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Da Pulp Fiction a Django Unchained,
passando per Death Proof
Dietro la favola c’è la realtà
Luisa Sciandra e Nicola C. Salerno vanno al cinema con Robinson Crosue
I film di Tarantino fanno di tutto per sembrare senza filo e senza senso, soprattutto
a chi vi si imbatta per la prima volta. Estetica pura, cervelloticità sposata al
paradosso, personaggi e caratteri estremi per lasciare il segno nelle immaginazioni.
Ma così non è. C’è un “filo rosso” che collega la maggior parte dei suoi film, anche a
distanza di anni. Il recentissimo Django Unchained (Gennaio, 2013) ha una chiave di
lettura, nella architettura e nelle impressioni che suscita, in comune con Pulp Fiction
del 1994 e Death Proof del 2007.
< Pulp Fiction> resta il capolavoro di Tarantino, il
film che prima di tutti, e più di tutti, ha dato
profondità e contenuti alla sua “estetica” dell’eccesso
e dell’esagerazione. Talmente ben costruito e
incastrato in tutte le sue parti, il film va visto almeno
un paio di volte: la prima sommerge lo spettatore di
punti interrogativi (ma che cosa sta succedendo? E
perché?), le altre volte permettono a ognuno di
cercare plausibili risposte. La prima parte del film,
poco più della metà, è la celebrazione dei violenti e
dei prepotenti. Il boss di quartiere/città, Marcellus,
può fare quello che vuole e sembra che il suo
strapotere non abbia confini. I suoi due scagnozzi,
Vincent Vega (John Travolta) e Jules Winnfield (Samuel L. Jackson) fanno la bella
vita e eseguono le condanne a morte, decise dal boss, in maniera leggera e brillante.
La normalità è questa, l’ordine delle cose è questo. Chi non è nel gotha del potere, si
limiti ad applaudirlo e a riconoscerne assolutezza, perentorietà, naturalezza, assenza
di scrupolo che trasmette essenza di impunità. Proprio quando lo spettatore si è ben
costruito questa idea, tutto precipita alla velocità della luce, ed inizia la seconda
parte del film. Gli scagnozzi non riescono a portare a compimento una delle
operazioni di taglieggiamento assegnate dal boss, e hanno bisogno dell’aiuto di un
manager, Harvey Keitel (Winston Wolf), che li tratta come scolaretti ingrembiulati
da condurre mano nella mano. Di lì a poco, Vincent Vega viene freddato mentre esce
dal gabinetto con un giornaletto in mano. A sparare è un impaurito pugile che aveva
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disobbedito all’ordine di perdere il match per far vincere le scommesse clandestine
fatte dalla malavita. Il grande boss Marcellus, in un susseguirsi di onirici
stravolgimenti dei fatti, finisce per essere sodomizzato nello scantinato di un negozio
di elettrodomestici, salvato per il rotto della cuffia proprio dal pugile che lo aveva
“tradito”. Jules Winnfield non fa la fine di Vincent Vega, ma solo perché ha una
folgorazione mistica. Improvvisamente si sente debole e appeso a un filo e decide di
cambiare vita. Per la prima volta si chiede il senso di alcuni versetti biblici che
conosceva a memoria e che usava ripetere come un vezzo prima di prendere a
revolverate le sue vittime. È quasi una folgorazione “sulla via di Damasco”. Il suo
ultimo gesto nella vecchia vita è la clemenza nei confronti di un rapinatore da
strapazzo di un fast-food che, senza conoscerlo, aveva osato puntargli una pistola in
faccia e chiedergli il portafogli. Tutti quelli che sembravano potenti e invincibili nella
prima parte del film, si rimpiccioliscono a dismisura man a mano che la storia volge
a termine. Il salto è brevissimo, il baratro si materializza dietro l’angolo. Il messaggio
assume toni biblici, proprio come i versetti di Jules: guai a voi superbi oppressori,
preparatevi!, la caduta è già scritta nella vostra violenza. È la “Provvidenza” evocata
da Tarantino, spietata come gli uomini che vuole punire, come il Dio descritto in
molte parti del Vecchio Testamento.
In <Death Proof> la trama resta un po’ forzata
rispetto al mosaico ben incastrato di <Pulp Fiction>,
ma la macro-struttura del film è la stessa. Anzi, qui
la si percepisce anche meglio perché la storia si
suddivide nettamente in due parti, senza i flash-back
e flash-forward che aggiungono ritmo a <Pulp
Fiction>. Nella prima metà, un macho psicopatico
costruisce la sua personalissima roulette russa:
utilizza la sua macchina per manovre spericolate,
per scommettere su vita o morte. Si diverte a
lanciare il bolide, in piena notte e a fari spenti, in
uno scontro frontale a tutta velocità. Lui sopravvive,
ma cinque ragazze ne vengono fuori maciullate. Ed
ecco in arrivo la nemesi della seconda parte. In
preda a deliri di onnipotenza, l’uomo tenta di ripetere una simile roulette quindici
anni dopo (chissà che cosa è stato in grado di combinare nel frattempo…); ma, e qui
scatta la speciale spietata “Provvidenza” di Tarantino, stavolta si imbatte in un
gruppo di ragazze che, impaurite e sconvolte, si coalizzano e diventano più folli di
lui. Fanno a pezzi lui e sbriciolano la sua macchina nel mezzo dei deserti texani. Il
macho psicopatico trionfa e sembra immortale nella prima parte. Ragazze giovani,
avvenenti, formose (è un trionfo di magliettine attillate per tutto il film), dall’aria
quasi adolescenziale, lo annientano nella seconda.
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< Django Unchained> si misura direttamente
con un tema inedito per Tarantino, il razzismo. In
altri suoi film il razzismo compare come
manifestazione di violenza e miccia per altra
violenza, ma solo qui diventa centrale. Il film non
è così marcatamente diviso in due parti come
<Death Proof>, ma vi si riconosce lo stesso
disegno complessivo presente sin da <Pulp
Fiction>. Dall’inizio sino a pochi minuti prima
dell’epilogo, lo sfondo su cui si innesta l’azione è
quello di un totale inferno per gli sventurati che
la Natura ha punito con la pelle nera. Siamo negli
Stati Uniti prima della Guerra Civile. La
schiavitù è un diritto che il Dio Bianco ha
regalato ai suoi figli. Non si intravede nessuna possibilità di riscatto per i neri. Sono
figli di un Dio Nero minore, che ha per sempre perso la battaglia col Dio Bianco:
ammassati come bestie, sfruttati, violentati, deturpati nel corpo e nello spirito,
soggiogati con la frusta da uomini bianchi microcefali, marchiati come vitelli,
utilizzati come bestie da combattimento per annoiati signori dell’alta borghesia.
Qualcuno (più fortunato o più sfortunato?), dopo una vita intera di demolizione
mentale, arriva persino ad adorare il padrone bianco, e allora si merita il permesso di
accedere al salotto di casa come un ammennicolo aggiunto all’albero genealogico di
famiglia. È su questo sfondo che il negro Django conduce un lento ma clamoroso
percorso di riscoperta di se stesso e delle sue capacità, in cui si riflettono tutte le doti
inespresse della sua gente. Il risveglio inizia quando un bounty-killer, un tedesco
trapiantato negli States, comincia a utilizzarlo come aiutante per le sue caccie
all’uomo, all’uomo bianco!, perché i neri per definizione non possono violare la
legge ma la subiscono e basta. E mentre i due, il bianco bounty-killer e il negro
Django, diventano addirittura amici, Django impara che i padroni bianchi, non solo
non sono immortali, ma sono anche più deboli di lui e spesso anche invidiosi di lui.
L’apoteosi della rivincita coincide con l’apoteosi della violenza in risposta alla
violenza. Viene annientato l’intero clan di schiavisti in cui lavorava come sguattera
la moglie di Django, separata da lui con la forza anni prima, nera anche lei,
bellissima. La villa coloniale del clan è letteralmente estirpata con la dinamite,
mentre Django e la sua donna si incamminano, tranquilli e realizzati, verso
l’orizzonte. Non è certo l’orizzonte della fine del razzismo, ma è quanto basta per
“chiudere il cerchio” alla Tarantino e lanciare due messaggi, nella maniera cruda e
viscerale tipica di Tarantino: i razzisti sono molto peggio dei bounty-killer; e non c’è
strapotere violento che prima o poi non si squagli come neve al sole.
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Violenza risponde a violenza, è solo
questione di tempo per Tarantino. E
questa legge universale di simmetria
resta imprevedibile nei tempi e nei
modi di concretizzazione. Quando
questa forza si scatena, non ci sono
reazioni umane che possano
bloccarla. E riecheggiano le parole di
Sergio Leone: “La violenza dei miei film
ha un’estrazione politica. Il personaggio che muore deve urlare, lo sparo deve essere
amplificato, si deve vedere il sangue, si deve capire il danno provocato da un foro di pallottola.
Non c’è compiacimento, ma un preciso intento morale. È un avvertimento: dietro la favola c’è
la realtà!”. Dietro la modernità del cinema, è un messaggio antichissimo, che arriva
dalle prime riflessioni filosofiche sui principi che si bilanciano nel Cosmo, e dalle
tragedie greche che, facendo toccare con mano lo sprofondo, aiutano a mantenere
acceso il lume della ragione.
ls & ncs