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Il Linguaggio poetico: crisi e
rinnovamento
Dall’antica alla nuova specificità della
lingua poetica
Come abbiam o visto, fino all’Ottocento la lingua poetica aveva mantenuto una
continuità secolare, fondata sulla specificità della sua grammatica e del suo
lessico. Questi caratteri tradizionali cominciano a essere intaccati dalle esigenze
del realismo già in età romantica.
Il risultato è però l’ibridismo, la compresenza di vecchio e di nuovo, la
sopravvivenza di forme poetiche tradizionali (come pietade, nol ‘non lo’, immago
‘immagine’, guardar ‘guardarono’ ecc.) e il persistere del tradizionale bagaglio
lessicale “nobile” (comprese le perifrasi come arabo legume per ‘caffè’), accanto
a elementi prosaici e quotidiani.
La continuità con la tradizionale grammatica della poesia e la permanenza
dell’ibridismo si avvertono ancora nei poeti tardo-ottocenteschi, anche in chi
innova vistosamente nelle tematiche e nel metro come Carducci.
Poesia tra vecchio e nuovo
Ecco, per esempio, le prime due strofe della Clarina, ballata romantica di
Giovanni Berchet (1822, vv. 1-12):
Sotto i pioppi della Dora
dove l’onda è più romita,
ogni dì, su l’ultim’ora,
s’ode un suono di dolor.
È Clarina, a cui la vita
rodon l’ansie dell’amor.
Poveretta! Di Gismondo
piange i stenti, a lui sol pensa.
Fuggitivo, vagabondo,
pena il misero i suoi dì,
mentre assiso a regal mensa
ride il vil che lo tradì.
Poesia tra vecchio e nuovo
Con i poeti della Scapigliatura (Arrigo Boiro, Giovanni
Camerana, Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti…) si rinnova
il repertorio tematico, in direzione del bizzarro ma
anche del quotidiano.
La lingua poetica si apre a neoformazioni e a termini
settoriali (lauro cèraso, miosòtidi), a voci alloglotte
Gli Scapigliati
collocate in posizione di rima (Boito: ad hoc: Koch; Camerana: tramway: guai;
Praga: fé: gilet), anche se persistono arcaismi e varianti poetiche (arbore, alma)
accanto alle forme più comuni (albero, anima). La sintassi si fa più discorsiva e il
parlato si insinua nei versi: si avvia un processo di dissoluzione del tradizionale
monolinguismo di stampo petrarchesco e del distacco tra poesia e prosa.
Questo processo si intensifica a fine Ottocento
con Giovanni Pascoli (Myricae, 1891; Canti di
Castelvecchio, 1903): la sua sintassi è lineare e
paratattica, spezzata dalla densa punteggiatura,
assume un andamento colloquiale che avrà
forti conseguenze sulla poesia successiva
(«L’altr’anno, ero malato, ero lontano, / a
Messina: col tifo»; La mia malattia, vv. 1-2).
Giovanni Pascoli
Anche se nella poesia pascoliana restano lessemi poetici tradizionali
(divo ‘divino’, oblìo ‘dimenticanza’ ecc.), il suo sperimentalismo innova
con l’uso inedito dell’onomaropea in chiave fonosimbolica ed evocativa
(con riproduzione di rumori e suoni di animali: chiù, in L’assiuolo; un tac
tac di capinere... un tintin di pettirossi, in La pania) , con l’impiego di
dialettismi e voci colloquiali, di tecnicismi dell’agricoltura, della botanica,
della zoologia (cerro, capinera, pettirosso, cardellino, cinciallegra ecc.).
Nel poemetto ltaly (1904) lo scarto dalla lingua poetica tradizionale è
particolarmente forte: non solo è riprodotto il parlato italoamericano
degli emigrati lucchesi, ma rimano tra loro parole straniere e italiane
(Molly: colli, febbraio: Ohio, gelo: fellow ecc.).
Giovanni Pascoli
In direzione opposta rispetto alla quotidianità e al
realismo, ma non meno innovativa, è l’esperienza
poetica dannunziana, che avrà un influsso notevole
sulla poesia novecentesca tendente a una lingua ‘alta’.
Anche in Gabriele D’Annunzio hanno grande peso
l’elemento fonico e le terminologie speciali, di sapore
però arcaizzante e raro, recuperare attraverso attenti
spogli dai vocabolari (coriandro ‘coriandolo’, appio
‘sedano’, crambe ‘cavolo di mare’, pancrazio ‘giglio
marino’).
Gabriele D’Annunzio
Varianti fonetiche arcaizzanti (laude ‘lode’, drama ‘dramma’), voci rare e
arcaismi, desunti spesso da testi trecenteschi, vengono infatti riesumati e
rivitalizzati per costituire un ricchissimo lessico poetico, impreziosito anche dalle
novità stilistiche e sintattiche, oltre che metriche.
Anche nella formazione delle parole è esibita una ricerca attenta, come nei verbi
parasintetici, di ascendenza dantesca, formati da aggettivi o nomi (s’inazzurra,
s’inciela). Nella raccolta Alcyone (1903), considerata il vertice della sua lirica,
D’Annunzio utilizza con effetti fonici e fonosimbolici intere serie verbali
(«Sciacqua, sciaborda, / scroscia, schiocca, schianta, / romba, ride, canta, /
accorda, discorda», L’onda, vv. 63-66; «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien
come il fruscio che fan le foglie», La sera fiesolana, vv. 1-2).
Gabriele D’Annunzio
La poesia del primo Novecento sollecita, in modi diversi, il confronto con la
realtà e la frattura con la tradizione. In direzione opposta rispetto al gusto
estetizzante dannunziano i poeti del crepuscolarismo operano un definitivo
distacco dalla lirica e un abbassamento della lingua poetica a livello della prosa,
impiegando un lessico comune e ripetitivo, in contrasto con la varietas di
tradizione petrarchesca, e una sintassi dialogica, frammentata e spesso
uniproposizionale, ricca di segnali discorsivi e di elementi fàtici.
La prosaicità contrasta però con relitti grammaticali aulici, come ei ‘egli’, facean,
spirto ecc., e con cultismi lessicali collocati spesso in sede di rima, con effetto
palesemente ironico, come oblìa: prozìa, Nietzsche: camicie, divino: intestino
(Guido Gozzano): la tecnica della rima dissonante, che crea forte contrasto tra
parole-rima colloquiali con parole rare e desuete, eserciterà un notevole
influsso.
I Crepuscolari
Se i crepuscolari innovano il repertorio linguistico e stilistico mantenendo
i contatti con la tradizione, l’avanguardia futurista, rivoluzionaria anche
nelle arti figurative e musicali e perfino nell’arte gastronomica, vuole
recidere ogni legame con il passato letterario, in nome del presente
dominato dall’industria e da nuove tecnologie, come quella
dell’automobile, dell’aeroplano, dell’elettricità.
I Futuristi
La nuova poesia, secondo i manifesti del caposcuola,
Filippo Tommaso Marinetti (il Manifesto tecnico della
Letteratura futurista è del 1912), impone un totale
sovvenimento linguistico: fra l’altro le “parole in
libertà” e l’anarchia in campo metrico e sintattico,
l’eliminazione della punteggiatura e l’introduzione di
segni matematici (come > ) e di caratteri grafici
particolari, le onomatopee, l’uso di elementi nominali
senza verbo e l’impiego del verbo solo all’infinito,
l’unione di parole in funzione di analogia, senza nessi
(tipo uomo-torpediniera ecc.), che lasceranno il segno
nelle successive sperimentazioni poetiche.
I Futuristi
Non sono però i crepuscolari e neppure i futuristi ad aprire la via alla nuova
lingua poetica novecentesca, ma piuttosto i poeti della rivista fiorentina La Voce
(1908-16), che rifiutano sia la tradizione sia la medietà linguistica in nome di
un’infaticabile e personale ricerca espressiva.
Caratteristica comune dei vociani (come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro,
Dino Campana) è la vocazione fortemente sperimentale; la tendenza
espressionistica è una deviazione dalla norma, specialmente nel lessico e nella
formazione delle parole: sostantivi deverbali a suffisso zero (rispecchio,
spalanco, trabocco); verbi parasintetici (s’inombrano); giustapposizione e
condensazione di elementi (soffi-brezze, riso-rifugio); metafore accorciate
sorrette dal di (pupille d’eclissi e d’assenzio); spostamenti grammaticali (verbi da
intransitivi a transitivi e viceversa: il corso pullula Luci; tu sgretoli giù) .
I Vociani
La ricerca espressiva culminerà con le prime esperienze
di Giuseppe Ungaretti (Allegria, 1916-19) che ridurrà al
minimo l’impalcatura grammaticale e l’ossatura
sintattica della sua lingua poetica, potenziando la
concentrazione semantica delle analogie e le arditezze
grammaticali che reinventano il valore delle parole (il
limpido stupore dell’immensità, ci vendemmia il sole).
La lingua della poesia tende così nuovamente a una sua
specificità, che però nel secondo Ungaretti (Sentimento
dei tempo, 1933-43) ha caratteri meno sperimentali e di
maggiore compostezza formale e uniformità stilistica.
Giuseppe Ungaretti
La nuova grammatica della poesia è fissata dall’ermetismo, il movimento che
ricercava l’autonomia totale della parola poetica come fuga dal presente.
I poeti ermetici (tra i maggiori Salvarore Quasimodo, Alfonso Gatto, Mario Luzi),
forzando la lingua verso l’allusività e l’astrazione, codificano appunto, pur nella
diversità dei loro esiti artistici, una serie di fenomeni stilistici e linguistici ben
riconoscibili, come…
• l’ellissi dell’articolo
• il plurale per il singolare (Luzi: i soli d’inverno)
• l’uso polivalente delle preposizioni a, di, in, su
• la sintassi fortemente nominale
• gli attacchi con E, Ma
Gli Ermetici
Si differenzia la sperimentazione originale e complessa di
Eugenio Montale, caratterizzata dal plurilinguismo
lessicale, con passaggi dalla parola rara e letteraria (con
richiami danteschi, pascoliani, dannunziani) al tecnicismo,
al dialettismo ligure, allo stranierismo: e con discese,
nell’ultima stagione poetica (Satura, 1971), verso un
registro più colloquiale, scopertamente ironizzato anche
attraverso l’uso di stereotipi, come in Fanfara:
La guerra /quando sia progressista / perché invade /
violenta non violenta / secondo accade / ma sia l’ultima /
e lo è sempre / per sua costituzione / tu dimmi /
disingaggiato amico / a tutto questo / hai da fare
obiezioni?
Eugenio Montale
Una linea di media colloquialità attraversa peraltro la
poesia novecentesca:
da Umberto Saba, in cui sono presenti, accanto al lessico
quotidiano, relitti poetici tradizionali (voci come natia,
rimembranza, tedio; i consueti iperbati: «immensa fra voi
due fare una schiuma»)
a Cesare Pavese (Lavorare stanca, 1936), che introduce
tratti del parlato e dell’italiano popolare («anche a notte ci
passano macchine», «al la sera che l’acqua si stende
slavata» ccc.) .
Linguaggio poetico medio
Nel secondo dopoguerra, nel clima del neorealismo, si riduce
l’influsso della linea ermetica e si fa strada la tendenza a una lingua
poetica più accessibile: poeti come Attilio Bertolucci, Giorgio
Caproni, Pier Paolo Pasolini, Vittorio Sereni, Giovanni Giudici in
modi diversi e con motivazioni differenti si confrontano con
l’italiano ormai dell’uso, ne assumono i registri parlati e informali.
Negli ultimi decenni, mentre l’italiano diventa sempre più la lingua
di tutti, la lingua poetica tende spesso a incorporare il flusso del
parlato e gli elementi della dialogicità, mentre la sua “diversità” è
segnata quasi solo dalla sintassi (con l’uso di inversioni) e dal
sistema metrico e ritmico.
Neorealismo
Resta l’uso del dialetto in poesia, utilizzato
spesso come strumento di alta espressività
letteraria, in alternativa a una lingua media
e banale: ne è un esempio la produzione
poetica di Franco Loi (da I cart, 1973, a
Stròlegh, 1975, a Umber, 1992), che
intreccia il milanese della grande
letteratura dialettale alle varietà basse e
popolari, innestando voci arcaiche,
stranierismi e neoformazioni.
Il dialetto in poesia
L’italiano della narrativa
Linee di tendenza della narrativa italiana
post-manzoniana
Tra le principali linee di tendenza della narrativa si possono riconoscere
due macro-filoni principali:
• una linea centrale, di adesione a un italiano medio, ancora in
formazione tra Otto e Novecento e poi realtà comune sempre più
effettivamente presente a partire dal secondo dopoguerra
• una linea che rifiuta la medietà, puntando verso i piani alti della
lingua o verso il plurilinguismo espressionistico e la sperimentazione
linguistica. Oppure, con soluzioni e motivazioni diverse, attinge ai
dialetti, alle varietà regionali, fino a scendere alle varietà basse del
repertorio.
Linee di tendenza
Dopo Manzoni, mentre la narrativa ispirata al naturalismo continua
a essere caratterizzata da una certa eterogeneità, solo i maggiori
veristi, i siciliani Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De
Roberto arrivano a “inventare” una moderna medietà linguistica
che riavvicina il parlato allo scritto, ottenuta con tecniche
differenti e spesso con un faticoso lavoro di riscrittura, che elimina
punte linguistiche (toscanismi, dialettismi, forme letterarie auliche)
troppo vistose.
Verismo
Nei Malavoglia (1881), Verga, in conformità con la poetica dell’impersonalità e
con la tecnica di “occultamento” dell’aurore, riesce a creare un italiano di
omogenea colloquialità, in direzione però diversissima dal monolinguismo di
base fiorentina di Manzoni.
Sono relativamente pochi i sicilianismi, mentre vengono italianizzati molti
proverbi e modi di dire siciliani (come a buon cavallo non gli manca la sella, il
mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo), che sono veicolo della cultura
popolare. I sicilianismi vengono piuttosto mimetizzati nel tessuto linguistico
improntato al registro semicolto o popolare panitaliano, ottenuto con una
grande libertà morfosintattica, come l’uso del ci («ed ella ci aveva la bocca amara
davvero per quella sua Barbara che non aveva potuto maritare»), e altri
fenomeni di messa in rilievo (dislocazioni con ripresa pronominale: «Allo zio
Crocifisso gli finiva sempre così», «il pesce bisognava darlo per l’anima dei
morti», «La Longa aveva saputo educarla la figliuola» ecc.).
Giovanni Verga
L’elemento forse più caratteristico, che suscitò le
critiche dei contemporanei, è l’uso polivalente
del connettivo che (concordante anche con il
siciliano ca) utilizzata in un’ampia gamma di
funzioni («dimenava il capo che pareva una
campana senza batacchio davvero», «Che ci
andate poi per i Morti?» ecc.).
Giovanni Verga
Ma l’uniformità e al tempo stesso la polifonia linguistica del romanzo
sono in gran parte il risultato dell’impiego del discorso indiretto libero,
uno degli strumenti stilistici più significativi della sua narrativa.
Attraverso l’indiretto “libero” (cioè senza segnali introduttivi che segnano
il passaggio dalla voce del narratore a quella del personaggio, che in tal
modo vengono a sovrapporsi), Verga riesce infatti a far scomparire la voce
dell’autore e a far emergere il punto di vista dei personaggi: «La gente
diceva che la Lia era andata a stare con don Michele; già i Malavoglia non
avevano più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe dato del
pane». Si tratta di uno strumento sintattico-stilistico che Verga utilizzerà
anche nel romanzo successivo, il Mastro Don Gesualdo.
Giovanni Verga
In Mastro Don Gesualdo Verga mette a punto un altro importante
procedimento espressivo: la scomposizione analitica del tema
espresso dalla proposizione principale, soprattutto ricorrendo allo
stile nominale: «C’era il fior fiore della nobiltà: l’arciprete di Bugno,
lucente di raso nero; donna Giuseppina Alosi, carica di gioie; il
marchese Limoli, con la faccia e la parrucca del secolo scorso».
Giovanni Verga
La tecnica del discorso indiretto libero sarà largamente sfruttata,
con diverse funzioni e con diversi esiti, dalla narrativa
novecentesca: il procedimento sintattico-stilistico viene infatti
caricato di valenze psicologiche nella dimensione del monologo
interiore, specie dopo l’affermarsi delle teorie psicanalitiche
freudiane e la pubblicazione dell’Ulisse di James Joyce (1922).
Discorso indiretto libero
Dopo un esordio verista, con Il fu Mattia Pascal (1904) il
siciliano Luigi Pirandello sperimenta tecniche narrative
nuove, e prende le distanze da una lingua “regionalizzata”,
marcata geograficamente e socialmente, impiegando invece
una lingua neutra, all’opposto degli sperimentalismi
estetizzanti dannunziani, ma tuttavia innovativa: è un
parlato-scritto, ricco di monologhi interiori e intessuto di
Luigi Pirandello
moduli e di fenomeni enunciativi dell’oralità (interrogative, esclamative,
ripetizioni, sintassi frammentata), che Pirandello utilizzerà largamente nei
dialoghi del suo teatro.
Nella stessa direzione va la scelta di tradurre in italiano nel 1928 la sua
commedia Liolà (scritta nel 1917 in dialetto siciliano di Agrigento) che conferma
la sua opzione per una scrittura italiana deregionalizzata, ma vivificata da tratti
del parlato.
E così rientra in un progetto stilistico ben riconoscibile la
lingua narrativa media e uniforme, non segnata da
caratterizzazioni geografiche o sociali, di Alberto Moravia, a
partire dal suo primo romanzo, Gli indifferenti (1929), che
ritrae in negativo l’ambiente e la psicologia della classe
borghese.
Il lessico è ricco ma non ricercato, spesso con abbondanza di
Alberto Moravia
aggettivazione («un disgusto meschino e fastidioso», «Un sorriso goffo, stupido,
ed eccitato»), mentre la sintassi è semplificata, caratterizzata da frasi brevi e
giustapposte e dal frequente ricorso alla struttura nominale, priva di verbo («Il
cielo era grigio; poca gente passava; una automobile; ville; giardini; la rivoltella in
fondo alla tasca; il grilletto; il calcio»).
A questa linea di medietà, con l’assorbimento nello scritto della
fenomenologia del parlato, aderiscono anche scrittori che arrivano
a rifiutare il dialetto, che sarà strumento espressivo privilegiato
dalla narrativa del dopoguerra di ispirazione neorealista.
È programmatica la dichiarazione di Cesare Pavese nel suo diario, Il
mestiere di vivere (11 marzo 1949): «Il dialetto è sottostoria.
Bisogna invece correre il rischio e scrivere in lingua, cioè elaborare
e scegliere un gusto, uno stile, una retorica, un pericolo».
La medietà espressiva
La fortuna e i modelli della narrativa americana (a partire
dalla raccolta Americana, pubblicata da Elio Vittorini nel
1941) influiscono sulle scelte di scrittori come Vittorini e
Pavese, che ne furono anche traduttori:
la lingua di Conversazione in Sicilia (1938) di Vittorini, pur
nell’aura lirica e simbolica che contraddistingue il romanzo,
è caratterizzata da frasi brevi e dialoghi che si susseguono
con rapidi scambi di battute.
La medietà espressiva
Alla dialettalità ancora presente in Paesi tuoi (1941) di Pavese subentrano nei
successivi romanzi un italiano colloquiale e un andamento sintattico
frammentari, che pervadono uniformemente il narrato e i dialoghi.
A simili modalità espressive ricorrono anche autori come Carlo Cassola, Natalia
Ginzburg, Giorgio Bassani, che ricercano la semplicità e l’omogeneità stilistica,
ottenute con una sintassi scarna ed elementare e un lessico comune ed
essenziale.
Nelle sue opere e nel suo più fortunata romanzo, Lessico famigliare (1963), la
Ginzburg impiega un italiano lontano dalla letterarietà e vicino alla banalità del
parlato quotidiano, da cui preleva molti tratti (ridondanze pronominali: «A lui gli
La medietà espressiva
piacciono tanto i preti»; anacoluti e temi sospesi: «Mia
madre, i bambini piccoli le piacevano tutti»). La ricerca
espressiva, come dirà la scrittrice in La strada che va in città
(1964), va in direzione «di essere il più possibile asciutta e
secca. Volevo che ogni frase fosse come una scudisciata o uno
schiaffo».
Nel 1963 vengono pubblicati anche La giornata di uno scrutatore di
Itala Calvino e La tregua di Primo Levi, romanzi entrambi
linguisticamente importanti perché mostrano l’instaurarsi di un
nuovo rapporto della scrittura narrativa con l’italiano che sta
ormai diventando lingua anche parlata in tutta la Penisola.
Pur nella diversità degli esiti, è comune a questi autori la linearità
sintattica e la medierà del tessuto linguistico, con l’adozione di
tratti morfosintattici del neostandard (lui lei Loro soggetto, gli per
le ecc.), ma anche il ricorso alle lingue speciali, i prelievi dalla
lingua della scienza e della tecnologia come fonte di precisione e di
concretezza stilistica.
La medietà espressiva
Esperienze e soluzioni diversissime si sono poste contro la medietà
espressiva nella scrittura narrativa. A eversioni radicali puntano le
avanguardie novecentesche, dal futurismo alla neoavanguardia del
cosiddetto Gruppo ’63, che in un clima di rifiuto dell’ideologia
neocapitalista manipola provocatoriamente il linguaggio fino a
sperimentazioni di destrutturazione sintattica.
Oltre la lingua “media”
Già a inizio secolo il futurismo (del 1909 il primo Manifesto marinettiano, del
1912 il Manifesto tecnico della letteratura futurista) rifiutava la sintassi,
proponendo di usare le "parole in libertà", senza alcun legame frasale e
periodale, e reclamava l’esigenza di neoformazioni e di usare i più disparati
materiali linguistici.
La rivoluzione artistica e letteraria del futurismo si applicherà, negli anni trenta,
perfino alla letteratura gastronomica (La cucina futurista, di Marinetti e Fillìa,
1932): l’uso di analogie (bocconi simultanei e cangianti), neoformazioni
semantiche (bevanda dinamica, complesso plastico), nuovi formati
(aeropietanza, polibibita) e soprattutto i composti (cotolette-tennis,
carneplastico, svegliastomaco).
I Futuristi
Molte esperienze novecentesche puntano al recupero programmatico della
letterarietà. In posizione isolata si colloca l’aristocratica prosa di Gabriele
D’Annunzio: già con il primo romanzo, Il piacere (1889), lo scrittore prende le
distanze dalla medierà espressiva, ed elabora una lingua colta, ricercata,
intessuta di termini non comuni, diversi dal quotidiano, recuperati con
un’attenta ispezione dei vocabolari.
È frequente anche l’adozione di varianti dotte o anticheggianti, come de lo
‘dello’, su le ‘sulle’, imagine, dubio, ripa. Il gusto estetizzante e sperimentale
investe non solo il lessico, in cui si esibisce il preziosismo dannunziano, ma la
punteggiatura, la sintassi, il ritmo musicale.
Gabriele D’Annunzio
Con le Faville del Maglio (1911) D’Annunzio avvierà la sperimentazione di un
nuovo tipo di prosa, volutamente frammentaria ma non meno ricercata. È da
sottolineare infatti la modernità della sintassi frammentata, paratattica e
nominale del Notturno (1a ed. 1916), che avrà molta fortuna nella prosa
novecentesca:
Il bacino di San Marco, azzurro. / Il cielo da per tutto. / Stupore, disperazione. / Il
velo immobile delle lacrime. / Silenzio. / Il battito del motore. / Ecco i Giardini. /
Si volta nel canale. / A destra la ripa con gli alberi nudi, qualcosa di funebre e di
remoto. / Davanti a noi, nel cielo basso, in prossimità del suo rifugio, la forma
stupida e oscena di un pallone frenato, color d’argento. / Sono le tre del
pomeriggio, circa.
Gabriele D’Annunzio
La ricerca di una lingua narrativa lontana dall’italiano ‘medio’ accomuna molti
narratori del Novecento, dagli scrittori della rivista fiorentina La Voce (1908-16) e
della romana La Ronda (1919-23) fino a narratori recenti, come i siciliani
Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.
Oltre la lingua “media”
Ne è un esempio il romanzo Diceria dell’untore (1987),
dove Bufalino opta per una lingua improntata alla
letterarietà, complessa nell’architettura sintattica, ricca di
voci non comuni (chiarìa ‘chiarore’, prillare ‘girare’) e di
invenzioni lessicali (incantesimarsi ‘incantarsi’,
bambinamente ‘in modi da bambino’ ecc.).
Ci sono poi gli esperimenti di plurilinguismo del filone espressivista: in
alternativa all’uniformità e al monolinguismo manzoniano, anche la narrativa di
fine Ottocento elabora una lingua letteraria volutamente composita e
plurilingue.
Scrittori come il lombardo Carlo Dossi e il piemontese Giovanni Faldella o il
napoletano Vittorio Imbriani inventano impasti linguistici in cui fanno convivere
materiali diversi con un consapevole ‘urto’ di registri espressivi. Ecco che cosa
dichiarava programmaticamente Faldella (nella prefazione di A Vienna. Gita con
il lapis, 1874): «Vocaboli del trecento, del cinquecento, della parlata toscana e
piemontesismi: sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone;
tormentato il dizionario come un cadavere [...]. Così seguiterò finchè avrò carta e
fiato».
Oltre la lingua “media”
Arcaismi e neologismi, voci dotte e popolari,
dialettismi, tecnicismi delle lingue speciali e voci
poetiche sono ingredienti di raffinati pastiches
letterari, che troveranno ancora, in pieno Novecento,
sperimentatori della statura di Carlo Emilio Gadda.
La commistione di lingue e di dialetti e di registri
espressivi attuata dallo scrittore milanese,
dall’Adalgisa (1944) alla Cognizione del dolore
(pubblicato incompleto tra il 1938 e il1941), a Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), esprime
in chiave deformante la rivolta contro la lingua
banale e semplificata.
Carlo Emilio Gadda
La tradizione novecentesca “espressionistico-preziosa” prosegue, in antitesi al
naturalismo e all’appiattimento linguistico, e con valenze diverse, in autori
recenti e contemporanei come Stefano D’Arrigo (il suo romanzo Horcynus Orca,
dalla lunga gestazione, uscì nel 1975), Alberto Arbasino, Vincenzo Consolo,
Michele Mari.
In direzione del multilinguismo e del multistilismo, ma non dell’espressivismo, si
collocano anche importanti esperienze come quella di Riccardo Bacchelli, con il
suo grande romanzo storico, Il mulino del Po (1938-40), che pur evitando la
poliedrica inventività linguistica gaddiana rompe, nel suo largo spettro d’uso e
nel suo tenore elevato, i margini consueti del linguaggio formale letterario; o di
Elsa Morante, che, nei diversi esiti stilistici dei suoi romanzi (dalla «ricca e alta
letterarietà» di Menzogna e sortilegio fino al «dispiegato plurilinguismo» della
Storia), mantiene la costante di una straordinaria, superba ricchezza linguistica.
Oltre la lingua “media”
Il ricorso al dialetto e alle varietà si configura in modi diversi, soprattutto come
ricerca di adesione al reale e contrassegno linguistico del mondo popolare.
In concomitanza con la diffusione dell’italiano come lingua d’uso nazionale, la
narrativa di ispirazione neorealista del secondo dopoguerra attinge alle varietà
del repertorio (parallelamente alla lingua del cinema, come Paisà, 1946, di
Roberto Rossellini , o Ladri di biciclette, 1948, di Vittorio De Sica): si sfruttano i
dialetti e le varietà regionali di italiano, e dall’italiano medio si scende spesso
verso le varietà parlate basse, l’italiano popolare, i gerghi, il turpiloquio, in
direzione talora di una frattura ideologica operata attraverso lo strumento
linguistico, come in Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) di Pier Paolo
Pasolini.
Neorealismo
Sarà Italo Calvino a delineare modelli e tratti linguistici distintivi del
neorealismo, nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno del 1964:
Il “neorealismo” non fu una scuola[...]. Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una
molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle ltalie fino allora più
inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra - o che si
supponevano sconosciute - , senza la varierà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare
nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato "neorealismo". Ma non fu paesano nel senso del
verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una
rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in
quegli scrittori degli anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d’essere gli allievi diretti o
indiretti. [...] Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo
nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una
linea, ossia una specie di triangolo: i Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui
partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio.
Neorealismo
Con il progredire dell’italiano negli usi parlati, il dialetto può diventare sempre
di più ricerca memoriale e ricreazione mitica, come già nei primi romanzi di
Cesare Pavese (Paesi tuoi, 1941) o nella narrativa del veneto Luigi Meneghello
(Libera nos a Malo, 1963; Pomo Pero, 1974).
Oppure il dialetto può continuare a essere, in modi diversi, una riserva di
espressività per la narrativa italiana recente: da Silvia Ballestra (Il compleanno
dell’Iguana, 1991) ad Andrea Camilleri, che nel fortunatissimo ciclo ‘giallo’ del
commissario Montalbano e nei suoi romanzi a sfondo storico innesta
sapientemente il dialetto siciliano (dialetto locale di Porto Empedocle - Vigàta
nella finzione letteraria - , alternanza di italiano e dialetto, dialetto italianizzato)
nel tessuto linguistico italiano, slittando dall’effetto mimetico alla deformazione
ironica e parodistica.
Dialetto: memoria ed espressività
Le varietà basse e i gerghi giovanili, più che i dialetti, sono le risorse
espressive di narratori ‘ribelli’, come Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini,
1980), che ha influito anche sui giovani autori degli ultimi anni, etichettati
‘cannibali’ dopo l’antologia di Daniele Brolli (1996): tra i più noti, Tiziano
Scarpa, Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, oltre a Enrico Brizzi, autore del
fortunatissimo Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994).
La loro narrativa, ispirata al cinema pulp americano (Quentin Tarantino),
è solo in apparenza vicina ai modelli più bassi della letteratura di
consumo, ma in realtà molto consapevole, caratterizzata da un’abile
miscela di leggibilità e sperimentazione, ironia e patetismo, horror e
comicità.
Narrativa “cannibale”
La lingua ’cannibale’ pesca i suoi materiali, oltre che nel parlato
giovanile, nel dialetto e nelle varietà basse, anche nelle varietà
alte e nelle lingue speciali, nella letteratura gialla, nei media (il
parlato cinematografico e delle fiction americane), nei fumetti,
nella canzone rock. Sono questi, infatti, come s’è detto, i nuovi
modelli e i nuovi protagonisti della storia linguistica recente e
contemporanea.
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033 Tendenze dell'italiano poetico e narrativo

  • 1. Il Linguaggio poetico: crisi e rinnovamento Dall’antica alla nuova specificità della lingua poetica
  • 2. Come abbiam o visto, fino all’Ottocento la lingua poetica aveva mantenuto una continuità secolare, fondata sulla specificità della sua grammatica e del suo lessico. Questi caratteri tradizionali cominciano a essere intaccati dalle esigenze del realismo già in età romantica. Il risultato è però l’ibridismo, la compresenza di vecchio e di nuovo, la sopravvivenza di forme poetiche tradizionali (come pietade, nol ‘non lo’, immago ‘immagine’, guardar ‘guardarono’ ecc.) e il persistere del tradizionale bagaglio lessicale “nobile” (comprese le perifrasi come arabo legume per ‘caffè’), accanto a elementi prosaici e quotidiani. La continuità con la tradizionale grammatica della poesia e la permanenza dell’ibridismo si avvertono ancora nei poeti tardo-ottocenteschi, anche in chi innova vistosamente nelle tematiche e nel metro come Carducci. Poesia tra vecchio e nuovo
  • 3. Ecco, per esempio, le prime due strofe della Clarina, ballata romantica di Giovanni Berchet (1822, vv. 1-12): Sotto i pioppi della Dora dove l’onda è più romita, ogni dì, su l’ultim’ora, s’ode un suono di dolor. È Clarina, a cui la vita rodon l’ansie dell’amor. Poveretta! Di Gismondo piange i stenti, a lui sol pensa. Fuggitivo, vagabondo, pena il misero i suoi dì, mentre assiso a regal mensa ride il vil che lo tradì. Poesia tra vecchio e nuovo
  • 4. Con i poeti della Scapigliatura (Arrigo Boiro, Giovanni Camerana, Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti…) si rinnova il repertorio tematico, in direzione del bizzarro ma anche del quotidiano. La lingua poetica si apre a neoformazioni e a termini settoriali (lauro cèraso, miosòtidi), a voci alloglotte Gli Scapigliati collocate in posizione di rima (Boito: ad hoc: Koch; Camerana: tramway: guai; Praga: fé: gilet), anche se persistono arcaismi e varianti poetiche (arbore, alma) accanto alle forme più comuni (albero, anima). La sintassi si fa più discorsiva e il parlato si insinua nei versi: si avvia un processo di dissoluzione del tradizionale monolinguismo di stampo petrarchesco e del distacco tra poesia e prosa.
  • 5. Questo processo si intensifica a fine Ottocento con Giovanni Pascoli (Myricae, 1891; Canti di Castelvecchio, 1903): la sua sintassi è lineare e paratattica, spezzata dalla densa punteggiatura, assume un andamento colloquiale che avrà forti conseguenze sulla poesia successiva («L’altr’anno, ero malato, ero lontano, / a Messina: col tifo»; La mia malattia, vv. 1-2). Giovanni Pascoli
  • 6. Anche se nella poesia pascoliana restano lessemi poetici tradizionali (divo ‘divino’, oblìo ‘dimenticanza’ ecc.), il suo sperimentalismo innova con l’uso inedito dell’onomaropea in chiave fonosimbolica ed evocativa (con riproduzione di rumori e suoni di animali: chiù, in L’assiuolo; un tac tac di capinere... un tintin di pettirossi, in La pania) , con l’impiego di dialettismi e voci colloquiali, di tecnicismi dell’agricoltura, della botanica, della zoologia (cerro, capinera, pettirosso, cardellino, cinciallegra ecc.). Nel poemetto ltaly (1904) lo scarto dalla lingua poetica tradizionale è particolarmente forte: non solo è riprodotto il parlato italoamericano degli emigrati lucchesi, ma rimano tra loro parole straniere e italiane (Molly: colli, febbraio: Ohio, gelo: fellow ecc.). Giovanni Pascoli
  • 7. In direzione opposta rispetto alla quotidianità e al realismo, ma non meno innovativa, è l’esperienza poetica dannunziana, che avrà un influsso notevole sulla poesia novecentesca tendente a una lingua ‘alta’. Anche in Gabriele D’Annunzio hanno grande peso l’elemento fonico e le terminologie speciali, di sapore però arcaizzante e raro, recuperare attraverso attenti spogli dai vocabolari (coriandro ‘coriandolo’, appio ‘sedano’, crambe ‘cavolo di mare’, pancrazio ‘giglio marino’). Gabriele D’Annunzio
  • 8. Varianti fonetiche arcaizzanti (laude ‘lode’, drama ‘dramma’), voci rare e arcaismi, desunti spesso da testi trecenteschi, vengono infatti riesumati e rivitalizzati per costituire un ricchissimo lessico poetico, impreziosito anche dalle novità stilistiche e sintattiche, oltre che metriche. Anche nella formazione delle parole è esibita una ricerca attenta, come nei verbi parasintetici, di ascendenza dantesca, formati da aggettivi o nomi (s’inazzurra, s’inciela). Nella raccolta Alcyone (1903), considerata il vertice della sua lirica, D’Annunzio utilizza con effetti fonici e fonosimbolici intere serie verbali («Sciacqua, sciaborda, / scroscia, schiocca, schianta, / romba, ride, canta, / accorda, discorda», L’onda, vv. 63-66; «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie», La sera fiesolana, vv. 1-2). Gabriele D’Annunzio
  • 9. La poesia del primo Novecento sollecita, in modi diversi, il confronto con la realtà e la frattura con la tradizione. In direzione opposta rispetto al gusto estetizzante dannunziano i poeti del crepuscolarismo operano un definitivo distacco dalla lirica e un abbassamento della lingua poetica a livello della prosa, impiegando un lessico comune e ripetitivo, in contrasto con la varietas di tradizione petrarchesca, e una sintassi dialogica, frammentata e spesso uniproposizionale, ricca di segnali discorsivi e di elementi fàtici. La prosaicità contrasta però con relitti grammaticali aulici, come ei ‘egli’, facean, spirto ecc., e con cultismi lessicali collocati spesso in sede di rima, con effetto palesemente ironico, come oblìa: prozìa, Nietzsche: camicie, divino: intestino (Guido Gozzano): la tecnica della rima dissonante, che crea forte contrasto tra parole-rima colloquiali con parole rare e desuete, eserciterà un notevole influsso. I Crepuscolari
  • 10. Se i crepuscolari innovano il repertorio linguistico e stilistico mantenendo i contatti con la tradizione, l’avanguardia futurista, rivoluzionaria anche nelle arti figurative e musicali e perfino nell’arte gastronomica, vuole recidere ogni legame con il passato letterario, in nome del presente dominato dall’industria e da nuove tecnologie, come quella dell’automobile, dell’aeroplano, dell’elettricità. I Futuristi
  • 11. La nuova poesia, secondo i manifesti del caposcuola, Filippo Tommaso Marinetti (il Manifesto tecnico della Letteratura futurista è del 1912), impone un totale sovvenimento linguistico: fra l’altro le “parole in libertà” e l’anarchia in campo metrico e sintattico, l’eliminazione della punteggiatura e l’introduzione di segni matematici (come > ) e di caratteri grafici particolari, le onomatopee, l’uso di elementi nominali senza verbo e l’impiego del verbo solo all’infinito, l’unione di parole in funzione di analogia, senza nessi (tipo uomo-torpediniera ecc.), che lasceranno il segno nelle successive sperimentazioni poetiche. I Futuristi
  • 12. Non sono però i crepuscolari e neppure i futuristi ad aprire la via alla nuova lingua poetica novecentesca, ma piuttosto i poeti della rivista fiorentina La Voce (1908-16), che rifiutano sia la tradizione sia la medietà linguistica in nome di un’infaticabile e personale ricerca espressiva. Caratteristica comune dei vociani (come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana) è la vocazione fortemente sperimentale; la tendenza espressionistica è una deviazione dalla norma, specialmente nel lessico e nella formazione delle parole: sostantivi deverbali a suffisso zero (rispecchio, spalanco, trabocco); verbi parasintetici (s’inombrano); giustapposizione e condensazione di elementi (soffi-brezze, riso-rifugio); metafore accorciate sorrette dal di (pupille d’eclissi e d’assenzio); spostamenti grammaticali (verbi da intransitivi a transitivi e viceversa: il corso pullula Luci; tu sgretoli giù) . I Vociani
  • 13. La ricerca espressiva culminerà con le prime esperienze di Giuseppe Ungaretti (Allegria, 1916-19) che ridurrà al minimo l’impalcatura grammaticale e l’ossatura sintattica della sua lingua poetica, potenziando la concentrazione semantica delle analogie e le arditezze grammaticali che reinventano il valore delle parole (il limpido stupore dell’immensità, ci vendemmia il sole). La lingua della poesia tende così nuovamente a una sua specificità, che però nel secondo Ungaretti (Sentimento dei tempo, 1933-43) ha caratteri meno sperimentali e di maggiore compostezza formale e uniformità stilistica. Giuseppe Ungaretti
  • 14. La nuova grammatica della poesia è fissata dall’ermetismo, il movimento che ricercava l’autonomia totale della parola poetica come fuga dal presente. I poeti ermetici (tra i maggiori Salvarore Quasimodo, Alfonso Gatto, Mario Luzi), forzando la lingua verso l’allusività e l’astrazione, codificano appunto, pur nella diversità dei loro esiti artistici, una serie di fenomeni stilistici e linguistici ben riconoscibili, come… • l’ellissi dell’articolo • il plurale per il singolare (Luzi: i soli d’inverno) • l’uso polivalente delle preposizioni a, di, in, su • la sintassi fortemente nominale • gli attacchi con E, Ma Gli Ermetici
  • 15. Si differenzia la sperimentazione originale e complessa di Eugenio Montale, caratterizzata dal plurilinguismo lessicale, con passaggi dalla parola rara e letteraria (con richiami danteschi, pascoliani, dannunziani) al tecnicismo, al dialettismo ligure, allo stranierismo: e con discese, nell’ultima stagione poetica (Satura, 1971), verso un registro più colloquiale, scopertamente ironizzato anche attraverso l’uso di stereotipi, come in Fanfara: La guerra /quando sia progressista / perché invade / violenta non violenta / secondo accade / ma sia l’ultima / e lo è sempre / per sua costituzione / tu dimmi / disingaggiato amico / a tutto questo / hai da fare obiezioni? Eugenio Montale
  • 16. Una linea di media colloquialità attraversa peraltro la poesia novecentesca: da Umberto Saba, in cui sono presenti, accanto al lessico quotidiano, relitti poetici tradizionali (voci come natia, rimembranza, tedio; i consueti iperbati: «immensa fra voi due fare una schiuma») a Cesare Pavese (Lavorare stanca, 1936), che introduce tratti del parlato e dell’italiano popolare («anche a notte ci passano macchine», «al la sera che l’acqua si stende slavata» ccc.) . Linguaggio poetico medio
  • 17. Nel secondo dopoguerra, nel clima del neorealismo, si riduce l’influsso della linea ermetica e si fa strada la tendenza a una lingua poetica più accessibile: poeti come Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini, Vittorio Sereni, Giovanni Giudici in modi diversi e con motivazioni differenti si confrontano con l’italiano ormai dell’uso, ne assumono i registri parlati e informali. Negli ultimi decenni, mentre l’italiano diventa sempre più la lingua di tutti, la lingua poetica tende spesso a incorporare il flusso del parlato e gli elementi della dialogicità, mentre la sua “diversità” è segnata quasi solo dalla sintassi (con l’uso di inversioni) e dal sistema metrico e ritmico. Neorealismo
  • 18. Resta l’uso del dialetto in poesia, utilizzato spesso come strumento di alta espressività letteraria, in alternativa a una lingua media e banale: ne è un esempio la produzione poetica di Franco Loi (da I cart, 1973, a Stròlegh, 1975, a Umber, 1992), che intreccia il milanese della grande letteratura dialettale alle varietà basse e popolari, innestando voci arcaiche, stranierismi e neoformazioni. Il dialetto in poesia
  • 19. L’italiano della narrativa Linee di tendenza della narrativa italiana post-manzoniana
  • 20. Tra le principali linee di tendenza della narrativa si possono riconoscere due macro-filoni principali: • una linea centrale, di adesione a un italiano medio, ancora in formazione tra Otto e Novecento e poi realtà comune sempre più effettivamente presente a partire dal secondo dopoguerra • una linea che rifiuta la medietà, puntando verso i piani alti della lingua o verso il plurilinguismo espressionistico e la sperimentazione linguistica. Oppure, con soluzioni e motivazioni diverse, attinge ai dialetti, alle varietà regionali, fino a scendere alle varietà basse del repertorio. Linee di tendenza
  • 21. Dopo Manzoni, mentre la narrativa ispirata al naturalismo continua a essere caratterizzata da una certa eterogeneità, solo i maggiori veristi, i siciliani Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De Roberto arrivano a “inventare” una moderna medietà linguistica che riavvicina il parlato allo scritto, ottenuta con tecniche differenti e spesso con un faticoso lavoro di riscrittura, che elimina punte linguistiche (toscanismi, dialettismi, forme letterarie auliche) troppo vistose. Verismo
  • 22. Nei Malavoglia (1881), Verga, in conformità con la poetica dell’impersonalità e con la tecnica di “occultamento” dell’aurore, riesce a creare un italiano di omogenea colloquialità, in direzione però diversissima dal monolinguismo di base fiorentina di Manzoni. Sono relativamente pochi i sicilianismi, mentre vengono italianizzati molti proverbi e modi di dire siciliani (come a buon cavallo non gli manca la sella, il mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo), che sono veicolo della cultura popolare. I sicilianismi vengono piuttosto mimetizzati nel tessuto linguistico improntato al registro semicolto o popolare panitaliano, ottenuto con una grande libertà morfosintattica, come l’uso del ci («ed ella ci aveva la bocca amara davvero per quella sua Barbara che non aveva potuto maritare»), e altri fenomeni di messa in rilievo (dislocazioni con ripresa pronominale: «Allo zio Crocifisso gli finiva sempre così», «il pesce bisognava darlo per l’anima dei morti», «La Longa aveva saputo educarla la figliuola» ecc.). Giovanni Verga
  • 23. L’elemento forse più caratteristico, che suscitò le critiche dei contemporanei, è l’uso polivalente del connettivo che (concordante anche con il siciliano ca) utilizzata in un’ampia gamma di funzioni («dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero», «Che ci andate poi per i Morti?» ecc.). Giovanni Verga
  • 24. Ma l’uniformità e al tempo stesso la polifonia linguistica del romanzo sono in gran parte il risultato dell’impiego del discorso indiretto libero, uno degli strumenti stilistici più significativi della sua narrativa. Attraverso l’indiretto “libero” (cioè senza segnali introduttivi che segnano il passaggio dalla voce del narratore a quella del personaggio, che in tal modo vengono a sovrapporsi), Verga riesce infatti a far scomparire la voce dell’autore e a far emergere il punto di vista dei personaggi: «La gente diceva che la Lia era andata a stare con don Michele; già i Malavoglia non avevano più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe dato del pane». Si tratta di uno strumento sintattico-stilistico che Verga utilizzerà anche nel romanzo successivo, il Mastro Don Gesualdo. Giovanni Verga
  • 25. In Mastro Don Gesualdo Verga mette a punto un altro importante procedimento espressivo: la scomposizione analitica del tema espresso dalla proposizione principale, soprattutto ricorrendo allo stile nominale: «C’era il fior fiore della nobiltà: l’arciprete di Bugno, lucente di raso nero; donna Giuseppina Alosi, carica di gioie; il marchese Limoli, con la faccia e la parrucca del secolo scorso». Giovanni Verga
  • 26. La tecnica del discorso indiretto libero sarà largamente sfruttata, con diverse funzioni e con diversi esiti, dalla narrativa novecentesca: il procedimento sintattico-stilistico viene infatti caricato di valenze psicologiche nella dimensione del monologo interiore, specie dopo l’affermarsi delle teorie psicanalitiche freudiane e la pubblicazione dell’Ulisse di James Joyce (1922). Discorso indiretto libero
  • 27. Dopo un esordio verista, con Il fu Mattia Pascal (1904) il siciliano Luigi Pirandello sperimenta tecniche narrative nuove, e prende le distanze da una lingua “regionalizzata”, marcata geograficamente e socialmente, impiegando invece una lingua neutra, all’opposto degli sperimentalismi estetizzanti dannunziani, ma tuttavia innovativa: è un parlato-scritto, ricco di monologhi interiori e intessuto di Luigi Pirandello moduli e di fenomeni enunciativi dell’oralità (interrogative, esclamative, ripetizioni, sintassi frammentata), che Pirandello utilizzerà largamente nei dialoghi del suo teatro. Nella stessa direzione va la scelta di tradurre in italiano nel 1928 la sua commedia Liolà (scritta nel 1917 in dialetto siciliano di Agrigento) che conferma la sua opzione per una scrittura italiana deregionalizzata, ma vivificata da tratti del parlato.
  • 28. E così rientra in un progetto stilistico ben riconoscibile la lingua narrativa media e uniforme, non segnata da caratterizzazioni geografiche o sociali, di Alberto Moravia, a partire dal suo primo romanzo, Gli indifferenti (1929), che ritrae in negativo l’ambiente e la psicologia della classe borghese. Il lessico è ricco ma non ricercato, spesso con abbondanza di Alberto Moravia aggettivazione («un disgusto meschino e fastidioso», «Un sorriso goffo, stupido, ed eccitato»), mentre la sintassi è semplificata, caratterizzata da frasi brevi e giustapposte e dal frequente ricorso alla struttura nominale, priva di verbo («Il cielo era grigio; poca gente passava; una automobile; ville; giardini; la rivoltella in fondo alla tasca; il grilletto; il calcio»).
  • 29. A questa linea di medietà, con l’assorbimento nello scritto della fenomenologia del parlato, aderiscono anche scrittori che arrivano a rifiutare il dialetto, che sarà strumento espressivo privilegiato dalla narrativa del dopoguerra di ispirazione neorealista. È programmatica la dichiarazione di Cesare Pavese nel suo diario, Il mestiere di vivere (11 marzo 1949): «Il dialetto è sottostoria. Bisogna invece correre il rischio e scrivere in lingua, cioè elaborare e scegliere un gusto, uno stile, una retorica, un pericolo». La medietà espressiva
  • 30. La fortuna e i modelli della narrativa americana (a partire dalla raccolta Americana, pubblicata da Elio Vittorini nel 1941) influiscono sulle scelte di scrittori come Vittorini e Pavese, che ne furono anche traduttori: la lingua di Conversazione in Sicilia (1938) di Vittorini, pur nell’aura lirica e simbolica che contraddistingue il romanzo, è caratterizzata da frasi brevi e dialoghi che si susseguono con rapidi scambi di battute. La medietà espressiva Alla dialettalità ancora presente in Paesi tuoi (1941) di Pavese subentrano nei successivi romanzi un italiano colloquiale e un andamento sintattico frammentari, che pervadono uniformemente il narrato e i dialoghi.
  • 31. A simili modalità espressive ricorrono anche autori come Carlo Cassola, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani, che ricercano la semplicità e l’omogeneità stilistica, ottenute con una sintassi scarna ed elementare e un lessico comune ed essenziale. Nelle sue opere e nel suo più fortunata romanzo, Lessico famigliare (1963), la Ginzburg impiega un italiano lontano dalla letterarietà e vicino alla banalità del parlato quotidiano, da cui preleva molti tratti (ridondanze pronominali: «A lui gli La medietà espressiva piacciono tanto i preti»; anacoluti e temi sospesi: «Mia madre, i bambini piccoli le piacevano tutti»). La ricerca espressiva, come dirà la scrittrice in La strada che va in città (1964), va in direzione «di essere il più possibile asciutta e secca. Volevo che ogni frase fosse come una scudisciata o uno schiaffo».
  • 32. Nel 1963 vengono pubblicati anche La giornata di uno scrutatore di Itala Calvino e La tregua di Primo Levi, romanzi entrambi linguisticamente importanti perché mostrano l’instaurarsi di un nuovo rapporto della scrittura narrativa con l’italiano che sta ormai diventando lingua anche parlata in tutta la Penisola. Pur nella diversità degli esiti, è comune a questi autori la linearità sintattica e la medierà del tessuto linguistico, con l’adozione di tratti morfosintattici del neostandard (lui lei Loro soggetto, gli per le ecc.), ma anche il ricorso alle lingue speciali, i prelievi dalla lingua della scienza e della tecnologia come fonte di precisione e di concretezza stilistica. La medietà espressiva
  • 33. Esperienze e soluzioni diversissime si sono poste contro la medietà espressiva nella scrittura narrativa. A eversioni radicali puntano le avanguardie novecentesche, dal futurismo alla neoavanguardia del cosiddetto Gruppo ’63, che in un clima di rifiuto dell’ideologia neocapitalista manipola provocatoriamente il linguaggio fino a sperimentazioni di destrutturazione sintattica. Oltre la lingua “media”
  • 34. Già a inizio secolo il futurismo (del 1909 il primo Manifesto marinettiano, del 1912 il Manifesto tecnico della letteratura futurista) rifiutava la sintassi, proponendo di usare le "parole in libertà", senza alcun legame frasale e periodale, e reclamava l’esigenza di neoformazioni e di usare i più disparati materiali linguistici. La rivoluzione artistica e letteraria del futurismo si applicherà, negli anni trenta, perfino alla letteratura gastronomica (La cucina futurista, di Marinetti e Fillìa, 1932): l’uso di analogie (bocconi simultanei e cangianti), neoformazioni semantiche (bevanda dinamica, complesso plastico), nuovi formati (aeropietanza, polibibita) e soprattutto i composti (cotolette-tennis, carneplastico, svegliastomaco). I Futuristi
  • 35. Molte esperienze novecentesche puntano al recupero programmatico della letterarietà. In posizione isolata si colloca l’aristocratica prosa di Gabriele D’Annunzio: già con il primo romanzo, Il piacere (1889), lo scrittore prende le distanze dalla medierà espressiva, ed elabora una lingua colta, ricercata, intessuta di termini non comuni, diversi dal quotidiano, recuperati con un’attenta ispezione dei vocabolari. È frequente anche l’adozione di varianti dotte o anticheggianti, come de lo ‘dello’, su le ‘sulle’, imagine, dubio, ripa. Il gusto estetizzante e sperimentale investe non solo il lessico, in cui si esibisce il preziosismo dannunziano, ma la punteggiatura, la sintassi, il ritmo musicale. Gabriele D’Annunzio
  • 36. Con le Faville del Maglio (1911) D’Annunzio avvierà la sperimentazione di un nuovo tipo di prosa, volutamente frammentaria ma non meno ricercata. È da sottolineare infatti la modernità della sintassi frammentata, paratattica e nominale del Notturno (1a ed. 1916), che avrà molta fortuna nella prosa novecentesca: Il bacino di San Marco, azzurro. / Il cielo da per tutto. / Stupore, disperazione. / Il velo immobile delle lacrime. / Silenzio. / Il battito del motore. / Ecco i Giardini. / Si volta nel canale. / A destra la ripa con gli alberi nudi, qualcosa di funebre e di remoto. / Davanti a noi, nel cielo basso, in prossimità del suo rifugio, la forma stupida e oscena di un pallone frenato, color d’argento. / Sono le tre del pomeriggio, circa. Gabriele D’Annunzio
  • 37. La ricerca di una lingua narrativa lontana dall’italiano ‘medio’ accomuna molti narratori del Novecento, dagli scrittori della rivista fiorentina La Voce (1908-16) e della romana La Ronda (1919-23) fino a narratori recenti, come i siciliani Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Oltre la lingua “media” Ne è un esempio il romanzo Diceria dell’untore (1987), dove Bufalino opta per una lingua improntata alla letterarietà, complessa nell’architettura sintattica, ricca di voci non comuni (chiarìa ‘chiarore’, prillare ‘girare’) e di invenzioni lessicali (incantesimarsi ‘incantarsi’, bambinamente ‘in modi da bambino’ ecc.).
  • 38. Ci sono poi gli esperimenti di plurilinguismo del filone espressivista: in alternativa all’uniformità e al monolinguismo manzoniano, anche la narrativa di fine Ottocento elabora una lingua letteraria volutamente composita e plurilingue. Scrittori come il lombardo Carlo Dossi e il piemontese Giovanni Faldella o il napoletano Vittorio Imbriani inventano impasti linguistici in cui fanno convivere materiali diversi con un consapevole ‘urto’ di registri espressivi. Ecco che cosa dichiarava programmaticamente Faldella (nella prefazione di A Vienna. Gita con il lapis, 1874): «Vocaboli del trecento, del cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi: sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone; tormentato il dizionario come un cadavere [...]. Così seguiterò finchè avrò carta e fiato». Oltre la lingua “media”
  • 39. Arcaismi e neologismi, voci dotte e popolari, dialettismi, tecnicismi delle lingue speciali e voci poetiche sono ingredienti di raffinati pastiches letterari, che troveranno ancora, in pieno Novecento, sperimentatori della statura di Carlo Emilio Gadda. La commistione di lingue e di dialetti e di registri espressivi attuata dallo scrittore milanese, dall’Adalgisa (1944) alla Cognizione del dolore (pubblicato incompleto tra il 1938 e il1941), a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), esprime in chiave deformante la rivolta contro la lingua banale e semplificata. Carlo Emilio Gadda
  • 40. La tradizione novecentesca “espressionistico-preziosa” prosegue, in antitesi al naturalismo e all’appiattimento linguistico, e con valenze diverse, in autori recenti e contemporanei come Stefano D’Arrigo (il suo romanzo Horcynus Orca, dalla lunga gestazione, uscì nel 1975), Alberto Arbasino, Vincenzo Consolo, Michele Mari. In direzione del multilinguismo e del multistilismo, ma non dell’espressivismo, si collocano anche importanti esperienze come quella di Riccardo Bacchelli, con il suo grande romanzo storico, Il mulino del Po (1938-40), che pur evitando la poliedrica inventività linguistica gaddiana rompe, nel suo largo spettro d’uso e nel suo tenore elevato, i margini consueti del linguaggio formale letterario; o di Elsa Morante, che, nei diversi esiti stilistici dei suoi romanzi (dalla «ricca e alta letterarietà» di Menzogna e sortilegio fino al «dispiegato plurilinguismo» della Storia), mantiene la costante di una straordinaria, superba ricchezza linguistica. Oltre la lingua “media”
  • 41. Il ricorso al dialetto e alle varietà si configura in modi diversi, soprattutto come ricerca di adesione al reale e contrassegno linguistico del mondo popolare. In concomitanza con la diffusione dell’italiano come lingua d’uso nazionale, la narrativa di ispirazione neorealista del secondo dopoguerra attinge alle varietà del repertorio (parallelamente alla lingua del cinema, come Paisà, 1946, di Roberto Rossellini , o Ladri di biciclette, 1948, di Vittorio De Sica): si sfruttano i dialetti e le varietà regionali di italiano, e dall’italiano medio si scende spesso verso le varietà parlate basse, l’italiano popolare, i gerghi, il turpiloquio, in direzione talora di una frattura ideologica operata attraverso lo strumento linguistico, come in Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) di Pier Paolo Pasolini. Neorealismo
  • 42. Sarà Italo Calvino a delineare modelli e tratti linguistici distintivi del neorealismo, nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno del 1964: Il “neorealismo” non fu una scuola[...]. Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle ltalie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra - o che si supponevano sconosciute - , senza la varierà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato "neorealismo". Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d’essere gli allievi diretti o indiretti. [...] Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: i Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio. Neorealismo
  • 43. Con il progredire dell’italiano negli usi parlati, il dialetto può diventare sempre di più ricerca memoriale e ricreazione mitica, come già nei primi romanzi di Cesare Pavese (Paesi tuoi, 1941) o nella narrativa del veneto Luigi Meneghello (Libera nos a Malo, 1963; Pomo Pero, 1974). Oppure il dialetto può continuare a essere, in modi diversi, una riserva di espressività per la narrativa italiana recente: da Silvia Ballestra (Il compleanno dell’Iguana, 1991) ad Andrea Camilleri, che nel fortunatissimo ciclo ‘giallo’ del commissario Montalbano e nei suoi romanzi a sfondo storico innesta sapientemente il dialetto siciliano (dialetto locale di Porto Empedocle - Vigàta nella finzione letteraria - , alternanza di italiano e dialetto, dialetto italianizzato) nel tessuto linguistico italiano, slittando dall’effetto mimetico alla deformazione ironica e parodistica. Dialetto: memoria ed espressività
  • 44. Le varietà basse e i gerghi giovanili, più che i dialetti, sono le risorse espressive di narratori ‘ribelli’, come Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini, 1980), che ha influito anche sui giovani autori degli ultimi anni, etichettati ‘cannibali’ dopo l’antologia di Daniele Brolli (1996): tra i più noti, Tiziano Scarpa, Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, oltre a Enrico Brizzi, autore del fortunatissimo Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994). La loro narrativa, ispirata al cinema pulp americano (Quentin Tarantino), è solo in apparenza vicina ai modelli più bassi della letteratura di consumo, ma in realtà molto consapevole, caratterizzata da un’abile miscela di leggibilità e sperimentazione, ironia e patetismo, horror e comicità. Narrativa “cannibale”
  • 45. La lingua ’cannibale’ pesca i suoi materiali, oltre che nel parlato giovanile, nel dialetto e nelle varietà basse, anche nelle varietà alte e nelle lingue speciali, nella letteratura gialla, nei media (il parlato cinematografico e delle fiction americane), nei fumetti, nella canzone rock. Sono questi, infatti, come s’è detto, i nuovi modelli e i nuovi protagonisti della storia linguistica recente e contemporanea. Narrativa “cannibale”

Notas del editor

  1. romita invece di solitaria; dì invece di giorno; s’ode invece di si sente; assiso invece di seduto;
  2. lauro cèraso (che è un tipo di pruno), miosòtidi (i fiori “non ti scordar di me”) Nella foto sono (da sx a dx) Emilio Praga, Carlo Dossi, Luigi Conconi
  3. I verbi parasintetici sono quelli formati con prefissi o suffissi
  4. Gli elementi fatici della comunicazione sono quelle parole (o gesti, o versi) che non esprimono un significato in sé, ma servono solo a mantenere il contatto con il destinatario del messaggio.
  5. L’immagine è di Luigi Russolo, Dynamisme d'une automobile
  6. Molte parti dell’Ulisse di Joyce sono sviluppate secondo quella particolare tecnica di scrittura, chiamata "flusso di coscienza” (stream of consciousness), in cui i pensieri del protagonista scorrono senza punteggiatura, per definire la contemporaneità e l'intricato procedimento cognitivo che sottostà ai processi mentali dell'io narrante
  7. Anche il triestino Italo Svevo si allontana consapevolmente dalle tematiche e dalle soluzioni espressive del naturalismo. La situazione di Svevo scrittore “di confine”, che ha il possesso del dialetto e del tedesco come lingue vive, e quello per lo più libresco dell’italiano, ha un riflesso nella sua scrittura, tendente al colloquiale e al quotidiano ma composita. Svevo, accusato dai contemporanei di “scriver male”, si mostrava insoddisfatto della sua lingua, segnata da incertezze residue e da interferenze con il tedesco e con il dialetto, come quartierino “appartamentino”, è male abbastanza “fa male”, usi impropri di preposizioni (pronto di fare, rinunziava di levarla), di ausiliari e di tempi e modi verbali. Ma nonostante la sua insicurezza linguistica, Svevo sperimenta un profondo rinnovamenro della scrittura narrativa, a partire dai primi romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898): e a questo progetto si adeguano le novità linguistiche e stilistiche, le peculiarità testuali e sintattiche che caratterizzano il maggiore romanzo sveviano di impianto psicanalitico, La coscienza di Zeno (1923).
  8. Natlìa Ginzburg
  9. Il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e alla teoria dello strutturalismo.
  10. Il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e alla teoria dello strutturalismo.
  11. I Malavoglia (Verga), Conversazione in Sicilia (Vittorini), Paesi tuoi (Pavese)