentesca, a cui gli scrittori attingevano
per la loro elaborazione artistica. Al ristretto canone di
Bembo (Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa)
Salviati aggiungeva anche Dante, Giovanni Villani e altri
autori del Trecento e considerava importanti documenti
linguistici tutte le scritture fiorentine del Trecento,
compresi i testi pratici e senza intenti letterari.
Leonardo Salviati
Salviati tuttavia indicava la norma nel buon uso degli scrittori di maggiore
autorità letteraria, con preferenza però per quelli che avevano evitato uno stile
troppo elaborato. Asseriva inoltre il valore del fiorentino dell’uso vivo e
corrente, ma non plebeo, che confermava la sostanziale continuità linguistica
del fiorentino cinquecentesco con quello trecentesco.
Il Vocabolario della Crusca si conformava ai criteri stabiliti
da Salviati e si costituiva come punto di riferimento della
tradizione linguistico-letteraria toscofiorentina, in un
momento in cui erano già attive le spinte
antitradizionaliste e moderniste del barocco.
L’opera documentava le voci tratte un corpus di 289 testi
(i «citati») selezionati tra gli scrittori maggiori e minori
del Trecento e, per le voci moderne, tra quelli
quattrocenteschi e cinquecenteschi che avevano seguito
l’uso trecentesco (come Lorenzo de’Medici, Bembo,
Ariosto, Della Casa, Gelli, Salviati), ma accettava (con
parsimonia) anche l’uso vivo di alcuni lemmi non
documentati da esempi d’autore.
Vocabolario
degli Accademici della Crusca
Il merito del Vocabolario della Crusca fu di aver fissato in forma
tendenzialmente stabile l’aspetto grafico di numerose parole che erano ancora
oscillanti negli usi cinquecenteschi.
La seconda edizione del Vocabolario uscì nel 1623, con alcune giunte e
modifiche non sostanziali, accogliendo però Galileo tra gli autori citati.
Nonostante la rigidità del canone degli autori, il Vocabolario della Crusca era, di
fatto, il primo grande dizionario di una lingua europea, opera di un’equipe che
aveva lavorato con metodi precisi e coerenti e una tecnica lessicografica molto
avanzata per quei tempi.
Esso costituì un punto di riferimento e un modello per altre imprese, anche
estere (come i successivi dizionari dell’Académie française del 1694 e della Real
Academia Española del 1780).
Vocabolario
degli Accademici della Crusca
Tra i grandi autori esclusi dal Vocabolario ci fu Torquato Tasso, che sarà accolto
solo a partire dalla terza edizione (1691).
Il poeta, criticato dal Salviati, era stato al centro di durissime polemiche: nella
Gerusalemme Liberata (1580), egli, lontano dal modello bembiano, aveva creato
una lingua antitradizionale, ricorrendo a latinismi inusuali (come formidabile
‘temibile’, repugnare ‘combattere’ ecc.), a voci nuove per forma o per significato,
a parole straniere, a lombardismi, a costruzioni artificiose e ricercate.
Il Tasso diventò l’emblema degli oppositori alla Crusca, che reclamavano la
superiorità dei moderni sugli antichi, e quindi dell’uso linguistico
contemporaneo su quello arcaizzante trecentesco. Inoltre rimproveravano la
ristrettezza geografica del canone cruscante, che fondava la norma lessicografica
sull’uso fiorentino escludendo voci già in uso nel resto d’Italia.
Oppositori della Crusca
• Il padovano Paolo Beni nella sua Anticrusca del 1612 (sottotitolata
significativamente Il Paragone dell’italiana lingua: nel qual si mostra
chiaramente che l’Antica sia inculta e rozza: e La Moderna regolata e gentile),
difendendo gli scrittori del Cinquecento (soprattutto il Tasso), biasimava le
scritture incolte trecentesche (come i “Quaderni de’ conti”) e la lingua bassa del
Boccaccio vagliate dal Vocabolario.
• Il modenese Alessandro Tassoni, nonostante fosse un accademico, manifestava
la sua insofferenza in varie annotazioni e nelle sue postille al Vocabolario, per
esempio alla voce abituro (‘umile dimora’) scrive: «affettato e dismesso
fiorentinismo»; e moccichino: «fazzoletto, voce intesa per tutta Italia». Il gusto
linguistico del Tassoni, aperto all’utilizzo degli elementi dialettali di varie aree è
manifesto anche nel suo poema eroicomico La secchia rapita, opera
linguisticamente lontana dal canone cruscante.
Oppositori della Crusca
Il Vocabolario della Crusca divenne baluardo della
tradizione ma anche bersaglio polemico da parte degli
orientamenti più moderni e barocchi del primo Seicento
sulla strada già aperta dal Tasso.
Emanuele Tesauro fissò la poetica barocca col suo trattato
Il Cannocchiale aristotelico (1a ed. 1654) nel quale codificò
la libertà e l’originalità espressiva, la novità e l’evoluzione
Emanuele Tesauro
linguistica «per il commerzio de’ forestieri, per l’idiotismo de’ plebei, per la
licenza de’ Poeti, per la sazietà degli orecchi, et per l’oblìo delle menti».
Veniva così legittimata la consapevole evasione dalla norma linguistica che era
stata praticata dai poeti barocchi, per esempio l’adozione di voci forestiere,
considerate “barbarismi” dal tradizionalismo cruscante, e riabilitate per il loro
effetto innovativo e inconsueto.
La grande spinta antitradizionale del barocco
riguardò lo stile (con l’uso inedito di metafore,
antitesi, bisticci, antonomasia, enumerazioni ecc.)
ma anche il lessico, mentre le strutture metriche e
l’impalcatura grammaticale restavano nel solco della
tradizione precedente.
Si trattava, soprattutto, di un’estensione
programmatica dei temi e delle situazioni poetiche,
moltiplicati in un ventaglio di possibilità, con la
ricerca dei particolari strani e inusitati,
antipetrarcheschi (la donna nana, con gli occhiali, la
zoppa, la pidocchiosa; la donna che esercita i
mestieri più umili, la ricamatrice, la lavandaia ecc.).
La poetica barocca
Caposcuola del barocco italiano è il napoletano Giovan Battista Marino che nel suo
poema Adone (1623) opera un’inesauribile ricerca di elementi lessicali nuovi e orientati
all’attualità, con un’esorbitanza che sarà satireggiata dai suoi oppositori (come Tommaso
Stigliani):
• introduce il nuovo lessico scientifico, derivato dalla contemporanea scienza
sperimentale galileiana, come cannone, occhiale, telescopio (sinonimi usati da
Galileo), e dai trattati di medicina (ventricolo, nervi, labirinto, circolo visivo ecc.) o di
botanica (ligustro, giacinto ecc.)
• usa il lessico settoriale della scherma, dell’equitazione, della danza (stoccata,
pettorale, saravanda)
• utilizza parole dal sapore esotico, come gli ispanismi squadriglia, mandiglia
‘mantiglia’, o i francesismi come gabinetto ‘stipo’, voliera ‘uccelliera’, alea ‘viale’ o i
dialettalismi, soprattutto di area napoletana, e i latinismi;
• inventa persino neologismi come isoleggiare ‘grandeggiare’, volatrice ‘colei che vola’,
sovradivino ecc.
Giovan Battista Marino
Anche i vari generi della prosa sono attraversati da tendenze antitradizionali e
antinormative:
• nella prosa narrativa e del nuovo genere romanzesco, opere come La
Stratonica (1635-37) di Luca Assarino o il Cane di Diogene (1689) di Francesco
Fulvio Frugoni rappresentano veri manifesti di “liberismo linguistico”
• nella prosa storica, come nei Discorsi sopra Tacito (1622) del bolognese
Malvezzi, si sperimenta un periodare giustappositivo, ma volutamente
concettoso e oscuro (anche per la scarsa presenza di connettivi)
• nell’oratoria, opere come le Dicerie sacre (1614) del Marino, sono
caratterizzate dall’uso esasperato di artifici retorici (esclamazioni,
interrogazioni, antitesi, enumerazioni ecc.).
La prosa barocca
Rispetto alle tendenze eversive del barocco, la prosa
scientifica di inizio Seicento rappresenta piuttosto la
continuità con la tradizione toscana.
Per la nostra storia linguistica la scelta di Galileo Galilei
di utilizzare per la sua opera l’italiano invece del latino
ha avuto un’importanza estremamente rilevante. Lo
scienziato, dopo gli esordi in latino (che era ancora la
lingua internazionale della comunicazione scientifica)
Galileo Galilei
opta decisamente per l’italiano, che pure non garantiva la stessa circolazione
delle sue opere, spinto da una forte esigenza di comprensibilità e di
divulgazione anche presso i non specialisti: «ho bisogno che ogni persona la
possi leggere», scriveva all’amico sacerdote Paolo Gualdo nel 1612.
La prosa scientifica galileiana si orienta così verso la chiarezza e l’accessibilità,
ottenute con una terminologia estranea dall’eccessivo tecnicismo.
Galileo usa procedimenti di riformulazione o glosse per spiegare i termini
(«l’impeto, cioè il grado di velocità che la palla si trova ad avere acquistato»), e
rivede sistematicamente la terminologia precedente, definendo e fissando in
senso tecnico il significato di parole già in uso, che divengono così “termini
scientifici”, come candore, macchie solari, momento, pendolo.
Cerca di evitare le denominazioni dotte, formate con elementi greci e latini, che
in seguito avranno grande fortuna come “internazionalismi” nella lingua
scientifica: così denomina cannone/occhiale/cannocchiale il nuovo strumento,
anche se poi accetterà il grecismo telescopio, coniato da Francesco Cesi.
Galileo Galilei
Galileo, toscano di nascita, padroneggia la sintassi, che non scende mai verso
i registri bassi del parlato, e si snoda senza artificio, con chiarezza ma con un
notevole grado di complessità. Lo scienziato domina la coerenza logica
dell’argomentazione e della dimostrazione scientifica, mantenendo una forte
coesione testuale.
Istituzionalizza nella prosa scientifica una serie di costrutti nominali a scapito
del verbo (per esempio «il proietto acquista impeto di muoversi per la
tangente l’arco»). Molti di questi costrutti incideranno notevolmente
sull’evoluzione dell’italiano (come avere opinione che ‘pensare che’; senza
qualche mia antecedente informazione ‘senza che io ne fossi informato in
precedenza’ ecc.).
Galileo Galilei
La prosa scientifica degli Accademici del Cimento (l’associazione scientifica
fondata dagli allievi di Galileo), in particolare di Francesco Redi e Lorenzo
Magalotti, punterà più vistosamente sulla colloquialità toscana e su un gusto
descrittivo quasi letterario.
Redi e Magalotti furono tra i collaboratori alla terza edizione del Vocabolario
della Crusca, uscita a Firenze nel 1691, frutto di trent’anni di lavoro e documento
di una maggiore apertura della cultura fiorentina alla modernità.
La lingua della scienza secentesca entrava infatti largamente, insieme ad altre
novità come l’inserimento di autori non toscani, come Sannazzaro, Castiglione e
soprattutto Tasso. Inoltre le voci antiche non più in uso venivano segnalate con
V.A. (‘Voce Antica’), per indicarne il valore solo documentario e non di esempio
da imitare.
La terza edizione del Vocabolario

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025 L'Età della Codificazione

  • 1. L’età della codificazione La normalizzazione dell’italiano come lingua di cultura dalle Prose di Bembo al Vocabolario della Crusca
  • 2. Il 1525, l’anno di pubblicazione delle Prose di Bembo, segna una data fondamentale per la storia dell'italiano: il trattato, promovendo il fiorentino letterario trecentesco a unico modello di lingua letteraria, forniva agli scriventi non toscani e all’editoria volgare un punto di riferimento sicuro, e avviava una ricchissima produzione a stampa di ispirazione bembiana, con scopi pratici e didattici. Grammatiche, prontuari, lessici resero più immediatamente utilizzabili le indicazioni contenute nelle Prose, e contribuirono a diffondere la norma in Italia anche tra i non letterati. Il successo delle Prose
  • 3. Il ferrarese Alberto Acarisio riadatta a manuale alfabetico il dialogo bembiano, rendendolo così più facilmente consultabile, col Vocabolario, grammatica e ortografia de la lingua volgare con isposizione di molti luoghi di Dante, del Petrarca e del Boccaccio del (1543). Altri testi teorico-normativi importanti, sulla scia della teoria bembiana, furono le Osservazioni nella volgar lingua di Lodovico Dolce (1550), i Commentarii della Lingua italiana di Girolamo Ruscelli (1581) e le Regole grammaticali del napoletano Marcantonio Flaminio (1581). Anche fuori dall’Italia il grande prestigio europeo dell’italiano letterario determina la precoce diffusione della norma bembiana, a partire dalla Grammaire italienne composée en françois, pubblicata a Parigi da Jean Pierre de Mesmes nel 1549. Il successo delle Prose
  • 4. Anche le prime raccolte lessicografiche si rifanno alla norma fondata sul fiorentino letterario trecentesco: Le tre fontane di Niccolò Liburnio (1526), basato sugli esempi degli «eloquentissimi scrittori toschi» Dante, Petrarca e Boccaccio; il Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi del napoletano Fabricio Luna (1536). La fabrica del mondo di Francesco Alunno di Ferrara (1548) è il primo esempio di vocabolario metodico, ordinato non alfabeticamente ma per concetti. Le conseguenze di questo imponente processo di “normazione”, avviato dalle Prose, furono di grande rilievo sugli usi letterari. Nel giro di pochi decenni, il fiorentino letterario trecentesco venne studiato e imitato da un numero sempre più grande di scriventi italiani: in tempi e modi diversi divenne, come Bembo aveva auspicato, la lingua italiana letteraria. Il successo delle Prose
  • 5. Un esempio emblematico di revisione linguistica in direzione “bembiana” di un’opera letteraria fu la correzione dell’Orlando Furioso (1a ed. 1516; 2a ed. 1521; 3a ed. 1532) ad opera dello stesso autore, Ludovico Ariosto, la cui ammirazione per il Bembo è testimoniata anche dai versi aggiunti nell’ultima edizione (1532) : «là veggo Pietro / Bembo ch’il puro e dolce idioma nostro / levato fuor del volgar uso tetro / quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro» (XLVI, 15). La correzione dell’Orlando Furioso Il «volgar uso tetro» era la sregolata lingua di koinè, che aveva contrassegnato esperienze ibride come quella dell’Orlando Innamorato boiardesco, e, in misura minore, lo stesso Furioso delle prime due edizioni, anteriori alle Prose.
  • 6. • La prima edizione del 1516 ha ancora una veste linguistica ricca di tratti padani e latineggianti (forme senza anafonesi, come gionto; oscillazioni nell’uso delle doppie e forme come giaccio 'ghiaccio', solfo 'zolfo', trassinare 'trascinare'; il tipo cantarò; latinismi come formidato 'temuto' ecc.) . • L’edizione del 1521 mostra poche correzioni (ma significative sono le indicazioni già in senso toscano, forse suggerite dalle Regole del Fortunio, nell’errata corrige: sommo e non summo, riverire e non reverire, del e non dil). • L’ultima versione, del 1532, è invece il risultato di un massiccio lavoro correttorio per l’adesione di Ariosto, anche se con qualche incertezza, alla norma di Bembo: in questa direzione vanno correzioni come suspetto > sospetto, li colpi > i colpi, il scudo > lo scudo, avemo > abbiamo, io andavo > io andava, arrivarà > arriverà ecc., e anche tipi come presto > tosto, o cavai sostituito dal petrarcheggiante destrier. La correzione dell’Orlando Furioso
  • 7. Un altro caso esemplare di correzione è quello del Cortegiano di Baldassar Castiglione. L’autore fece nel 1524, in vista della stampa, una redazione definitiva del trattato, apportandovi correzioni che però non ne mutarono la fisionomia sostanzialmente “lombarda”. L’ultima revisione in tipografia fu invece attuata dall’editore, Giovan Francesco Valerio (nobile di Venezia amico del Bembo) che, per la sua stampa del 1528, diede al testo uniformità grammaticale e veste linguistica toscaneggiante, correggendo sistematicamente forme come iudicio > giudicio, dil > del, fussero > fossero, forno/furno > furono ecc. e assicurando al Cortegiano, grazie anche all’adattamento linguistico, il grande successo che ottenne in Italia e in Europa. La vicenda editoriale del Cortegiano mostra il ruolo centrale dei correttori editoriali e della stampa nella diffusione di una lingua letteraria unitaria, di una sua norma e di una sua standardizzazione. La correzione del Cortegiano
  • 8. Gli ambienti fiorentini non accolsero favorevolmente le Prose di Bembo, che esaltava solo il fiorentino letterario trecentesco a scapito del fiorentino vivo contemporaneo e sminuiva la grandezza linguistica di Dante. Proprio alla rivalutazione del fiorentino vivo e di Dante si mossero i letterati legati all’Accademia fiorentina (Giambullari, Varchi, Lenzoni, Gelli, …). Pier Francesco Giambullari pubblicò a Firenze (nel 1552 circa) la prima grammatica di toscano vivo diretta a non toscani: Regole de la lingua che si parla et scrive in Firenze, che raccoglieva in forma di “Regole” gli usi correnti del fiorentino colto accanto a quelli della tradizione letteraria (come i tipi io amavo e io fussi all’epoca correnti e io amava e io fossi arcaicizzanti). Tra le sue regole Giambullari stabilì anche (per primo e in contrasto con la tradizione umanistica) che il grafema h non andava usato per ragioni etimologiche, ma solo grafico-distintive (come segno diacritico). Pier Francesco Giambullari
  • 9. Benedetto Varchi fu il mediatore tra le posizioni più fiorentiniste e quella classicista arcaicizzante di Bembo. Egli pubblicò nel 1549 l’edizione fiorentina delle Prose bembiane, e compose (tra il 1560 e il 1565) il dialogo Hercolano, uscito postumo nel 1570. Nell’opera Varchi distingueva la lingua come fatto vivo e naturale, dallo stile, come elaborazione letteraria, Benedetto Varchi e conciliava il principio della «fiorentinità viva, sul piano della lingua [...] e il principio - derivato dal Bembo - della letterarietà sul piano dello stile». Egli poneva così in primo piano la natura parlata della lingua (mentre per Bembo la lingua era prima di tutto scritta) rivendicando però anche l’importante azione regolatrice degli scrittori.
  • 10. Sotto l’influenza di Varchi, nel secondo Cinquecento gli ambienti culturali fiorentini assimilarono e adattarono la soluzione letteraria di Bembo, tentando di ridare a Firenze il ruolo di “legislatrice” della lingua. Nel 1583 fu fondata l’Accademia della Crusca, un’associazione letteraria che, soprattutto grazie al grande impegno filologico-grammaticale di Leonardo Salviati, compilò la grande opera del Vocabolario degli Accademici della Crusca. L’Accademia della Crusca La prima edizione del Vocabolario uscì a Venezia nel 1612, ma lo spoglio degli autori «citati» fu compiuto, con coerenza metodologica, da un gruppo che lavorò tra il 1591 e il 1595, seguendo proprio le indicazioni teoriche del Salviati.
  • 11. Salviati affermava la perfezione naturale (la purità) della lingua fiorentina trecentesca, a cui gli scrittori attingevano per la loro elaborazione artistica. Al ristretto canone di Bembo (Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa) Salviati aggiungeva anche Dante, Giovanni Villani e altri autori del Trecento e considerava importanti documenti linguistici tutte le scritture fiorentine del Trecento, compresi i testi pratici e senza intenti letterari. Leonardo Salviati Salviati tuttavia indicava la norma nel buon uso degli scrittori di maggiore autorità letteraria, con preferenza però per quelli che avevano evitato uno stile troppo elaborato. Asseriva inoltre il valore del fiorentino dell’uso vivo e corrente, ma non plebeo, che confermava la sostanziale continuità linguistica del fiorentino cinquecentesco con quello trecentesco.
  • 12. Il Vocabolario della Crusca si conformava ai criteri stabiliti da Salviati e si costituiva come punto di riferimento della tradizione linguistico-letteraria toscofiorentina, in un momento in cui erano già attive le spinte antitradizionaliste e moderniste del barocco. L’opera documentava le voci tratte un corpus di 289 testi (i «citati») selezionati tra gli scrittori maggiori e minori del Trecento e, per le voci moderne, tra quelli quattrocenteschi e cinquecenteschi che avevano seguito l’uso trecentesco (come Lorenzo de’Medici, Bembo, Ariosto, Della Casa, Gelli, Salviati), ma accettava (con parsimonia) anche l’uso vivo di alcuni lemmi non documentati da esempi d’autore. Vocabolario degli Accademici della Crusca
  • 13. Il merito del Vocabolario della Crusca fu di aver fissato in forma tendenzialmente stabile l’aspetto grafico di numerose parole che erano ancora oscillanti negli usi cinquecenteschi. La seconda edizione del Vocabolario uscì nel 1623, con alcune giunte e modifiche non sostanziali, accogliendo però Galileo tra gli autori citati. Nonostante la rigidità del canone degli autori, il Vocabolario della Crusca era, di fatto, il primo grande dizionario di una lingua europea, opera di un’equipe che aveva lavorato con metodi precisi e coerenti e una tecnica lessicografica molto avanzata per quei tempi. Esso costituì un punto di riferimento e un modello per altre imprese, anche estere (come i successivi dizionari dell’Académie française del 1694 e della Real Academia Española del 1780). Vocabolario degli Accademici della Crusca
  • 14. Tra i grandi autori esclusi dal Vocabolario ci fu Torquato Tasso, che sarà accolto solo a partire dalla terza edizione (1691). Il poeta, criticato dal Salviati, era stato al centro di durissime polemiche: nella Gerusalemme Liberata (1580), egli, lontano dal modello bembiano, aveva creato una lingua antitradizionale, ricorrendo a latinismi inusuali (come formidabile ‘temibile’, repugnare ‘combattere’ ecc.), a voci nuove per forma o per significato, a parole straniere, a lombardismi, a costruzioni artificiose e ricercate. Il Tasso diventò l’emblema degli oppositori alla Crusca, che reclamavano la superiorità dei moderni sugli antichi, e quindi dell’uso linguistico contemporaneo su quello arcaizzante trecentesco. Inoltre rimproveravano la ristrettezza geografica del canone cruscante, che fondava la norma lessicografica sull’uso fiorentino escludendo voci già in uso nel resto d’Italia. Oppositori della Crusca
  • 15. • Il padovano Paolo Beni nella sua Anticrusca del 1612 (sottotitolata significativamente Il Paragone dell’italiana lingua: nel qual si mostra chiaramente che l’Antica sia inculta e rozza: e La Moderna regolata e gentile), difendendo gli scrittori del Cinquecento (soprattutto il Tasso), biasimava le scritture incolte trecentesche (come i “Quaderni de’ conti”) e la lingua bassa del Boccaccio vagliate dal Vocabolario. • Il modenese Alessandro Tassoni, nonostante fosse un accademico, manifestava la sua insofferenza in varie annotazioni e nelle sue postille al Vocabolario, per esempio alla voce abituro (‘umile dimora’) scrive: «affettato e dismesso fiorentinismo»; e moccichino: «fazzoletto, voce intesa per tutta Italia». Il gusto linguistico del Tassoni, aperto all’utilizzo degli elementi dialettali di varie aree è manifesto anche nel suo poema eroicomico La secchia rapita, opera linguisticamente lontana dal canone cruscante. Oppositori della Crusca
  • 16. Il Vocabolario della Crusca divenne baluardo della tradizione ma anche bersaglio polemico da parte degli orientamenti più moderni e barocchi del primo Seicento sulla strada già aperta dal Tasso. Emanuele Tesauro fissò la poetica barocca col suo trattato Il Cannocchiale aristotelico (1a ed. 1654) nel quale codificò la libertà e l’originalità espressiva, la novità e l’evoluzione Emanuele Tesauro linguistica «per il commerzio de’ forestieri, per l’idiotismo de’ plebei, per la licenza de’ Poeti, per la sazietà degli orecchi, et per l’oblìo delle menti». Veniva così legittimata la consapevole evasione dalla norma linguistica che era stata praticata dai poeti barocchi, per esempio l’adozione di voci forestiere, considerate “barbarismi” dal tradizionalismo cruscante, e riabilitate per il loro effetto innovativo e inconsueto.
  • 17. La grande spinta antitradizionale del barocco riguardò lo stile (con l’uso inedito di metafore, antitesi, bisticci, antonomasia, enumerazioni ecc.) ma anche il lessico, mentre le strutture metriche e l’impalcatura grammaticale restavano nel solco della tradizione precedente. Si trattava, soprattutto, di un’estensione programmatica dei temi e delle situazioni poetiche, moltiplicati in un ventaglio di possibilità, con la ricerca dei particolari strani e inusitati, antipetrarcheschi (la donna nana, con gli occhiali, la zoppa, la pidocchiosa; la donna che esercita i mestieri più umili, la ricamatrice, la lavandaia ecc.). La poetica barocca
  • 18. Caposcuola del barocco italiano è il napoletano Giovan Battista Marino che nel suo poema Adone (1623) opera un’inesauribile ricerca di elementi lessicali nuovi e orientati all’attualità, con un’esorbitanza che sarà satireggiata dai suoi oppositori (come Tommaso Stigliani): • introduce il nuovo lessico scientifico, derivato dalla contemporanea scienza sperimentale galileiana, come cannone, occhiale, telescopio (sinonimi usati da Galileo), e dai trattati di medicina (ventricolo, nervi, labirinto, circolo visivo ecc.) o di botanica (ligustro, giacinto ecc.) • usa il lessico settoriale della scherma, dell’equitazione, della danza (stoccata, pettorale, saravanda) • utilizza parole dal sapore esotico, come gli ispanismi squadriglia, mandiglia ‘mantiglia’, o i francesismi come gabinetto ‘stipo’, voliera ‘uccelliera’, alea ‘viale’ o i dialettalismi, soprattutto di area napoletana, e i latinismi; • inventa persino neologismi come isoleggiare ‘grandeggiare’, volatrice ‘colei che vola’, sovradivino ecc. Giovan Battista Marino
  • 19. Anche i vari generi della prosa sono attraversati da tendenze antitradizionali e antinormative: • nella prosa narrativa e del nuovo genere romanzesco, opere come La Stratonica (1635-37) di Luca Assarino o il Cane di Diogene (1689) di Francesco Fulvio Frugoni rappresentano veri manifesti di “liberismo linguistico” • nella prosa storica, come nei Discorsi sopra Tacito (1622) del bolognese Malvezzi, si sperimenta un periodare giustappositivo, ma volutamente concettoso e oscuro (anche per la scarsa presenza di connettivi) • nell’oratoria, opere come le Dicerie sacre (1614) del Marino, sono caratterizzate dall’uso esasperato di artifici retorici (esclamazioni, interrogazioni, antitesi, enumerazioni ecc.). La prosa barocca
  • 20. Rispetto alle tendenze eversive del barocco, la prosa scientifica di inizio Seicento rappresenta piuttosto la continuità con la tradizione toscana. Per la nostra storia linguistica la scelta di Galileo Galilei di utilizzare per la sua opera l’italiano invece del latino ha avuto un’importanza estremamente rilevante. Lo scienziato, dopo gli esordi in latino (che era ancora la lingua internazionale della comunicazione scientifica) Galileo Galilei opta decisamente per l’italiano, che pure non garantiva la stessa circolazione delle sue opere, spinto da una forte esigenza di comprensibilità e di divulgazione anche presso i non specialisti: «ho bisogno che ogni persona la possi leggere», scriveva all’amico sacerdote Paolo Gualdo nel 1612.
  • 21. La prosa scientifica galileiana si orienta così verso la chiarezza e l’accessibilità, ottenute con una terminologia estranea dall’eccessivo tecnicismo. Galileo usa procedimenti di riformulazione o glosse per spiegare i termini («l’impeto, cioè il grado di velocità che la palla si trova ad avere acquistato»), e rivede sistematicamente la terminologia precedente, definendo e fissando in senso tecnico il significato di parole già in uso, che divengono così “termini scientifici”, come candore, macchie solari, momento, pendolo. Cerca di evitare le denominazioni dotte, formate con elementi greci e latini, che in seguito avranno grande fortuna come “internazionalismi” nella lingua scientifica: così denomina cannone/occhiale/cannocchiale il nuovo strumento, anche se poi accetterà il grecismo telescopio, coniato da Francesco Cesi. Galileo Galilei
  • 22. Galileo, toscano di nascita, padroneggia la sintassi, che non scende mai verso i registri bassi del parlato, e si snoda senza artificio, con chiarezza ma con un notevole grado di complessità. Lo scienziato domina la coerenza logica dell’argomentazione e della dimostrazione scientifica, mantenendo una forte coesione testuale. Istituzionalizza nella prosa scientifica una serie di costrutti nominali a scapito del verbo (per esempio «il proietto acquista impeto di muoversi per la tangente l’arco»). Molti di questi costrutti incideranno notevolmente sull’evoluzione dell’italiano (come avere opinione che ‘pensare che’; senza qualche mia antecedente informazione ‘senza che io ne fossi informato in precedenza’ ecc.). Galileo Galilei
  • 23. La prosa scientifica degli Accademici del Cimento (l’associazione scientifica fondata dagli allievi di Galileo), in particolare di Francesco Redi e Lorenzo Magalotti, punterà più vistosamente sulla colloquialità toscana e su un gusto descrittivo quasi letterario. Redi e Magalotti furono tra i collaboratori alla terza edizione del Vocabolario della Crusca, uscita a Firenze nel 1691, frutto di trent’anni di lavoro e documento di una maggiore apertura della cultura fiorentina alla modernità. La lingua della scienza secentesca entrava infatti largamente, insieme ad altre novità come l’inserimento di autori non toscani, come Sannazzaro, Castiglione e soprattutto Tasso. Inoltre le voci antiche non più in uso venivano segnalate con V.A. (‘Voce Antica’), per indicarne il valore solo documentario e non di esempio da imitare. La terza edizione del Vocabolario

Notas del editor

  1. Angelica, in fuga da numerosi spasimanti, tra i quali il paladino Orlando, di cui viene sin dalle prime ottave preannunciata la pazzia. Le inchieste dei vari cavalieri per conquistare Angelica si rivelano tutte vane, dal momento che (prima di uscire definitivamente dal poema nel XXIX canto, per giunta a testa in giù sulla sabbia) la donna sposerà il musulmano Medoro causando la follia di Orlando e l'ira degli altri cavalieri. Peripezie che portano alla realizzazione dell'amore tra Ruggiero, cavaliere pagano erede del troiano Ettore, e Bradamante, guerriera cristiana, che riusciranno a congiungersi solo dopo la conversione di Ruggiero al termine della guerra: da questa unione discenderà infatti la Casa d'Este.
  2. L’Accademia Fiorentina fu fondata nel 1540 da Giovanni Mazzuoli, detto lo Stradino. In origine essa era un raduno di letterati che leggevano i grandi poeti toscani, in seguito divenne un'istituzione ufficiale ed ebbe la protezione di Cosimo de Medici, che così voleva continuare il tradizionale mecenatismo della sua famiglia.
  3. Varchi si formò a Venezia e a Padova in ambienti filobembiani, e poi rientrò a Firenze nel 1543.
  4. Già al decennio 1570-1580 di un gruppo di cittadini fiorentini che discutevano di questioni letterarie linguistiche si dettero il nome di "brigata dei crusconi” per differenziarsi dalle pedanterie dell'Accademia fiorentina, alle quali contrapponevano le cruscate, cioè discorsi giocosi e conversazioni di poca importanza. Nell’82 vi entra Salviati attribuendo all’Accademia lo scopo di separare il fior della farina (la buona lingua) dalla crusca.
  5. Orazione in lode della fiorentina lingua (1564), curò un'edizione censurata (la famosa 'rassettatura') del Decameron nel 1582, espose ampiamente queste sue rinnovate teorie linguistiche negli Avvertimenti della lingua sopra 'l Decameron, pubblicati tra il 1584 e il 1586. La fama di Giovanni Villani è legata soprattutto alla sua Nuova Cronica, immenso resoconto della storia di Firenze che partendo dalla torre di Babele arriva fino ai suoi tempi. La Nuova Cronica probabilmente fu scritta a partire dal 1322. Venne lasciata incompiuta a causa della morte dell'autore, per peste, nel 1348.
  6. Tasso era nato a Sorrento, ma lavorò al servizio degli Este e dei Gonzaga.
  7. Tesauro era torinese. Come il modello geocentrico esce distrutto dalla sperimentazione che Galileo Galilei conduce con il suo cannocchiale, così i principi fondamentali e i modelli dell’arte e della lingua sono modificati dall'opera di Tesauro che alla rivoluzione galileiana rimanda fin dal titolo. Nel trattato, l'attenzione è rivolta soprattutto alla Metafora che per Tesauro è la figura retorica per eccellenza in quanto riesce a collegare fenomeni lontani attraverso l'analogia che sta alla base.
  8. L’Accademia del Cimento fu fondata a Firenze nel 1657 da alcuni allievi di Galileo, come Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani.