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CIR
COLO EVER
EST
s
pazio alla cultur
a
11 OTTOBRE 2014
WANNARIOT
RANCIDTRIBUTEBAND
CONCERTO
I.S.: Come nasce il vostro gruppo?
W.R.: Noi quattro ci conosciamo da
quando siamo adolescenti, cioè da
quando ognuno di noi ha iniziato
a suonare. Abbiamo anche avuto
altre esperienze insieme. Io, Patrick
e il Gio in particolare abbiamo fatto
parte di una “scena punk” che ora
farei fatica a dire se esista ancora o
no. Quando, da parte mia, ho avuto
la sensazione che continuare ad
avere un gruppo punk non potesse
più fare da collante tra me e ciò
che mi circondava, ho pensato che
comunque fosse l’occasione per
fare una fotografia di quello che
siamo stati e dire: ecco, guardate che
bello. Così ho iniziato a molestare
gli altri tre per fare questo progetto
di “tributo” ai nostri ispiratori, che
secondo noi, a chi ascolta musica in
generale, conviene conoscere.
I.S.: Se ti dico musica tu cosa mi
dici?
W.R.: Ti dico quello che significa per
me quando salgo su un palco, cioè
aggressività e tranquillità allo stesso
tempo. Per me è come una pace dei
sensi, non dico tanto il suonare in sé,
quanto l’esibizione live. Io ho sempre
vissuto la musica come dimensione
live, cioè come sua condivisione.
Suonare da solo in sala è una cosa
che non mi ha mai soddisfatto, per
me la tranquillità arriva solo quando
sono in mezzo ad altri e mi sento a
mio agio. Certo, chi ha suonato sa
benissimo che ci si può anche sentire
moltissimo a disagio in alcune
situazioni: l’esperienza e il lavoro
servono esattamente a limitare
queste situazioni. In secondo luogo
quando dico aggressività la collego
a una dimensione di protesta, anche
se primitiva perché senza obiettivi
precisi: è l’atto stesso della protesta a
partire dalle onde sonore frastagliate
e dai movimenti del corpo non
lineari.
I.S. Dove vedete i Wanna Riot tra
10 anni?
W.R.: Questo è un progetto che
potrebbe esistere all’infinito,
d’altronde lo facciamo per
divertimento e non è dedicato alle
nostre canzoni. Magari tra 10 anni
avrà ancora più senso che ora: ad
esempio, i Rancid esistono ancora,
questo rende un po’ irrazionale
omaggiarli come se se ne fossero
andati, ma questo lo facciamo
appunto perché pensiamo che il
meglio, in quell’ambito, sia andato.
Sia chiaro non siamo romantici
né nostalgici dell’età dell’oro,
solamente la musica ha preso
altre direzioni, che speriamo siano
ancora in grado di stupire. D’altro
canto, questo progetto continuerà
fintanto che ci divertirà e non certo
per un rinnovato business, perché
non è con questo che qualcuno
di noi diventerà una rock-star. Tra
10 anni potrebbe essere ancora
lo stesso come non esistere più,
oppure essere dedicato ad altri
gruppi che ci hanno influenzato,
chi lo sa.
I.S. C’è ancora spazio peril genere
Punk nel panorama italiano? O
forse dovremmo dire “C’è mai
stato?”
W.R. Certo che c’è stato. Alcuni
gruppi hanno fatto anche
un’ottima carriera, mi vengono in
mente i Punkreas e gli Shandon
che io ho sempre amato, altri come
gli Omini Verdi (in cui suona il Gio)
sono ancora in attività. Se questo
spazio ci sia ancora bisogna vedere
dove lo si cerca: nel mercato?
Allora secondo me no, perché i
gusti di massa sono cambiati e per
un altro motivo che si mescola alla
risposta che darò successivamente:
il punk è sempre stato legato a
minoranze sociali (non per forza
politicizzate) da un lato e ad alcuni
principi di autogestione dall’altro;
perso il legame con questo tipo
di esperienze, manca una base a
cui ancorare il mercato. Tuttavia…
esistono esperienze autonome, vere
eproprieisole,incuiilpunkpotrebbe
anche non morire mai (stiamo
sempre parlando della musica), ma
questo al di fuori del mercato.
I.S. un salto nel passato: quale
momento vi siete persi che ha
segnato il panorama musicale a cui
vi ispirate?
W.R. Ci siamo persi il ’77, siamo
nati tutti dopo. Un’epoca in cui la
violenza era all’ordine del giorno
come espressione di qualsiasi cosa:
arte, ideologia, politica. Il punk
in principio fu violenza in effetti.
Siamo cresciuti in un background
completamente differente, quello
degli anni ’90, in cui si cercava di
innestare quegli spunti artistici e
polemici in un panorama culturale
in cui la violenza era stata eliminata.
Diciamo quindi che non abbiamo
provato sulla nostra pelle cosa
significasse suonare in certi ambienti
nell’epoca in cui la musica cui ci
siamo ispirati è nata. A conti fatti,
potrebbe poi non essere una grossa
sfiga, ha poco senso pensare “cosa
avrei fatto se ci fossi stato nell’anno
x”…
I.S.: Tre parole per descrivere la
vostra musica
W.R. Passione, impulsività, sicurezza.
I.S.: Se ti dico Everest tu cosa mi
dici?
W.R. So che il nome è ereditato,
sarebbe interessante fare una ricerca
sul perché i locali da ballo un tempo
venivano chiamati con nomi esotici
e in base a quali gusti. Per quanto
riguarda il circolo, ieri è stata la prima
volta che ci abbiamo messo piede,
siete aperti da poco, quindi in bocca
al lupo per la vostra attività culturale!
11 OTTOBRE 2014 | Wanna Riot
COMPAGNIA CLUB SILENCIO
24 OTTOBRE 2014
DOTTORK
TEATRO
I.S.: Come nasce la Compagnia
Club Silencio?
La compagnia Club Silencio nasce
dalle cose meravigliose che ho visto
fare dai miei compagni durante le
lezioni di recitazione. Ho pensato
che avrei voluto vederle su un palco
e che quei ragazzi erano le uniche
persone che potevano mettere in
scena le cose folli che scrivo! Il nome
è un omaggio a David Lynch.
I.S.: Se ti dico “teatro” tu cosa mi
dici?
Se dici Teatro, rispondo Vita.
I.S.: Tre parole per descrivere il
vostro teatro.
Prendo in prestito una citazione
del nostro maestro di recitazione
(Stefano Fiorentino ) e dico: Sentire,
Diventare, Seguire.
I.S.: Cosa manca sul piano
culturale alla città di Expo 2015?
Milano può candidarsi ad essere la
città della Cultura e del teatro?
Io adoro Milano: è una città
coraggiosa, ambiziosa e
instancabile. E’ l’unica città
italiana che potrebbe candidarsi
a città della cultura e del teatro.
Riguardo l’Expo, in tutta onestà,
non saprei rispondere perché
non sto seguendo con molta cura
gli sviluppi. Posso solo dire che
un buon esempio di cultura e
coraggio a Milano è il Festival It –
Independent Theatre
I.S.: Se ti dico Everest tu cosa mi
dici?
Everest è uno spazio fantastico…a
me è piaciuto subito moltissimo.
Ha un’atmosfera insieme colorata
e retrò che trovo molto suggestiva.
E’ anche un esempio da seguire per
tutte quelle giovani compagnie che
vogliono aprire uno spazio.
24 OTTOBRE 2014 | Compagnia Club Silencio
COLLETTIVO PIRATE JENNY
14 NOVEMBRE 2014
POLLICINO2.0
TEATRO
I.S.: Come nasce la Compagnia
Collettivo Pirate Jenny?
CPJ nasce nel 2011 in occasione di
Play with Food, ma in realtà dopo
gli anni condivisi in accademia di
Susanna Beltrami a Milano avevamo
già provato a collaborare dal punto
di vista creativo, poi interrotti dal
necessario impegno, di tutti e tre, a
fare esperienza in Italia e all’estero
sotto la guida di altri registi e
coreografi. Nasce con la voglia di non
dividere i ruoli ma di mediare ogni
processo creativo facendolo filtrare
dallo sguardo dell’altro. Ovviamente
ognuno di noi ha un linguaggio più
affine e un modo di vedere la danza
o il teatro completamente diverso
da quello degli altri, ma lo sforzo di
trovare un comune denominatore
finora ha portato buoni frutti e
risultati inaspettati. Ciò che nasce dal
collettivo non assomiglia a nessuno
di noi tre, è qualcosa a sé, che però ci
appartiene paradossalmente.
I.S.: Se vi dico “teatro” voi cosa mi
dite?
Teatro è un mestiere come tutti gli
altri dove lo strumento è il corpo,
dove c’è fatica, pensiero, conflitti e
soprattutto una retribuzione. Non
crediamo in una missione salvifica,
né nell’ispirazione divina. Ci piace
pensare alla Valéry ovvero ad un
mestiere che rende necessario ciò
che è fondamentalmente inutile.
Gli effetti benefici del teatro si
sentono solo quando chi lo fa tiene
bene in mente il significato del
termine NECESSITA’.
I.S.: Tre parole per descrivere il
vostro teatro?
POP, comunicativo, leggero.
I.S.: che rapporto avete con la
città di Milano?
Milanoèlacittàincuinessunodinoi
è nato ma nella quale tutti abbiamo
decisodivivere.Perchéèbellissima,
perché è la Città italiana con la C
maiuscola. Paradossalmente, come
collettivo, a Milano non andiamo
quasi mai in scena. Il pubblico
Milanese è preparato, ironico,
presente, propositivo e disponibile.
Gli operatori, i distributori gli enti
preposti alle stagioni teatrali forse
dovrebbero prendere spunto.
Tuttavia realtà come teatro Pim Off,
Quelli di Grock, Artedanzaeventi,
hanno nell’ultimo anno dato un
grande aiuto al nostro progetto
artistico. Ne siamo molto felici.
I.S.: dal vostro punto di vista cosa
manca sul piano culturale alla
città di Expo 2015? Milano può
candidarsi ad essere la città della
Cultura e del teatro?
Milano è già un crocevia
culturale soprattutto per l’arte
contemporanea. Non sarà certo
L’expo ad aiutarla anzi, da abitanti
di Milano ci rendiamo conto che
Expo è orientata su altro rispetto alla
cultura. Manca un sincero Focus sulle
nuove realtà indipendenti lombarde.
I.S.: Se vi dico Everest voi cosa mi
dite?
Puntare in alto, sempre.
14 NOVEMBRE 2014 | Collettivo PirateJenny
13 DICEMBRE 2014
MAUROERMANNO
GIOVANARDI
CONCERTO
Cosa è rimasto dell’esperienza dei
La Crus?
I La Crus sono un progetto nato nel
’92, e nei 18 anni di vita trascorsi
insieme sono cambiate un sacco di
cose.
Ho imparato questo mestiere, sono
diventato un uomo. Sono stati 18
in cui sono cresciuto e maturato.
E’ stata un’esperienza bellissima
che a un certo punto abbiamo
saputo gestire malissimo. Perché
comunque dopo tanti anni che stai
insieme necessariamente tante cose
cambiano, cambiano i gusti musicali,
cambial’approccio. Elaverasfortuna
dei La Crus è che siamo stati sempre
fondamentalmente un duo; Alex
era parte dei La Crus ma era poco
presente. In studio, alle conferenze
stampa, ai concerti eravamo sempre
solo io e Cesare.
Per cui a un certo punto eravamo
consapevoli di andare a 200 all’ora
contro un muro, bendati. Diciamo
che da Crocevia in poi tra me e
Cesare le cose sono cambiate,
io avrei voluto continuare a fare
determinate cose e lui altre, si era
un po’ smembrata l’idea originale
dei La Crus. Per cui inevitabilmente,
come spesso accade, la coppia è
naufragata. I La Crus li ho sciolti io
perché un grande amore non merita
mediocrità, e per me i La Crus sono
stati un grande amore.
E poi la fase successiva. Parlaci
meglio di questa fase, cosa è
successo a tuo avviso quando i
la Crus hanno messo la parola
fine alla loro esperienza musicale
come gruppo? Ha inciso anche un
cambiamento generale dei gusti
del pubblico?
Secondo me è cambiato l’approccio
del pubblico alla musica, non tanto il
suo gusto. Io mi ricordo quando ero
ragazzetto, 20-22 anni. Andavo in un
negozio di dischi con 30mila lire in
tasca. Stavo ore a scegliere 15 dischi,
poi 10, poi 7, poi 5, fino a portarne
a casa 2 o 3. Quei 2-3 dischi che ti
portavi a casa li consumavi, perché
avevi fatto delle rinunce per averli.
Diciamo che internet è stata una
cosa importante ma è stata allo
stesso tempo una cosa che ha
massacrato la musica. Perché non
si vendono più dischi. Ricordo che
intorno ai primi anni ’90, quando
iniziavano ad esserci le prime
connessioni veloci, andavo a casa
di amici che avevano pigne di cd
masterizzati: dai più importanti
ai classici della musica. Ora non
si scarica neppure più la musica
perché occupa spazio sull’hard
disc. E secondo me se non paghi
per avere un bene, non gli dai il
giusto valore.
E qual è il tuo rapporto con
Spotify? Potrebbe essere
un’evoluzione del sistema
musicale che va incontro a artisti
e pubblico?
La mia musica è ascoltabile su
Spotify, ma di certo questo sistema
non va incontro ai musicisti. Ti può
dare un po’ più visibilità perché
sei presente. Ma se consideriamo
che già Itunes fa percepire un
guadagno nettamente inferiore a
quello SIAE, con Spotify anche se
ti scaricano un milione di pezzi la
percentuale che ti danno è ridicola.
Il problema è che non si vendono
più dischi, però gli studi di
registrazione continuano a costare
tanto. Noi siamo testimoni di
un passaggio epocale. Se vuoi
continuare a fare concerti, devi
continuare a fare dischi. E se poi
dopo tanti sacrifici il disco esce e
tutti se lo sono già scaricato gratis,
questo è un problema.
E’ un problema di fare dischi
interessanti. Se hai un budget di
30-40mila euro per fare un disco,
ti puoi permettere di avere un
produttore, un arrangiamento di
un certo tipo. Insomma ti puoi
permettere di fare qualcosa di più
di una serie di canzoni, qualcosa
di interessante dal punto di vista
artistico.
Se al posto di 30 mila euro ne hai
5-6mila, sei costretto a fare cose più
semplici.
E un artista come te come ha
reagito a questo cambiamento che
ha investito il sistema musicale?
Sto cercando di capirlo anch’io.
L’ultimo disco che ho appena finito
di incidere mi è costato tantissimo.
Credo che sia una delle cose più
belle che abbia fatto, non so se potrò
permettermi di fare ancora cose
così. Ci ho investito di mio anche.
Non so se sia giusto farlo, oppure per
quanto lo potrò fare ancora. Magari
sono pessimista ma i tempi sono
veramente critici.
Ma se c’è stato, qual è
l’errore commesso dalle case
discografiche?
Ci sono stati diversi errori, e
sicuramente quello più importante
è stato fatto a cavallo del millennio:
quanto uscì Napster per la
precisione.All’epocasarebbebastato
regolamentare in qualche modo
il sistema. Le case discografiche
hanno snobbato quello che stava
succedendo,delrestohannopassato
40 anni e dettare legge, facendo
spessissimo investimenti sbagliati.
Però a cavallo del millennio giravano
ancora tanti soldi. L’errore più
grosso è stato quello delle major di
snobbare questa nuova rivoluzione.
Finché, quando si sono accorte che
il virus poteva intaccare il corpo
della musica, era troppo tardi. Ora
siamo al punto che siamo andati
completamente fuori controllo. Uno
come Battiato, che vendeva 150mila-
200mila copie a disco, oggi se ne
vende 8-9mila è tanto.
E chi si salva?
Chi ha fatto delle scelte giuste, ma
alla fine l’hanno pagata un po’tutti.
13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi
La discografia con l’acqua alla gola
ha preso al balzo la moda dei talent,
che secondo me è stata la mazzata
definitiva. Perché prendi delle
scorciatoie incredibili a scapito della
qualità.
Al di là di quello che è il lascito
mortifero nelle generazioni più
piccole: immagina chi ha 16-17
anni che vede da anni X Factor, ha
interiorizzato che quello è “fare
musica”. Pensa se Leonard Cohen,
Nick Cave, Bob Dylan avessero
dovuto fare i provini… Questa è
una cosa orrenda perché poi da lì
vengono solamente interpreti.
Tu immagina che io sia un
discografico della Sony, la musica è
con l’acqua alla gola e io devo fare
fatturato. Ho sul tavolo un disco di
un giovane autore che è bravo, il
disco è molto bello; però so che
per farlo conoscere ci metto tre
anni, con molta fatica e molto
investimento. E dall’altra ho 3 o 4
artisti provenienti dal mondo dei
talent, che sono mesi che si fanno
promozione da soli, tutti i giorni,
visti da migliaia di ragazzini.
Io che devo fatturare e devo
rientrare subito dei costi non posso
fare altro che scegliere il prodotto
dei talent. Magari poi mi porto
a casa il lavoro dell’altro, oppure
chiedo all’artista di scrivere dei
pezzi per i giovani della tv. E poi si
arriva al paradosso che oltre a non
avere più la possibilità di fare le sue
cose, l’artista bravo, pur di lavorare,
è costretto a svendere i propri
pezzi – magari i più belli – alla prima
sgambettata di turno che dopo sei
mesi l’hanno bruciata. Da 10 anni
che esiste Amici, quanti ragazzi sono
passati da lì? E quanti sono davvero
emersi? Si possono contare su una
mano. Se vieni dalla periferia, arrivi
ad Amici, sei il reuccio del paese. Ma
poi se non fai gavetta e non arrivi con
qualche consapevolezza, ti bruci.
La cosa che non riescono a capire,
soprattuto a questa età, è che
una cosa così potente come la
televisione, non può essere un fine,
ma un mezzo. Se diventa un fine, tu
sei disposto a fare qualsiasi cosa pur
di stare lì dentro. A fare capriole, a
fare la ruota mente canti, a cantare
la qualunque.
L’illusione è che questa sia la cosa del
13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi
momento. Secondo me è la mazzata
finale che poteva succedere alla
musica.
La cosa triste è che ci siamo piazzati
davanti a una scatola, che sia la tv o
il computer, e se non passi dalla tv
non esisti. Puoi fare le cose più belle
del mondo, ma non c’è più spazio lì
dentro.
Quando mi chiedono un consiglio
da dare a un giovane che inizia a
fare questo lavoro, io in maniera un
po’ironica rispondo che gli consiglio
di andare a smazzare davanti alle
scuole. Avrà certamente un futuro
molto migliore…
Un’anticipazione sull’ultimo album
di inediti che hai appena finito di
registrare?
Ci ho lavorato tantissimo. Era quasi
già pronto prima che iniziassi a
lavorare a Maledetto colui che è
solo, il disco realizzato insieme al
Sinfonico Honolulu.
Ma siccome sono canzoni molto
importanti, belle, non volevo che
uscisse male. Ho voluto capire
bene con chi farlo, perché farlo e
farlo come volevo io. Per cui l’ho
messo in stand by e sono uscito
con il Sinfonico, un disco che mi
ha dato molte soddisfazioni. Nato
come uno scherzo è diventato un
disco di cui sono fierissimo.
Per cui ci lavoro da tanto, è un disco
che sicuramente è figlio di “Ho
sognatotroppol’altranotte”,macon
un approccio molto più naturale, è
un disco più soul, più disincantato.
C’è meno beat, è un’evoluzione
naturale. Per darti un’esempio:
lì per dare le coordinate precise
del viaggio che stavo facendo ho
recuperato due pezzi come Bang
Bang e Se perdo anche te. Mi sono
serviti per dare i connotati stilistici
musicali precisi. Qui l’unico pezzo
non inedito è un pezzo di Leo Ferrè,
che si chiama Il tuo stile. E’ un pezzo
con un’atmosfera più autorale, e
infatti il mio disco si chiamerà“Il mio
Stile”.
Sono molto contento, è un disco
più fresco, abbiamo deciso di non
usare gli archi ma una sezione
fiati più massiccia ma sopratutto
abbiamo lavorato con un quartetto
soul, molto simile a un 4+4 di Nora
Orlandi. Ci sono molte linee vocali
che sostituiscono gli archi. E’ un po’
più fresco, meno imponente.
Ci saranno dei duetti?
No, l’album si chiama “il mio stile” e
quindi canto solo io.
Il duetto che ti manca: qual
è l’artista con cui vorresti
interpretare un pezzo?
Mi piacerebbe scrivere un pezzo
e cantare con Mina… Una cosina
no?! Credo che abbia apprezzato Io
confesso, è una tipologia di pezzo
che lei potrebbe apprezzare. Non è
una certezza, è una sensazione.
13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi
16 GENNAIO 2015
LEMONHARD
CONCERTO
I.S.: Come nascono i Lemon Hard e
a chi parlano?
I Lemon Hard nascono dall’incontro
di Damiano Vilardo (voce e chitarra),
Alessandro Valentino (basso) e
Stefano Solida (batteria), tutti con
la passione comune per la musica e
con alle spalle altri progetti musicali.
Nell’inverno del 2013 si è deciso
di intraprendere questa nuova
avventura con la consapevolezza
delle difficoltá che caratterizzano
la musica e con l’amarezza di come
sia sempre più difficile oggi farsi
ascoltare esprimendo la propria
arte. Per tale ragione si è deciso di
suonare per far divertire noi stessi
e quanti partecipano ai nostri
concerti. Parallelamente stiamo
lavorando al nostro progetto di
inediti che porteremo in giro (si
spera) una volta terminate e definite
tutte le tracce. Nell’estate 2014 ha
sostituito l’amico Andrea (ex chitarra
solista), Giulio Avella che ha portato
nella band nuove idee ed un pizzico
di esperienza in più nella parte
melodica dei brani.
I.S. Cosa vi spinge a fare musica?
Come tutti i musicisti, ciò che ci
spinge a fare musica è l’esigenza di
esprimere, comunicare qualcosa…
Non è una“frase fatta”; la nostra idea
è quella di divertirci per divertire, far
ballare le persone, far apprezzare o
al contrario odiare qualcosa che noi
trasmettiamo.
I.S. Un sogno nel cassetto.
Il nostro sogno nel cassetto è
quello di terminare il nostro
progetto di inediti con la speranza
che cambi qualcosa nell’attuale
panorama musicale dove c’è
sempre meno spazio per le band
emergenti con delle idee proprie
e non contaminate dalla vena
commerciale di molte etichette.
I.S. Dovevorrestevedere i Lemon
Hard tra 5 anni?
Fuori dall’Italia a far musica. Non ci
riferiamo ovviamente a Wembley
o al Madison Square Garden, ma
in giro per strade del mondo a far
musica, la nostra musica, entrando
in contatto con nuove realtà e
nuove culture non solo musicali.
I.S.: Se vi dico “musica” voi cosa
mi dite?
Se ci dici musica…dovremmo
dirti troppe cose. Per noi, ma
sicuramente come per tutti
quelli che fanno musica e che
amano la musica, rappresenta
un elemento fondamentale ed
inscindibile della nostra vita. Ti
parliamo non solo della musica
suonata, ma della musica in senso
ampio e generalizzato che viene
vissuta come quell’ elemento
che caratterizza e che condiziona
il nostro essere. Musica quale
colonna sonora che scandisce le
nostre giornate.
I.S.: Tre parole per descrivere la
vostra musica.
Treparole?Incontri,passione,limoni.
I.S. Milano è ancora un buon palco
per le band rock emergenti come
la vostra?
L’Italia in genere – è un luogo
comune, purtroppo vero – non
è più un buon palco per le band
emergenti. Tuttavia, Milano dà
ancora qualche minima possibilità
in più per farsi conoscere e farsi
ascoltare. Non si può negare poi che
ladifficilesituazionedelnostroPaese
incide anche sugli investimenti in
musica. Primo fra tutti quello che
dovrebbero fare i locali: permettono
sempre meno di far suonare le band
elamaggiorpartedellevoltesembra
quasi che siano le band stesse a
dover investire sul locale, quando in
realtá la musica dovrebbe essere un
investimento.
I.S. Quanto c’è di Milano nei vostri
pezzi?
Nei nostri pezzi non si parla mai di
Milano, quanto di realtá e vissuti
che prescindono dai luoghi. E poi,
essendo tutti del sud, siamo di parte
e ci facciamo ispirare da luoghi
sicuramente diversi!!
I.S.: Se vi dico Circolo Everest voi
cosa mi dite?
Un’opportunità, un esempio da
seguire.
16 GENNAIO 2015 | Lemon Hard
30 GENNAIO 2015
LOUCASHAND
THETYREKICKERS
CONCERTO
I.S. Chi sono i Lou Cash and the
Tyre Kickers e a chi parlano?
Beh, siamo quattro amici che
si divertono facendo musica.
Potremmo sembrare “roba passata”,
ma in realtà ci sentiamo molto
attuali: il rock n’roll, il rockabilly sono
ancora tremendamente moderni
così com’è moderna la mentalità,
il modo di essere che c’è dietro: il
divertimento. E anche per questo
non abbiamo un target definito, il
rock n’ roll, il divertimento, è adatto
a tutti!
I.S. Cosa si deve aspettare il
pubblico dell’Everest dal vostro
live?
Se c’è una cosa che vorremmo, è che
il pubblico si diverta, balli, si alzi in
piedi e si muova a ritmo della musica
che facciamo! E’ la nostra benzina,
quello che ci fa tirare avanti.
I.S. Cosa vuol dire per voi fare
musica?
Significa stare insieme, creare
qualcosa dal nulla, un suono, un’
idea che si trasforma in musica.
I.S. Tra 5 anni i Lou Cash avranno
scalato le classifiche musicali
in Italia e all’estero: cosa
rimpiangerete del vostro gruppo
nel 2015?
La musica che proponiamo ha
già scalato le classifiche decenni
fa, quindi alla scalata verso il
successo, per ora, non ci pensiamo.
Ci auguriamo però di crearci una
nicchia di ascoltatori e seguaci che
possa farci andare avanti. E’questo
il nostro obiettivo primario e, nel
caso non ci saremo riusciti, è quello
che rimpiangeremo.
I.S.: Parliamo di Milano: com’è
fare musica in questa città? La
percepite come una realtà “a
misura di artista”?
“Milano è bella. E’ varia e i locali
sicuramente non mancano. Per chi
vuole suonare ed è alle prime armi
potrebbe risultare un po’ ostile, ma
basta farsi un po’ le ossa in giro e
tutto diventa sicuramente più facile.
I.S. Quanto c’è di Milano e della
Martesana nei vostri pezzi?
Milano è una gran città, sicuramente
non rientra nelle nostre canzoni,
ma sicuramente è nei nostri cuori
e nelle nostre menti. Ogni giorno,
indipendentemente dal genere.
I.S. Cosa vi aspettate dal vostro
live di venerdì all’Everest e cosa vi
sorprenderebbe?
Tanta gente pronta ad invadere la
pista da ballo…e anche un paio di
birre.
I.S.: Se vi dico Circolo Everest voi
cosa mi dite?
Beh, il primo concerto l’abbiamo
fatto qui, avrà sempre un’accezione
particolare.
30 GENNAIO 2015 | Lou Cash and the Tyre Kickers
6 FEBBRAIO 2015
CORNIPETAR
CONCERTO
I.S. Corni Petar è una località
croata che in italiano si traduce
in “Pietra rossa”. Cosa c’è dietro la
scelta di questo nome?
Il periodo passato presso Corni petar,
è stato il primo in cui Giorgio in vita
sua ha deciso volontariamente di
staccare fisicamente con la musica
e la composizione, lasciando a casa
chitarra e stereo portatile. Tornando
si è accorto che non c’era modo di
staccarsi anche mentalmente da
questa pulsione, ha deciso quindi di
chiamare il nuovo progetto, che da
questa riflessione è nato, con il nome
del luogo dove tutto ebbe inizio.
I.S. Nati nel 2005, poi subito la
vittoria dell’Arezzo Wave Festival
e il primo album nel 2010, Ruggine.
Venerdì porterete sul palco
dell’Everest il vostro secondo
album, Novantasei, uscito a
gennaio 2014 per Maninalto: cosa
si deve aspettare il pubblico del
Circolo Everest?
L’ultimo anno è stato un periodo di
transizione per la band, abbiamo
un nuova line up per un 1/5 e brani
nuovi in cantiere, pensiamo quindi
di proporre vecchi classici ma
soprattutto cose nuove.
I.S. Ilvostro è stato definito un rock
leggero ma sorprendentemente
non banale. Come definiscono
invece i Corni Petar la loro musica?
Noi siamo quello che suoniamo e
sono anni che no ci autodefiniamo
più di tanto, la leggerezza o la
banalità, sono solo il sapore che il
nostro rock ha lasciato ad alcuni.
I.S. Per Vicotr Hugo la musica è
esprime ciò che è impossibile da
dire e su cui è impossibile tacere.
Cosa vuol dire fare musica per
voi? E su cosa è “impossibile
tacere” per i Corni Petar?
Sono trascorsi parecchi anni da
quando la voglia di avere una band
si è trasformata in dischi e canzoni
da suonare e far cantare. In questi
anni è mutato però drasticamente
anche il mondo a cui i nostri
messaggi erano e sono rivolti. Le
nostre canzoni per lo più nascono
dalla necessità di raccontare a
noi stessi qualcosa che altrimenti
resterebbe solo un pensiero, e
che forse non vivrebbe più di un
attimo, qualcosa che se condiviso
con qualcuno potrebbe evocare
sensazioni simili a quelle che
l’hanno generato. Impossibile è:
tacere a se stessi.
I.S. In Novantasei trova posto
anche una cover di De Andre’, Via
del Campo: quale legame avete
con il cantautorato italiano?
Non vi sono grandi legami con
la tradizione musicale del nostro
paese, ad eccezione di qualche
perla qua e là. Il brano di De Andrè
è stato ri-arrangiato da noi per un
programma tv che lo aveva chiesto
fra una rosa di tre… dopo averlo
suonato alla nostra maniera è
diventato un cavallo di battaglia,
quindi in realtà siamo legati a ciò
che è diventato più che a ciò che
era in principio.
I.S. La vostra storia nasce a Milano:
può essere definita una città a
misura di artista? Cosa manca a
Milano per essere la capitale della
cultura (e della musica) italiana?
Noi fortunatamente siamo nati
quando ancora Milano era fucina di
talenti e opportunità, non riusciamo
quindi ad essere completamenti
obbiettivi rispetto alla nostra grigia
e spenta città, perché ci ha regalato
tanto ma ora tanto ci sta togliendo.
I.S. Spiegateci meglio. In che senso
Milano vi sta togliendo qualcosa?
Milano é da intendersi, come in
passato, il metro su cui valutare il
panorama musicale: ebbene non
c’é piu il fermento né da parte del
pubblico, di cui tutti facciamo parte,
musicisti e non, né da parte delle
alternative proposte. Siamo tutti in
attesa di un segnale motivante ed
aggregante… Ma per ora solo un
gran silenzio, e questo ahi tutti noi, é
dilagante in tutta Italia.
I.S. I vostri programmi o ambizioni
per il futuro.
Noi ci siamo uniti per scrive canzoni,
ed è l’unica cosa che assieme ci
viene bene con naturalezza e senza
nessun tipo di vincolo artistico o
discografico, per cui come sempre
e da sempre, questo è quello che
faremo fino a che ci saranno le
energie per farlo. Il resto non è mai
stato molto determinante.
6 FEBBRAIO 2015 | Corni Petar
EUGENIO ALLEGRI
13 FEBBRAIO 2015
NOVECENTO
Novecento è nei Teatri dal ’94.
Cosa ha voluto dire per lei essere
l’interprete per così tanto tempo
di uno spettacolo, portarlo nei
teatri e farlo suo, tanto da farle
affermare “Novecento sono io”?
Novecento sono io perché è stato
scritto per me e per Gabriele
Vacis. Poi col tempo lo spettacolo
è diventato adulto, adesso è
maggiorenne. Ha compito 20 anni
nel 2014, è autorizzato ad avere una
sorta di“carta d’identità”.
Una volta, a una provocazione
giornalistica in cui mi fu chiesto “ma
lei è Novecento?”, risposi: “Sì, sono
io!”. E’ un’affermazione che parte da
una riflessione sul lavoro fatto in
questi anni: per il numero di repliche
realizzate, per questi 20 anni in cui
ho attraversato parte della mia vita
professionale e per il fatto che uno
spettacolo teatrale implica sempre
un coinvolgimento personale.
Come mi è già capitato di dire,
non sono l’unico ma… io sono
Novecento. Se qualcun altro può
dire lo stesso tanto bene. Ma penso
di poter essere riconosciuto dal
pubblico e dalla critica come colui
che ha portato in giro Novecento.
Un’altra maschera insomma?
Sì, in effetti col tempo è diventato
quella cosa lì.
Io sono stato conosciuto dal più
grande pubblico teatrale dopo
Novecento, è inutile negarlo.
E come è nato l’incontro con
Alessandro Baricco e Gabriele
Vacis? Tre torinesi che hanno
creato uno spettacolo cult.
Sono quelle combinazioni un po’
strane, in cui le persone si trovano
nel posto giusto al momento giusto.
Baricco in realtà lo conoscevo già
da una decina di anni e, a parte
qualche piccola collaborazione
cinematografica fatta a Torino, non
ci eravamo mai incontrati sul teatro.
Eravamo tutti e tre torinesi ma in
quel periodo io ero nomade: ecco
perché dopo averlo conosciuto nel
1985 ci siamo un po’ persi, io sono
andato per altri lidi. Quando sono
tornato a Torino lui nel frattempo
aveva incontrato Gabriele Vacis al
Teatro Settimo. E il caso vuole che
io, una volta completata la mia
esperienza con Leo De Berardinis,
approdo alTeatro Settimo. E quindi
ci ri-incontraimo in quell’ambito,
ognuno con la propria esperienza:
io con il mio lavoro di teatro,
Baricco era già lo scrittore Baricco
e Vacis con il suo lavoro al Teatro
Settimo che andava avanti da anni.
Dopo due spettacoli corali con il
gruppo del Teatro Settimo sentivo
l’esigenza di fare un monologo,
mi sentivo pronto. Ne parlo con
Gabriele e tutti e due ci diciamo
“parliamone con Sandro”.
Ed è andata così. E’ stato un inizio
incoraggiante, oltre al fatto che
una volta arrivata la prima parte del
copione era.. una cosa molto bella.
Cosa si deve aspettare il pubblico
di Vimodrone? Venerdì sul palco
vedremo di più Novecento o
Eugenio Allegri?
I due elementi coincidono. Il testo
è stato scritto per essere fatto
sulla scena. Come è scritto nel
frontespizio del libro, che è uscito
dopo il debutto dello spettacolo
teatrale, è un testo nato per il
Teatro, non per il cinema o per la
lettura.
Lo spettacolo che va in scena
è il testo che di volta in volta
con Baricco abbiamo corretto,
riadattato, perché l’allestimento
teatrale rendeva superflui alcuni
passaggi che erano già risolte con
la scenografia, con le luci o con le
musiche.
Anche se poi quello che viene
pubblicato nel libro è il testo
originale di Baricco. Il pubblico
di Vimdorone vedrà lo spettacolo
originale, che andò in scena ad Asti
nel novembre del 1994. Con il mio
costume, che nel frattempo è stato
cambiato certo.. le mie misure non
sono ahimè quelle di 20 anni fa.
Non era nemmeno scontato che
sarebbe diventato libro: Baricco l’ha
pubblicato dopo aver raggiunto il
suo successo personale, ma quando
consegnò a me e a Vacis il copione,
non era ancora così famoso, non era
il Baricco che conosciamo adesso.
Diciamo che le cose hanno viaggiato
parallelamente: in quel 1994
Baricco va due volte in televisione
in due trasmissioni che lo rendono
famoso. Certo, era già sulla strada
del successo: scriveva per il Corriere
della Sera, aveva ricevuto un
importante premio letterario per
Oceanomare, ma non era ancora
passato in tv, il pubblico non lo
conosceva visivamente. E poi è
arrivato Novecento.
E cosa è cambiato dal suo primo
Novecento?
E’ cambiato il mio approccio, o
meglio: io faccio lo stesso spettacolo,
che non è mai lo stesso spettacolo.
Primo, perché il pubblico è sempre
diverso e, essendo un monologo, si
lavora insieme al pubblico; secondo,
perché è cambiata la mia vita,
quello che ero 20 anni fa non posso
esserlo più. Il mio modo di porgere
Novecento è cambiato con me.
In questi venti anni ho fatto molti
altri spettacoli, alcuni monologhi, e
tutto questo mi ha fatto – si presume
– evolvere come attore. E questa
presunta evoluzione ovviamente ha
riguardato i diversi appuntamenti in
cui mi sono misurato con Novecento.
Diciamo che il Novecento che
il pubblico vedrà è uno degli
appuntamenti in cui la nave torna
ad approdare in porto. A Novecento
io ci torno sempre dopo esperienze
diverse che di volta in volta
rimodellano la modalità stessa di
porgere lo spettacolo al pubblico.
Parliamo di Eugenio Allegri attore.
Cosa ha significato la scoperta del
teatro nella sua vita?
In realtà non è stata una scoperta, è
stata una consapevolezza acquisita
nel tempo. Ho cominciato a muovere
i primi passi sul palcoscenico e
13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri
poi, poco alla volta, mi sono reso
conto che era uno straordinario
modo per comunicare, per questo
linguaggio sia esteticamente ma
anche politicamente importante nel
rapporto col pubblico.
Un linguaggio di comunicazione, di
scambio, un luogo dove costruire
una forma anche etica, non solo
estetica, di relazione tra le parti.
Non è stata quindi una folgorazione,
non sono stato“fulminato”dal teatro,
anche se da ragazzo avevo fatto le
mie prime esperienze scolastiche
con la recitazione.
Cè stata un’acquisizione di
consapevolezza grazie anche
all’incontrocongliattori,iteatranti…
Ho guardato molto gli altri prima
di capire che poteva essere il mio
lavoro.
Il Teatro è poi una grande forma di
espressione della persona. Gli attori
sono fortunati: hanno una grande
consapevolezza degli strumenti
che hanno a disposizione perché
acquisiscono una grande capacità
espressiva e quindi favoriscono la
ricchezza della comunicazione.
Nei suoi trent’anni di carriera ha
calcato spesso le scene straniere,
lo stesso Novecento è andato
anche all’estero.
Noi siamo un Circolo che lavora
per rafforzare il welfare culturale
del territorio. Lei che rapporto ha
con la sua comunità d’origine, con
Torino? Con il suo lavoro è stato
impegnato anche a livello locale?
Sì, sempre. Non ho mai smesso di
riportare nel mio territorio quello
che acquisivo da altre parti. E devo
dire, a volte non con la presupposta
restituzione di interesse da parte del
territorio.
Non so ancora se ho fatto bene o
ho fatto male, c’è ancora un forte
punto interrogativo su questo. Il
riconoscimento popolare c’è: so di
avere un pubblico torinese che mi
segue, che è affezionato, che mi
riconosce come “figlio di questa
terra”. Ma sono le istituzioni, i poteri
“forti” che controllano tutta l’attività
culturalediunacittàodiunaregione,
che fanno molta fatica a riconoscere
questo valore, cioè il rapporto con il
territorio.
Si preferisce sostenere eventi
sporadici, nomi famosi, personaggi
mediaticamente forti. E allora capita
chesiplaudeaquellichesonocapaci
di stare sia sul piano territoriale che
su quello nazionale riportando “in
casa” ciò che fanno da altre parti,
magari con riconoscimenti più
gratificanti. E tutti a dire“Ah che belli,
che bravi!”. Ma poi… Non vivo ahimè
in un territorio che tende a tenere in
casa i propri figli.
Questo è un po’ il difetto di Torino,
13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri
13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri
città di gran laboratorio ma che poi
a un certo punto, se vuoi ottenere
dei risultati, devi lasciare. E’una città
che soffre un po’ di provincialismo,
ecco. A differenza di Milano e della
Lombardia che invece hanno da
sempre una struttura culturale
che tende a valorizzare il proprio
patrimonio. Ahimè, mi è toccata
Torino (ride).
Tendenzialmente “l’aristocratica e
sabauda Torino” non ha una virtù
democratica dal punto di vista
sociale, economico e culturale che
invece ho sempre riscontrato in
Lombardia e a Milano in particolare.
La aspettiamo a Milano allora!
Anzi, a Vimodrone. Noi siamo in
provincia.
Io frequento tanto la provincia
italiana, non solo intorno alle grandi
città. La provincia del centro Italia ad
esempio, soprattutto nelle Marche,
in Umbria. La provincia milanese e
lombarda in questi anni l’ho battuta
tutta, regolarmente: Milano, Brescia,
da qualche anno manca Bergamo
per alcune scelte politiche, ma
speriamo che le cose si ristabiliscano
presto.
Senza dimenticare la stessa città di
Milano: Novecento ha celebrato i
suoi vent’anni con due repliche al
Piccolo. E il pubblico milanese è…
mi permetto di dire“un’altra cosa”!
Può spiegarci meglio?
Nella provincia milanese si ha
consapevolezza di un’appartenenza
a una comunità cosmopolita
di grande tradizione culturale,
fortemente democratica e
orizzontale. Noi piemontesi invece
abbiamo questa virtù “democratica”
e ce la trasciniamo dietro. Anche
io che sono alto meno di 1.70 e vi
guardo dall’alto verso il basso!
Questo provincialismo ci accomoda
anche tanto bene eh! Siamo i
cosiddetti bugianei: noi non ci
muoviamo. Ed è veramente così.
Ci sono stati incontri nella sua
carriera professionale, fuori dal
teatro, che l’hanno formata?
Certamente sì. Un incontro artistico
e un incontro personale/sociale: il
primo con la musica, il secondo con
l’impegno politico. Musica e politica
sono i due punti di riferimento con i
quali ho misurato più spesso il mio
alfabeto teatrale.
Da ragazzo ho studiato musica,
ma gli incontri con i musicisti
hanno cambiato le cose: dal
più famoso Stefano Bollani, alla
Banda Osiris, musicisti anomali ma
talentuosissimi anche come attori.
E poi Ramberto Ciammarughi,
pianista e compositore assisano con
cui abbiamo fatto un tentativo di
lauda per frate Francesco con delle
virate sul jazz. Posso citare Daniele
di Bonaventura, bandoneonista con
cui faccio un reading su alcuni testi
sudamericani.Epoituttal’esperienza
del teatro Settimo, quella con De
Berardinis così come il lavoro sulla
commedia dell’arte: esperienze in
cui l’elemento musicale è sempre
stato forte.
Anche l’incontro con la politica
è avvenuto da ragazzo: prima il
movimento studentesco della
provincia torinese, poi sono stato
iscritto al partito comunista e a
livello comunale sono stato anche
consigliere. Due anni fa ho fatto uno
spettacolo su Enrico Berlinguer, I
pensieri lunghi. Non l’ho scritto io,
l’ho solo interpretato, ma con molta
conoscenza dei fatti.
Ho fatto politica attiva, negli anni
’70 eravamo tutti convinti che ce
l’avremmo fatta. Non è andata
così, ma eravamo tutti pronti a
scommettere che le cose sarebbero
andate diversamente.
E oggi verso cosa è diretto il suo
impegno? Progetti per il futuro?
Sempre nel Teatro. Con l’esperienza
che ho acquisito in questi anni
mi capita di lavorare anche nell’
ideazione di progetti teatrali a livello
territoriale.
E poi continua l’interesse nei
confronti della scuola con la
presentazione di lezioni-spettacolo;
tengo laboratori con i giovani attori
che stanno crescendo nelle scuole
di teatro. Continua il lavoro con la
commedia dell’arte, che ho sempre
fatto, e laboratori legati alla lettura
poetica e narrativa, un altro aspetto
che ho approfondito nella mia
carriera.
COMPAGNIATEATRO EX DROGHERIA
27 FEBBRAIO 2015
21°COVVEROCOSAACCADEALLA
TEMPERATURAINTEMPODICRISI
TEATRO
I.S. Il nome della compagnia nasce
da una drogheria in provincia di
Bergamo dove avete iniziato a
lavorare, nel 2010. Ci vuoi parlare
di quell’esperienza?
Che cosa è cambiato e che cosa,
invece, portate con voi da allora?
È stato l’inizio, un luogo che ha dato
vita ad una riflessione fondante per
il nostro lavoro. Una ex drogheria
con le vetrine su strada in un
piccolo paese della bergamasca. Le
persone passavano, guardavano e
si sentivano partecipi del processo.
Ci fermavano per strada e parlavano
di loro. Di loro in relazione al nostro
lavoro, in rapporto al “fare teatro”
ed in rapporto al loro tema. Una
modalità di lavoro che cerchiamo
di mantenere ed è da qui che nasce
la necessità di partire dall’indagine
sociale per costruire i nostri lavori.
Ex drogheria è un modo di creare
un teatro in vetrina costante, che
sia specchio di chi si avvicina a
noi. Perché eravamo lì? Perché
nonostante fossimo tutti giovani
professionisti,formatinelleprincipali
accademie d’arte drammatica, non
avevamo una sala prove e nemmeno
i soldi per pagarla. La ex drogheria
era del nonno di una di noi.
I.S. “21°C – ovvero cosa accade
alla temperatura in tempo di crisi”
è una produzione che racconta
la storia di tre ragazzi ai giorni
nostri, alle prese con le sfide e con
le difficoltà che riguardano una
grande fetta di giovani italiani (e
europei).
Con quale approccio il Teatro Ex
drogheria parla dell’attuale crisi
mondiale? Cosa dite che gli altri
ancora non hanno detto?
L’approccio è stato quello di
chiedere alle persone “cosa
mancasse al proprio frigo in
tempi di crisi” attraverso una
performance di indagine sociale
in strada con 3 FRIGHI rossi (ci
teniamo all’errore grammaticale).
Lo spettacolo è un ritratto parziale
della crisi che si fonda su quello
che ci hanno raccontato. Più di
1.000 testimonianze raccolte…
Ne avremmo volute molte di più,
ma … la crisi ci ha costretti ad una
visibilità ridotta.
Siamo un teatro in crisi, fatto da
giovani adulti nella crisi, creato
con una economia produttiva e
distributiva in crisi. Ma parliamo
delle vite delle persone e non della
crisi, quella è solo un dato storico.
I.S. L’esperienza dell’indagine
sociale come base di partenza
di uno spettacolo teatrale
suggerisce quasi che nello
spettacolo “sia tutto vero”, che
sia stata eliminata del tutto la
fiction. Vuoi parlarci di questa
esperienza?
E’ tutto vero nel senso che io
(Sara) so esattamente ” chi” tra le
1.000 testimonianze ha apportato
una data caratteristica a quel
personaggio. Ci sono anche delle
frasi riportate, anche se non
sembra.
Eppure ci dicono che siamo
cinematografici… Forse è che
stiamo tornando al neorealismo?
VENITE e giudicate questa
affermazione piuttosto forte…
I.S. Ora una domanda di rito
che facciamo sempre a tutte le
compagnie lombarde o milanesi
che passano dal’everest: cosa vuol
dite fare cultura in una regione
come la Lombardia e in una città
come Milano? C’è spazio per
i nuovi nomi o per il lavoro di
giovani compagnie?
Noi siamo di Bergamo e a Bergamo
non è esattamente come Milano,
ma siamo anche un poco di Milano
avendo studiato lì. Non c’è spazio
per nessuno, questa è la brutta
sensazione che aleggia. Il problema
è anche il moltiplicarsi di esperienze
non professionali che più che
“togliete mercato” non creano un
confronto né per gli artisti, né per
il pubblico. Ci sono spettacoli belli,
ma sarebbe bello vederne di più e
crescere in questo confronto.
Prima di avere la presunzione di
educare il pubblico, dobbiamo
educare noi stessi.
Si arriva ad un punto/ età in cui se
non hai le spalle “parate” a livello
economico, non è più possibile
crescere. Quindi? Quindi dormiamo
di meno e facciamo più rinunce, per
ora…
I.S. “21°C – ovvero cosa accade
alla temperatura in tempo di crisi”
havinto il Premio Dart perla nuova
drammaturgia. Che programmi hai
per il futuro? Dove ti piacerebbe
portare il tuo spettacolo?
Mi piacerebbe avere l’opportunità di
farlo crescere. Per scrivere un testo di
vogliono molte stesure, per far vivere
uno spettacolo molte repliche.
Dove? Ovunque.
27 FEBBRAIO 2015 | Teatro Ex Drogheria
ECCENTRICI DADARO’
13 MARZO 2015
SENZAFILTRO
TEATRO
UNOSPETTACOLOPERALDAMERINI
I.S. Come nasce Senza Filtro?
Senza Filtro ha avuto una genesi
casuale. Un giorno Rossella
Rapisarda, l’attrice che vedrete
sul palco, mi ha regalato un libro
di poesie di Alda Merini, non per
un motivo particolare ma perché
l’aveva colpita e voleva che lo
leggessi. Poi a un certo punto si è
presentata l’opportunità di pensare
a uno spettacolo sul tema del sacro,
e siccome in questo libro si parlava
molto di angeli e del loro ruolo di
intermediari tra la terra e il cielo, ci è
sembrato spontaneo andare su Alda
Merini: non tanto per il tema degli
angeli, ma perché la sua poesia è
veramente una sintesi tra la carne e
lo spirito.
I.S. Quali difficoltà ci sono state in
questo percorso?
La difficoltà è stata quella di parlare
con rispetto consapevole. Alda
Merini è stato un personaggio
talmente fuori dalle righe, talmente
straordinario, che ne è stato fatto
un caso. Quando però è stato
comodo farlo. Perché poi alla fine è
stata conosciuta come la “poetessa
matta”, di cui si è parlato tanto ma
sempre in relazione all’esperienza
del manicomio. In realtà questa
cosa è fuorviante: Alda Merini è
semplicemente una persona così
libera dalle regole che, in una
fase storica molto precisa, è stata
mandata in un posto che a quei
tempi serviva per tanti motivi. Ad
esempio, per tenere sotto controllo
le persone scomode.
La cosa per noi più complessa è
stato rendere pienamente ragione
della straordinarietà della persona:
sul piano della poesia, per definirla
straordinaria basta leggerla, ma noi
volevamo raccontare la persona
Alda Merini. Di fatto nello spettacolo
si parla del suo amore per la vita,
di questo amore che diventa così
grande da essere scomodo e da
doverlo chiudere nelle quattro pareti
di un manicomio.
La difficoltà sono state due: da un
lato quella di sintetizzare l’enorme
mole di materiale. Alda Merini
è colossale, sia per esperienze
vissute che per la quantità di testi
scritti; e dall’altro raccontare casi
della sua vita estremi, come il
manicomio, ma in una maniera tale
che non fosse il centro della storia,
ma piuttosto“un attraversamento”.
Per farlo abbiamo avuto un grande
aiuto dalle persone che l’hanno
accompagnata per lunghi periodi
della sua vita. Abbiamo percorso
i Navigli e conosciuto le persone
che l’hanno vissuta: Mondadori,
Casiraghi.. alcune persone che le
sono state particolarmente vicine
sono state generosissime nel
raccontarci aneddoti, storie… E il
risultato è che abbiamo raccolto
una quantità gigantesca di
materiale!
I.S. Gli Eccentrici Dadarò sono
nati nel 1997, quasi 18 anni fa,
siete “maggiorenni”. Che tipo
di ambiente avete incontrato
a Milano e in Lombardia, dove
la compagnia si è formata e
continua a lavorare?
Milano è sempre stata una città
molto distratta dalla rincorsa a un
certo tipo di immagine, quella di
“città internazionale”. E purtroppo
negli ultimi anni la cultura non è
stata particolarmente sostenuta né
difesa, e questo spiace molto.
Milano ha tutte le qualità per essere
la città della cultura: ha decine di
Teatri e ogni anno ne nascono di
nuovi. Io voglio sperare che lo sia
sempre di più, ma chiaramente è
una questione di scelte che sono
molto grandi e molto sopra di noi.
Anchequest’annochecisaràl’Expo,
ad esempio, abbiamo sprecato
un’occasione: la gran parte del
budget destinato alla cultura andrà
a Cibus Rei, una realtà straniera.
Hanno puntato sul grande nome
che intrattiene invece di cogliere
l’opportunità di far crescere delle
realtà locali o nazionali.
I.S. Uno sguardo sul Teatro
italiano: cosa si salva e cosa invece
andrebbe rinnovato dal tuo punto
di vista?
E’ un momento in cui le cose stanno
cambiando, anche complice la crisi
che almeno ha dalla sua il fatto di
far muovere le cose. Tante realtà
che avevano creato una sorta di
monopolio sono state costrette
a collaborare e a cambiare le loro
logiche. Il Teatro in Italia funziona
ancora a circuiti chiusi: si tende a
concentrare le cose più o meno
nelle stesse mani. Ora la crisi sta
spostando questa concentrazione:
sicuramente per esigenza, le stesse
mani non riescono più a contenere
tutto.
Rispetto ai teatri europei siamo
abituati ad affidare la responsabilità
dei progetti culturali ai nomi invece
che ai progetti: all’estero hai teatri
stabili affidati a ragazzi di 25-30
anni, in Italia questa cosa sarebbe
impossibile da immaginare, tranne
che in pochi e isolati casi.
Tra le cose che salvo, sicuramente
la qualità dell’immaginario.
L’immaginario è quella capacità di
costruire la parte visiva dei lavori
che, a noi italiani, viene piuttosto
facile.
Qual è l’impegno della compagnia
a livello locale?
Da anni nella zona in cui abbiamo
la nostra sede, vicino Saronno,
organizziamo rassegne teatrali
per cercare di portare occasioni
di socializzazione e di “evoluzione
culturale”. Quest’anno però abbiamo
iniziato un nuovo percorso,
“PulsAzioni”,: è un progetto che
ha l’obiettivo di portare l’evento
teatrale con le sue particolarità al di
fuori dei teatri: in strada, nei luoghi
di ritrovo, nelle case di riposo, negli
appartamenti della gente.
13 MARZO 2015 | Eccentrici Dadarò
COMPAGNIA CHRONOS 3
27 MARZO 2015
LATRAVIATA
TEATRO
REQUIEMPERUNASGUALDRINA
I.S. “Traviata - Requiem per una
sgualdrina” è la storia di due
donne, due Violette molto diverse
tra loro. Vorresti raccontarci da
dove nasce questo binomio?
Questo progetto nasce un anno fa
circa, quando chiesi a Tobia Rossi
- autore della compagnia - una
riscrittura contemporanea delle
vicende di Violetta. Perché volevo
mettere in scena quell’amore
passionale, così melodrammatico,
amore che è indissolubilmente
legato anche alla morte.
E da lì l’idea di mettere in
scena due Violette, una donna
cantante costretta per l’eternità
ad interpretare Violetta in modo
tradizionale, secondo i canoni della
lirica, obbligata dentro a forme
precostituite; e al suo fianco una
Violetta contemporanea che vive
con tutto l’entusiasmo tipico delle
ragazze l’avventura della vita,
purtroppo colpita dalla malattia.
I.S. In cosa la vostra Traviata si
differenzia dalle altre messe in
scena dell’opera di Verdi?
Innanzitutto le arie e i brani verdiani,
ben interpretati da Gianpietro
Bertella (pianoforte) e Anna
Righettini (soprano), rivivono al
contrario, partiamo dal famoso
“addio del passato” fino ad arrivare
all’aria del “Libiamo” solo alla fine
dello spettacolo.
Traviata cantante non è più la
cortigiana innamorata della vita
di lusso e di Alfredo - amori che la
condurranno al vortice della morte
- ma diventa la donna guida, la
donna che ha già provato sulla sua
pelle decine e decine di volte la
fine, che tuttavia non riuscendo a
liberarsene, cerca quantomeno di
liberare la ragazza in scena che pare
vivere nel mondo contemporaneo
delle agenzie di escort, delle bmw
SUV, dei party forsennati, delle cene
a base di insalata croccante per non
ingrassare.
I.S. Parliamo della vostra
compagnia. Cosa vuol dire fare
Teatro per Chronos Tre?
Chronos3 nasce dalla volontà di 3
registi: una compagnia anomala
sul panorama italiano, ma che fa
di questa differenza la sua forza.
Ognunodinoiportaavantiprogetti
personali, laboratori e spettacoli, e
nello stesso tempo ci dedichiamo a
lavori comuni sia sul lago di Garda,
base della compagnia, sia a Milano,
dove tutti e tre abitiamo.
Fare Teatro per noi vuol dire
dare aria e fiato alla nostra
voglia di raccontare e indagare
il contemporaneo, l’oggi. Tutti
i nostri progetti si collocano
nell’ambito della drammaturgia
contemporanea, si tratta di testi
originali nella maggior parte dei
casi che parlano di alcuni aspetti
della vita dell’uomo oggi.
Abbiamo deciso do dedicare anche
tante energie alla costruzione di un
circuito, che abbiamo chiamato
Circuito contemporaneo, ovvero
una serie di relazioni con i comuni
dellago:unaveraepropriastagione
teatrale per diffondere e portare
anche lì la grande drammaturgia
contemporanea, in luoghi dove si
è abituati a vedere solo classici o
teatro dialettale.
I.S. La vostra compagnia nasce
nel 2011 all’interno della Scuola
Paolo Grassi di Milano. Quali
sono a tuo avviso, vizi e virtù del
Teatro lombardo di oggi?
Il teatro lombardo sicuramente è
molto vivo, è una fucina molto viva
di giovani compagnie, di giovani
gruppi, che si aprono sempre di
più; nascono ogni giorno nuclei
di indagine teatrale, ragazzi che
decidonodifaredelteatroilproprio
mestiere. Questa parcellizzazione
del teatro non può che far bene
al teatro lombardo, dà voce alle
tante diversità, alle tante voglie di
raccontare.
Dall’altra parte, purtroppo, questa
situazione porta a non avere forza,
o meglio a non avere una forza
comune in grado di accedere a
bandi, a finanziamenti, di non
riuscire ad affacciarsi al panorama
nazionale.
Per questo ben vengano le unioni
dei circuiti delle forze per poter far
sentire la voce del fertile teatro “off”,
come viene definito.
Is. Uno degli indirizzi della
compagnia è la performance
legata al territorio. Cosa vi piace di
più di questo aspetto?
Questa è una delle direzioni di
indagini più importanti della nostra
compagnia. La riscoperta di antiche
tradizioni, di luoghi pressochè
sconosciuti, di personaggi della
storia delle nostre zone e il loro
racconto teatrale. Ci piace parlare
con le persone di un paese,
capirne le radici, le motivazioni dei
comportamenti che oggi dirigono la
nostra vita. Perché esiste quel modo
di dire? Chi ha costruito l’unica
strada che conduce ad un paese
di montagna e quando? Come si
faceva prima? Insomma raccogliere
la storia, rielaborarla, raccontarla per
capire l’oggi.
I.S. Vuoi raccontarci l’ultima
esperienza di performance sociale
realizzata da Chronos 3?
L’anno scorso abbiamo creato lo
spettacolo “10,2 il futuro attraverso
la roccia” ovvero il primo capitolo
di una trilogia dedicata alla
relazione tra la tecnologia e l’essere
umano. Abbiamo raccontato della
costruzione della “strada della forra”
di Tremolino sul Garda in occasione
del suo centenario: un’opera titanica
di 10,2 Km che collega il porto, il lago
fino al paese, fra tornanti impossibili,
gallerie scavate a mani nude della
roccia da operai appesi alla roccia.
Abbiamo “ricostruito” il paese come
era 100 anni prima per capire le
dinamiche, le corse, i percorsi che
questi uomini, pionieri per l’epoca,
affrontavano ogni giorno.
E da lì è nato il nostro spettacolo,
pensato itinerante nel centro
storico del paese proprio nei luoghi
raccontati.
27 MARZO 2015 | Compagnia Chronos 3
3 APRILE 2015
VERBAL
CONCERTO
KARAKORUM
I.S. Chi sono i Verbal e per chi
scrivono la loro musica?
Verbal è un collettivo di individui con
una grande passione per la musica, i
suoni e tutti i linguaggi che vi stanno
intorno. Scrivono la loro musica
per loro stessi e per tutti coloro che
hanno la curiosità e la pazienza di
ascoltarla.
I.S. Come nasce Karakorum?
Karakorum nasce dalla proposta
di Lab80 Film, una delle realtà più
interessanti del nostro territorio
e non solo per quanto riguarda la
cinematografia.
In occasione de Il Grande Sentiero,
festival annuale di Lab80 - in
collaborazione col CAI - sui viaggi
e sulle imprese individuali, ci è
stato proposto di sonorizzare delle
immagini di archivio restaurate
da Lab80 stesso riguardanti una
spedizione scientifica organizzata
dal Duca di Spoleto nei lontani anni
‘20.
Orgogliosi e lusingati, ci siamo
cimentati nel nostro personale
viaggio, ripercorrendo grazie alle
splendide immagini quello del
numeroso gruppo che si mosse
oramai un secolo fa per raccogliere
preziose informazioni di terre
lontane.
I.S. Karakorum è cinema, musica,
spettacolo e amore per l’alta
quota insieme. Tolta la musica
che è il vostro lavoro, cosa vi
appassiona di più degli altri tre
elementi?
Il cinema è sicuramente una
componente che ci affascina tutti
e che ci ispira quotidianamente e
nella nostra musica. La montagna
idem, anche se nessuno di noi la
frequenta assiduamente: in quanto
quasi interamente bergamaschi
è però nelle nostre viscere,
fondamenta della nostra cultura,
vibrazione a cui non possiamo
rinunciare.
I.S. La pellicola del 1929 è il
racconto di una spedizione di un
gruppo di italiani alla scoperta del
massiccio del Karakorum. Qual è
stata l’ “impresa” più ardua per i
Verbal?
L’impresa maggiore per i Verbal
è stata cercare di dare un ritmo a
immagini che di per sè sono molto
aritmiche, fotografie in movimento
di un esperienza d’altri tempi, prive
di una regia compiuta.
Abbiamo deciso di imporre dei
movimenti a gruppi di immagini
che trovavamo correlate, portando
la nostra personale interpretazione
derivante dalla visione delle scene
prive di qualsiasi suono. Per alcuni di
noi non è stata la prima esperienza
di questo tipo, ma per la maggior
parte sì, ed è stato tremendamente
affascinante.
I.S. Venerdì un telo su cui verrà
proiettato il documentario vi
separeràdalpubblico.Lachiamano
“la quinta dimensione dello
spettacolo”, la proiezione di un film
in realtà sonora aumentata. Come
cambia - se cambia - nel rapporto
con gli spettatori?
Cambia la focalizzazione
dell’attenzione, aumenta la curiosità
sull’esecuzione costringendo al
contempo a concentrarsi sulle
sensazionievocatedallacorrelazione
tra musica e immagini, senza
distrarre dal peso di queste ultime.
I.S. Qual è la prossima “montagna
da scalare” per i Verbal?
La prossima montagna da scalare
sarà trovare nuove ispirazioni dando
forma a nuovi piccoli viaggi sonori.
Mentre riproporremo il più possibile
la sonorizzazione di Karakorum,
scriveremo nuovi brani con l’idea di
realizzare il nostro secondo LP.
3 APRILE 2015 | Verbal
DIONISI COMPAGNIATEATRALE
10 APRILE 2015
POTEVOESSEREIO
TEATRO
I.S. “Potevo essere io” è il racconto
di una bambina cresciuta negli
anni ‘70-’80 nella periferia nord
di Milano, Niguarda. C’è qualcosa
di Renata Ciaravino in quella
bambina?
Quasi tutto. Il “quasi” è di Elvio
Longato e Arianna Scommegna.
Per me il teatro ha a che fare con la
donazione di sé. E col darsi in pasto.
I.S. La protagonista interpretata
da Arianna Scommegna descrive
- attraverso il racconto della sua
vita - la normalità di molte altre
esistenze, delle famiglie del sud
trapiantate a Milano alla ricerca
di nuove opportunità che si
scontrano con realtà diverse da
quelle che immaginavano; cosa
trovi di quella Milano di una volta
nella Milano di oggi?
Lo stesso sconcerto nell’idea di
emigrazione. Conosco pochissime
persone, oggi come ieri, che non
conservino da qualche parte una
ferita per avere lasciato la terra della
nascita. Dalla mia vicina egiziana a
mio padre. Alla fine di una vita uno
si chiede se ne valeva la pena. Sono i
figli degli emigranti che ne traggono
veramente vantaggio. Come me.
Ma anche lì chissà… se fossi nata a
Brindisi…
I.S. La scenografia dello spettacolo
è scarna, ma molta importanza
è stata data ai video, curati da
Elvio Longato. Puoi spiegarci le
motivazioni di questa scelta
stilistica?
I video di Elvio Longato sono la
manifestazione per immagini
del sentimento che sta sotto
al racconto. Un altro modo di
raccontare la stessa visione. Una
pausaperlospettatoredallaparola,
e insieme un ingresso in una sintesi
poetica che dice tanto in 2 minuti.
I.S. Parliamo di te: classe ‘73,
diplomata alla scuola Paolo
Grassi di Milano, drammaturga,
scrivi estensivamente per il
teatro e collabori nella direzione
di diversi festival artistici. Eppure
anche a te sarà capitato di dirti
“Potevo essere io”... Chi potevi
essere e invece non sei stata?
Non me lo chiedo più perché
quando me lo chiedo rabbrividisco.
Mi convinco allora di credere al
“daimon” come ne parla Hillman:
accade ciò che deve accadere
anche se a volte ti sembra che il
disegno della tua vita abbia dei
buchi, delle scoloriture.
Potevo essere un’alcolizzata, una
ricca autrice televisiva, la moglie di
un dentista, la madre di tre figli già
grandi, una brindisina, la moglie di
una donna. Troppe possibilità.
Questo testo è un modo però di
ringraziare chi mi ha concesso di
essere ciò che sono, anche senza
saperlo.
I.S. Chi secondo te dovrebbe
vedere “Potevo essere io”?
Tutti. “Potevo essere io” parla ai
bambini che siamo stati e che
ancora ci portiamo dietro ovunque
andiamo.
In platea non ci sono mai solo 100
persone. Ci sono 100 persone + 100
bambini accanto, invisibili.
I.S. Nella tua carriera hai calcato
i palchi e frequentato le scuole di
drammaturgia straniere, in città
come Parigi e Bruxelles: cosa
pensi che manchi al teatro italiano
che invece queste capitali europee
possono vantare? E in cosa invece
l’Italia eccelle?
E’ una domanda a cui non so
rispondere. Se non con una banalità.
A noi manca l’1,1 % i più del pil speso
in cultura rispetto alla media degli
altri paesi. Per il resto nessun paese
ha più degli altri, ognuno ha quello
che ha.
I.S. Progetti nel cassetto di Renata
Ciaravino e della Compagnia
Dionisi?
I progetti di compagnia coincidono
coi progetti delle persone. Non
esiste più una struttura con doveri
fissi e mete che camminano sulle
teste delle individualità creatrici.
Abbiamo perso un po’ di interesse
perilcollettivocomeidea,ritrovando
molto amore nel lavorare con chi
stimiamo profondamente.
10 APRILE 2015 | Dionisi Compagnia Teatrale
17 APRILE 2015
BACKDOORS
BLUESBAND
CONCERTO
I.S. Chi sono i Back doors blues
Band?
Siamo un “gruppo essenziale”: 3
elementi, basso-batteria-chitarra,
che propone blues in formula
semplice ed originale, senza troppi
“effetti musicali”.
I.S. Cosa rappresenta per voi la
Musica?
La musica è un mezzo di
comunicazione, amore verso la
“storia passata”e di come eravamo; a
volte è l’idea di uno stile di vita.
I.S. Se dico Everest, cosa mi dite?
Un locale di Vimodrone,“storico”per
quelle persone di 50-60 anni che
hanno visto nascere gruppi come
“I Bisonti”. All’epoca, negli anni ‘70,
l’Everest era momento e luogo di
aggregazione nella cornice della
“svolta musicale”di quel periodo.
I.S. Com’è la Vimodrone che
sognate? Cosa manca alla città
dal punto di vista della cultura?
Abbiamo solo la biblioteca come
punto di riferimento verso la lettura
e la documentazione all’arte,
frequentata prevalentemente da
bambini ed anziani. Abbiamo solo
l’oratorio che raccoglie ed aggrega
i giovani.
Mancano ad esempio dei laboratori
di interesse per i ragazzi, o strutture
aggregative per condividere idee,
progetti, iniziative...
Per i meno giovani un’idea potrebbe
essere quella di organizzare gli
“aperitivi filosofici” per avviare un
dibattito intorno ai temi di interesse.
Domitilla Meloni, di Vimodrone, anni
fa, aveva tentato questo percorso
con relativo successo. Iniziativa poi
accantonata,machissà,nelprossimo
futuro potrebbe rinascere un“circolo
culturale di Vimodrone”...
I.S. Sogni nel cassetto dei Back
doors blues Trio?
Tanti, forse troppi. Aggregare,
suonare, insegnare...
17 APRILE 2015 | Back Doors Blues Band
MARTA OSSOLI E MINO MANNI
24 APRILE 2015
CLEOPATRàS
TEATRO BIG
I.S. Chi sono Mino Manni e Marta
Ossoli e come arrivano a lavorare
insieme?
Mino Manni attore e regista, si di-
ploma alla Bottega teatrale di Vitto-
rio Gassman. Ha lavorato con i più
grandi registi del teatro italiano tra
cui Massimo Castri, Giancarlo Co-
belli, Cesare Lievi, Antonio Calenda,
Jerôme Savary e Glauco Mauri.
Fonda con Alberto Oliva la compa-
gnia “I Demoni”, mettendo in scena
spettacoli tratti da opere dostoe-
vskiane e non solo.
Marta Ossoli, attrice, dopo aver con-
seguito il diploma presso l’Accade-
mia dei Filodrammatici di Milano
lavora col Teatro Colla, il Teatro Out-
off diretta da Lorenzo Loris, il CTB e il
Teatro Carcano, col quale gira l’Italia
ne La coscienza di Zeno a fianco di
Giuseppe Pambieri e diretta da Mau-
rizio Scaparro.
Mino e Marta si incontrano nel 2012
in occasione dell’allestimento di An-
tonio e Cleopatra di William Shake-
speare al Teatro Licinium di Erba per
la regia di John Pascoe nel quale in-
terpretavano i due protagonisti. Da
allora collaborano all’insegna della
riscoperta dei grandi classici letterari
e del valore della parola: da Shake-
speare a Manzoni arrivando fino a
Testori.
I.S. Il vostro Cleopatràs arriva a
compimento di un importante la-
voro su Shakespeare condotto in-
sieme. Cosa vi ha affascinato di
più della regina d’Egitto?
Della regina d’Egitto chi ha affa-
scinato la forza, il potere, ma an-
che la grande sensualità che le ha
permesso di mettere in ginocchio i
più grandi condottieri dell’impero
romano e non solo. I suoi ecces-
si hanno fatto dell’Imperatrice un
mito senza tempo. Ciò che ci affa-
scina invece della Cleopatràs di Te-
stori è che questo autore con la sua
opera innovativa e prorompente, ci
ha avvicinato a questo personag-
gio che parrebbe distante e diffi-
cilmente riconducibile al contesto
in cui viviamo. La sua “Cleopatràs”,
spogliata degli abiti regali e rivesti-
ta solo di carne e sangue, ci parla
in un linguaggio crudo e palpitan-
te, in un dialetto che appartiene a
tutti e che rievoca un’Italia ormai
dimenticata.
I.S. Quale è stato il percorso che
vi ha portato all’incontro con
Giovanni Testori?
Mino: al provino per entrare alla
Bottega di Gassman portai un bra-
no tratto dall’Ambleto di Giovanni
Testori. Avevo 18 anni e quel lin-
guaggio innovativo e quella forza
espressiva mi colpirono sin da subi-
to e, visto che fui scelto, lo conside-
rai subito un autore portafortuna.
Da allora avrei sempre voluto met-
terlo in scena e finalmente l’occa-
sione è arrivata grazie alla proposta
di Marta.
Marta: ne ho sentito parlare alcune
volte durante i miei studi accademici
e, pur non conoscendolo, ho subi-
to capito che si trattava di un auto-
re unico nel suo genere. Allo stesso
tempo però il suo nome era associa-
to a qualcosa di difficile comprensio-
ne, criptico e addirittura ostico. Devo
dire invece che leggendo alcune sue
opere, tra cui proprio Cleopatràs, su-
perata la prima lettura, mi sono ab-
bandonanata ai suoni delle parole
scoprendo una varietà di immagini,
di particolari vivissimi ed estrema-
mente divertenti oltre ad una inne-
gabile e disarmante poesia. Talmen-
te profonda da essere universale.
I.S. Cleopatràs nasce all’interno
dell’Accademia dei Filodrammati-
ci: come definireste il teatro lom-
bardo di oggi in relazione alla “col-
tura” di nuovi talenti?
E’ sicuramente uno dei più vivi e sti-
molanti con un’offerta ricca e varia e
una possibilità di sperimentare note-
volissima.
Progetti per il futuro di Manni-Os-
soli?
Una serie di recital e spettacoli atti
a trasmettere l’amore e la passione
verso la grande poesia e la grande
letteratura, soprattutto tra i giovani
che spesso vedono il teatro e tutto
quello che rappresenta come un
qualcosa di imposto, scolastico o
noioso.
24 APRILE 2015 | Marta Ossoli e Mino Manni
SILVIO CASTIGLIONI
8 MAGGIO 2015
L’UOMOE’UNANIMALEFEROCE
TEATRO
I.S. Come nasce l’idea di un
progetto su Nino Pedretti?
Nino è un poeta, più famoso come
uno dei tre poeti di Santarcangelo,
che tutti i romagnoli conoscono
perché scrivono in dialetto
romagnolo: parliamo di Tonino
Guerra, Lello Baldini e di Nino
Pedretti. Il difetto di Nino è che
muore a 52 anni nell’82 per una
brutta malattia. Loro tre non sono gli
unici intellettuali di Santarcangelo.
Anzi, all’epoca c’era un gruppo di
intellettuali molto attivi e vivaci,
personaggi indisciplinati, che negli
anni ‘70-’80 avevano costituito un
gruppo che si chiamava il Circolo del
Giudizio. E’ dentro questo gruppo
di persone che nasce il Festival dei
Teatri di Santarcangelo. Si racconta
che fu lo stesso Pedretti ad andare
a battere i pugni sulla scrivania
del sindaco dicendo “questa cosa
bisogna farla”!
Io non ho mai conosciuto Nino
mentre sono diventato amico di
Baldini e Guerra, così come della
sorella di Nino, Giaele. Tre anni fa
mi chiama e mi dice che l’editore di
Rimini sta per pubblicare un’altra
volta una raccolta di monologhi
in italiano (la prima raccolta fu
pubblicata da Mondadori, dopo la
sua morte). Mi stupisco. Ma come?
Nino scriveva in italiano? La sorella
mi confida che la sua passione era
scrivere in lingua, non in dialetto, ma
non lo pubblicava nessuno!
Dopo la sua morte i familiari
scoprono che aveva scritto dei
monologhi commissionati da Rai
Tre perché c’era l’idea di fare una
trasmissione radiofonica sui temi
d’attualità: una serie di personaggi
un po’ strampalati, estremi, una
galleria di tipi che riassume la nostra
umanità.
Durante la presentazione del libro
mi è stato chiesto di fare delle letture
ed io quella sera mi sono innamorato
di Pedretti, ripromettendomi di
trasformare la sua poesia in un
lavoro teatrale.
“L’uomo è un animale feroce” ha
avuto il merito di far conoscere
Pedretti al grande pubblico, lui che
era quasi “lo sconosciuto” dei tre
poeti di Santarcangelo. La lingua
italiana rispetto al dialetto ha una
capacità di penetrazione maggiore
e quindi è stata una rivelazione
per tutti: nessuno se lo aspettava,
nessuno lo conosceva un Perdetti
così.
I.S. Quali sono stati il momento
più bello e quello più difficile
nell’incontro teatrale con
Pedretti?
Sonorimastocolpitodaimanoscritti
di Pedretti. Ha iniziato a scrivere di
gran lena e ha continuato anche
quando non aveva più le forze
a causa della malattia. Scriveva
con un vigore straordinario, i fogli
sembravano quasi dei geroglifici.
La forza della sua poesia è che
vuole essere “detta”, non vuole
restare scritta.
Quando ho iniziato a lavorarci
ho pensato alla caratterizzazione
dei personaggi ma non volevo
che saltasse in primo piano il
virtuosismo dell’attore, anzi.
Cercavo di fare in modo di restare
un esecutore. Il mio impegno è
stato quello di fare uscire la parola,
tenendo a bada l’attore.
L’impegno maggiore è stato quello
di cercare di onorare questa lingua
all’apparenza facile e discorsiva ma
che è piena di sottigliezze, di svolte
improvvise, di cambi di velocità,
retromarce, come un buon testo
teatrale dovrebbe essere. E’ una
scrittura che veramente ama e
vuole essere detta.
I.S. Cosa si deve aspettare stasera
il pubblico del Circolo Everest?
Si devono aspettare dei bozzetti,
dei ritratti che rappresentano non
personaggi ma stati d’animo che
appartengono a tutti.
Lo spettatore si trova davanti a
stato d’animo descritti con una
maestria sublime: io mi sono messo
a disposizione della scrittura. Ci
sono dei momenti molto divertenti,
a Nino Pedretti piaceva far ridere,
raccontare le barzellette. Ma si ride
sempre un po’ a denti stretti, é un
gusto agrodolce che si prende con
piacere. E’una drammaturgia che mi
è nata in mano, io non ho fatto altro
che mettere le cose in fila una dopo
l’altra.
I.S. Sei tra i fondatori del CRT, che
tipo di gap si è tentato di colmare
con questa esperienza di vita e
professionale?
Mi fai andare indietro negli anni, a
quando ero ragazzino. Non pensare
che io fossi cosi consapevole allora
di quello che ti sto dicendo adesso!
Ero appena arrivato a Milano e avevo
una gran sete di tutto e soprattutto
di teatro. Ma il teatro che vedevo
in giro non mi piaceva. Pensavo:
allora ho sbagliato, di che teatro ho
bisogno? Volevo entrare alla Scuola
Civica perché volevo fare l’attore ma
poi non ho neppure fatto il provino
perché quello che facevano non
mi piaceva. Mi sembravano cose
da parrucconi. Sto parlando del
programma della Civica di allora,
prima della riforma, ben prima
dell’arrivodiRenatoPalazzi(direttore
dal 1986 al 1995, ndr).
E dal rifiuto di questo teatro ho
preso un’altra strada, ho iniziato a
studiare filosofia e mi sono messo
a cercare incontri: uno di questi è
stato con Eugenio Barba, un altro
con Grotowski. Sono arrivato al
teatro partendo dal corso di filosofia
che frequentavo diretto da Sisto
Della Palma. Quando Sisto fonda il
8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni
8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni
CRT chiama cinque suoi studenti,
tra cui me che ero il più giovane: un
trentanovenne chiama dei ventenni
per fare il Centro di Ricerca per il
Teatro!
Il CRT allora andava incontro ad
una emersione che sentivo anche
io dentro ma che non sapevo
interpretare, e che sarebbe diventato
poi l’abbraccio nei confronti di tutto
il nuovo teatro che sarebbe venuto: il
teatro di ricerca, di sperimentazione
di nuovi linguaggi, alternativo,
delle nuove generazioni. Un luogo
aperto in controtendenza rispetto
alla rigidità del teatro borghese
dell’epoca. Il CRT si fece interprete
di questo desiderio, di questa
nuova spinta. Ma io all’epoca ero
inconsapevole e bisognoso di dare
sfogo al mio desiderio di essere nel
teatro.
I.S. Cosa dovrebbe succedere al
teatro oggi?
Potrei dirti, quello che è successo
a me trent’anni fa. Spero che un
ventenne oggi trovi una risposta
perché io la mia partita l’ho giocata.
Tocca a Elea Teatro fare WEBulli, una
cosa che io non mi sarei mai sognato
di fare. Tocca a loro scuotere le
colonne del tempio.
I.S. Un ricordo della tua gestione
del festival di Sant’Arcangelo?
Quando penso ai miei anni di
direzione ho un sentimento di
stanchezza e di entusiasmo che si
equivalgono. La stanchezza deriva
dall’impegno nel creare questa cosa
8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni
che è sempre miracolosamente
in piedi nonostante non sia mai
data per certa. E’ stata una lotta
quotidiana che mi ha sfinito ma che
ho fatto volentieri. Allo stesso tempo
mi sono divertito molto a guardare
cose che da solo non avrei visto mai,
scegliendo il teatro che non avrei
mai scelto.
Mi ricordo sempre quando all’uscita
dallospettacolo“MyLoveforyouwill
never die” di Kinkaleri, una persona
che conosco molto bene mi attacca
fuori dal teatro dicendomi: “questa
cosa non ha né capo né coda, ma
che spettacolo è? Io non capisco
come abbiate potuto produrlo!”.
Mentreallenostrespalledueragazze
parlavano tra di loro e una diceva
all’altra: “E’ la cosa più commovente
che abbia mai visto”. Penso spesso
a questo episodio. Questo è stato
fare il direttore del Festival: non
tutto può colpirti allo stesso modo
ma il Festival è un luogo di accesso
per tutti. Devi pensare che esistono
prospettive sul mondo che a te non
tornano. Per me è stata una grande
avventura, costosa, faticosa; e uno
sforzo di apertura pazzesco. Ma
non è detto che le cose che faccio
adesso non portino i frutti di questa
curiosità.
I.S. Quali sono i progetti in corso?
Ho onorato Lello Baldini, di cui
ricorre il decennale dalla scomparsa,
il grande amico di Pedretti. Anche
in questo caso mi sono occupato
del Baldini in italiano scoprendo
“Autotem”, un libro sull’italietta
del boom economico che sogna
la Cinquecento. Oggi sarebbe
sull’Iphone... E’ un libro strepitoso
che non si trova più, una galleria di
ritratti a tratti simile e a tratti molto
diversa da quelle di Pedretti.
Il secondo progetto è un lavoro su
un testo del ‘500: il racconto della
Passione vista dalla Madonna. E’
scritto in ottonari in italiano da un
poeta bravissimo, Leonardo Mello.
E’ una follia però è una follia che mi
piace molto. Un terzo lavoro è un
confronto a due tra Ingmar Bergman
e la moglie che potrebbe essere
pronto tra un paio d’anni.
Insomma, continuo a lanciarmi
in imprese un po’ pazze perché
questo mi rinnova la fame, oltre che
soddisfarla. Il desiderio non va solo
saziato ma devi anche tenerlo vivo.
ELEATEATRO
22 MAGGIO 2015
WEBulli
TEATRO
I.S. Il bullismo c’è sempre stato, ma
il cyberbullismo è un fenomeno
nuovo diffuso tra gli adolescenti,
sviluppato in parallelo con
l’affermarsi dei social network.
Come vi siete avvicinati alle
dinamiche che sono proprie di
una fascia molto giovane della
popolazione?
Siamo partiti raccogliendo il
prezioso materiale che ci arrivava
dai laboratori, condotti con gli
adolescenti nelle scuole medie e
superiori delle province di Milano e
Monza Brianza.
Testi, immagini, musiche, racconti,
vissuti. Abbiamo utilizzato questo
materiale per trovare un linguaggio
che fosse “adatto” per rivolgerci
proprio ai ragazzi. Abbiamo poi
ripercorso la nostra adolescenza
e abbiamo notato come, social
network o no, i timori e il senso di
inadeguatezza non erano cambiati,
anzi erano molto simili.
I.S. Elea Teatro ha completato da
poco una ricca stagione di repliche
di WEBulli, in Italia e anche
all’estero. Che tipo di accoglienza
ricevete dai ragazzi?
I ragazzi reagiscono molto bene
a questo spettacolo. Li sentiamo
presenti, partecipi. Anche la
“confusione” che a volte si alza
dalla sala è in realtà un caos
attento all’arrivo di una canzone
particolarmente amata o per una
battuta che sentono loro.
Dopo lo spettacolo quasi sempre
ci prendiamo del tempo per
confrontarci con i ragazzi, raccontare
come è nato lo spettacolo e
chiacchierare sulle problematiche
del cyberbullismo e su come trovare
delle vie d’uscita. Anche in questa
fase la partecipazione dei ragazzi è
sempre molto attiva, sia per quanto
riguarda il racconto di esperienze
conosciute, personali e non, sia nella
richiesta di come poter fronteggiare
questi problemi a livello pratico.
I.S. Sul sito di Industria Scenica
raccontate la vostra mission
con queste parole: “Raccontare
il presente con un linguaggio
dissacrante.” Quanto conta
l’ironia nel vostro teatro?
Da sempre cerchiamo di utilizzare
un linguaggio comico/grottesco
e questo genere ha fin dall’inizio
accompagnato la nostra ricerca.
Quando scegliamo un tema di
cui sentiamo l’urgenza di parlare
proviamo a trattarlo senza giudizio,
senza porci dall’alto o puntando il
dito, ma raccontandolo da dentro,
senza prendersi troppo sul serio.
Con il nostro linguaggio cerchiamo
di suscitare un sorriso o una risata
ma che molto spesso nascondono
e fanno emergere qualcosa di più
profondo.
I.S. Siete tornati di recente
da un festival di teatro molto
importante negli Stati Uniti, In
Scena! Italian Theater Festival
di New York. Dal punto di
vista artistico, cosa avete visto
dall’altra parte del mondo che vi
piacerebbe avere anche in Italia?
E su cosa invece l’Italia ha da
insegnare al Teatro americano?
Quello che ci ha colpiti è la grande
varietà di proposte artistiche,
dall’evento teatrale immersivo
di Punchdrunk a Chelsea, agli
spettacolari musical di Broadway,
alle tante compagnie che svolgono
la propria personale ricerca nell’Off
Broadway. La cosa affascinante
è che ognuno trova il suo posto.
Inoltre la tradizione teatrale e
letteraria italiana è apprezzatissima
in America, come ci raccontava
la compagnia italiana KIT che
organizza il Festival IN SCENA a
New York.
Quello che al nostro ritorno
apprezziamo ancora di più del
teatro in Italia è il grande interesse
per tematiche di interesse sociale.
I.S. Nel 1968 Pier Paolo Pasolini
scriveva; “Il nuovo teatro non è
dunque né teatro accademico
né un teatro d’avanguardia. Non
si inserisce in una tradizione
ma nemmeno la consta.
Semplicemente la ignora e la
scavalca una volta per sempre.”
Cosa potrebbe essere per Elea una
rivoluzione nel Teatro?
La nostra personale e piccola
rivoluzione è quella di un teatro
non fine a se stesso e all’espressione
della capacità dell’attore ma di un
teatro che possa davvero toccare lo
spettatore nella “verità” dell’azione
scenica, che parli di ognuno di
noi, che racconti di qualcosa che
sentiamo vicino.
I.S. Avete appena presentato a IT
Festival il primo studio del vostro
prossimo lavoro, Ludopark, con la
drammaturgia di Renata Ciaravino
e, oltre a voi, con l’attrice Anna
Coppola. Come nasce questo
progetto sul gioco d’azzardo
patologico?
Il nostro progetto è quello di
creare una trilogia dedicata alle
“Patie contemporanee”, ossia a
quelle patologie, dipendenze o
comportamenti inadeguati legati
all’avvento dei social media e
delle nuove tecnologie digitali. Il
primo passo di questa trilogia è
stato appunto WEBulli, incentrato
sui fenomeni di cyberbullismo e
sexting. Ludopark sarà il secondo
passo, in produzione dopo l’estate, e
tratterà della dipendenza patologica
da gioco d’azzardo. Ludopark, a
differenza di WEBulli, partirà da una
drammaturgia originale, un testo
scritto apposta da Renata Ciaravino.
22 MAGGIO 2015 | Elea Teatro
UN PROGETTO DELLA COOPERATIVA SOCIALE INDUSTRIA SCENICA
CIRCOLOEVEREST
WANNA RIOT | ATU PER TU CON I WANNA RIOT, RANCID TRIBUTE BAND
http://www.industriascenica.com/blog/2014/10/13/tu-per-tu-con-wanna-riot-rancid-tribute-band/
COMPAGNIA CLUB SILENCIO | INTERVISTAA LUCA PASQUINELLI
http://www.industriascenica.com/blog/2014/10/23/circolo-everest-al-via-la-stagione-teatrale-intervista-
luca-pasquinelli-club-silencio/
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Un anno con il Circolo Everest.

  • 3. I.S.: Come nasce il vostro gruppo? W.R.: Noi quattro ci conosciamo da quando siamo adolescenti, cioè da quando ognuno di noi ha iniziato a suonare. Abbiamo anche avuto altre esperienze insieme. Io, Patrick e il Gio in particolare abbiamo fatto parte di una “scena punk” che ora farei fatica a dire se esista ancora o no. Quando, da parte mia, ho avuto la sensazione che continuare ad avere un gruppo punk non potesse più fare da collante tra me e ciò che mi circondava, ho pensato che comunque fosse l’occasione per fare una fotografia di quello che siamo stati e dire: ecco, guardate che bello. Così ho iniziato a molestare gli altri tre per fare questo progetto di “tributo” ai nostri ispiratori, che secondo noi, a chi ascolta musica in generale, conviene conoscere. I.S.: Se ti dico musica tu cosa mi dici? W.R.: Ti dico quello che significa per me quando salgo su un palco, cioè aggressività e tranquillità allo stesso tempo. Per me è come una pace dei sensi, non dico tanto il suonare in sé, quanto l’esibizione live. Io ho sempre vissuto la musica come dimensione live, cioè come sua condivisione. Suonare da solo in sala è una cosa che non mi ha mai soddisfatto, per me la tranquillità arriva solo quando sono in mezzo ad altri e mi sento a mio agio. Certo, chi ha suonato sa benissimo che ci si può anche sentire moltissimo a disagio in alcune situazioni: l’esperienza e il lavoro servono esattamente a limitare queste situazioni. In secondo luogo quando dico aggressività la collego a una dimensione di protesta, anche se primitiva perché senza obiettivi precisi: è l’atto stesso della protesta a partire dalle onde sonore frastagliate e dai movimenti del corpo non lineari. I.S. Dove vedete i Wanna Riot tra 10 anni? W.R.: Questo è un progetto che potrebbe esistere all’infinito, d’altronde lo facciamo per divertimento e non è dedicato alle nostre canzoni. Magari tra 10 anni avrà ancora più senso che ora: ad esempio, i Rancid esistono ancora, questo rende un po’ irrazionale omaggiarli come se se ne fossero andati, ma questo lo facciamo appunto perché pensiamo che il meglio, in quell’ambito, sia andato. Sia chiaro non siamo romantici né nostalgici dell’età dell’oro, solamente la musica ha preso altre direzioni, che speriamo siano ancora in grado di stupire. D’altro canto, questo progetto continuerà fintanto che ci divertirà e non certo per un rinnovato business, perché non è con questo che qualcuno di noi diventerà una rock-star. Tra 10 anni potrebbe essere ancora lo stesso come non esistere più, oppure essere dedicato ad altri gruppi che ci hanno influenzato, chi lo sa. I.S. C’è ancora spazio peril genere Punk nel panorama italiano? O forse dovremmo dire “C’è mai stato?” W.R. Certo che c’è stato. Alcuni gruppi hanno fatto anche un’ottima carriera, mi vengono in mente i Punkreas e gli Shandon che io ho sempre amato, altri come gli Omini Verdi (in cui suona il Gio) sono ancora in attività. Se questo spazio ci sia ancora bisogna vedere dove lo si cerca: nel mercato? Allora secondo me no, perché i gusti di massa sono cambiati e per un altro motivo che si mescola alla risposta che darò successivamente: il punk è sempre stato legato a minoranze sociali (non per forza politicizzate) da un lato e ad alcuni principi di autogestione dall’altro; perso il legame con questo tipo di esperienze, manca una base a cui ancorare il mercato. Tuttavia… esistono esperienze autonome, vere eproprieisole,incuiilpunkpotrebbe anche non morire mai (stiamo sempre parlando della musica), ma questo al di fuori del mercato. I.S. un salto nel passato: quale momento vi siete persi che ha segnato il panorama musicale a cui vi ispirate? W.R. Ci siamo persi il ’77, siamo nati tutti dopo. Un’epoca in cui la violenza era all’ordine del giorno come espressione di qualsiasi cosa: arte, ideologia, politica. Il punk in principio fu violenza in effetti. Siamo cresciuti in un background completamente differente, quello degli anni ’90, in cui si cercava di innestare quegli spunti artistici e polemici in un panorama culturale in cui la violenza era stata eliminata. Diciamo quindi che non abbiamo provato sulla nostra pelle cosa significasse suonare in certi ambienti nell’epoca in cui la musica cui ci siamo ispirati è nata. A conti fatti, potrebbe poi non essere una grossa sfiga, ha poco senso pensare “cosa avrei fatto se ci fossi stato nell’anno x”… I.S.: Tre parole per descrivere la vostra musica W.R. Passione, impulsività, sicurezza. I.S.: Se ti dico Everest tu cosa mi dici? W.R. So che il nome è ereditato, sarebbe interessante fare una ricerca sul perché i locali da ballo un tempo venivano chiamati con nomi esotici e in base a quali gusti. Per quanto riguarda il circolo, ieri è stata la prima volta che ci abbiamo messo piede, siete aperti da poco, quindi in bocca al lupo per la vostra attività culturale! 11 OTTOBRE 2014 | Wanna Riot
  • 4. COMPAGNIA CLUB SILENCIO 24 OTTOBRE 2014 DOTTORK TEATRO
  • 5. I.S.: Come nasce la Compagnia Club Silencio? La compagnia Club Silencio nasce dalle cose meravigliose che ho visto fare dai miei compagni durante le lezioni di recitazione. Ho pensato che avrei voluto vederle su un palco e che quei ragazzi erano le uniche persone che potevano mettere in scena le cose folli che scrivo! Il nome è un omaggio a David Lynch. I.S.: Se ti dico “teatro” tu cosa mi dici? Se dici Teatro, rispondo Vita. I.S.: Tre parole per descrivere il vostro teatro. Prendo in prestito una citazione del nostro maestro di recitazione (Stefano Fiorentino ) e dico: Sentire, Diventare, Seguire. I.S.: Cosa manca sul piano culturale alla città di Expo 2015? Milano può candidarsi ad essere la città della Cultura e del teatro? Io adoro Milano: è una città coraggiosa, ambiziosa e instancabile. E’ l’unica città italiana che potrebbe candidarsi a città della cultura e del teatro. Riguardo l’Expo, in tutta onestà, non saprei rispondere perché non sto seguendo con molta cura gli sviluppi. Posso solo dire che un buon esempio di cultura e coraggio a Milano è il Festival It – Independent Theatre I.S.: Se ti dico Everest tu cosa mi dici? Everest è uno spazio fantastico…a me è piaciuto subito moltissimo. Ha un’atmosfera insieme colorata e retrò che trovo molto suggestiva. E’ anche un esempio da seguire per tutte quelle giovani compagnie che vogliono aprire uno spazio. 24 OTTOBRE 2014 | Compagnia Club Silencio
  • 6. COLLETTIVO PIRATE JENNY 14 NOVEMBRE 2014 POLLICINO2.0 TEATRO
  • 7. I.S.: Come nasce la Compagnia Collettivo Pirate Jenny? CPJ nasce nel 2011 in occasione di Play with Food, ma in realtà dopo gli anni condivisi in accademia di Susanna Beltrami a Milano avevamo già provato a collaborare dal punto di vista creativo, poi interrotti dal necessario impegno, di tutti e tre, a fare esperienza in Italia e all’estero sotto la guida di altri registi e coreografi. Nasce con la voglia di non dividere i ruoli ma di mediare ogni processo creativo facendolo filtrare dallo sguardo dell’altro. Ovviamente ognuno di noi ha un linguaggio più affine e un modo di vedere la danza o il teatro completamente diverso da quello degli altri, ma lo sforzo di trovare un comune denominatore finora ha portato buoni frutti e risultati inaspettati. Ciò che nasce dal collettivo non assomiglia a nessuno di noi tre, è qualcosa a sé, che però ci appartiene paradossalmente. I.S.: Se vi dico “teatro” voi cosa mi dite? Teatro è un mestiere come tutti gli altri dove lo strumento è il corpo, dove c’è fatica, pensiero, conflitti e soprattutto una retribuzione. Non crediamo in una missione salvifica, né nell’ispirazione divina. Ci piace pensare alla Valéry ovvero ad un mestiere che rende necessario ciò che è fondamentalmente inutile. Gli effetti benefici del teatro si sentono solo quando chi lo fa tiene bene in mente il significato del termine NECESSITA’. I.S.: Tre parole per descrivere il vostro teatro? POP, comunicativo, leggero. I.S.: che rapporto avete con la città di Milano? Milanoèlacittàincuinessunodinoi è nato ma nella quale tutti abbiamo decisodivivere.Perchéèbellissima, perché è la Città italiana con la C maiuscola. Paradossalmente, come collettivo, a Milano non andiamo quasi mai in scena. Il pubblico Milanese è preparato, ironico, presente, propositivo e disponibile. Gli operatori, i distributori gli enti preposti alle stagioni teatrali forse dovrebbero prendere spunto. Tuttavia realtà come teatro Pim Off, Quelli di Grock, Artedanzaeventi, hanno nell’ultimo anno dato un grande aiuto al nostro progetto artistico. Ne siamo molto felici. I.S.: dal vostro punto di vista cosa manca sul piano culturale alla città di Expo 2015? Milano può candidarsi ad essere la città della Cultura e del teatro? Milano è già un crocevia culturale soprattutto per l’arte contemporanea. Non sarà certo L’expo ad aiutarla anzi, da abitanti di Milano ci rendiamo conto che Expo è orientata su altro rispetto alla cultura. Manca un sincero Focus sulle nuove realtà indipendenti lombarde. I.S.: Se vi dico Everest voi cosa mi dite? Puntare in alto, sempre. 14 NOVEMBRE 2014 | Collettivo PirateJenny
  • 9. Cosa è rimasto dell’esperienza dei La Crus? I La Crus sono un progetto nato nel ’92, e nei 18 anni di vita trascorsi insieme sono cambiate un sacco di cose. Ho imparato questo mestiere, sono diventato un uomo. Sono stati 18 in cui sono cresciuto e maturato. E’ stata un’esperienza bellissima che a un certo punto abbiamo saputo gestire malissimo. Perché comunque dopo tanti anni che stai insieme necessariamente tante cose cambiano, cambiano i gusti musicali, cambial’approccio. Elaverasfortuna dei La Crus è che siamo stati sempre fondamentalmente un duo; Alex era parte dei La Crus ma era poco presente. In studio, alle conferenze stampa, ai concerti eravamo sempre solo io e Cesare. Per cui a un certo punto eravamo consapevoli di andare a 200 all’ora contro un muro, bendati. Diciamo che da Crocevia in poi tra me e Cesare le cose sono cambiate, io avrei voluto continuare a fare determinate cose e lui altre, si era un po’ smembrata l’idea originale dei La Crus. Per cui inevitabilmente, come spesso accade, la coppia è naufragata. I La Crus li ho sciolti io perché un grande amore non merita mediocrità, e per me i La Crus sono stati un grande amore. E poi la fase successiva. Parlaci meglio di questa fase, cosa è successo a tuo avviso quando i la Crus hanno messo la parola fine alla loro esperienza musicale come gruppo? Ha inciso anche un cambiamento generale dei gusti del pubblico? Secondo me è cambiato l’approccio del pubblico alla musica, non tanto il suo gusto. Io mi ricordo quando ero ragazzetto, 20-22 anni. Andavo in un negozio di dischi con 30mila lire in tasca. Stavo ore a scegliere 15 dischi, poi 10, poi 7, poi 5, fino a portarne a casa 2 o 3. Quei 2-3 dischi che ti portavi a casa li consumavi, perché avevi fatto delle rinunce per averli. Diciamo che internet è stata una cosa importante ma è stata allo stesso tempo una cosa che ha massacrato la musica. Perché non si vendono più dischi. Ricordo che intorno ai primi anni ’90, quando iniziavano ad esserci le prime connessioni veloci, andavo a casa di amici che avevano pigne di cd masterizzati: dai più importanti ai classici della musica. Ora non si scarica neppure più la musica perché occupa spazio sull’hard disc. E secondo me se non paghi per avere un bene, non gli dai il giusto valore. E qual è il tuo rapporto con Spotify? Potrebbe essere un’evoluzione del sistema musicale che va incontro a artisti e pubblico? La mia musica è ascoltabile su Spotify, ma di certo questo sistema non va incontro ai musicisti. Ti può dare un po’ più visibilità perché sei presente. Ma se consideriamo che già Itunes fa percepire un guadagno nettamente inferiore a quello SIAE, con Spotify anche se ti scaricano un milione di pezzi la percentuale che ti danno è ridicola. Il problema è che non si vendono più dischi, però gli studi di registrazione continuano a costare tanto. Noi siamo testimoni di un passaggio epocale. Se vuoi continuare a fare concerti, devi continuare a fare dischi. E se poi dopo tanti sacrifici il disco esce e tutti se lo sono già scaricato gratis, questo è un problema. E’ un problema di fare dischi interessanti. Se hai un budget di 30-40mila euro per fare un disco, ti puoi permettere di avere un produttore, un arrangiamento di un certo tipo. Insomma ti puoi permettere di fare qualcosa di più di una serie di canzoni, qualcosa di interessante dal punto di vista artistico. Se al posto di 30 mila euro ne hai 5-6mila, sei costretto a fare cose più semplici. E un artista come te come ha reagito a questo cambiamento che ha investito il sistema musicale? Sto cercando di capirlo anch’io. L’ultimo disco che ho appena finito di incidere mi è costato tantissimo. Credo che sia una delle cose più belle che abbia fatto, non so se potrò permettermi di fare ancora cose così. Ci ho investito di mio anche. Non so se sia giusto farlo, oppure per quanto lo potrò fare ancora. Magari sono pessimista ma i tempi sono veramente critici. Ma se c’è stato, qual è l’errore commesso dalle case discografiche? Ci sono stati diversi errori, e sicuramente quello più importante è stato fatto a cavallo del millennio: quanto uscì Napster per la precisione.All’epocasarebbebastato regolamentare in qualche modo il sistema. Le case discografiche hanno snobbato quello che stava succedendo,delrestohannopassato 40 anni e dettare legge, facendo spessissimo investimenti sbagliati. Però a cavallo del millennio giravano ancora tanti soldi. L’errore più grosso è stato quello delle major di snobbare questa nuova rivoluzione. Finché, quando si sono accorte che il virus poteva intaccare il corpo della musica, era troppo tardi. Ora siamo al punto che siamo andati completamente fuori controllo. Uno come Battiato, che vendeva 150mila- 200mila copie a disco, oggi se ne vende 8-9mila è tanto. E chi si salva? Chi ha fatto delle scelte giuste, ma alla fine l’hanno pagata un po’tutti. 13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi
  • 10. La discografia con l’acqua alla gola ha preso al balzo la moda dei talent, che secondo me è stata la mazzata definitiva. Perché prendi delle scorciatoie incredibili a scapito della qualità. Al di là di quello che è il lascito mortifero nelle generazioni più piccole: immagina chi ha 16-17 anni che vede da anni X Factor, ha interiorizzato che quello è “fare musica”. Pensa se Leonard Cohen, Nick Cave, Bob Dylan avessero dovuto fare i provini… Questa è una cosa orrenda perché poi da lì vengono solamente interpreti. Tu immagina che io sia un discografico della Sony, la musica è con l’acqua alla gola e io devo fare fatturato. Ho sul tavolo un disco di un giovane autore che è bravo, il disco è molto bello; però so che per farlo conoscere ci metto tre anni, con molta fatica e molto investimento. E dall’altra ho 3 o 4 artisti provenienti dal mondo dei talent, che sono mesi che si fanno promozione da soli, tutti i giorni, visti da migliaia di ragazzini. Io che devo fatturare e devo rientrare subito dei costi non posso fare altro che scegliere il prodotto dei talent. Magari poi mi porto a casa il lavoro dell’altro, oppure chiedo all’artista di scrivere dei pezzi per i giovani della tv. E poi si arriva al paradosso che oltre a non avere più la possibilità di fare le sue cose, l’artista bravo, pur di lavorare, è costretto a svendere i propri pezzi – magari i più belli – alla prima sgambettata di turno che dopo sei mesi l’hanno bruciata. Da 10 anni che esiste Amici, quanti ragazzi sono passati da lì? E quanti sono davvero emersi? Si possono contare su una mano. Se vieni dalla periferia, arrivi ad Amici, sei il reuccio del paese. Ma poi se non fai gavetta e non arrivi con qualche consapevolezza, ti bruci. La cosa che non riescono a capire, soprattuto a questa età, è che una cosa così potente come la televisione, non può essere un fine, ma un mezzo. Se diventa un fine, tu sei disposto a fare qualsiasi cosa pur di stare lì dentro. A fare capriole, a fare la ruota mente canti, a cantare la qualunque. L’illusione è che questa sia la cosa del 13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi
  • 11. momento. Secondo me è la mazzata finale che poteva succedere alla musica. La cosa triste è che ci siamo piazzati davanti a una scatola, che sia la tv o il computer, e se non passi dalla tv non esisti. Puoi fare le cose più belle del mondo, ma non c’è più spazio lì dentro. Quando mi chiedono un consiglio da dare a un giovane che inizia a fare questo lavoro, io in maniera un po’ironica rispondo che gli consiglio di andare a smazzare davanti alle scuole. Avrà certamente un futuro molto migliore… Un’anticipazione sull’ultimo album di inediti che hai appena finito di registrare? Ci ho lavorato tantissimo. Era quasi già pronto prima che iniziassi a lavorare a Maledetto colui che è solo, il disco realizzato insieme al Sinfonico Honolulu. Ma siccome sono canzoni molto importanti, belle, non volevo che uscisse male. Ho voluto capire bene con chi farlo, perché farlo e farlo come volevo io. Per cui l’ho messo in stand by e sono uscito con il Sinfonico, un disco che mi ha dato molte soddisfazioni. Nato come uno scherzo è diventato un disco di cui sono fierissimo. Per cui ci lavoro da tanto, è un disco che sicuramente è figlio di “Ho sognatotroppol’altranotte”,macon un approccio molto più naturale, è un disco più soul, più disincantato. C’è meno beat, è un’evoluzione naturale. Per darti un’esempio: lì per dare le coordinate precise del viaggio che stavo facendo ho recuperato due pezzi come Bang Bang e Se perdo anche te. Mi sono serviti per dare i connotati stilistici musicali precisi. Qui l’unico pezzo non inedito è un pezzo di Leo Ferrè, che si chiama Il tuo stile. E’ un pezzo con un’atmosfera più autorale, e infatti il mio disco si chiamerà“Il mio Stile”. Sono molto contento, è un disco più fresco, abbiamo deciso di non usare gli archi ma una sezione fiati più massiccia ma sopratutto abbiamo lavorato con un quartetto soul, molto simile a un 4+4 di Nora Orlandi. Ci sono molte linee vocali che sostituiscono gli archi. E’ un po’ più fresco, meno imponente. Ci saranno dei duetti? No, l’album si chiama “il mio stile” e quindi canto solo io. Il duetto che ti manca: qual è l’artista con cui vorresti interpretare un pezzo? Mi piacerebbe scrivere un pezzo e cantare con Mina… Una cosina no?! Credo che abbia apprezzato Io confesso, è una tipologia di pezzo che lei potrebbe apprezzare. Non è una certezza, è una sensazione. 13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi
  • 13. I.S.: Come nascono i Lemon Hard e a chi parlano? I Lemon Hard nascono dall’incontro di Damiano Vilardo (voce e chitarra), Alessandro Valentino (basso) e Stefano Solida (batteria), tutti con la passione comune per la musica e con alle spalle altri progetti musicali. Nell’inverno del 2013 si è deciso di intraprendere questa nuova avventura con la consapevolezza delle difficoltá che caratterizzano la musica e con l’amarezza di come sia sempre più difficile oggi farsi ascoltare esprimendo la propria arte. Per tale ragione si è deciso di suonare per far divertire noi stessi e quanti partecipano ai nostri concerti. Parallelamente stiamo lavorando al nostro progetto di inediti che porteremo in giro (si spera) una volta terminate e definite tutte le tracce. Nell’estate 2014 ha sostituito l’amico Andrea (ex chitarra solista), Giulio Avella che ha portato nella band nuove idee ed un pizzico di esperienza in più nella parte melodica dei brani. I.S. Cosa vi spinge a fare musica? Come tutti i musicisti, ciò che ci spinge a fare musica è l’esigenza di esprimere, comunicare qualcosa… Non è una“frase fatta”; la nostra idea è quella di divertirci per divertire, far ballare le persone, far apprezzare o al contrario odiare qualcosa che noi trasmettiamo. I.S. Un sogno nel cassetto. Il nostro sogno nel cassetto è quello di terminare il nostro progetto di inediti con la speranza che cambi qualcosa nell’attuale panorama musicale dove c’è sempre meno spazio per le band emergenti con delle idee proprie e non contaminate dalla vena commerciale di molte etichette. I.S. Dovevorrestevedere i Lemon Hard tra 5 anni? Fuori dall’Italia a far musica. Non ci riferiamo ovviamente a Wembley o al Madison Square Garden, ma in giro per strade del mondo a far musica, la nostra musica, entrando in contatto con nuove realtà e nuove culture non solo musicali. I.S.: Se vi dico “musica” voi cosa mi dite? Se ci dici musica…dovremmo dirti troppe cose. Per noi, ma sicuramente come per tutti quelli che fanno musica e che amano la musica, rappresenta un elemento fondamentale ed inscindibile della nostra vita. Ti parliamo non solo della musica suonata, ma della musica in senso ampio e generalizzato che viene vissuta come quell’ elemento che caratterizza e che condiziona il nostro essere. Musica quale colonna sonora che scandisce le nostre giornate. I.S.: Tre parole per descrivere la vostra musica. Treparole?Incontri,passione,limoni. I.S. Milano è ancora un buon palco per le band rock emergenti come la vostra? L’Italia in genere – è un luogo comune, purtroppo vero – non è più un buon palco per le band emergenti. Tuttavia, Milano dà ancora qualche minima possibilità in più per farsi conoscere e farsi ascoltare. Non si può negare poi che ladifficilesituazionedelnostroPaese incide anche sugli investimenti in musica. Primo fra tutti quello che dovrebbero fare i locali: permettono sempre meno di far suonare le band elamaggiorpartedellevoltesembra quasi che siano le band stesse a dover investire sul locale, quando in realtá la musica dovrebbe essere un investimento. I.S. Quanto c’è di Milano nei vostri pezzi? Nei nostri pezzi non si parla mai di Milano, quanto di realtá e vissuti che prescindono dai luoghi. E poi, essendo tutti del sud, siamo di parte e ci facciamo ispirare da luoghi sicuramente diversi!! I.S.: Se vi dico Circolo Everest voi cosa mi dite? Un’opportunità, un esempio da seguire. 16 GENNAIO 2015 | Lemon Hard
  • 15. I.S. Chi sono i Lou Cash and the Tyre Kickers e a chi parlano? Beh, siamo quattro amici che si divertono facendo musica. Potremmo sembrare “roba passata”, ma in realtà ci sentiamo molto attuali: il rock n’roll, il rockabilly sono ancora tremendamente moderni così com’è moderna la mentalità, il modo di essere che c’è dietro: il divertimento. E anche per questo non abbiamo un target definito, il rock n’ roll, il divertimento, è adatto a tutti! I.S. Cosa si deve aspettare il pubblico dell’Everest dal vostro live? Se c’è una cosa che vorremmo, è che il pubblico si diverta, balli, si alzi in piedi e si muova a ritmo della musica che facciamo! E’ la nostra benzina, quello che ci fa tirare avanti. I.S. Cosa vuol dire per voi fare musica? Significa stare insieme, creare qualcosa dal nulla, un suono, un’ idea che si trasforma in musica. I.S. Tra 5 anni i Lou Cash avranno scalato le classifiche musicali in Italia e all’estero: cosa rimpiangerete del vostro gruppo nel 2015? La musica che proponiamo ha già scalato le classifiche decenni fa, quindi alla scalata verso il successo, per ora, non ci pensiamo. Ci auguriamo però di crearci una nicchia di ascoltatori e seguaci che possa farci andare avanti. E’questo il nostro obiettivo primario e, nel caso non ci saremo riusciti, è quello che rimpiangeremo. I.S.: Parliamo di Milano: com’è fare musica in questa città? La percepite come una realtà “a misura di artista”? “Milano è bella. E’ varia e i locali sicuramente non mancano. Per chi vuole suonare ed è alle prime armi potrebbe risultare un po’ ostile, ma basta farsi un po’ le ossa in giro e tutto diventa sicuramente più facile. I.S. Quanto c’è di Milano e della Martesana nei vostri pezzi? Milano è una gran città, sicuramente non rientra nelle nostre canzoni, ma sicuramente è nei nostri cuori e nelle nostre menti. Ogni giorno, indipendentemente dal genere. I.S. Cosa vi aspettate dal vostro live di venerdì all’Everest e cosa vi sorprenderebbe? Tanta gente pronta ad invadere la pista da ballo…e anche un paio di birre. I.S.: Se vi dico Circolo Everest voi cosa mi dite? Beh, il primo concerto l’abbiamo fatto qui, avrà sempre un’accezione particolare. 30 GENNAIO 2015 | Lou Cash and the Tyre Kickers
  • 17. I.S. Corni Petar è una località croata che in italiano si traduce in “Pietra rossa”. Cosa c’è dietro la scelta di questo nome? Il periodo passato presso Corni petar, è stato il primo in cui Giorgio in vita sua ha deciso volontariamente di staccare fisicamente con la musica e la composizione, lasciando a casa chitarra e stereo portatile. Tornando si è accorto che non c’era modo di staccarsi anche mentalmente da questa pulsione, ha deciso quindi di chiamare il nuovo progetto, che da questa riflessione è nato, con il nome del luogo dove tutto ebbe inizio. I.S. Nati nel 2005, poi subito la vittoria dell’Arezzo Wave Festival e il primo album nel 2010, Ruggine. Venerdì porterete sul palco dell’Everest il vostro secondo album, Novantasei, uscito a gennaio 2014 per Maninalto: cosa si deve aspettare il pubblico del Circolo Everest? L’ultimo anno è stato un periodo di transizione per la band, abbiamo un nuova line up per un 1/5 e brani nuovi in cantiere, pensiamo quindi di proporre vecchi classici ma soprattutto cose nuove. I.S. Ilvostro è stato definito un rock leggero ma sorprendentemente non banale. Come definiscono invece i Corni Petar la loro musica? Noi siamo quello che suoniamo e sono anni che no ci autodefiniamo più di tanto, la leggerezza o la banalità, sono solo il sapore che il nostro rock ha lasciato ad alcuni. I.S. Per Vicotr Hugo la musica è esprime ciò che è impossibile da dire e su cui è impossibile tacere. Cosa vuol dire fare musica per voi? E su cosa è “impossibile tacere” per i Corni Petar? Sono trascorsi parecchi anni da quando la voglia di avere una band si è trasformata in dischi e canzoni da suonare e far cantare. In questi anni è mutato però drasticamente anche il mondo a cui i nostri messaggi erano e sono rivolti. Le nostre canzoni per lo più nascono dalla necessità di raccontare a noi stessi qualcosa che altrimenti resterebbe solo un pensiero, e che forse non vivrebbe più di un attimo, qualcosa che se condiviso con qualcuno potrebbe evocare sensazioni simili a quelle che l’hanno generato. Impossibile è: tacere a se stessi. I.S. In Novantasei trova posto anche una cover di De Andre’, Via del Campo: quale legame avete con il cantautorato italiano? Non vi sono grandi legami con la tradizione musicale del nostro paese, ad eccezione di qualche perla qua e là. Il brano di De Andrè è stato ri-arrangiato da noi per un programma tv che lo aveva chiesto fra una rosa di tre… dopo averlo suonato alla nostra maniera è diventato un cavallo di battaglia, quindi in realtà siamo legati a ciò che è diventato più che a ciò che era in principio. I.S. La vostra storia nasce a Milano: può essere definita una città a misura di artista? Cosa manca a Milano per essere la capitale della cultura (e della musica) italiana? Noi fortunatamente siamo nati quando ancora Milano era fucina di talenti e opportunità, non riusciamo quindi ad essere completamenti obbiettivi rispetto alla nostra grigia e spenta città, perché ci ha regalato tanto ma ora tanto ci sta togliendo. I.S. Spiegateci meglio. In che senso Milano vi sta togliendo qualcosa? Milano é da intendersi, come in passato, il metro su cui valutare il panorama musicale: ebbene non c’é piu il fermento né da parte del pubblico, di cui tutti facciamo parte, musicisti e non, né da parte delle alternative proposte. Siamo tutti in attesa di un segnale motivante ed aggregante… Ma per ora solo un gran silenzio, e questo ahi tutti noi, é dilagante in tutta Italia. I.S. I vostri programmi o ambizioni per il futuro. Noi ci siamo uniti per scrive canzoni, ed è l’unica cosa che assieme ci viene bene con naturalezza e senza nessun tipo di vincolo artistico o discografico, per cui come sempre e da sempre, questo è quello che faremo fino a che ci saranno le energie per farlo. Il resto non è mai stato molto determinante. 6 FEBBRAIO 2015 | Corni Petar
  • 18. EUGENIO ALLEGRI 13 FEBBRAIO 2015 NOVECENTO
  • 19. Novecento è nei Teatri dal ’94. Cosa ha voluto dire per lei essere l’interprete per così tanto tempo di uno spettacolo, portarlo nei teatri e farlo suo, tanto da farle affermare “Novecento sono io”? Novecento sono io perché è stato scritto per me e per Gabriele Vacis. Poi col tempo lo spettacolo è diventato adulto, adesso è maggiorenne. Ha compito 20 anni nel 2014, è autorizzato ad avere una sorta di“carta d’identità”. Una volta, a una provocazione giornalistica in cui mi fu chiesto “ma lei è Novecento?”, risposi: “Sì, sono io!”. E’ un’affermazione che parte da una riflessione sul lavoro fatto in questi anni: per il numero di repliche realizzate, per questi 20 anni in cui ho attraversato parte della mia vita professionale e per il fatto che uno spettacolo teatrale implica sempre un coinvolgimento personale. Come mi è già capitato di dire, non sono l’unico ma… io sono Novecento. Se qualcun altro può dire lo stesso tanto bene. Ma penso di poter essere riconosciuto dal pubblico e dalla critica come colui che ha portato in giro Novecento. Un’altra maschera insomma? Sì, in effetti col tempo è diventato quella cosa lì. Io sono stato conosciuto dal più grande pubblico teatrale dopo Novecento, è inutile negarlo. E come è nato l’incontro con Alessandro Baricco e Gabriele Vacis? Tre torinesi che hanno creato uno spettacolo cult. Sono quelle combinazioni un po’ strane, in cui le persone si trovano nel posto giusto al momento giusto. Baricco in realtà lo conoscevo già da una decina di anni e, a parte qualche piccola collaborazione cinematografica fatta a Torino, non ci eravamo mai incontrati sul teatro. Eravamo tutti e tre torinesi ma in quel periodo io ero nomade: ecco perché dopo averlo conosciuto nel 1985 ci siamo un po’ persi, io sono andato per altri lidi. Quando sono tornato a Torino lui nel frattempo aveva incontrato Gabriele Vacis al Teatro Settimo. E il caso vuole che io, una volta completata la mia esperienza con Leo De Berardinis, approdo alTeatro Settimo. E quindi ci ri-incontraimo in quell’ambito, ognuno con la propria esperienza: io con il mio lavoro di teatro, Baricco era già lo scrittore Baricco e Vacis con il suo lavoro al Teatro Settimo che andava avanti da anni. Dopo due spettacoli corali con il gruppo del Teatro Settimo sentivo l’esigenza di fare un monologo, mi sentivo pronto. Ne parlo con Gabriele e tutti e due ci diciamo “parliamone con Sandro”. Ed è andata così. E’ stato un inizio incoraggiante, oltre al fatto che una volta arrivata la prima parte del copione era.. una cosa molto bella. Cosa si deve aspettare il pubblico di Vimodrone? Venerdì sul palco vedremo di più Novecento o Eugenio Allegri? I due elementi coincidono. Il testo è stato scritto per essere fatto sulla scena. Come è scritto nel frontespizio del libro, che è uscito dopo il debutto dello spettacolo teatrale, è un testo nato per il Teatro, non per il cinema o per la lettura. Lo spettacolo che va in scena è il testo che di volta in volta con Baricco abbiamo corretto, riadattato, perché l’allestimento teatrale rendeva superflui alcuni passaggi che erano già risolte con la scenografia, con le luci o con le musiche. Anche se poi quello che viene pubblicato nel libro è il testo originale di Baricco. Il pubblico di Vimdorone vedrà lo spettacolo originale, che andò in scena ad Asti nel novembre del 1994. Con il mio costume, che nel frattempo è stato cambiato certo.. le mie misure non sono ahimè quelle di 20 anni fa. Non era nemmeno scontato che sarebbe diventato libro: Baricco l’ha pubblicato dopo aver raggiunto il suo successo personale, ma quando consegnò a me e a Vacis il copione, non era ancora così famoso, non era il Baricco che conosciamo adesso. Diciamo che le cose hanno viaggiato parallelamente: in quel 1994 Baricco va due volte in televisione in due trasmissioni che lo rendono famoso. Certo, era già sulla strada del successo: scriveva per il Corriere della Sera, aveva ricevuto un importante premio letterario per Oceanomare, ma non era ancora passato in tv, il pubblico non lo conosceva visivamente. E poi è arrivato Novecento. E cosa è cambiato dal suo primo Novecento? E’ cambiato il mio approccio, o meglio: io faccio lo stesso spettacolo, che non è mai lo stesso spettacolo. Primo, perché il pubblico è sempre diverso e, essendo un monologo, si lavora insieme al pubblico; secondo, perché è cambiata la mia vita, quello che ero 20 anni fa non posso esserlo più. Il mio modo di porgere Novecento è cambiato con me. In questi venti anni ho fatto molti altri spettacoli, alcuni monologhi, e tutto questo mi ha fatto – si presume – evolvere come attore. E questa presunta evoluzione ovviamente ha riguardato i diversi appuntamenti in cui mi sono misurato con Novecento. Diciamo che il Novecento che il pubblico vedrà è uno degli appuntamenti in cui la nave torna ad approdare in porto. A Novecento io ci torno sempre dopo esperienze diverse che di volta in volta rimodellano la modalità stessa di porgere lo spettacolo al pubblico. Parliamo di Eugenio Allegri attore. Cosa ha significato la scoperta del teatro nella sua vita? In realtà non è stata una scoperta, è stata una consapevolezza acquisita nel tempo. Ho cominciato a muovere i primi passi sul palcoscenico e 13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri
  • 20. poi, poco alla volta, mi sono reso conto che era uno straordinario modo per comunicare, per questo linguaggio sia esteticamente ma anche politicamente importante nel rapporto col pubblico. Un linguaggio di comunicazione, di scambio, un luogo dove costruire una forma anche etica, non solo estetica, di relazione tra le parti. Non è stata quindi una folgorazione, non sono stato“fulminato”dal teatro, anche se da ragazzo avevo fatto le mie prime esperienze scolastiche con la recitazione. Cè stata un’acquisizione di consapevolezza grazie anche all’incontrocongliattori,iteatranti… Ho guardato molto gli altri prima di capire che poteva essere il mio lavoro. Il Teatro è poi una grande forma di espressione della persona. Gli attori sono fortunati: hanno una grande consapevolezza degli strumenti che hanno a disposizione perché acquisiscono una grande capacità espressiva e quindi favoriscono la ricchezza della comunicazione. Nei suoi trent’anni di carriera ha calcato spesso le scene straniere, lo stesso Novecento è andato anche all’estero. Noi siamo un Circolo che lavora per rafforzare il welfare culturale del territorio. Lei che rapporto ha con la sua comunità d’origine, con Torino? Con il suo lavoro è stato impegnato anche a livello locale? Sì, sempre. Non ho mai smesso di riportare nel mio territorio quello che acquisivo da altre parti. E devo dire, a volte non con la presupposta restituzione di interesse da parte del territorio. Non so ancora se ho fatto bene o ho fatto male, c’è ancora un forte punto interrogativo su questo. Il riconoscimento popolare c’è: so di avere un pubblico torinese che mi segue, che è affezionato, che mi riconosce come “figlio di questa terra”. Ma sono le istituzioni, i poteri “forti” che controllano tutta l’attività culturalediunacittàodiunaregione, che fanno molta fatica a riconoscere questo valore, cioè il rapporto con il territorio. Si preferisce sostenere eventi sporadici, nomi famosi, personaggi mediaticamente forti. E allora capita chesiplaudeaquellichesonocapaci di stare sia sul piano territoriale che su quello nazionale riportando “in casa” ciò che fanno da altre parti, magari con riconoscimenti più gratificanti. E tutti a dire“Ah che belli, che bravi!”. Ma poi… Non vivo ahimè in un territorio che tende a tenere in casa i propri figli. Questo è un po’ il difetto di Torino, 13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri
  • 21. 13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri città di gran laboratorio ma che poi a un certo punto, se vuoi ottenere dei risultati, devi lasciare. E’una città che soffre un po’ di provincialismo, ecco. A differenza di Milano e della Lombardia che invece hanno da sempre una struttura culturale che tende a valorizzare il proprio patrimonio. Ahimè, mi è toccata Torino (ride). Tendenzialmente “l’aristocratica e sabauda Torino” non ha una virtù democratica dal punto di vista sociale, economico e culturale che invece ho sempre riscontrato in Lombardia e a Milano in particolare. La aspettiamo a Milano allora! Anzi, a Vimodrone. Noi siamo in provincia. Io frequento tanto la provincia italiana, non solo intorno alle grandi città. La provincia del centro Italia ad esempio, soprattutto nelle Marche, in Umbria. La provincia milanese e lombarda in questi anni l’ho battuta tutta, regolarmente: Milano, Brescia, da qualche anno manca Bergamo per alcune scelte politiche, ma speriamo che le cose si ristabiliscano presto. Senza dimenticare la stessa città di Milano: Novecento ha celebrato i suoi vent’anni con due repliche al Piccolo. E il pubblico milanese è… mi permetto di dire“un’altra cosa”! Può spiegarci meglio? Nella provincia milanese si ha consapevolezza di un’appartenenza a una comunità cosmopolita di grande tradizione culturale, fortemente democratica e orizzontale. Noi piemontesi invece abbiamo questa virtù “democratica” e ce la trasciniamo dietro. Anche io che sono alto meno di 1.70 e vi guardo dall’alto verso il basso! Questo provincialismo ci accomoda anche tanto bene eh! Siamo i cosiddetti bugianei: noi non ci muoviamo. Ed è veramente così. Ci sono stati incontri nella sua carriera professionale, fuori dal teatro, che l’hanno formata? Certamente sì. Un incontro artistico e un incontro personale/sociale: il primo con la musica, il secondo con l’impegno politico. Musica e politica sono i due punti di riferimento con i quali ho misurato più spesso il mio alfabeto teatrale. Da ragazzo ho studiato musica, ma gli incontri con i musicisti hanno cambiato le cose: dal più famoso Stefano Bollani, alla Banda Osiris, musicisti anomali ma talentuosissimi anche come attori. E poi Ramberto Ciammarughi, pianista e compositore assisano con cui abbiamo fatto un tentativo di lauda per frate Francesco con delle virate sul jazz. Posso citare Daniele di Bonaventura, bandoneonista con cui faccio un reading su alcuni testi sudamericani.Epoituttal’esperienza del teatro Settimo, quella con De Berardinis così come il lavoro sulla commedia dell’arte: esperienze in cui l’elemento musicale è sempre stato forte. Anche l’incontro con la politica è avvenuto da ragazzo: prima il movimento studentesco della provincia torinese, poi sono stato iscritto al partito comunista e a livello comunale sono stato anche consigliere. Due anni fa ho fatto uno spettacolo su Enrico Berlinguer, I pensieri lunghi. Non l’ho scritto io, l’ho solo interpretato, ma con molta conoscenza dei fatti. Ho fatto politica attiva, negli anni ’70 eravamo tutti convinti che ce l’avremmo fatta. Non è andata così, ma eravamo tutti pronti a scommettere che le cose sarebbero andate diversamente. E oggi verso cosa è diretto il suo impegno? Progetti per il futuro? Sempre nel Teatro. Con l’esperienza che ho acquisito in questi anni mi capita di lavorare anche nell’ ideazione di progetti teatrali a livello territoriale. E poi continua l’interesse nei confronti della scuola con la presentazione di lezioni-spettacolo; tengo laboratori con i giovani attori che stanno crescendo nelle scuole di teatro. Continua il lavoro con la commedia dell’arte, che ho sempre fatto, e laboratori legati alla lettura poetica e narrativa, un altro aspetto che ho approfondito nella mia carriera.
  • 22. COMPAGNIATEATRO EX DROGHERIA 27 FEBBRAIO 2015 21°COVVEROCOSAACCADEALLA TEMPERATURAINTEMPODICRISI TEATRO
  • 23. I.S. Il nome della compagnia nasce da una drogheria in provincia di Bergamo dove avete iniziato a lavorare, nel 2010. Ci vuoi parlare di quell’esperienza? Che cosa è cambiato e che cosa, invece, portate con voi da allora? È stato l’inizio, un luogo che ha dato vita ad una riflessione fondante per il nostro lavoro. Una ex drogheria con le vetrine su strada in un piccolo paese della bergamasca. Le persone passavano, guardavano e si sentivano partecipi del processo. Ci fermavano per strada e parlavano di loro. Di loro in relazione al nostro lavoro, in rapporto al “fare teatro” ed in rapporto al loro tema. Una modalità di lavoro che cerchiamo di mantenere ed è da qui che nasce la necessità di partire dall’indagine sociale per costruire i nostri lavori. Ex drogheria è un modo di creare un teatro in vetrina costante, che sia specchio di chi si avvicina a noi. Perché eravamo lì? Perché nonostante fossimo tutti giovani professionisti,formatinelleprincipali accademie d’arte drammatica, non avevamo una sala prove e nemmeno i soldi per pagarla. La ex drogheria era del nonno di una di noi. I.S. “21°C – ovvero cosa accade alla temperatura in tempo di crisi” è una produzione che racconta la storia di tre ragazzi ai giorni nostri, alle prese con le sfide e con le difficoltà che riguardano una grande fetta di giovani italiani (e europei). Con quale approccio il Teatro Ex drogheria parla dell’attuale crisi mondiale? Cosa dite che gli altri ancora non hanno detto? L’approccio è stato quello di chiedere alle persone “cosa mancasse al proprio frigo in tempi di crisi” attraverso una performance di indagine sociale in strada con 3 FRIGHI rossi (ci teniamo all’errore grammaticale). Lo spettacolo è un ritratto parziale della crisi che si fonda su quello che ci hanno raccontato. Più di 1.000 testimonianze raccolte… Ne avremmo volute molte di più, ma … la crisi ci ha costretti ad una visibilità ridotta. Siamo un teatro in crisi, fatto da giovani adulti nella crisi, creato con una economia produttiva e distributiva in crisi. Ma parliamo delle vite delle persone e non della crisi, quella è solo un dato storico. I.S. L’esperienza dell’indagine sociale come base di partenza di uno spettacolo teatrale suggerisce quasi che nello spettacolo “sia tutto vero”, che sia stata eliminata del tutto la fiction. Vuoi parlarci di questa esperienza? E’ tutto vero nel senso che io (Sara) so esattamente ” chi” tra le 1.000 testimonianze ha apportato una data caratteristica a quel personaggio. Ci sono anche delle frasi riportate, anche se non sembra. Eppure ci dicono che siamo cinematografici… Forse è che stiamo tornando al neorealismo? VENITE e giudicate questa affermazione piuttosto forte… I.S. Ora una domanda di rito che facciamo sempre a tutte le compagnie lombarde o milanesi che passano dal’everest: cosa vuol dite fare cultura in una regione come la Lombardia e in una città come Milano? C’è spazio per i nuovi nomi o per il lavoro di giovani compagnie? Noi siamo di Bergamo e a Bergamo non è esattamente come Milano, ma siamo anche un poco di Milano avendo studiato lì. Non c’è spazio per nessuno, questa è la brutta sensazione che aleggia. Il problema è anche il moltiplicarsi di esperienze non professionali che più che “togliete mercato” non creano un confronto né per gli artisti, né per il pubblico. Ci sono spettacoli belli, ma sarebbe bello vederne di più e crescere in questo confronto. Prima di avere la presunzione di educare il pubblico, dobbiamo educare noi stessi. Si arriva ad un punto/ età in cui se non hai le spalle “parate” a livello economico, non è più possibile crescere. Quindi? Quindi dormiamo di meno e facciamo più rinunce, per ora… I.S. “21°C – ovvero cosa accade alla temperatura in tempo di crisi” havinto il Premio Dart perla nuova drammaturgia. Che programmi hai per il futuro? Dove ti piacerebbe portare il tuo spettacolo? Mi piacerebbe avere l’opportunità di farlo crescere. Per scrivere un testo di vogliono molte stesure, per far vivere uno spettacolo molte repliche. Dove? Ovunque. 27 FEBBRAIO 2015 | Teatro Ex Drogheria
  • 24. ECCENTRICI DADARO’ 13 MARZO 2015 SENZAFILTRO TEATRO UNOSPETTACOLOPERALDAMERINI
  • 25. I.S. Come nasce Senza Filtro? Senza Filtro ha avuto una genesi casuale. Un giorno Rossella Rapisarda, l’attrice che vedrete sul palco, mi ha regalato un libro di poesie di Alda Merini, non per un motivo particolare ma perché l’aveva colpita e voleva che lo leggessi. Poi a un certo punto si è presentata l’opportunità di pensare a uno spettacolo sul tema del sacro, e siccome in questo libro si parlava molto di angeli e del loro ruolo di intermediari tra la terra e il cielo, ci è sembrato spontaneo andare su Alda Merini: non tanto per il tema degli angeli, ma perché la sua poesia è veramente una sintesi tra la carne e lo spirito. I.S. Quali difficoltà ci sono state in questo percorso? La difficoltà è stata quella di parlare con rispetto consapevole. Alda Merini è stato un personaggio talmente fuori dalle righe, talmente straordinario, che ne è stato fatto un caso. Quando però è stato comodo farlo. Perché poi alla fine è stata conosciuta come la “poetessa matta”, di cui si è parlato tanto ma sempre in relazione all’esperienza del manicomio. In realtà questa cosa è fuorviante: Alda Merini è semplicemente una persona così libera dalle regole che, in una fase storica molto precisa, è stata mandata in un posto che a quei tempi serviva per tanti motivi. Ad esempio, per tenere sotto controllo le persone scomode. La cosa per noi più complessa è stato rendere pienamente ragione della straordinarietà della persona: sul piano della poesia, per definirla straordinaria basta leggerla, ma noi volevamo raccontare la persona Alda Merini. Di fatto nello spettacolo si parla del suo amore per la vita, di questo amore che diventa così grande da essere scomodo e da doverlo chiudere nelle quattro pareti di un manicomio. La difficoltà sono state due: da un lato quella di sintetizzare l’enorme mole di materiale. Alda Merini è colossale, sia per esperienze vissute che per la quantità di testi scritti; e dall’altro raccontare casi della sua vita estremi, come il manicomio, ma in una maniera tale che non fosse il centro della storia, ma piuttosto“un attraversamento”. Per farlo abbiamo avuto un grande aiuto dalle persone che l’hanno accompagnata per lunghi periodi della sua vita. Abbiamo percorso i Navigli e conosciuto le persone che l’hanno vissuta: Mondadori, Casiraghi.. alcune persone che le sono state particolarmente vicine sono state generosissime nel raccontarci aneddoti, storie… E il risultato è che abbiamo raccolto una quantità gigantesca di materiale! I.S. Gli Eccentrici Dadarò sono nati nel 1997, quasi 18 anni fa, siete “maggiorenni”. Che tipo di ambiente avete incontrato a Milano e in Lombardia, dove la compagnia si è formata e continua a lavorare? Milano è sempre stata una città molto distratta dalla rincorsa a un certo tipo di immagine, quella di “città internazionale”. E purtroppo negli ultimi anni la cultura non è stata particolarmente sostenuta né difesa, e questo spiace molto. Milano ha tutte le qualità per essere la città della cultura: ha decine di Teatri e ogni anno ne nascono di nuovi. Io voglio sperare che lo sia sempre di più, ma chiaramente è una questione di scelte che sono molto grandi e molto sopra di noi. Anchequest’annochecisaràl’Expo, ad esempio, abbiamo sprecato un’occasione: la gran parte del budget destinato alla cultura andrà a Cibus Rei, una realtà straniera. Hanno puntato sul grande nome che intrattiene invece di cogliere l’opportunità di far crescere delle realtà locali o nazionali. I.S. Uno sguardo sul Teatro italiano: cosa si salva e cosa invece andrebbe rinnovato dal tuo punto di vista? E’ un momento in cui le cose stanno cambiando, anche complice la crisi che almeno ha dalla sua il fatto di far muovere le cose. Tante realtà che avevano creato una sorta di monopolio sono state costrette a collaborare e a cambiare le loro logiche. Il Teatro in Italia funziona ancora a circuiti chiusi: si tende a concentrare le cose più o meno nelle stesse mani. Ora la crisi sta spostando questa concentrazione: sicuramente per esigenza, le stesse mani non riescono più a contenere tutto. Rispetto ai teatri europei siamo abituati ad affidare la responsabilità dei progetti culturali ai nomi invece che ai progetti: all’estero hai teatri stabili affidati a ragazzi di 25-30 anni, in Italia questa cosa sarebbe impossibile da immaginare, tranne che in pochi e isolati casi. Tra le cose che salvo, sicuramente la qualità dell’immaginario. L’immaginario è quella capacità di costruire la parte visiva dei lavori che, a noi italiani, viene piuttosto facile. Qual è l’impegno della compagnia a livello locale? Da anni nella zona in cui abbiamo la nostra sede, vicino Saronno, organizziamo rassegne teatrali per cercare di portare occasioni di socializzazione e di “evoluzione culturale”. Quest’anno però abbiamo iniziato un nuovo percorso, “PulsAzioni”,: è un progetto che ha l’obiettivo di portare l’evento teatrale con le sue particolarità al di fuori dei teatri: in strada, nei luoghi di ritrovo, nelle case di riposo, negli appartamenti della gente. 13 MARZO 2015 | Eccentrici Dadarò
  • 26. COMPAGNIA CHRONOS 3 27 MARZO 2015 LATRAVIATA TEATRO REQUIEMPERUNASGUALDRINA
  • 27. I.S. “Traviata - Requiem per una sgualdrina” è la storia di due donne, due Violette molto diverse tra loro. Vorresti raccontarci da dove nasce questo binomio? Questo progetto nasce un anno fa circa, quando chiesi a Tobia Rossi - autore della compagnia - una riscrittura contemporanea delle vicende di Violetta. Perché volevo mettere in scena quell’amore passionale, così melodrammatico, amore che è indissolubilmente legato anche alla morte. E da lì l’idea di mettere in scena due Violette, una donna cantante costretta per l’eternità ad interpretare Violetta in modo tradizionale, secondo i canoni della lirica, obbligata dentro a forme precostituite; e al suo fianco una Violetta contemporanea che vive con tutto l’entusiasmo tipico delle ragazze l’avventura della vita, purtroppo colpita dalla malattia. I.S. In cosa la vostra Traviata si differenzia dalle altre messe in scena dell’opera di Verdi? Innanzitutto le arie e i brani verdiani, ben interpretati da Gianpietro Bertella (pianoforte) e Anna Righettini (soprano), rivivono al contrario, partiamo dal famoso “addio del passato” fino ad arrivare all’aria del “Libiamo” solo alla fine dello spettacolo. Traviata cantante non è più la cortigiana innamorata della vita di lusso e di Alfredo - amori che la condurranno al vortice della morte - ma diventa la donna guida, la donna che ha già provato sulla sua pelle decine e decine di volte la fine, che tuttavia non riuscendo a liberarsene, cerca quantomeno di liberare la ragazza in scena che pare vivere nel mondo contemporaneo delle agenzie di escort, delle bmw SUV, dei party forsennati, delle cene a base di insalata croccante per non ingrassare. I.S. Parliamo della vostra compagnia. Cosa vuol dire fare Teatro per Chronos Tre? Chronos3 nasce dalla volontà di 3 registi: una compagnia anomala sul panorama italiano, ma che fa di questa differenza la sua forza. Ognunodinoiportaavantiprogetti personali, laboratori e spettacoli, e nello stesso tempo ci dedichiamo a lavori comuni sia sul lago di Garda, base della compagnia, sia a Milano, dove tutti e tre abitiamo. Fare Teatro per noi vuol dire dare aria e fiato alla nostra voglia di raccontare e indagare il contemporaneo, l’oggi. Tutti i nostri progetti si collocano nell’ambito della drammaturgia contemporanea, si tratta di testi originali nella maggior parte dei casi che parlano di alcuni aspetti della vita dell’uomo oggi. Abbiamo deciso do dedicare anche tante energie alla costruzione di un circuito, che abbiamo chiamato Circuito contemporaneo, ovvero una serie di relazioni con i comuni dellago:unaveraepropriastagione teatrale per diffondere e portare anche lì la grande drammaturgia contemporanea, in luoghi dove si è abituati a vedere solo classici o teatro dialettale. I.S. La vostra compagnia nasce nel 2011 all’interno della Scuola Paolo Grassi di Milano. Quali sono a tuo avviso, vizi e virtù del Teatro lombardo di oggi? Il teatro lombardo sicuramente è molto vivo, è una fucina molto viva di giovani compagnie, di giovani gruppi, che si aprono sempre di più; nascono ogni giorno nuclei di indagine teatrale, ragazzi che decidonodifaredelteatroilproprio mestiere. Questa parcellizzazione del teatro non può che far bene al teatro lombardo, dà voce alle tante diversità, alle tante voglie di raccontare. Dall’altra parte, purtroppo, questa situazione porta a non avere forza, o meglio a non avere una forza comune in grado di accedere a bandi, a finanziamenti, di non riuscire ad affacciarsi al panorama nazionale. Per questo ben vengano le unioni dei circuiti delle forze per poter far sentire la voce del fertile teatro “off”, come viene definito. Is. Uno degli indirizzi della compagnia è la performance legata al territorio. Cosa vi piace di più di questo aspetto? Questa è una delle direzioni di indagini più importanti della nostra compagnia. La riscoperta di antiche tradizioni, di luoghi pressochè sconosciuti, di personaggi della storia delle nostre zone e il loro racconto teatrale. Ci piace parlare con le persone di un paese, capirne le radici, le motivazioni dei comportamenti che oggi dirigono la nostra vita. Perché esiste quel modo di dire? Chi ha costruito l’unica strada che conduce ad un paese di montagna e quando? Come si faceva prima? Insomma raccogliere la storia, rielaborarla, raccontarla per capire l’oggi. I.S. Vuoi raccontarci l’ultima esperienza di performance sociale realizzata da Chronos 3? L’anno scorso abbiamo creato lo spettacolo “10,2 il futuro attraverso la roccia” ovvero il primo capitolo di una trilogia dedicata alla relazione tra la tecnologia e l’essere umano. Abbiamo raccontato della costruzione della “strada della forra” di Tremolino sul Garda in occasione del suo centenario: un’opera titanica di 10,2 Km che collega il porto, il lago fino al paese, fra tornanti impossibili, gallerie scavate a mani nude della roccia da operai appesi alla roccia. Abbiamo “ricostruito” il paese come era 100 anni prima per capire le dinamiche, le corse, i percorsi che questi uomini, pionieri per l’epoca, affrontavano ogni giorno. E da lì è nato il nostro spettacolo, pensato itinerante nel centro storico del paese proprio nei luoghi raccontati. 27 MARZO 2015 | Compagnia Chronos 3
  • 29. I.S. Chi sono i Verbal e per chi scrivono la loro musica? Verbal è un collettivo di individui con una grande passione per la musica, i suoni e tutti i linguaggi che vi stanno intorno. Scrivono la loro musica per loro stessi e per tutti coloro che hanno la curiosità e la pazienza di ascoltarla. I.S. Come nasce Karakorum? Karakorum nasce dalla proposta di Lab80 Film, una delle realtà più interessanti del nostro territorio e non solo per quanto riguarda la cinematografia. In occasione de Il Grande Sentiero, festival annuale di Lab80 - in collaborazione col CAI - sui viaggi e sulle imprese individuali, ci è stato proposto di sonorizzare delle immagini di archivio restaurate da Lab80 stesso riguardanti una spedizione scientifica organizzata dal Duca di Spoleto nei lontani anni ‘20. Orgogliosi e lusingati, ci siamo cimentati nel nostro personale viaggio, ripercorrendo grazie alle splendide immagini quello del numeroso gruppo che si mosse oramai un secolo fa per raccogliere preziose informazioni di terre lontane. I.S. Karakorum è cinema, musica, spettacolo e amore per l’alta quota insieme. Tolta la musica che è il vostro lavoro, cosa vi appassiona di più degli altri tre elementi? Il cinema è sicuramente una componente che ci affascina tutti e che ci ispira quotidianamente e nella nostra musica. La montagna idem, anche se nessuno di noi la frequenta assiduamente: in quanto quasi interamente bergamaschi è però nelle nostre viscere, fondamenta della nostra cultura, vibrazione a cui non possiamo rinunciare. I.S. La pellicola del 1929 è il racconto di una spedizione di un gruppo di italiani alla scoperta del massiccio del Karakorum. Qual è stata l’ “impresa” più ardua per i Verbal? L’impresa maggiore per i Verbal è stata cercare di dare un ritmo a immagini che di per sè sono molto aritmiche, fotografie in movimento di un esperienza d’altri tempi, prive di una regia compiuta. Abbiamo deciso di imporre dei movimenti a gruppi di immagini che trovavamo correlate, portando la nostra personale interpretazione derivante dalla visione delle scene prive di qualsiasi suono. Per alcuni di noi non è stata la prima esperienza di questo tipo, ma per la maggior parte sì, ed è stato tremendamente affascinante. I.S. Venerdì un telo su cui verrà proiettato il documentario vi separeràdalpubblico.Lachiamano “la quinta dimensione dello spettacolo”, la proiezione di un film in realtà sonora aumentata. Come cambia - se cambia - nel rapporto con gli spettatori? Cambia la focalizzazione dell’attenzione, aumenta la curiosità sull’esecuzione costringendo al contempo a concentrarsi sulle sensazionievocatedallacorrelazione tra musica e immagini, senza distrarre dal peso di queste ultime. I.S. Qual è la prossima “montagna da scalare” per i Verbal? La prossima montagna da scalare sarà trovare nuove ispirazioni dando forma a nuovi piccoli viaggi sonori. Mentre riproporremo il più possibile la sonorizzazione di Karakorum, scriveremo nuovi brani con l’idea di realizzare il nostro secondo LP. 3 APRILE 2015 | Verbal
  • 30. DIONISI COMPAGNIATEATRALE 10 APRILE 2015 POTEVOESSEREIO TEATRO
  • 31. I.S. “Potevo essere io” è il racconto di una bambina cresciuta negli anni ‘70-’80 nella periferia nord di Milano, Niguarda. C’è qualcosa di Renata Ciaravino in quella bambina? Quasi tutto. Il “quasi” è di Elvio Longato e Arianna Scommegna. Per me il teatro ha a che fare con la donazione di sé. E col darsi in pasto. I.S. La protagonista interpretata da Arianna Scommegna descrive - attraverso il racconto della sua vita - la normalità di molte altre esistenze, delle famiglie del sud trapiantate a Milano alla ricerca di nuove opportunità che si scontrano con realtà diverse da quelle che immaginavano; cosa trovi di quella Milano di una volta nella Milano di oggi? Lo stesso sconcerto nell’idea di emigrazione. Conosco pochissime persone, oggi come ieri, che non conservino da qualche parte una ferita per avere lasciato la terra della nascita. Dalla mia vicina egiziana a mio padre. Alla fine di una vita uno si chiede se ne valeva la pena. Sono i figli degli emigranti che ne traggono veramente vantaggio. Come me. Ma anche lì chissà… se fossi nata a Brindisi… I.S. La scenografia dello spettacolo è scarna, ma molta importanza è stata data ai video, curati da Elvio Longato. Puoi spiegarci le motivazioni di questa scelta stilistica? I video di Elvio Longato sono la manifestazione per immagini del sentimento che sta sotto al racconto. Un altro modo di raccontare la stessa visione. Una pausaperlospettatoredallaparola, e insieme un ingresso in una sintesi poetica che dice tanto in 2 minuti. I.S. Parliamo di te: classe ‘73, diplomata alla scuola Paolo Grassi di Milano, drammaturga, scrivi estensivamente per il teatro e collabori nella direzione di diversi festival artistici. Eppure anche a te sarà capitato di dirti “Potevo essere io”... Chi potevi essere e invece non sei stata? Non me lo chiedo più perché quando me lo chiedo rabbrividisco. Mi convinco allora di credere al “daimon” come ne parla Hillman: accade ciò che deve accadere anche se a volte ti sembra che il disegno della tua vita abbia dei buchi, delle scoloriture. Potevo essere un’alcolizzata, una ricca autrice televisiva, la moglie di un dentista, la madre di tre figli già grandi, una brindisina, la moglie di una donna. Troppe possibilità. Questo testo è un modo però di ringraziare chi mi ha concesso di essere ciò che sono, anche senza saperlo. I.S. Chi secondo te dovrebbe vedere “Potevo essere io”? Tutti. “Potevo essere io” parla ai bambini che siamo stati e che ancora ci portiamo dietro ovunque andiamo. In platea non ci sono mai solo 100 persone. Ci sono 100 persone + 100 bambini accanto, invisibili. I.S. Nella tua carriera hai calcato i palchi e frequentato le scuole di drammaturgia straniere, in città come Parigi e Bruxelles: cosa pensi che manchi al teatro italiano che invece queste capitali europee possono vantare? E in cosa invece l’Italia eccelle? E’ una domanda a cui non so rispondere. Se non con una banalità. A noi manca l’1,1 % i più del pil speso in cultura rispetto alla media degli altri paesi. Per il resto nessun paese ha più degli altri, ognuno ha quello che ha. I.S. Progetti nel cassetto di Renata Ciaravino e della Compagnia Dionisi? I progetti di compagnia coincidono coi progetti delle persone. Non esiste più una struttura con doveri fissi e mete che camminano sulle teste delle individualità creatrici. Abbiamo perso un po’ di interesse perilcollettivocomeidea,ritrovando molto amore nel lavorare con chi stimiamo profondamente. 10 APRILE 2015 | Dionisi Compagnia Teatrale
  • 33. I.S. Chi sono i Back doors blues Band? Siamo un “gruppo essenziale”: 3 elementi, basso-batteria-chitarra, che propone blues in formula semplice ed originale, senza troppi “effetti musicali”. I.S. Cosa rappresenta per voi la Musica? La musica è un mezzo di comunicazione, amore verso la “storia passata”e di come eravamo; a volte è l’idea di uno stile di vita. I.S. Se dico Everest, cosa mi dite? Un locale di Vimodrone,“storico”per quelle persone di 50-60 anni che hanno visto nascere gruppi come “I Bisonti”. All’epoca, negli anni ‘70, l’Everest era momento e luogo di aggregazione nella cornice della “svolta musicale”di quel periodo. I.S. Com’è la Vimodrone che sognate? Cosa manca alla città dal punto di vista della cultura? Abbiamo solo la biblioteca come punto di riferimento verso la lettura e la documentazione all’arte, frequentata prevalentemente da bambini ed anziani. Abbiamo solo l’oratorio che raccoglie ed aggrega i giovani. Mancano ad esempio dei laboratori di interesse per i ragazzi, o strutture aggregative per condividere idee, progetti, iniziative... Per i meno giovani un’idea potrebbe essere quella di organizzare gli “aperitivi filosofici” per avviare un dibattito intorno ai temi di interesse. Domitilla Meloni, di Vimodrone, anni fa, aveva tentato questo percorso con relativo successo. Iniziativa poi accantonata,machissà,nelprossimo futuro potrebbe rinascere un“circolo culturale di Vimodrone”... I.S. Sogni nel cassetto dei Back doors blues Trio? Tanti, forse troppi. Aggregare, suonare, insegnare... 17 APRILE 2015 | Back Doors Blues Band
  • 34. MARTA OSSOLI E MINO MANNI 24 APRILE 2015 CLEOPATRàS TEATRO BIG
  • 35. I.S. Chi sono Mino Manni e Marta Ossoli e come arrivano a lavorare insieme? Mino Manni attore e regista, si di- ploma alla Bottega teatrale di Vitto- rio Gassman. Ha lavorato con i più grandi registi del teatro italiano tra cui Massimo Castri, Giancarlo Co- belli, Cesare Lievi, Antonio Calenda, Jerôme Savary e Glauco Mauri. Fonda con Alberto Oliva la compa- gnia “I Demoni”, mettendo in scena spettacoli tratti da opere dostoe- vskiane e non solo. Marta Ossoli, attrice, dopo aver con- seguito il diploma presso l’Accade- mia dei Filodrammatici di Milano lavora col Teatro Colla, il Teatro Out- off diretta da Lorenzo Loris, il CTB e il Teatro Carcano, col quale gira l’Italia ne La coscienza di Zeno a fianco di Giuseppe Pambieri e diretta da Mau- rizio Scaparro. Mino e Marta si incontrano nel 2012 in occasione dell’allestimento di An- tonio e Cleopatra di William Shake- speare al Teatro Licinium di Erba per la regia di John Pascoe nel quale in- terpretavano i due protagonisti. Da allora collaborano all’insegna della riscoperta dei grandi classici letterari e del valore della parola: da Shake- speare a Manzoni arrivando fino a Testori. I.S. Il vostro Cleopatràs arriva a compimento di un importante la- voro su Shakespeare condotto in- sieme. Cosa vi ha affascinato di più della regina d’Egitto? Della regina d’Egitto chi ha affa- scinato la forza, il potere, ma an- che la grande sensualità che le ha permesso di mettere in ginocchio i più grandi condottieri dell’impero romano e non solo. I suoi ecces- si hanno fatto dell’Imperatrice un mito senza tempo. Ciò che ci affa- scina invece della Cleopatràs di Te- stori è che questo autore con la sua opera innovativa e prorompente, ci ha avvicinato a questo personag- gio che parrebbe distante e diffi- cilmente riconducibile al contesto in cui viviamo. La sua “Cleopatràs”, spogliata degli abiti regali e rivesti- ta solo di carne e sangue, ci parla in un linguaggio crudo e palpitan- te, in un dialetto che appartiene a tutti e che rievoca un’Italia ormai dimenticata. I.S. Quale è stato il percorso che vi ha portato all’incontro con Giovanni Testori? Mino: al provino per entrare alla Bottega di Gassman portai un bra- no tratto dall’Ambleto di Giovanni Testori. Avevo 18 anni e quel lin- guaggio innovativo e quella forza espressiva mi colpirono sin da subi- to e, visto che fui scelto, lo conside- rai subito un autore portafortuna. Da allora avrei sempre voluto met- terlo in scena e finalmente l’occa- sione è arrivata grazie alla proposta di Marta. Marta: ne ho sentito parlare alcune volte durante i miei studi accademici e, pur non conoscendolo, ho subi- to capito che si trattava di un auto- re unico nel suo genere. Allo stesso tempo però il suo nome era associa- to a qualcosa di difficile comprensio- ne, criptico e addirittura ostico. Devo dire invece che leggendo alcune sue opere, tra cui proprio Cleopatràs, su- perata la prima lettura, mi sono ab- bandonanata ai suoni delle parole scoprendo una varietà di immagini, di particolari vivissimi ed estrema- mente divertenti oltre ad una inne- gabile e disarmante poesia. Talmen- te profonda da essere universale. I.S. Cleopatràs nasce all’interno dell’Accademia dei Filodrammati- ci: come definireste il teatro lom- bardo di oggi in relazione alla “col- tura” di nuovi talenti? E’ sicuramente uno dei più vivi e sti- molanti con un’offerta ricca e varia e una possibilità di sperimentare note- volissima. Progetti per il futuro di Manni-Os- soli? Una serie di recital e spettacoli atti a trasmettere l’amore e la passione verso la grande poesia e la grande letteratura, soprattutto tra i giovani che spesso vedono il teatro e tutto quello che rappresenta come un qualcosa di imposto, scolastico o noioso. 24 APRILE 2015 | Marta Ossoli e Mino Manni
  • 36. SILVIO CASTIGLIONI 8 MAGGIO 2015 L’UOMOE’UNANIMALEFEROCE TEATRO
  • 37. I.S. Come nasce l’idea di un progetto su Nino Pedretti? Nino è un poeta, più famoso come uno dei tre poeti di Santarcangelo, che tutti i romagnoli conoscono perché scrivono in dialetto romagnolo: parliamo di Tonino Guerra, Lello Baldini e di Nino Pedretti. Il difetto di Nino è che muore a 52 anni nell’82 per una brutta malattia. Loro tre non sono gli unici intellettuali di Santarcangelo. Anzi, all’epoca c’era un gruppo di intellettuali molto attivi e vivaci, personaggi indisciplinati, che negli anni ‘70-’80 avevano costituito un gruppo che si chiamava il Circolo del Giudizio. E’ dentro questo gruppo di persone che nasce il Festival dei Teatri di Santarcangelo. Si racconta che fu lo stesso Pedretti ad andare a battere i pugni sulla scrivania del sindaco dicendo “questa cosa bisogna farla”! Io non ho mai conosciuto Nino mentre sono diventato amico di Baldini e Guerra, così come della sorella di Nino, Giaele. Tre anni fa mi chiama e mi dice che l’editore di Rimini sta per pubblicare un’altra volta una raccolta di monologhi in italiano (la prima raccolta fu pubblicata da Mondadori, dopo la sua morte). Mi stupisco. Ma come? Nino scriveva in italiano? La sorella mi confida che la sua passione era scrivere in lingua, non in dialetto, ma non lo pubblicava nessuno! Dopo la sua morte i familiari scoprono che aveva scritto dei monologhi commissionati da Rai Tre perché c’era l’idea di fare una trasmissione radiofonica sui temi d’attualità: una serie di personaggi un po’ strampalati, estremi, una galleria di tipi che riassume la nostra umanità. Durante la presentazione del libro mi è stato chiesto di fare delle letture ed io quella sera mi sono innamorato di Pedretti, ripromettendomi di trasformare la sua poesia in un lavoro teatrale. “L’uomo è un animale feroce” ha avuto il merito di far conoscere Pedretti al grande pubblico, lui che era quasi “lo sconosciuto” dei tre poeti di Santarcangelo. La lingua italiana rispetto al dialetto ha una capacità di penetrazione maggiore e quindi è stata una rivelazione per tutti: nessuno se lo aspettava, nessuno lo conosceva un Perdetti così. I.S. Quali sono stati il momento più bello e quello più difficile nell’incontro teatrale con Pedretti? Sonorimastocolpitodaimanoscritti di Pedretti. Ha iniziato a scrivere di gran lena e ha continuato anche quando non aveva più le forze a causa della malattia. Scriveva con un vigore straordinario, i fogli sembravano quasi dei geroglifici. La forza della sua poesia è che vuole essere “detta”, non vuole restare scritta. Quando ho iniziato a lavorarci ho pensato alla caratterizzazione dei personaggi ma non volevo che saltasse in primo piano il virtuosismo dell’attore, anzi. Cercavo di fare in modo di restare un esecutore. Il mio impegno è stato quello di fare uscire la parola, tenendo a bada l’attore. L’impegno maggiore è stato quello di cercare di onorare questa lingua all’apparenza facile e discorsiva ma che è piena di sottigliezze, di svolte improvvise, di cambi di velocità, retromarce, come un buon testo teatrale dovrebbe essere. E’ una scrittura che veramente ama e vuole essere detta. I.S. Cosa si deve aspettare stasera il pubblico del Circolo Everest? Si devono aspettare dei bozzetti, dei ritratti che rappresentano non personaggi ma stati d’animo che appartengono a tutti. Lo spettatore si trova davanti a stato d’animo descritti con una maestria sublime: io mi sono messo a disposizione della scrittura. Ci sono dei momenti molto divertenti, a Nino Pedretti piaceva far ridere, raccontare le barzellette. Ma si ride sempre un po’ a denti stretti, é un gusto agrodolce che si prende con piacere. E’una drammaturgia che mi è nata in mano, io non ho fatto altro che mettere le cose in fila una dopo l’altra. I.S. Sei tra i fondatori del CRT, che tipo di gap si è tentato di colmare con questa esperienza di vita e professionale? Mi fai andare indietro negli anni, a quando ero ragazzino. Non pensare che io fossi cosi consapevole allora di quello che ti sto dicendo adesso! Ero appena arrivato a Milano e avevo una gran sete di tutto e soprattutto di teatro. Ma il teatro che vedevo in giro non mi piaceva. Pensavo: allora ho sbagliato, di che teatro ho bisogno? Volevo entrare alla Scuola Civica perché volevo fare l’attore ma poi non ho neppure fatto il provino perché quello che facevano non mi piaceva. Mi sembravano cose da parrucconi. Sto parlando del programma della Civica di allora, prima della riforma, ben prima dell’arrivodiRenatoPalazzi(direttore dal 1986 al 1995, ndr). E dal rifiuto di questo teatro ho preso un’altra strada, ho iniziato a studiare filosofia e mi sono messo a cercare incontri: uno di questi è stato con Eugenio Barba, un altro con Grotowski. Sono arrivato al teatro partendo dal corso di filosofia che frequentavo diretto da Sisto Della Palma. Quando Sisto fonda il 8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni
  • 38. 8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni CRT chiama cinque suoi studenti, tra cui me che ero il più giovane: un trentanovenne chiama dei ventenni per fare il Centro di Ricerca per il Teatro! Il CRT allora andava incontro ad una emersione che sentivo anche io dentro ma che non sapevo interpretare, e che sarebbe diventato poi l’abbraccio nei confronti di tutto il nuovo teatro che sarebbe venuto: il teatro di ricerca, di sperimentazione di nuovi linguaggi, alternativo, delle nuove generazioni. Un luogo aperto in controtendenza rispetto alla rigidità del teatro borghese dell’epoca. Il CRT si fece interprete di questo desiderio, di questa nuova spinta. Ma io all’epoca ero inconsapevole e bisognoso di dare sfogo al mio desiderio di essere nel teatro. I.S. Cosa dovrebbe succedere al teatro oggi? Potrei dirti, quello che è successo a me trent’anni fa. Spero che un ventenne oggi trovi una risposta perché io la mia partita l’ho giocata. Tocca a Elea Teatro fare WEBulli, una cosa che io non mi sarei mai sognato di fare. Tocca a loro scuotere le colonne del tempio. I.S. Un ricordo della tua gestione del festival di Sant’Arcangelo? Quando penso ai miei anni di direzione ho un sentimento di stanchezza e di entusiasmo che si equivalgono. La stanchezza deriva dall’impegno nel creare questa cosa
  • 39. 8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni che è sempre miracolosamente in piedi nonostante non sia mai data per certa. E’ stata una lotta quotidiana che mi ha sfinito ma che ho fatto volentieri. Allo stesso tempo mi sono divertito molto a guardare cose che da solo non avrei visto mai, scegliendo il teatro che non avrei mai scelto. Mi ricordo sempre quando all’uscita dallospettacolo“MyLoveforyouwill never die” di Kinkaleri, una persona che conosco molto bene mi attacca fuori dal teatro dicendomi: “questa cosa non ha né capo né coda, ma che spettacolo è? Io non capisco come abbiate potuto produrlo!”. Mentreallenostrespalledueragazze parlavano tra di loro e una diceva all’altra: “E’ la cosa più commovente che abbia mai visto”. Penso spesso a questo episodio. Questo è stato fare il direttore del Festival: non tutto può colpirti allo stesso modo ma il Festival è un luogo di accesso per tutti. Devi pensare che esistono prospettive sul mondo che a te non tornano. Per me è stata una grande avventura, costosa, faticosa; e uno sforzo di apertura pazzesco. Ma non è detto che le cose che faccio adesso non portino i frutti di questa curiosità. I.S. Quali sono i progetti in corso? Ho onorato Lello Baldini, di cui ricorre il decennale dalla scomparsa, il grande amico di Pedretti. Anche in questo caso mi sono occupato del Baldini in italiano scoprendo “Autotem”, un libro sull’italietta del boom economico che sogna la Cinquecento. Oggi sarebbe sull’Iphone... E’ un libro strepitoso che non si trova più, una galleria di ritratti a tratti simile e a tratti molto diversa da quelle di Pedretti. Il secondo progetto è un lavoro su un testo del ‘500: il racconto della Passione vista dalla Madonna. E’ scritto in ottonari in italiano da un poeta bravissimo, Leonardo Mello. E’ una follia però è una follia che mi piace molto. Un terzo lavoro è un confronto a due tra Ingmar Bergman e la moglie che potrebbe essere pronto tra un paio d’anni. Insomma, continuo a lanciarmi in imprese un po’ pazze perché questo mi rinnova la fame, oltre che soddisfarla. Il desiderio non va solo saziato ma devi anche tenerlo vivo.
  • 41. I.S. Il bullismo c’è sempre stato, ma il cyberbullismo è un fenomeno nuovo diffuso tra gli adolescenti, sviluppato in parallelo con l’affermarsi dei social network. Come vi siete avvicinati alle dinamiche che sono proprie di una fascia molto giovane della popolazione? Siamo partiti raccogliendo il prezioso materiale che ci arrivava dai laboratori, condotti con gli adolescenti nelle scuole medie e superiori delle province di Milano e Monza Brianza. Testi, immagini, musiche, racconti, vissuti. Abbiamo utilizzato questo materiale per trovare un linguaggio che fosse “adatto” per rivolgerci proprio ai ragazzi. Abbiamo poi ripercorso la nostra adolescenza e abbiamo notato come, social network o no, i timori e il senso di inadeguatezza non erano cambiati, anzi erano molto simili. I.S. Elea Teatro ha completato da poco una ricca stagione di repliche di WEBulli, in Italia e anche all’estero. Che tipo di accoglienza ricevete dai ragazzi? I ragazzi reagiscono molto bene a questo spettacolo. Li sentiamo presenti, partecipi. Anche la “confusione” che a volte si alza dalla sala è in realtà un caos attento all’arrivo di una canzone particolarmente amata o per una battuta che sentono loro. Dopo lo spettacolo quasi sempre ci prendiamo del tempo per confrontarci con i ragazzi, raccontare come è nato lo spettacolo e chiacchierare sulle problematiche del cyberbullismo e su come trovare delle vie d’uscita. Anche in questa fase la partecipazione dei ragazzi è sempre molto attiva, sia per quanto riguarda il racconto di esperienze conosciute, personali e non, sia nella richiesta di come poter fronteggiare questi problemi a livello pratico. I.S. Sul sito di Industria Scenica raccontate la vostra mission con queste parole: “Raccontare il presente con un linguaggio dissacrante.” Quanto conta l’ironia nel vostro teatro? Da sempre cerchiamo di utilizzare un linguaggio comico/grottesco e questo genere ha fin dall’inizio accompagnato la nostra ricerca. Quando scegliamo un tema di cui sentiamo l’urgenza di parlare proviamo a trattarlo senza giudizio, senza porci dall’alto o puntando il dito, ma raccontandolo da dentro, senza prendersi troppo sul serio. Con il nostro linguaggio cerchiamo di suscitare un sorriso o una risata ma che molto spesso nascondono e fanno emergere qualcosa di più profondo. I.S. Siete tornati di recente da un festival di teatro molto importante negli Stati Uniti, In Scena! Italian Theater Festival di New York. Dal punto di vista artistico, cosa avete visto dall’altra parte del mondo che vi piacerebbe avere anche in Italia? E su cosa invece l’Italia ha da insegnare al Teatro americano? Quello che ci ha colpiti è la grande varietà di proposte artistiche, dall’evento teatrale immersivo di Punchdrunk a Chelsea, agli spettacolari musical di Broadway, alle tante compagnie che svolgono la propria personale ricerca nell’Off Broadway. La cosa affascinante è che ognuno trova il suo posto. Inoltre la tradizione teatrale e letteraria italiana è apprezzatissima in America, come ci raccontava la compagnia italiana KIT che organizza il Festival IN SCENA a New York. Quello che al nostro ritorno apprezziamo ancora di più del teatro in Italia è il grande interesse per tematiche di interesse sociale. I.S. Nel 1968 Pier Paolo Pasolini scriveva; “Il nuovo teatro non è dunque né teatro accademico né un teatro d’avanguardia. Non si inserisce in una tradizione ma nemmeno la consta. Semplicemente la ignora e la scavalca una volta per sempre.” Cosa potrebbe essere per Elea una rivoluzione nel Teatro? La nostra personale e piccola rivoluzione è quella di un teatro non fine a se stesso e all’espressione della capacità dell’attore ma di un teatro che possa davvero toccare lo spettatore nella “verità” dell’azione scenica, che parli di ognuno di noi, che racconti di qualcosa che sentiamo vicino. I.S. Avete appena presentato a IT Festival il primo studio del vostro prossimo lavoro, Ludopark, con la drammaturgia di Renata Ciaravino e, oltre a voi, con l’attrice Anna Coppola. Come nasce questo progetto sul gioco d’azzardo patologico? Il nostro progetto è quello di creare una trilogia dedicata alle “Patie contemporanee”, ossia a quelle patologie, dipendenze o comportamenti inadeguati legati all’avvento dei social media e delle nuove tecnologie digitali. Il primo passo di questa trilogia è stato appunto WEBulli, incentrato sui fenomeni di cyberbullismo e sexting. Ludopark sarà il secondo passo, in produzione dopo l’estate, e tratterà della dipendenza patologica da gioco d’azzardo. Ludopark, a differenza di WEBulli, partirà da una drammaturgia originale, un testo scritto apposta da Renata Ciaravino. 22 MAGGIO 2015 | Elea Teatro
  • 42. UN PROGETTO DELLA COOPERATIVA SOCIALE INDUSTRIA SCENICA CIRCOLOEVEREST WANNA RIOT | ATU PER TU CON I WANNA RIOT, RANCID TRIBUTE BAND http://www.industriascenica.com/blog/2014/10/13/tu-per-tu-con-wanna-riot-rancid-tribute-band/ COMPAGNIA CLUB SILENCIO | INTERVISTAA LUCA PASQUINELLI http://www.industriascenica.com/blog/2014/10/23/circolo-everest-al-via-la-stagione-teatrale-intervista- luca-pasquinelli-club-silencio/ PIRATE JENNY| UN ENSEMBLE TEATRALE UN PO’ POP: COLLETTIVO PIRATEJENNYAL CIRCOLO EVEREST http://www.industriascenica.com/blog/2014/11/11/collettivo-piratejenny-al-circolo-everest/ MAURO ERMANNO GIOVANARDI | IL PASSATO, I TALENT E “IL MIO STILE”. ASPETTANDO IL 13 DICEMBRE. http://www.industriascenica.com/blog/2014/12/08/intervistamauro-ermanno-giovanardi-il-passato- talent-e-il-mio-stile-aspettando-il-13-dicembre/ LEMON HARD | ASPETTANDO I LEMON HARD AL CIRCOLO EVEREST: LA PASSIONE PER IL ROCK E IL SOGNO DI ANDARE ALL’ESTERO. PASSANDO PER VIMODRONE. http://www.industriascenica.com/blog/2015/01/15/3969/ LOU CASH AND THE TYRE KICKERS | INTERVISTAA LOU CASH AND THE TYRE KICKERS – VENERDÌ 30 AL CIRCOLO EVEREST http://www.industriascenica.com/blog/2015/01/29/intervista-lou-cash-and-the-tyre-kickers-live-circolo- everest-vimodrone/ CORNI PETAR | LA MUSICA COME NECESSITÀ DI ESPRESSIONE. - IL 6 FEBBRAIO LIVE AL CIRCOLO EVEREST. http://www.industriascenica.com/blog/2015/02/03/corni-petar-musica-come-necessita-di-espressione- live-6-febbraio-circolo-everest/ EUGENIO ALLEGRI | “IO, NOVECENTO E L’INCONTRO CON BARICCO”. http://www.industriascenica.com/blog/2015/02/13/teatro-sherpa-intervista-eugenio-allegri-io- novecento-e-lincontro-con-baricco/ TEATRO EX DROGHERIA | ATU PER TU CON SARA PESSINA, TEATRO EX DROGHERIA: “IL NOSTRO TEATRO AVVICINA LA GENTE, ANCHE IN TEMPO DI CRISI”. http://www.industriascenica.com/blog/2015/02/24/tu-per-tu-con-sara-pessina-teatro-ex-drogheria-il- nostro-teatro-avvicina-la-gente-anche-tempo-di-crisi/
  • 43. ECCENTICI DADARò - FABRIZIO VISCONTI | “LA NOSTRAALDA MERINI, UN INNO ALLA LIBERTÀ E ALLAVOGLIA DI VIVERE” http://www.industriascenica.com/blog/2015/03/10/fabrizio-visconti-la- nostra-alda-merini-un-inno-alla-liberta-e-alla-voglia-di-vivere/ MANUEL RENGA COMPAGNIA CHRONOS 3 | “LA NOSTRATRAVIATA OGGI TRAAGENZIE ESCORT E PARTYFORSENNATI” http://www.industriascenica.com/blog/2015/03/26/manuel-renga-compagnia-chronos-3-la-nostra- traviata-oggi-tra-agenzie-escort-e-party-forsennati/ VERBAL | IL NOSTRO PERSONALE VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL KARAKORUM http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/02/verbal-il-nostro-personale-viaggio-alla-scoperta-del- karakorum/ DIONISI COMPAGNIATEATRALE - RENATA CIARAVINO | “POTEVO ESSERE IO”, UN TESTO PER ADULTI E PER I BAMBINI CHE FURONO. VENERDÌ 10 APRILE AL CIRCOLO EVEREST. http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/09/renata-ciaravino-potevo-essere-io-venerdi-10- aprile-al-circolo-everest/ BACK DOORS BLUES TRIO: LAVIMODRONE CHE VORREMMO? PIÙ MUSICA E CULTURA, ANCHE PER I MENO GIOVANI. http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/17/back-doors-blues-trio-la-vimodrone-che-vorremmo- piu-musica-e-cultura-anche-per-meno-giovani/ MINO MANNI E MARTA OSSOLI | “PARTE CON GIOVANNI TESTORI IL PROGETTO DI PORTARE LA LETTERATURAATEATRO”. http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/24/intervista-mino-manni-e-marta-ossoli-portiamo-la- grande-letteratura-nei-teatri-giovanni-testori/ SILVIO CASTIGLIONI | “NINO PEDRETTI? UNA RIVELAZIONE PER TUTTI, UNA DELLE MIE FOLLIE TEATRALI.” http://www.industriascenica.com/blog/2015/05/08/incontro-con-silvio-castiglioni-nino-pedretti-una- rivelazione-per-tutti-una-delle-mie-follie-teatrali/ ELEATEATRO | WEBULLI TORNAAL CIRCOLO EVEREST http://www.industriascenica.com/blog/2015/05/19/webulli-al-circolo-everest-elea-teatro-vimodrone/ CIR COLO EVER EST s pazio alla cultur a INDUSTRIA SCENICA: www.industriascenica.com CIRCOLO EVEREST: www.circoloeverest.com