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Lo scorso anno, a Natale, avevo pubblicato un racconto più o meno sullo stesso argomento. In
fondo, era una fiaba dolce, a lieto fine. La violenza di queste storie era nascosta tra le righe. Il
racconto poteva essere letto anche ai bambini. Questo è tutt’altra cosa. È un racconto forte, duro,
pieno di quel dolore e quella violenza che questi nostri giorni trascinano con sé. Almeno nelle mie
intenzioni. Non è molto natalizio e me ne scuso; però spero che ci aiuti, tutti, a riflettere su uno
dei peggiori drammi dei nostri giorni. Buona lettura a chi ne avrà voglia e grazie. …
Buone feste a tutti!
Vi dico subito che, probabilmente e se si realizzerà l’evento che spero, se cioè Valeria Cafagna, la
“creativa grafica” che ha spesso commentato i miei lavori con i suoi disegni e che oggi lavora
(intensamente) a Madrid, riuscirà a trovare un po’ di tempo per corredare il racconto, tornerò a
pubblicarlo più avanti, arricchito dai suoi segni.
Marcello de Martino Rosaroll
Business & Management Consultant – Go Digital Group
www.godigital.agency
La Migrante
La baracca
Vieni avanti e mi guardi, hai gli occhi cattivi, carichi di ferocia. Ho paura, ma non abbasso lo
sguardo. Mi afferri per i capelli. Urlo. Mi colpisci in viso …. forte, fortissimo.
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Stramazzo a terra. In un attimo mi sei addosso. Tu con altri due mi bloccate al suolo, sulla terra
ruvida e polverosa. Avete coltelli e pistole con voi. Mi strappi l’abito. Non ho molto addosso, anzi
avevo solo quello e le mutandine; mi strappate via anche quelle. Sono nuda. Riesco a colpirti con
un calcio in viso. Non capisci più niente, ti imbestialisci, mi colpisci con un pugno violento tra
stomaco e petto. Mi sento svenire ma resisto. Non voglio.
La baracca diventa piccolissima, le pareti si avvicinano, quasi mi crollano addosso. Poi si
allontanano. Mi gira la testa, tutto ruota.
Sento la tua voce e le imprecazioni degli altri due. Tu dici qualcosa, ma non capisco, ho troppo
dolore, troppa adrenalina. Le altre due bestie mi bloccano di nuovo, ma riesco a tenere le gambe
chiuse.
Ma cosa fanno le altre, gli altri, perché non intervengono? Se tutti insieme … forse le armi, forse la
paura …
Poi arriva il quarto, tiene in braccio Kenan, anzi, lo tiene sollevato per le braccine ed ha un coltello
in mano, puntato alla sua gola…
Capisco tutto, piango, urlo un “Noooo” che mi si strozza in gola. Non so neanche se lo abbia detto
davvero … e lascio che mi aprano le gambe; anzi le spalancano. Dovrei sentire dolore, ma non
sento nulla, guardo Kenan che piange e quel coltello alla sua gola. Poi un colpo violento, tra le
gambe, dentro, mi sento aprire, mi sento morire. Stavolta l’urlo esce reale e poi … buio.”
Mi sveglio tra le braccia di Feimata, mia sorella, quattro anni più grande di me. Ho dolore
dappertutto e mi sento sporca, sporca, sporca. Cerco Kenan, per fortuna lo vedo, è qui
rannicchiato vicino a me e c’è anche sua sorella, mia figlia Safaa. Safaa ha sette anni, Kenan
quattro. Hanno entrambi il viso stralunato, gli occhi lucidi, lo sguardo impaurito ed il terrore negli
occhi.
Ho un conato improvviso, ma non rimetto nulla. Non ho nulla da cacciare dallo stomaco, non
mangio da più di ventiquattro ore. Poi, improvviso, un dolore violento tra le gambe e ricordo …
hanno abusato di me, in tre o quattro, tutta la banda. Addosso ho un abito che non è il mio, poco
più di uno straccio. Me lo ha passato Feimata, era suo, mi sta grande ma non ho altro, nemmeno
le mutandine.
Guardo Feimata con riconoscenza ma non riesco a dirle nulla, piango; piango ed abbraccio Kenan e
Safaa e mi sento nuovamente mancare.
Ormai è passata una settimana dalla violenza. Per fortuna non si è ripetuta. Io sono nulla, ormai.
Potrei morire, potrei essere morta. Non fosse che per Kenan e Safaa. Non penso più. Non respiro
più. Non mangio più. Solo Feimata riesce a farmi ingoiare qualcosa. Mi dice: “fallo per loro, fallo
per Safaa, fallo per Kenan.” Ed io apro la bocca ed ingoio. Come lo dirò ad Asad. Forse non glielo
dirò mai, forse morirò prima…
Siamo qui nella baracca di legno; saremo una trentina, quasi tutte donne, sette od otto bambini,
tra cui Safaa e Kenan e non più di cinque o sei uomini; uomini o quel che resta di loro. Anche loro
non se la passano bene, mangiano meno di tutti; qualcuno ha visto la propria donna trattata come
me, senza poter intervenire. Uno ci aveva anche provato a difenderla, ma non è più con noi.
Hanno abbandonato il suo corpo nel deserto tra i sassi e la sabbia, dopo averlo ridotto a pezzi con i
machete.
Fa un gran caldo qui dentro. Siamo chiusi tutto il giorno qui. Ci dicono di aspettare, verrà il nostro
turno. Ci hanno derubato di tutto. I pochi soldi che ci erano rimasti, dopo aver pagato il viaggio,
credo, ai loro capi.
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Non ho più il telefonino per chiamarti o per farmi chiamare da Parigi, dove sei già, dove hai
trovato un lavoro, da dove ci hai mandato, in tre anni, i soldi per pagare il viaggio. Ed io soldi non
ne ho più, non ho più nulla, non ho più soldi, non ho più abiti per cambiare i miei figli, per me.
Nulla. Ho solo la speranza di rivederti, di venire lì da te, di portarti Safaa, di farti conoscere Kenan
che ancora non hai visto.
La baracca è molto calda di giorno e fredda la notte. Per riscaldarci ci mettiamo tutte vicine, con i
bambini nel mezzo, ma di giorno il caldo non si sa come sopportarlo.
Ci fanno uscire a gruppi di cinque o sei, con i nostri bambini, per una decina di minuti. I bambini
vorremmo farli uscire più di una volta, con le altre donne, anche se abbiamo paura che ce li
rubino, ce li portino via, ma loro, i bambini, non vogliono saperne: se, nel gruppo che esce non c’è
la loro mamma od il papà, non si muovono. Così, alla fine, anche i bambini stanno fuori solo pochi
minuti al giorno.
Mi sento impazzire, il mangiare e l’acqua sono pochi ed io do a Safaa e Kenan quasi tutta la mia
razione. Tutta non posso, non posso; io non posso morire, altrimenti cosa sarà di loro? Comunque,
in fondo, non ho neanche più fame. Io sono già morta.
Il gommone
Ma perché non ci fanno partire? Un giorno ci dicono che il mare è troppo agitato, un giorno che
non c’è la barca disponibile, un giorno che oggi sono partiti gli altri, che attendevano da prima, un
giorno non ci rispondono neanche.
Poi, finalmente, una mattina, spalancano le porte della baracca, sparano un paio di colpi in aria;
ridono sguaiati, offensivi per noi che stiamo tutti male, ma ci dicono: “Su, andate, cosa aspettate,
tocca a voi; andate, andate prima che ci ripensiamo e decidiamo di tenervi qui a divertirci ancora
un po’.” Ancora un paio di colpi sparati in aria e ci indicano con i fucili il sentiero. Qualcuno degli
uomini si attarda, fa fatica ad alzarsi, è debolissimo. Si prende un calcio nel fianco e si alza anche
lui, zoppicando si unisce a noi.
“Correte, sbrigatevi chi entra va, gli altri aspettano ancora… o li ammazziamo”. Ridono, Uno di loro
dà un gran colpo sul sedere di Feimata che non dice nulla, mi guarda, prende Kenan in braccio e mi
dice: “corri, prendi Safaa per mano e corri, corriamo, facciamo presto!”
Il sentiero sale verso una specie di duna, in parte rocciosa ed in parte coperta da sabbia. Corriamo,
qualcuno corre più di noi, ma altri restano indietro.
Arriviamo in cima alla duna e lì, vediamo …
… Il mare.
Il mare era lì a trecento metri dalla nostra baracca, grande, immenso, più grande del deserto che
abbiamo attraversato, azzurro, quasi come il cielo, ma più scuro. No, mi sbagliavo, non è azzurro, è
cupo, minaccioso eppure, anche, portatore, carico, di speranza. Era nascosto dalle dune. Ecco
cos’era quel rumore continuo, ritmato, strano che, soprattutto di notte, sentivamo.
E poi, tanti altri, tanti che sembrano uguali a noi, saremo forse duecento, trecento. Ma chi sono?
Dov’erano? Altri disgraziati, altri disperati, altri speranzosi. Come noi.
Sul mare due barche. Le riconosco, anche se sono molto diverse da quelle del nostro fiume. Le
riconosco perché me le avevi descritte tu, al telefono, quando eri arrivato in Italia. Sono molto più
grandi delle nostre, una sembra di legno, ma un’altra deve essere quello che mi hai descritto,
quella barca che chiamano gommone.
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Sono lì, a due, trecento metri dalla spiaggia. Ondeggiano ma restano ferme, nello stesso posto; ci
aspettano. Una speranza ed una minaccia nello stesso momento.
Cosa accadrà, ora? Ho paura, ho terrore ad entrare in quell’acqua, grande e sconosciuta. Io, noi,
non sappiamo nuotare. Cosa dobbiamo fare? Cosa devo fare con Safaa e Kenan? Cosa fa Feimata?
La guardo, ci guardiamo poi, senza parlare, via di corsa ancora verso il mare, verso le barche, verso
il gommone. Non ricordo più la fame, le botte, le violenze; corro, corro con Feimata che ha Kenan
in braccio, con Safaa che mi tiene la mano stretta e corre anche lei. Corriamo, siamo in acqua, cosa
c’è sotto i piedi? Sento la sabbia molle. Non avevo mai provata questa sensazione. Continuiamo a
correre, finché possiamo; poi l’acqua, piano piano sale, raggiunge lo stomaco, poi il petto;
fatichiamo ad avanzare. Nessuno di noi sa nuotare. Io ho preso in braccio anche Safaa che non
tocca più il fondo. L’acqua sale, sale allo stomaco, al petto; forse moriremo qui, moriremo …
Poi …, un ricordo: le tue parole che mi descrivono la stessa scena, quasi quattro anni fa, la corsa,
l’assalto alle barche. Il tuo viso mi si staglia in mente, Asad! Dolce, lontano Asad! Mi avevi detto
che avevi aiutato una donna a salire, poi, solo dopo, eri riuscito a salire anche tu.
Ce la farò anche io! Ce la faremo! Stiamo arrivando! Stiamo salendo! Siamo fradici, ma stiamo
cominciando di nuovo a viaggiare! Stiamo attraversando il mare! Domani saremo in Italia! Io e
Feimata, Kenan e Safaa e con noi tanti, tutti gli altri! Forza! Sali Safaa! Kenan è gia su! Forza
Feimata! Grazie amico sconosciuto che ci stai aiutando!
È difficile. È difficile salire. Si muove tutto! Il vestito è fradicio, mi è salito scoprendomi le cosce e
forse di più. Anche noi siamo fradici, ma non importa! Siamo su! Siamo a bordo stiamo venendo
Asad! Veniamo in Europa, in Italia, a Parigi!
Il gommone è pieno di gente, ma altri continuano ad arrivare, salgono, qualcuno li aiuta. Poi la
barca comincia ad oscillare. Qualcuno approfitta del momento in cui oscilla verso il basso per
tirarsi ancora su, ma l’ondeggio aumenta. Il gommone sembra stracarico. Forse non reggerà. Urla!
Paura! Poi due spari. Già, due spari ed un silenzio irreale. Dura due secondi, ma sembra eterno.
Restiamo immobili, tutti. Poi l’urlo feroce, straziante angoscioso di una donna che chiama,
disperata, il suo uomo. Cerca di scendere, di saltare di nuovo in acqua, ma la tengono. Glielo
impediscono ed, improvvisamente, la barca comincia a muoversi, Ancora un urlo fuoriesce,
contemporaneamente, da tutte le bocche, come da una sola gola ed il gommone va.
Il viaggio
Non dormo, è notte ma non è possibile dormire. Freddo. Un freddo tremendo, sconosciuto, un
tremore continuo nelle ossa, che non riesce a fermarsi. Kenan, per fortuna dorme. E’ accoccolato
tra me e sua sorella. Ha avuto freddo anche lui, ma, essendo piccolo, è riuscito a ripararsi un po’
tra i nostri due corpi ed, alla fine, è crollato. Safaa no. Non dorme. Lei è donna, se pur una
bambina. Lei “sente” il pericolo, l’orrore. Sa che non deve distrarsi, che qualsiasi gesto sbagliato
può costarle caro. Non glielo ha detto nessuno, ma lei lo sa. Lei è una donna. Alla fine, verso l’alba,
anche se il freddo si fa più pungente crolla, si addormenta, avvolta tra le braccia di Feimata.
Il mare, per fortuna è calmo. Il gommone procede, piano, mi sembra. Ma non ho esperienza di
mare, non so valutare realmente. Attorno a me, ai miei figli, a Feimata ci saranno almeno un
centinaio di persone. Anzi, il capobarca ha detto che siamo centoventidue. Anche lui è un povero
disgraziato, come noi. Anche lui sa che rischia la vita, allo stesso nostro modo; però lui ci guadagna
tanto. Se esce vivo lui sarà a posto, grazie ai nostri soldi od alla quota dei nostri soldi che i
trafficanti gli hanno messo in tasca. Ed, allora, lui è diverso da noi. Sa che deve essere diverso. Sa
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che deve tenerci sotto controllo, deve guardarsi da un eventuale nostro ammutinamento. È lui che
deve distribuirci i pochi viveri e l’acqua, anche quella, poca, per chissà quanto tempo, prima di
arrivare o di essere soccorsi. È lui che dovrebbe tenere la rotta e controllare la velocità ed il
carburante. Ed allora si comporta di conseguenza, urla, minaccia, mostra la pistola che gli hanno
dato ed, intanto, conduce la barca. Speriamo che sappia dove andare!
L’altra barca è più lenta di noi, l’abbiamo vista rimanere indietro, diventare man mano più piccola
e poi sparire. Non so dirlo con esattezza, ma ci saranno state almeno duecento persone, a bordo.
Che fine faranno anche loro? Come se la staranno cavando? Li rivedremo mai? Magari saranno
loro ad essere salvati e noi, invece, moriremo, di freddo, oppure affogati in questo enorme mare
che sembra non finire mai.
Noi siamo sistemati più o meno al centro della barca, un po’ più verso poppa. Tutto considerato,
rispetto agli altri, non siamo neanche messi malissimo. In particolare, chi è vicino alla prua è più
esposto al vento ed alle onde. D’altra parte, carichi come siamo, la barca è a pelo dell’acqua; ci
saranno forse sette od otto centimetri di margine tra il bordo del tubolare e l’acqua di mare.
Accanto a me, c’è un ragazzo, sembra molto giovane. Non parliamo la stessa lingua, ma ho capito
che proviene dal Sudan, ha cominciato il suo viaggio circa sei mesi fa. In Italia c’è già un suo
fratello più grande. È in una città del Nord, mi sembra Bergamo, credo mi abbia detto, dove lavora
come muratore e lo sta aspettando.
Finalmente il Sole comincia ad alzarsi dall’acqua. Adesso, spero, comincerà a scaldarci un po’, ma,
per ora, fa ancora molto freddo. Kenan dorme ancora, invece Safaa si è già risvegliata. Anche
Feimata, alle prime luci dell’alba si è un po’ assopita. Ma dorme a tratti, poi sobbalza, rabbrividisce
e si sveglia, tranne poi riaddormentarsi di nuovo per pochi minuti.
Siamo intorpiditi tutti, in parte a causa del freddo ed in parte a causa dell’impossibilità di
muoverci, stretti come siamo.
Il mare ora sembra un po’ meno calmo; piccole onde si infrangono sulla prua del gommone e, a
volte, anche contro il bordo, dalla nostra parte; così ci bagniamo un po’. Con il freddo pungente
del mattino, di questa stagione, gli spruzzi ci sembrano anche un po’ caldi. Il fatto è che, poi, si
resta bagnati ed il freddo aumenta. Io ho un po’ di nausea. Sarà che non sono abituata a stare
tante ore su una barca. Ed in queste condizioni, poi.
In effetti non sono l’unica a soffrire con lo stomaco. Per fortuna nessuno dei miei figli o Feimata
stanno soffrendo; ma il ragazzo stipato affianco a me ha già rimesso. Quasi nulla, visto il poco che
abbiamo nello stomaco, ma non ha potuto girarsi verso il mare e il vomito gli è finito addosso. E
non è il solo sulla barca. Ogni tanto, a seconda del vento, mi arrivano folate maleodoranti, È un
misto di puzza di vomito, di sudore, di abiti sporchi e, forse, di paura. Il ragazzo, si chiama Mosi,
sembra dolce e si vergogna molto di trovarsi in quelle condizioni, ma non è certo colpa sua ed ora,
in tanti, cominciano a soffrire il mare.
Per fortuna ora il Sole è più alto e ci riscalda un po’, ma il vento sta aumentando, le onde pure e la
barca comincia a muoversi sotto di noi, in modo strano. È come se fosse viva ed anche lei soffrisse
il moto ondoso ed il peso abnorme di tutte queste persone a bordo.
La sete, più che la fame, comincia a farsi sentire, con il caldo che cresce. A bordo c’è poca acqua,
almeno così sostiene il capobarca e così girano poche bottiglie. L’ordine è di non bere più di un
sorso ciascuno. Ma a prua, credo che qualcuno abbia ingurgitato più acqua di quanto gli spettasse.
Si alza un vociare e volano anche alcuni insulti. Il capobarca si fa sentire su tutti ed estrae la
pistola. Il gesto è sufficiente a riportare la calma, almeno per il momento. Ma il clima a bordo sta
cambiando.
6
È di nuovo calata la sera; di questa stagione fa buio presto. Buio, già, siamo davvero nel buio quasi
totale. Per fortuna in cielo la luna, a tre quarti, illumina la scena.
Forse, in verità, sarebbe meglio il buio totale. Il mare è cresciuto ancora. Vedere le onde, fa paura.
Arrivano come montagne d’acqua e quando sembra che ci si rovescino addosso, il gommone, a
fatica sembra sollevarsi un po’. Così, dentro, nella barca, arriva solo una piccola parte della
montagna. Però, ormai siamo tutti bagnati ed il freddo aumenta di nuovo. Il bordo in gomma
dell’imbarcazione sta diventando molle e l’acqua penetra più facilmente nello scafo.
I corpi sono infreddoliti, ma gli animi sono sempre più accesi. Basta un niente, un piede spostato
con poca attenzione che urta qualcun altro, un braccio che si interpone ed impedisce un sia pur
piccolo movimento a chi è incastrato, nel poco spazio, fianco a fianco; una parola; una litania; una
preghiera non gradita dal forzoso vicino e scatta uno sgarbo, una spinta, un insulto. Siamo stanchi,
tutti.
Persino il capobarca ha rinunciato a farsi sentire. Ormai, anche lui, è sveglio da più di
ventiquattr’ore e comincia a perdere lucidità.
La situazione, ed il mare stanno peggiorando di ora in ora.
I miei bambini sono distrutti, Kenan si lamenta nel dormiveglia, Safaa, no. Lei finalmente è crollata
e sta dormendo abbracciata al fratellino ed a Feimata. Io non riesco a dormire: ho nausea, ho
freddo ho paura, soprattutto per loro. Vedo questo mare che sembra ogni momento volerci
sommergere, avvolgere definitivamente come un sudario. E prego Allah di proteggere soprattutto
loro: i miei bambini e Feimata. Lo prego di prendere me, se lo desidera, ma di salvare loro. Fa
sempre più freddo e la notte è ancora lunga. I battibecchi sono cessati. Probabilmente solo perché
tutti sono sfiniti e non hanno più neanche la forza di litigare. Ma dove stiamo andando?
È alba di nuovo. Siamo ancora tutti vivi, almeno credo. Non riesco, infatti, a vedere tutti i miei
compagni e le compagne di viaggio. Ho pregato Allah tutta la notte. Forse per questo siamo ancora
in vita; ma il mare non si è calmato per nulla, forse è ancora più agitato ed il vento, freddo, spazza
la prua e ci porta acqua da tutte le direzioni. Davvero non ce la facciamo più. Io sarei già crollata e,
forse, sarei morta se non mi avesse sostenuta il pensiero dei figli ed anche di Asad che spero
ancora di poter rivedere.
Il giovane Mosi, affianco a me, ora, dorme. E’ stato anche lui sveglio quasi tutta la notte. L’ho
sentito mormorare; probabilmente pregava.
Sulla barca, ormai c’è silenzio, rotto solo dal borbottio del motore e dal rumore continuo,
martellante del mare e del vento. Credo che siamo sempre più lenti, sempre più sgonfi, sempre
più affondati. Ormai credo che manchi poco alla fine.
Improvvisamente ed inaspettato da tutti, il motore tace. Prima un silenzio carico di ansia, poi, un
brusio ed infine urla e pianti di disperazione si levano dalla barca, ormai alla deriva. Il carburante è
terminato. Siamo davvero all’ultimo atto.
L’elicottero
Poi, quasi contemporaneamente, succede qualcosa. E’ un rumore nel cielo. Credo di sognare,
penso che sia la voce collerica di Allah che, prima di chiamarci di là, ci rimproveri dei nostri peccati.
Ma non è questo! Una voce dalla prua grida: “Un elicottero! Guardate! Un elicottero! Là!”
Alziamo tutti lo sguardo ed effettivamente un elicottero si sta avvicinando nella nostra direzione.
Ormai è già quasi sopra di noi. Ha le insegne bianche rosse e verdi. È italiano! Forse siamo salvi!
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Mentre l’elicottero si ferma quasi sopra di noi, si sente la voce metallica di un altoparlante che
sovrasta il rumore del motore: “Be quiet! We are arriving to help and get you on safe! Not shake,
please and wait our safe boat coming in few minutes. pay attention, please!”
Altro che stare calmi, altro che aspettare! Una ventina tra donne ed uomini si sollevano di colpo in
piedi. La barca oscilla paurosamente. In quel momento un’onda, mandata dal diavolo in persona,
scavalca la prua del gommone e si riversa, dal lato opposto rispetto al nostro, sulle persone
assiepate da quella parte.
Di colpo, in tanti, spaventati dalla quantità di acqua entrata, balzano in piedi cercando di spingersi
sul bordo opposto, dove siamo già noi affollati e stretti come bestie.
La barca ondeggia paurosamente ed altra acqua entra dal nostro lato. È un attimo. Sono in acqua.
Con me Kenan che riesco, miracolosamente ad afferrare per un braccino. Mi rendo conto che, con
me, stanno finendo in acqua anche Safaa e Feimata ed, insieme a loro, almeno una ventina di
persone.
Rotolo nell’acqua ma, inconsapevolmente, non mollo Kenan. Poi ancora un imprevisto … qualcuno
mi cade addosso e mi strappa Kenan di mano. E’ Mosi che ha perso l’equilibrio anche lui e mi è
finito addosso.
Riemergo stordita, disperata; mi guardo intorno e lo vedo … vedo Kenan sotto il livello dell’acqua
abbandonarsi senza forze e cominciare a scendere. Urlo! Urlo con quanta voce riesco ad avere! È
tutta la voce che mi rimane per il resto della vita. Lo chiamo. Lo chiamo. Lo chiamo: “Kenan!”. Ma
lui è sotto, scende e, lentamente, affonda. Non reagisce, non può rispondere, probabilmente è
svenuto.
Vedo, come al di fuori di me, al di fuori della realtà, Mosi fare una specie di capriola ed andare
anche lui giù, nella direzione in cui sta scomparendo Kenan.
Non so quanto tempo stia passando; forse sono solo pochi secondi, forse è un minuto; a me
sembra un’ora. Non li vedo più, non vedo né Kenan, né Mosi. Non capisco nulla, sono aggrappata
ad una corda che pende dal gommone ma neanche me ne rendo conto. Sto soltanto guardando in
basso, verso il fondo, dove sono scomparsi prima Kenan, poi Mosi.
Infine vedo prima un’ombra, poi Mosi risalire. Tira la testa fuori per riprendere fiato … è solo.
Guardi verso di me con gli occhi disperati, pieni di angoscia, di tristezza. Non sei riuscito a salvarlo.
Urlo, anzi credo di urlare, perché dalla bocca non esce più alcun suono. La voce l’ho usata tutta
prima, per chiamare Kenan. Ora non mi servirà mai più.
Lascio lentamente la presa della corda che mi tiene attaccata al gommone e comincio a lasciarmi
scivolare giù, verso Kenan che è lì, sul fondo del mare, da qualche parte, che so che mi aspetta, mi
chiama; ma mi sento afferrare; sei tu Feimata che mi hai presa. Ti tieni anche tu a qualcosa del
gommone, ma io non lo posso sapere; io ho perduto qualsiasi contatto con la realtà, con la vita,
vorrei lasciarmi trascinare sul fondo verso di lui, ma tu, Feimata, ancora una volta mi fermi, me lo
impedisci. Mi tieni con forza e, d’un tratto, mi rendo conto che, dall’altro lato, Safaa mi sta
accanto, anche lei in acqua, ma viva, accanto a me, sostenuta, a sua volta da Mosi che la regge,
mentre entrambi piangono, piangono con tutta la disperazione che hanno dentro.
Quanto tempo è passato così, in acqua, senza lacrime da parte mia, senza voce, senza capire,
senza sentire nulla se non un amore immenso, infinito, straboccante per Safaa.
Sei tu, Safaa, che mi tieni in vita. Il resto è vuoto, non sento nulla, non riesco a pensarti, Kenan,
non in quel modo. Semplicemente, per me, tu sei da qualche altra parte.
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Quanto dura tutto questo? Quanto? Non ho freddo, non ho sete, non ho fame, ho solo te, Safaa e
ti guardo, ti stringo più che posso, con il solo braccio libero che ho. Ti abbraccio con l’anima e non
capisco, non conosco altro.
Poi arriva qualcuno … è un uomo, è coperto tutto di gomma, ha in mano delle cinghie con le quali
lega prima Safaa e poi anche me e, dopo un secondo, voliamo su, in alto, verso l’elicottero. Chi sei
Uomo? Cosa hai fatto? Grazie per Safaa, grazie per me, prendi anche Kenan?
Sono a bordo dell’elicottero, anzi siamo a bordo; qualcuno ci spoglia, poi ci asciuga, ci riveste, ci
copre con una coperta che sembra tutta d’oro. Non so neanche se sei uomo o donna … e Kenan?
Dov’è? Non lo vedo! Dov’è Kenan? E Feimata? “Feimata è viva, è a bordo dell’imbarcazione della
Marina Italiana che vi ha soccorso. Ha parlato di voi e così abbiamo collegato te e la tua bambina a
Lei.” “E Kenan?” “Lo stanno cercando. Coraggio!”
Epilogo
Il corpicino di Kenan lo hanno ripescato due giorni dopo. E’ stato un caso fortunato, perché la
maggior parte dei dispersi in mare, resta tale. Kenan è una delle migliaia di vittime di questo
orribile esodo. È uno dei bambini che ha pagato l’ingiustizia e le diseguaglianze di questo nostro
Mondo.
La mamma è stata accompagnata a terra, riconosciuta e, grazie alla situazione del marito Asad, è
potuta andare a Parigi con Safaa e Feimata. Era incinta di uno dei suoi torturatori.
Secondo uno studio dell’Unhcr, ad ottobre del 2016 i Migranti morti o dispersi nel Mediterraneo,
soltanto quest’anno, sono stati quasi 3.700. Save The Children stima che seicento di questi fossero
bambini.

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La migrante

  • 1. 1 Lo scorso anno, a Natale, avevo pubblicato un racconto più o meno sullo stesso argomento. In fondo, era una fiaba dolce, a lieto fine. La violenza di queste storie era nascosta tra le righe. Il racconto poteva essere letto anche ai bambini. Questo è tutt’altra cosa. È un racconto forte, duro, pieno di quel dolore e quella violenza che questi nostri giorni trascinano con sé. Almeno nelle mie intenzioni. Non è molto natalizio e me ne scuso; però spero che ci aiuti, tutti, a riflettere su uno dei peggiori drammi dei nostri giorni. Buona lettura a chi ne avrà voglia e grazie. … Buone feste a tutti! Vi dico subito che, probabilmente e se si realizzerà l’evento che spero, se cioè Valeria Cafagna, la “creativa grafica” che ha spesso commentato i miei lavori con i suoi disegni e che oggi lavora (intensamente) a Madrid, riuscirà a trovare un po’ di tempo per corredare il racconto, tornerò a pubblicarlo più avanti, arricchito dai suoi segni. Marcello de Martino Rosaroll Business & Management Consultant – Go Digital Group www.godigital.agency La Migrante La baracca Vieni avanti e mi guardi, hai gli occhi cattivi, carichi di ferocia. Ho paura, ma non abbasso lo sguardo. Mi afferri per i capelli. Urlo. Mi colpisci in viso …. forte, fortissimo.
  • 2. 2 Stramazzo a terra. In un attimo mi sei addosso. Tu con altri due mi bloccate al suolo, sulla terra ruvida e polverosa. Avete coltelli e pistole con voi. Mi strappi l’abito. Non ho molto addosso, anzi avevo solo quello e le mutandine; mi strappate via anche quelle. Sono nuda. Riesco a colpirti con un calcio in viso. Non capisci più niente, ti imbestialisci, mi colpisci con un pugno violento tra stomaco e petto. Mi sento svenire ma resisto. Non voglio. La baracca diventa piccolissima, le pareti si avvicinano, quasi mi crollano addosso. Poi si allontanano. Mi gira la testa, tutto ruota. Sento la tua voce e le imprecazioni degli altri due. Tu dici qualcosa, ma non capisco, ho troppo dolore, troppa adrenalina. Le altre due bestie mi bloccano di nuovo, ma riesco a tenere le gambe chiuse. Ma cosa fanno le altre, gli altri, perché non intervengono? Se tutti insieme … forse le armi, forse la paura … Poi arriva il quarto, tiene in braccio Kenan, anzi, lo tiene sollevato per le braccine ed ha un coltello in mano, puntato alla sua gola… Capisco tutto, piango, urlo un “Noooo” che mi si strozza in gola. Non so neanche se lo abbia detto davvero … e lascio che mi aprano le gambe; anzi le spalancano. Dovrei sentire dolore, ma non sento nulla, guardo Kenan che piange e quel coltello alla sua gola. Poi un colpo violento, tra le gambe, dentro, mi sento aprire, mi sento morire. Stavolta l’urlo esce reale e poi … buio.” Mi sveglio tra le braccia di Feimata, mia sorella, quattro anni più grande di me. Ho dolore dappertutto e mi sento sporca, sporca, sporca. Cerco Kenan, per fortuna lo vedo, è qui rannicchiato vicino a me e c’è anche sua sorella, mia figlia Safaa. Safaa ha sette anni, Kenan quattro. Hanno entrambi il viso stralunato, gli occhi lucidi, lo sguardo impaurito ed il terrore negli occhi. Ho un conato improvviso, ma non rimetto nulla. Non ho nulla da cacciare dallo stomaco, non mangio da più di ventiquattro ore. Poi, improvviso, un dolore violento tra le gambe e ricordo … hanno abusato di me, in tre o quattro, tutta la banda. Addosso ho un abito che non è il mio, poco più di uno straccio. Me lo ha passato Feimata, era suo, mi sta grande ma non ho altro, nemmeno le mutandine. Guardo Feimata con riconoscenza ma non riesco a dirle nulla, piango; piango ed abbraccio Kenan e Safaa e mi sento nuovamente mancare. Ormai è passata una settimana dalla violenza. Per fortuna non si è ripetuta. Io sono nulla, ormai. Potrei morire, potrei essere morta. Non fosse che per Kenan e Safaa. Non penso più. Non respiro più. Non mangio più. Solo Feimata riesce a farmi ingoiare qualcosa. Mi dice: “fallo per loro, fallo per Safaa, fallo per Kenan.” Ed io apro la bocca ed ingoio. Come lo dirò ad Asad. Forse non glielo dirò mai, forse morirò prima… Siamo qui nella baracca di legno; saremo una trentina, quasi tutte donne, sette od otto bambini, tra cui Safaa e Kenan e non più di cinque o sei uomini; uomini o quel che resta di loro. Anche loro non se la passano bene, mangiano meno di tutti; qualcuno ha visto la propria donna trattata come me, senza poter intervenire. Uno ci aveva anche provato a difenderla, ma non è più con noi. Hanno abbandonato il suo corpo nel deserto tra i sassi e la sabbia, dopo averlo ridotto a pezzi con i machete. Fa un gran caldo qui dentro. Siamo chiusi tutto il giorno qui. Ci dicono di aspettare, verrà il nostro turno. Ci hanno derubato di tutto. I pochi soldi che ci erano rimasti, dopo aver pagato il viaggio, credo, ai loro capi.
  • 3. 3 Non ho più il telefonino per chiamarti o per farmi chiamare da Parigi, dove sei già, dove hai trovato un lavoro, da dove ci hai mandato, in tre anni, i soldi per pagare il viaggio. Ed io soldi non ne ho più, non ho più nulla, non ho più soldi, non ho più abiti per cambiare i miei figli, per me. Nulla. Ho solo la speranza di rivederti, di venire lì da te, di portarti Safaa, di farti conoscere Kenan che ancora non hai visto. La baracca è molto calda di giorno e fredda la notte. Per riscaldarci ci mettiamo tutte vicine, con i bambini nel mezzo, ma di giorno il caldo non si sa come sopportarlo. Ci fanno uscire a gruppi di cinque o sei, con i nostri bambini, per una decina di minuti. I bambini vorremmo farli uscire più di una volta, con le altre donne, anche se abbiamo paura che ce li rubino, ce li portino via, ma loro, i bambini, non vogliono saperne: se, nel gruppo che esce non c’è la loro mamma od il papà, non si muovono. Così, alla fine, anche i bambini stanno fuori solo pochi minuti al giorno. Mi sento impazzire, il mangiare e l’acqua sono pochi ed io do a Safaa e Kenan quasi tutta la mia razione. Tutta non posso, non posso; io non posso morire, altrimenti cosa sarà di loro? Comunque, in fondo, non ho neanche più fame. Io sono già morta. Il gommone Ma perché non ci fanno partire? Un giorno ci dicono che il mare è troppo agitato, un giorno che non c’è la barca disponibile, un giorno che oggi sono partiti gli altri, che attendevano da prima, un giorno non ci rispondono neanche. Poi, finalmente, una mattina, spalancano le porte della baracca, sparano un paio di colpi in aria; ridono sguaiati, offensivi per noi che stiamo tutti male, ma ci dicono: “Su, andate, cosa aspettate, tocca a voi; andate, andate prima che ci ripensiamo e decidiamo di tenervi qui a divertirci ancora un po’.” Ancora un paio di colpi sparati in aria e ci indicano con i fucili il sentiero. Qualcuno degli uomini si attarda, fa fatica ad alzarsi, è debolissimo. Si prende un calcio nel fianco e si alza anche lui, zoppicando si unisce a noi. “Correte, sbrigatevi chi entra va, gli altri aspettano ancora… o li ammazziamo”. Ridono, Uno di loro dà un gran colpo sul sedere di Feimata che non dice nulla, mi guarda, prende Kenan in braccio e mi dice: “corri, prendi Safaa per mano e corri, corriamo, facciamo presto!” Il sentiero sale verso una specie di duna, in parte rocciosa ed in parte coperta da sabbia. Corriamo, qualcuno corre più di noi, ma altri restano indietro. Arriviamo in cima alla duna e lì, vediamo … … Il mare. Il mare era lì a trecento metri dalla nostra baracca, grande, immenso, più grande del deserto che abbiamo attraversato, azzurro, quasi come il cielo, ma più scuro. No, mi sbagliavo, non è azzurro, è cupo, minaccioso eppure, anche, portatore, carico, di speranza. Era nascosto dalle dune. Ecco cos’era quel rumore continuo, ritmato, strano che, soprattutto di notte, sentivamo. E poi, tanti altri, tanti che sembrano uguali a noi, saremo forse duecento, trecento. Ma chi sono? Dov’erano? Altri disgraziati, altri disperati, altri speranzosi. Come noi. Sul mare due barche. Le riconosco, anche se sono molto diverse da quelle del nostro fiume. Le riconosco perché me le avevi descritte tu, al telefono, quando eri arrivato in Italia. Sono molto più grandi delle nostre, una sembra di legno, ma un’altra deve essere quello che mi hai descritto, quella barca che chiamano gommone.
  • 4. 4 Sono lì, a due, trecento metri dalla spiaggia. Ondeggiano ma restano ferme, nello stesso posto; ci aspettano. Una speranza ed una minaccia nello stesso momento. Cosa accadrà, ora? Ho paura, ho terrore ad entrare in quell’acqua, grande e sconosciuta. Io, noi, non sappiamo nuotare. Cosa dobbiamo fare? Cosa devo fare con Safaa e Kenan? Cosa fa Feimata? La guardo, ci guardiamo poi, senza parlare, via di corsa ancora verso il mare, verso le barche, verso il gommone. Non ricordo più la fame, le botte, le violenze; corro, corro con Feimata che ha Kenan in braccio, con Safaa che mi tiene la mano stretta e corre anche lei. Corriamo, siamo in acqua, cosa c’è sotto i piedi? Sento la sabbia molle. Non avevo mai provata questa sensazione. Continuiamo a correre, finché possiamo; poi l’acqua, piano piano sale, raggiunge lo stomaco, poi il petto; fatichiamo ad avanzare. Nessuno di noi sa nuotare. Io ho preso in braccio anche Safaa che non tocca più il fondo. L’acqua sale, sale allo stomaco, al petto; forse moriremo qui, moriremo … Poi …, un ricordo: le tue parole che mi descrivono la stessa scena, quasi quattro anni fa, la corsa, l’assalto alle barche. Il tuo viso mi si staglia in mente, Asad! Dolce, lontano Asad! Mi avevi detto che avevi aiutato una donna a salire, poi, solo dopo, eri riuscito a salire anche tu. Ce la farò anche io! Ce la faremo! Stiamo arrivando! Stiamo salendo! Siamo fradici, ma stiamo cominciando di nuovo a viaggiare! Stiamo attraversando il mare! Domani saremo in Italia! Io e Feimata, Kenan e Safaa e con noi tanti, tutti gli altri! Forza! Sali Safaa! Kenan è gia su! Forza Feimata! Grazie amico sconosciuto che ci stai aiutando! È difficile. È difficile salire. Si muove tutto! Il vestito è fradicio, mi è salito scoprendomi le cosce e forse di più. Anche noi siamo fradici, ma non importa! Siamo su! Siamo a bordo stiamo venendo Asad! Veniamo in Europa, in Italia, a Parigi! Il gommone è pieno di gente, ma altri continuano ad arrivare, salgono, qualcuno li aiuta. Poi la barca comincia ad oscillare. Qualcuno approfitta del momento in cui oscilla verso il basso per tirarsi ancora su, ma l’ondeggio aumenta. Il gommone sembra stracarico. Forse non reggerà. Urla! Paura! Poi due spari. Già, due spari ed un silenzio irreale. Dura due secondi, ma sembra eterno. Restiamo immobili, tutti. Poi l’urlo feroce, straziante angoscioso di una donna che chiama, disperata, il suo uomo. Cerca di scendere, di saltare di nuovo in acqua, ma la tengono. Glielo impediscono ed, improvvisamente, la barca comincia a muoversi, Ancora un urlo fuoriesce, contemporaneamente, da tutte le bocche, come da una sola gola ed il gommone va. Il viaggio Non dormo, è notte ma non è possibile dormire. Freddo. Un freddo tremendo, sconosciuto, un tremore continuo nelle ossa, che non riesce a fermarsi. Kenan, per fortuna dorme. E’ accoccolato tra me e sua sorella. Ha avuto freddo anche lui, ma, essendo piccolo, è riuscito a ripararsi un po’ tra i nostri due corpi ed, alla fine, è crollato. Safaa no. Non dorme. Lei è donna, se pur una bambina. Lei “sente” il pericolo, l’orrore. Sa che non deve distrarsi, che qualsiasi gesto sbagliato può costarle caro. Non glielo ha detto nessuno, ma lei lo sa. Lei è una donna. Alla fine, verso l’alba, anche se il freddo si fa più pungente crolla, si addormenta, avvolta tra le braccia di Feimata. Il mare, per fortuna è calmo. Il gommone procede, piano, mi sembra. Ma non ho esperienza di mare, non so valutare realmente. Attorno a me, ai miei figli, a Feimata ci saranno almeno un centinaio di persone. Anzi, il capobarca ha detto che siamo centoventidue. Anche lui è un povero disgraziato, come noi. Anche lui sa che rischia la vita, allo stesso nostro modo; però lui ci guadagna tanto. Se esce vivo lui sarà a posto, grazie ai nostri soldi od alla quota dei nostri soldi che i trafficanti gli hanno messo in tasca. Ed, allora, lui è diverso da noi. Sa che deve essere diverso. Sa
  • 5. 5 che deve tenerci sotto controllo, deve guardarsi da un eventuale nostro ammutinamento. È lui che deve distribuirci i pochi viveri e l’acqua, anche quella, poca, per chissà quanto tempo, prima di arrivare o di essere soccorsi. È lui che dovrebbe tenere la rotta e controllare la velocità ed il carburante. Ed allora si comporta di conseguenza, urla, minaccia, mostra la pistola che gli hanno dato ed, intanto, conduce la barca. Speriamo che sappia dove andare! L’altra barca è più lenta di noi, l’abbiamo vista rimanere indietro, diventare man mano più piccola e poi sparire. Non so dirlo con esattezza, ma ci saranno state almeno duecento persone, a bordo. Che fine faranno anche loro? Come se la staranno cavando? Li rivedremo mai? Magari saranno loro ad essere salvati e noi, invece, moriremo, di freddo, oppure affogati in questo enorme mare che sembra non finire mai. Noi siamo sistemati più o meno al centro della barca, un po’ più verso poppa. Tutto considerato, rispetto agli altri, non siamo neanche messi malissimo. In particolare, chi è vicino alla prua è più esposto al vento ed alle onde. D’altra parte, carichi come siamo, la barca è a pelo dell’acqua; ci saranno forse sette od otto centimetri di margine tra il bordo del tubolare e l’acqua di mare. Accanto a me, c’è un ragazzo, sembra molto giovane. Non parliamo la stessa lingua, ma ho capito che proviene dal Sudan, ha cominciato il suo viaggio circa sei mesi fa. In Italia c’è già un suo fratello più grande. È in una città del Nord, mi sembra Bergamo, credo mi abbia detto, dove lavora come muratore e lo sta aspettando. Finalmente il Sole comincia ad alzarsi dall’acqua. Adesso, spero, comincerà a scaldarci un po’, ma, per ora, fa ancora molto freddo. Kenan dorme ancora, invece Safaa si è già risvegliata. Anche Feimata, alle prime luci dell’alba si è un po’ assopita. Ma dorme a tratti, poi sobbalza, rabbrividisce e si sveglia, tranne poi riaddormentarsi di nuovo per pochi minuti. Siamo intorpiditi tutti, in parte a causa del freddo ed in parte a causa dell’impossibilità di muoverci, stretti come siamo. Il mare ora sembra un po’ meno calmo; piccole onde si infrangono sulla prua del gommone e, a volte, anche contro il bordo, dalla nostra parte; così ci bagniamo un po’. Con il freddo pungente del mattino, di questa stagione, gli spruzzi ci sembrano anche un po’ caldi. Il fatto è che, poi, si resta bagnati ed il freddo aumenta. Io ho un po’ di nausea. Sarà che non sono abituata a stare tante ore su una barca. Ed in queste condizioni, poi. In effetti non sono l’unica a soffrire con lo stomaco. Per fortuna nessuno dei miei figli o Feimata stanno soffrendo; ma il ragazzo stipato affianco a me ha già rimesso. Quasi nulla, visto il poco che abbiamo nello stomaco, ma non ha potuto girarsi verso il mare e il vomito gli è finito addosso. E non è il solo sulla barca. Ogni tanto, a seconda del vento, mi arrivano folate maleodoranti, È un misto di puzza di vomito, di sudore, di abiti sporchi e, forse, di paura. Il ragazzo, si chiama Mosi, sembra dolce e si vergogna molto di trovarsi in quelle condizioni, ma non è certo colpa sua ed ora, in tanti, cominciano a soffrire il mare. Per fortuna ora il Sole è più alto e ci riscalda un po’, ma il vento sta aumentando, le onde pure e la barca comincia a muoversi sotto di noi, in modo strano. È come se fosse viva ed anche lei soffrisse il moto ondoso ed il peso abnorme di tutte queste persone a bordo. La sete, più che la fame, comincia a farsi sentire, con il caldo che cresce. A bordo c’è poca acqua, almeno così sostiene il capobarca e così girano poche bottiglie. L’ordine è di non bere più di un sorso ciascuno. Ma a prua, credo che qualcuno abbia ingurgitato più acqua di quanto gli spettasse. Si alza un vociare e volano anche alcuni insulti. Il capobarca si fa sentire su tutti ed estrae la pistola. Il gesto è sufficiente a riportare la calma, almeno per il momento. Ma il clima a bordo sta cambiando.
  • 6. 6 È di nuovo calata la sera; di questa stagione fa buio presto. Buio, già, siamo davvero nel buio quasi totale. Per fortuna in cielo la luna, a tre quarti, illumina la scena. Forse, in verità, sarebbe meglio il buio totale. Il mare è cresciuto ancora. Vedere le onde, fa paura. Arrivano come montagne d’acqua e quando sembra che ci si rovescino addosso, il gommone, a fatica sembra sollevarsi un po’. Così, dentro, nella barca, arriva solo una piccola parte della montagna. Però, ormai siamo tutti bagnati ed il freddo aumenta di nuovo. Il bordo in gomma dell’imbarcazione sta diventando molle e l’acqua penetra più facilmente nello scafo. I corpi sono infreddoliti, ma gli animi sono sempre più accesi. Basta un niente, un piede spostato con poca attenzione che urta qualcun altro, un braccio che si interpone ed impedisce un sia pur piccolo movimento a chi è incastrato, nel poco spazio, fianco a fianco; una parola; una litania; una preghiera non gradita dal forzoso vicino e scatta uno sgarbo, una spinta, un insulto. Siamo stanchi, tutti. Persino il capobarca ha rinunciato a farsi sentire. Ormai, anche lui, è sveglio da più di ventiquattr’ore e comincia a perdere lucidità. La situazione, ed il mare stanno peggiorando di ora in ora. I miei bambini sono distrutti, Kenan si lamenta nel dormiveglia, Safaa, no. Lei finalmente è crollata e sta dormendo abbracciata al fratellino ed a Feimata. Io non riesco a dormire: ho nausea, ho freddo ho paura, soprattutto per loro. Vedo questo mare che sembra ogni momento volerci sommergere, avvolgere definitivamente come un sudario. E prego Allah di proteggere soprattutto loro: i miei bambini e Feimata. Lo prego di prendere me, se lo desidera, ma di salvare loro. Fa sempre più freddo e la notte è ancora lunga. I battibecchi sono cessati. Probabilmente solo perché tutti sono sfiniti e non hanno più neanche la forza di litigare. Ma dove stiamo andando? È alba di nuovo. Siamo ancora tutti vivi, almeno credo. Non riesco, infatti, a vedere tutti i miei compagni e le compagne di viaggio. Ho pregato Allah tutta la notte. Forse per questo siamo ancora in vita; ma il mare non si è calmato per nulla, forse è ancora più agitato ed il vento, freddo, spazza la prua e ci porta acqua da tutte le direzioni. Davvero non ce la facciamo più. Io sarei già crollata e, forse, sarei morta se non mi avesse sostenuta il pensiero dei figli ed anche di Asad che spero ancora di poter rivedere. Il giovane Mosi, affianco a me, ora, dorme. E’ stato anche lui sveglio quasi tutta la notte. L’ho sentito mormorare; probabilmente pregava. Sulla barca, ormai c’è silenzio, rotto solo dal borbottio del motore e dal rumore continuo, martellante del mare e del vento. Credo che siamo sempre più lenti, sempre più sgonfi, sempre più affondati. Ormai credo che manchi poco alla fine. Improvvisamente ed inaspettato da tutti, il motore tace. Prima un silenzio carico di ansia, poi, un brusio ed infine urla e pianti di disperazione si levano dalla barca, ormai alla deriva. Il carburante è terminato. Siamo davvero all’ultimo atto. L’elicottero Poi, quasi contemporaneamente, succede qualcosa. E’ un rumore nel cielo. Credo di sognare, penso che sia la voce collerica di Allah che, prima di chiamarci di là, ci rimproveri dei nostri peccati. Ma non è questo! Una voce dalla prua grida: “Un elicottero! Guardate! Un elicottero! Là!” Alziamo tutti lo sguardo ed effettivamente un elicottero si sta avvicinando nella nostra direzione. Ormai è già quasi sopra di noi. Ha le insegne bianche rosse e verdi. È italiano! Forse siamo salvi!
  • 7. 7 Mentre l’elicottero si ferma quasi sopra di noi, si sente la voce metallica di un altoparlante che sovrasta il rumore del motore: “Be quiet! We are arriving to help and get you on safe! Not shake, please and wait our safe boat coming in few minutes. pay attention, please!” Altro che stare calmi, altro che aspettare! Una ventina tra donne ed uomini si sollevano di colpo in piedi. La barca oscilla paurosamente. In quel momento un’onda, mandata dal diavolo in persona, scavalca la prua del gommone e si riversa, dal lato opposto rispetto al nostro, sulle persone assiepate da quella parte. Di colpo, in tanti, spaventati dalla quantità di acqua entrata, balzano in piedi cercando di spingersi sul bordo opposto, dove siamo già noi affollati e stretti come bestie. La barca ondeggia paurosamente ed altra acqua entra dal nostro lato. È un attimo. Sono in acqua. Con me Kenan che riesco, miracolosamente ad afferrare per un braccino. Mi rendo conto che, con me, stanno finendo in acqua anche Safaa e Feimata ed, insieme a loro, almeno una ventina di persone. Rotolo nell’acqua ma, inconsapevolmente, non mollo Kenan. Poi ancora un imprevisto … qualcuno mi cade addosso e mi strappa Kenan di mano. E’ Mosi che ha perso l’equilibrio anche lui e mi è finito addosso. Riemergo stordita, disperata; mi guardo intorno e lo vedo … vedo Kenan sotto il livello dell’acqua abbandonarsi senza forze e cominciare a scendere. Urlo! Urlo con quanta voce riesco ad avere! È tutta la voce che mi rimane per il resto della vita. Lo chiamo. Lo chiamo. Lo chiamo: “Kenan!”. Ma lui è sotto, scende e, lentamente, affonda. Non reagisce, non può rispondere, probabilmente è svenuto. Vedo, come al di fuori di me, al di fuori della realtà, Mosi fare una specie di capriola ed andare anche lui giù, nella direzione in cui sta scomparendo Kenan. Non so quanto tempo stia passando; forse sono solo pochi secondi, forse è un minuto; a me sembra un’ora. Non li vedo più, non vedo né Kenan, né Mosi. Non capisco nulla, sono aggrappata ad una corda che pende dal gommone ma neanche me ne rendo conto. Sto soltanto guardando in basso, verso il fondo, dove sono scomparsi prima Kenan, poi Mosi. Infine vedo prima un’ombra, poi Mosi risalire. Tira la testa fuori per riprendere fiato … è solo. Guardi verso di me con gli occhi disperati, pieni di angoscia, di tristezza. Non sei riuscito a salvarlo. Urlo, anzi credo di urlare, perché dalla bocca non esce più alcun suono. La voce l’ho usata tutta prima, per chiamare Kenan. Ora non mi servirà mai più. Lascio lentamente la presa della corda che mi tiene attaccata al gommone e comincio a lasciarmi scivolare giù, verso Kenan che è lì, sul fondo del mare, da qualche parte, che so che mi aspetta, mi chiama; ma mi sento afferrare; sei tu Feimata che mi hai presa. Ti tieni anche tu a qualcosa del gommone, ma io non lo posso sapere; io ho perduto qualsiasi contatto con la realtà, con la vita, vorrei lasciarmi trascinare sul fondo verso di lui, ma tu, Feimata, ancora una volta mi fermi, me lo impedisci. Mi tieni con forza e, d’un tratto, mi rendo conto che, dall’altro lato, Safaa mi sta accanto, anche lei in acqua, ma viva, accanto a me, sostenuta, a sua volta da Mosi che la regge, mentre entrambi piangono, piangono con tutta la disperazione che hanno dentro. Quanto tempo è passato così, in acqua, senza lacrime da parte mia, senza voce, senza capire, senza sentire nulla se non un amore immenso, infinito, straboccante per Safaa. Sei tu, Safaa, che mi tieni in vita. Il resto è vuoto, non sento nulla, non riesco a pensarti, Kenan, non in quel modo. Semplicemente, per me, tu sei da qualche altra parte.
  • 8. 8 Quanto dura tutto questo? Quanto? Non ho freddo, non ho sete, non ho fame, ho solo te, Safaa e ti guardo, ti stringo più che posso, con il solo braccio libero che ho. Ti abbraccio con l’anima e non capisco, non conosco altro. Poi arriva qualcuno … è un uomo, è coperto tutto di gomma, ha in mano delle cinghie con le quali lega prima Safaa e poi anche me e, dopo un secondo, voliamo su, in alto, verso l’elicottero. Chi sei Uomo? Cosa hai fatto? Grazie per Safaa, grazie per me, prendi anche Kenan? Sono a bordo dell’elicottero, anzi siamo a bordo; qualcuno ci spoglia, poi ci asciuga, ci riveste, ci copre con una coperta che sembra tutta d’oro. Non so neanche se sei uomo o donna … e Kenan? Dov’è? Non lo vedo! Dov’è Kenan? E Feimata? “Feimata è viva, è a bordo dell’imbarcazione della Marina Italiana che vi ha soccorso. Ha parlato di voi e così abbiamo collegato te e la tua bambina a Lei.” “E Kenan?” “Lo stanno cercando. Coraggio!” Epilogo Il corpicino di Kenan lo hanno ripescato due giorni dopo. E’ stato un caso fortunato, perché la maggior parte dei dispersi in mare, resta tale. Kenan è una delle migliaia di vittime di questo orribile esodo. È uno dei bambini che ha pagato l’ingiustizia e le diseguaglianze di questo nostro Mondo. La mamma è stata accompagnata a terra, riconosciuta e, grazie alla situazione del marito Asad, è potuta andare a Parigi con Safaa e Feimata. Era incinta di uno dei suoi torturatori. Secondo uno studio dell’Unhcr, ad ottobre del 2016 i Migranti morti o dispersi nel Mediterraneo, soltanto quest’anno, sono stati quasi 3.700. Save The Children stima che seicento di questi fossero bambini.