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IL BAGNINO
E I SAMURAI

LA RICERCA
BIOMEDICA IN ITALIA:
UN’OCCASIONE spreCATA
DANIELA MINERVA
SILVIO MONFARDINI
prefazione di ignazio marino
Daniela Minerva e Silvio Monfardini
Il bagnino e i samurai
La ricerca biomedica in Italia: un’occasione sprecata
Progetto grafico: Limiteazero + Cristina Chiappini
Redazione: Palma Di Nunno
Impaginazione: Daiana Galigani
Coordinamento produttivo: Enrico Casadei

ISBN 978-88-7578-380-8
© 2013 Codice edizioni, Torino
Tutti i diritti sono riservati

codiceedizioni.it
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Questo libro è dedicato alle nuove generazioni.
In particolare alle nostre.
In ordine di apparizione: Erica, Michele,
Carolina, Lorenzo, Ilaria, Francesca, Angelo,
Giovanni, Tommaso, Emma, Sofia, Furio e Alice.
Premessa

Cominciamo subito col dire chi è “il bagnino” e chi sono “i
samurai”. Il bagnino è Carlo Sama, perché negli anni sessanta
così lo chiamavano sulle spiagge di Romagna, dove il futuro
amministratore delegato di Montedison, aitante ragioniere ravennate, dava il meglio di sé conquistando così la rampolla
Ferruzzi, Alessandra. Un grande manager non lo è mai diventato, il bagnino, ed è una beffa della storia che sia toccato
proprio a lui liquidare la grande azienda di Stato che aveva
plasmato quarant’anni di storia italiana, e con ciò mettere in
mani straniere, precisamente svedesi, Farmitalia-Erbamont, il
gioiello della farmaceutica italiana, l’unico nucleo dal quale
sarebbe potuta nascere una Big Pharma tutta nostra.
I samurai, invece, sono sette giovanotti (sei e una ragazza
con gli occhiali) che hanno dato vita alla moderna oncologia
medica negli anni sessanta di una Milano innamorata della
scienza, votata al progresso e non ancora “da bere”. A chiamarli così, scherzosamente ma non tanto, è stato l’uomo che
li ha raccolti attorno a sé: Gianni Bonadonna, un mostro sacro della medicina dei tumori diventato tale anche in virtù di
un farmaco potentissimo, sviluppato proprio da Farmitalia, e
portato negli ospedali di tutto il mondo grazie alle sperimentazioni dei samurai.
Due soggetti antitetici, il bagnino e i samurai, due culture
e due visioni del mondo antitetiche, che però si sono trova-
Il bagnino e i samurai
X

te a vivere insieme la grande occasione dell’Italia: partecipare
alla partita miliardaria della guerra mondiale al cancro. La
partita è stata persa, e anche l’Italia ha perso. In questo libro
racconteremo come e perché il nostro paese, sprecando soldi
e dilapidando talenti, è riuscito a farsi sfuggire il treno della
modernità. Lo faremo partendo proprio dall’occasione offerta
dall’oncologia, che ha visto da un lato il sistema paese, rappresentato dal bagnino, rinunciare al grande gioco della ricerca
farmaceutica con una certa inconsapevole leggerezza, e dall’altro la comunità medico-scientifica, rappresentata dai samurai,
che è riuscita nonostante tutto a fare molto, a essere credibile
e autorevole e conquistarsi un posto nel mondo, ma che, con
l’andare del tempo e i conseguenti mutamenti nei profili della
ricerca, oggi arranca.
È la storia di un miracolo sfumato, bruciato da una classe
politica rapace, ignorante, retrograda e riottosa nei confronti
della modernità, e da imprenditori con lo sguardo corto, che
hanno preferito sperperare un patrimonio in insipienza, mancanza di strategie e mazzette ai politici, invece di raccogliere le
sfide della grande industria scientifica in grado di fare ricerca
biomedica. Le premesse affinché anche il nostro paese potesse
giocare la partita del business farmaceutico c’erano tutte: la
storia di questo settore testimonia il grande fermento che, a
cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, ha portato alla nascita e allo sviluppo di diverse industrie promettenti e all’orientarsi di un discorso pubblico che guardava alla ricerca scientifica come motore del progresso. Poi, tutto è svanito nel nulla.
Questo libro vuole capire perché e indagare se, nonostante le
insipienze di politici e imprenditori, sia rimasta un’ossatura
sana sulla quale ricostruire.
Siamo convinti che Montedison sia stata l’unica vera occasione di aggregare una multinazionale italiana del farmaco.
Tralasciando come abbiano poi impiegato i loro discutibili talenti, e lo vedremo, le altre industrie farmaceutiche non avevano le caratteristiche per farsi “Big”: troppo piccole e chiuse
attorno alla famiglia padrona, troppo lontane dalla realtà in-
Premessa

dustriale della chimica che, volente o nolente, è in Europa la
madre matrigna della farmaceutica, troppo prigioniere, infine,
di un sistema del credito che le ha paralizzate nell’incapacità
di giocare in Borsa le proprie chance. Montedison, però, è stata anche la palestra nella quale la politica italiana ha dato il
peggio di sé, dove si è mostrata l’incapacità del nostro sistema
paese di credere in un’impresa science driven.
Diciamolo subito e senza pudori, noi non siamo tra quelli
che pensano che l’industria farmaceutica sia il diavolo, anzi:
riteniamo che sia un importante motore di sviluppo, e perciò
sarebbe auspicabile avere imprese di questo tipo – italiane o
straniere – che investono in ricerca nel nostro paese. Pensiamo anche, però, che sia necessario cambiare passo, e molto. La corruzione, le relazioni opache, i politici che si sono
sottratti e si sottraggono alla giustizia nascondendosi dietro
l’immunità, gli industriali mascalzoni che hanno gonfiato i
prezzi a suon di mazzette sono un’ombra che pesa troppo e
che alimenta la sfiducia sorda dell’opinione pubblica. Se non
saranno prese misure draconiane per dare un taglio deciso
a questo andazzo orrendo, ci andranno di mezzo non solo i
malati, ma anche il paese.
Dobbiamo riconoscere che il combinato disposto di un atteggiamento ostile dell’opinione pubblica, alimentato da una
retorica cattocomunista che stigmatizza “chi fa i soldi sulle
malattie”, e della rapacità della politica, che ha ritenuto opportuno (oltre che eticamente plausibile) lucrare a danno di
chi lucra sui malanni altrui, è stato il combustibile di quarant’anni di errori che ci hanno progressivamente lasciato fuori da un settore vitale, per la nostra salute e i nostri affari. Il
caso dell’oncologia è la punta di diamante di questa catena di
disastri, perché l’oncologia è la punta di diamante della ricerca
biomedica moderna.
Sconfiggere il cancro con nuovi farmaci è la scommessa
che ispira scienziati di prim’ordine, alimentando migliaia di
progetti straordinari e muovendo milioni di dollari. Noi ne
siamo fuori, siamo solo un mercato acritico: compriamo dal-

XI
Il bagnino e i samurai
XII

le multinazionali farmaci per sviluppare ognuno dei quali è
stato speso un miliardo e mezzo di dollari; non abbiamo la
possibilità di generare ricerca autonoma e subiamo, quindi, le
scelte di Big Pharma, il cui fatturato non conosce crisi ed è tale
da permettere massicci investimenti nella ricerca. Questo ci fa
male, anche alla salute, e lo vedremo nel dettaglio.
Eppure poteva andare diversamente. Prima di cominciare a
spiegare che cosa è andato storto, vogliamo dire chiaramente
che non ci piace il paese che vediamo, tutto intento a disegnare
scarpe, modellare divani o imbottigliare Cartizze. Baloccarsi
con l’economia delle tre F (fashion, furniture e food) che oggi
fa grande l’Italia nel mondo è un’illusione pericolosa della
quale già si vedono i rovinosi effetti. Sentiamo ancora l’eco
delle parole ottuse di quel commercialista di Sondrio che ha
guidato l’economia italiana, per un tempo che ci è parso infinito, nella convinzione che la «cultura non si mangia» e che non
ci si può fare «un panino con la Divina Commedia».
A gente come l’allora ministro Giulio Tremonti piace un
paese ignorante intento a fare soldi cucendo tomaie e limando
rondelle, ma anche chi lo ha preceduto e chi lo ha seguito non
ha mai pensato che, invece, la cultura è l’anima del progresso industriale. Anche se lo ha pensato, non ha mai smesso di
togliere ossigeno alla ricerca, proprio mentre il paese guida
dell’Europa, la Germania, tagliando, nel suo bilancio di previsione dello Stato per il 2013, ottanta miliardi di euro, ha
aumentato quelli investiti in ricerca e università di tredici.
In Italia la scienza è un lusso astruso; a nessuno viene in
mente che, invece, è l’unico pilastro contro il declino. Così,
quando abbiamo visto la bella faccia di Fabiola Giannotti sulla copertina di “Time Magazine”, una donna dell’anno 2012,
ci si è stretto il cuore. È vero, la faccenda del bosone di Higgs
ha riempito i giornali anche italiani, e a Fabiola qualche intervista gliel’hanno fatta, ma da qui ad essere diventata una
celebrità ce ne corre. Gli scienziati in Italia non se li fila nessuno: magari pensiamo anche che facciano delle cose importanti,
ma fatichiamo a capire perché queste cose sono importanti,
Premessa

il che significa che fatichiamo a riconoscerli come la colonna
portante dello sviluppo e della modernità. Vale persino per
il grande padre Galileo: per i più è un signore con la barba
bianca che si mise contro la Chiesa, ma le ragioni di ciò la
maggior parte degli italiani le ignora. La stessa sorte tocca a
Fermi, Rubbia, Montalcini o all’uomo delle fortune Montedison, Giulio Natta: tutti Nobel. Già, ma perché?
Si fa presto a dare la colpa a don Benedetto Croce, alla
scuola che nasce e resta gentiliana, alla cultura spiritualista
che marchia scienza e tecnologia come frutti del demonio, o a
quella post-moderna che le snobba come subculture borghesi
al servizio dello sfruttamento capitalista, illusorie e ingenue
come illusoria e ingenua è l’idea di progresso. Di certo è questo il terreno di coltura dove nasce e ingrassa il disinteresse della politica per la ricerca scientifica, ma, al fondo, c’è la
natura stessa dell’Italia: investiamo meno di ogni paese industrializzato nella ricerca, che sola può essere oggi il generatore
dell’industria (l’1,2 per cento del Pil, la metà di Germania e
Stati Uniti, un terzo di Giappone e Corea), abbiamo il numero
di laureati tra i più bassi dei paesi OCSE (il trentaquattresimo posto su trentasei), e paghiamo i nostri ricercatori cifre
ridicole rispetto a quanto li pagano i paesi che contano (un
post-doc in Italia, nel momento della sua massima creatività,
non guadagna più di milleduecento euro lordi, quando li guadagna). Il fatto è che l’Italia considera marginale ed elitaria la
scienza; siamo il paese dei bagnini: ci piacciono i samurai ma
non capiamo cosa fanno, e per questo li mettiamo ai margini
dei nostri interessi.
Questo è l’errore storico dell’Italia, quello che l’ha trascinata in un abisso dal quale, come ci dicono i grandi economisti, chissà mai se si solleverà. Perché è evidente che non c’è
sviluppo economico senza ricerca scientifica: come dimostra il
passato, tutte le innovazioni sociali sono state guidate dalle rivoluzioni scientifiche e, come dimostra il presente, le economie
trainanti lo sono in virtù del loro motore scientifico-tecnologico. Questo motore, va detto, ha sempre preso il volo sulle ali

XIII
Il bagnino e i samurai

di una ricca dotazione pubblica. È dal manifesto Science, the
Endless Frontier consegnato da Vannevar Bush al presidente
Roosevelt alla fine della seconda guerra mondiale che nasce il
mondo contemporaneo, dal mandato stringente a supportare senza sosta il lavoro degli scienziati: a spendere, spendere,
spendere, seguito con diligenza per decenni. Il nostro mondo
prende forma con i grandi progetti (dalla conquista dello spazio di Kennedy alla guerra al cancro di Nixon alla rivoluzione
green di Obama) che investono milioni di dollari nella ricerca
scientifica creativa. Non sarà mica un caso se la Cina investe
già l’1,6 per cento del suo Pil e mette ogni anno il 25 per cento
in più di soldi nella scienza. L’Italia non l’ha fatto e non lo
fa. Così si balocca nell’economia residuale delle tre F, gioiosamente brindando al suo declino. Con un ottimo Cartizze,
però.
Daniela Minerva e Silvio Monfardini
Milano,  luglio  2013

XIV
Prefazione
di Ignazio Marino

«Tenersi sulla punta dei piedi non vuole dire crescere» recita una massima di Lao Tzu. Sono parole che ben si addicono
all’Italia, che figura tra le nazioni più avanzate della Terra
senza avere la forza degli altri paesi occidentali anche per l’incapacità di investire, ieri come oggi, in progresso, ricerca e
cultura scientifica. È questa una delle ragioni che rende il nostro paese, al di là della crisi attuale, strutturalmente fragile
e privo di solide fondamenta. Ancora adesso gli investimenti
italiani in ricerca scientifica non raggiungono un punto percentuale di Pil.
Questo bel libro di Daniela Minerva e Silvio Monfardini
è prezioso per capire come siamo arrivati a sottodimensionare, relegandolo alla marginalità sulla scena internazionale,
un pilastro importante del sistema produttivo come il settore
farmaceutico. E per comprendere che restare a bordo campo
in questo ambito comporta tra l’altro accedere per ultimi alle
formule terapeutiche più avanzate.
Sullo sfondo della storia della guerra contro il cancro, si
raccontano da un lato i limiti dell’impresa farmaceutica italiana, i suoi fallimenti e le opacità del rapporto con la politica
che hanno impedito la crescita di un’industria forte in grado
di fare investimenti, e, dall’altro, il lavoro pionieristico di ottimi ricercatori e clinici italiani che hanno condotto alla sintesi
dell’adriamicina e alla nascita dell’oncologia medica.
Il bagnino e i samurai
XVI

I protagonisti che si nascondono dietro il titolo da favola
di questo libro, il bagnino e i samurai, sono gli uomini che,
nel bene e nel male, hanno condotto il gioco della ricerca e
della sperimentazione, della politica e degli affari, negli ultimi
decenni del secolo scorso.
La cessione di Farmitalia, che aveva sviluppato una molecola altamente innovativa, a un’azienda straniera è esemplare. Rappresenta il momento culminante di una lunga politica
del farmaco basata sull’assenza: pochi fondi, nessuna buona
legislazione sui brevetti, nessun impulso alle imprese a fondersi o aggregarsi in grandi gruppi imprenditoriali in grado di
concentrare la massa critica di risorse necessaria a finanziare
l’innovazione. Anche la convenienza di alcune imprese – padroncini piuttosto che industriali – a restare piccole ha contribuito a bloccare il sistema. Né la politica né l’impresa hanno
scommesso sul farmaco come fattore di sviluppo economico,
oltre che di promozione della salute. Il risultato è che tra le
prime dieci aziende farmaceutiche di tutto il mondo non c’è
oggi un nome italiano.
Quanto tutto questo ci costi in termini economici è spiegato qui con grande chiarezza: gli autori ricordano che siamo il
terzo mercato europeo del farmaco per dimensioni, abbiamo
importanti capacità di spesa grazie al Servizio Sanitario Nazionale, possiamo contare su scienziati e medici di ottimo livello, ma siamo fuori dall’industria mondiale del farmaco che ha
fatturato lo scorso anno complessivamente oltre mille miliardi
di dollari e che registra una crescita annua dell’8 per cento.
Quanto alle conseguenze sulle possibilità di cura, vale la
pena ricordare, come fanno Daniela Minerva e Silvio Monfardini, le parole di Gordon McVie: «Si cura meglio dove si
fa ricerca».
Il mercato farmaceutico italiano è un settore cruciale per
l’assetto industriale del nostro paese, ma occorre superare la
cultura dell’emergenza e puntare su innovazione e nuove tecnologie. Alcuni interventi irrinunciabili, come stanziamenti
mirati alla messa a punto di farmaci innovativi e finanziamen-
Prefazione

ti a bando per le aziende che si impegnano nel campo della
ricerca clinica coinvolgendo personale dedicato, dovrebbero
andare di pari passo con norme che evitano frammentazioni
territoriali e assicurano un accesso uniforme per tutti i pazienti alle nuove terapie.
Una lunga catena di passi indietro, invece, ci ha portato a
indebolire la nostra economia e a legare le nostre strategie terapeutiche a indirizzi produttivi e di ricerca decisi altrove, nei
paesi in cui i farmaci vengono sperimentati e prodotti. È lì che
le terapie più nuove ed efficaci sono immediatamente disponibili, non nel nostro paese dove scontiamo tempi più lunghi
anche per la sola approvazione e registrazione.
Ripercorrere questa storia è importante per tentare di invertire la rotta. Al contrario, siamo costretti a costatare che
il nostro presente somiglia al passato e che la ricerca e l’innovazione scientifica continuano a trovarsi all’ultimo punto
dell’agenda del paese, mentre un numero significativo di risorse viene destinato a comprare aerei da guerra come gli F-35.
Leggere queste pagine dovrebbe indurci a una riflessione
sul ruolo della politica, che è stata a lungo troppo vicina alla
gestione e all’amministrazione della ricerca e della sanità, desiderosa di gestire e controllare, e meno di frequente ha assolto
il suo ruolo, assumendosi la responsabilità di promuovere politiche a favore della ricerca e dello sviluppo.
Forse anche gli uomini di scienza – penso alla mia generazione – avrebbero potuto far di più. Nonostante i grandi
traguardi raggiunti tra gli anni sessanta e novanta, ulteriori
progressi sarebbero stati possibili se molti scienziati, medici e
ricercatori avessero rinunciato a rinchiudersi nel recinto rassicurante della propria specializzazione. Pochi se la sono sentita
di uscire dalla propria sala chirurgica o dal proprio laboratorio per tentare di sensibilizzare e coinvolgere la classe dirigente
del paese. La gratificazione derivante da un altissimo perfezionamento ha portato molti a trascorrere ore in laboratorio
a studiare l’RNA, la funzione di un mitocondrio o una nuova

XVII
Il bagnino e i samurai

molecola, isolandosi e rinunciando a trasmettere quella fede
nella scienza di cui la società ha bisogno per crescere.
Non è stato il caso dei samurai di cui si scrive qui, il gruppo
di Gianni Bonadonna, che all’Istituto Nazionale dei Tumori di
Milano, con il suo lavoro di frontiera, ha dato vita all’oncologia medica.
Da allora questa nuova disciplina medica si è affiancata
efficacemente alla chirurgia e alla radioterapia nella grande
guerra contro il cancro, contribuendo a far sì che un numero
crescente di malati possa conoscerlo come una malattia cronica e una condizione con la quale poter convivere.
Ignazio R. Marino

XVIII

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  • 1. IL BAGNINO E I SAMURAI LA RICERCA BIOMEDICA IN ITALIA: UN’OCCASIONE spreCATA DANIELA MINERVA SILVIO MONFARDINI prefazione di ignazio marino
  • 2. Daniela Minerva e Silvio Monfardini Il bagnino e i samurai La ricerca biomedica in Italia: un’occasione sprecata Progetto grafico: Limiteazero + Cristina Chiappini Redazione: Palma Di Nunno Impaginazione: Daiana Galigani Coordinamento produttivo: Enrico Casadei ISBN 978-88-7578-380-8 © 2013 Codice edizioni, Torino Tutti i diritti sono riservati codiceedizioni.it facebook.com/codiceedizioni twitter.com/codiceedizioni pinterest.com/codiceedizioni
  • 3. Questo libro è dedicato alle nuove generazioni. In particolare alle nostre. In ordine di apparizione: Erica, Michele, Carolina, Lorenzo, Ilaria, Francesca, Angelo, Giovanni, Tommaso, Emma, Sofia, Furio e Alice.
  • 4. Premessa Cominciamo subito col dire chi è “il bagnino” e chi sono “i samurai”. Il bagnino è Carlo Sama, perché negli anni sessanta così lo chiamavano sulle spiagge di Romagna, dove il futuro amministratore delegato di Montedison, aitante ragioniere ravennate, dava il meglio di sé conquistando così la rampolla Ferruzzi, Alessandra. Un grande manager non lo è mai diventato, il bagnino, ed è una beffa della storia che sia toccato proprio a lui liquidare la grande azienda di Stato che aveva plasmato quarant’anni di storia italiana, e con ciò mettere in mani straniere, precisamente svedesi, Farmitalia-Erbamont, il gioiello della farmaceutica italiana, l’unico nucleo dal quale sarebbe potuta nascere una Big Pharma tutta nostra. I samurai, invece, sono sette giovanotti (sei e una ragazza con gli occhiali) che hanno dato vita alla moderna oncologia medica negli anni sessanta di una Milano innamorata della scienza, votata al progresso e non ancora “da bere”. A chiamarli così, scherzosamente ma non tanto, è stato l’uomo che li ha raccolti attorno a sé: Gianni Bonadonna, un mostro sacro della medicina dei tumori diventato tale anche in virtù di un farmaco potentissimo, sviluppato proprio da Farmitalia, e portato negli ospedali di tutto il mondo grazie alle sperimentazioni dei samurai. Due soggetti antitetici, il bagnino e i samurai, due culture e due visioni del mondo antitetiche, che però si sono trova-
  • 5. Il bagnino e i samurai X te a vivere insieme la grande occasione dell’Italia: partecipare alla partita miliardaria della guerra mondiale al cancro. La partita è stata persa, e anche l’Italia ha perso. In questo libro racconteremo come e perché il nostro paese, sprecando soldi e dilapidando talenti, è riuscito a farsi sfuggire il treno della modernità. Lo faremo partendo proprio dall’occasione offerta dall’oncologia, che ha visto da un lato il sistema paese, rappresentato dal bagnino, rinunciare al grande gioco della ricerca farmaceutica con una certa inconsapevole leggerezza, e dall’altro la comunità medico-scientifica, rappresentata dai samurai, che è riuscita nonostante tutto a fare molto, a essere credibile e autorevole e conquistarsi un posto nel mondo, ma che, con l’andare del tempo e i conseguenti mutamenti nei profili della ricerca, oggi arranca. È la storia di un miracolo sfumato, bruciato da una classe politica rapace, ignorante, retrograda e riottosa nei confronti della modernità, e da imprenditori con lo sguardo corto, che hanno preferito sperperare un patrimonio in insipienza, mancanza di strategie e mazzette ai politici, invece di raccogliere le sfide della grande industria scientifica in grado di fare ricerca biomedica. Le premesse affinché anche il nostro paese potesse giocare la partita del business farmaceutico c’erano tutte: la storia di questo settore testimonia il grande fermento che, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, ha portato alla nascita e allo sviluppo di diverse industrie promettenti e all’orientarsi di un discorso pubblico che guardava alla ricerca scientifica come motore del progresso. Poi, tutto è svanito nel nulla. Questo libro vuole capire perché e indagare se, nonostante le insipienze di politici e imprenditori, sia rimasta un’ossatura sana sulla quale ricostruire. Siamo convinti che Montedison sia stata l’unica vera occasione di aggregare una multinazionale italiana del farmaco. Tralasciando come abbiano poi impiegato i loro discutibili talenti, e lo vedremo, le altre industrie farmaceutiche non avevano le caratteristiche per farsi “Big”: troppo piccole e chiuse attorno alla famiglia padrona, troppo lontane dalla realtà in-
  • 6. Premessa dustriale della chimica che, volente o nolente, è in Europa la madre matrigna della farmaceutica, troppo prigioniere, infine, di un sistema del credito che le ha paralizzate nell’incapacità di giocare in Borsa le proprie chance. Montedison, però, è stata anche la palestra nella quale la politica italiana ha dato il peggio di sé, dove si è mostrata l’incapacità del nostro sistema paese di credere in un’impresa science driven. Diciamolo subito e senza pudori, noi non siamo tra quelli che pensano che l’industria farmaceutica sia il diavolo, anzi: riteniamo che sia un importante motore di sviluppo, e perciò sarebbe auspicabile avere imprese di questo tipo – italiane o straniere – che investono in ricerca nel nostro paese. Pensiamo anche, però, che sia necessario cambiare passo, e molto. La corruzione, le relazioni opache, i politici che si sono sottratti e si sottraggono alla giustizia nascondendosi dietro l’immunità, gli industriali mascalzoni che hanno gonfiato i prezzi a suon di mazzette sono un’ombra che pesa troppo e che alimenta la sfiducia sorda dell’opinione pubblica. Se non saranno prese misure draconiane per dare un taglio deciso a questo andazzo orrendo, ci andranno di mezzo non solo i malati, ma anche il paese. Dobbiamo riconoscere che il combinato disposto di un atteggiamento ostile dell’opinione pubblica, alimentato da una retorica cattocomunista che stigmatizza “chi fa i soldi sulle malattie”, e della rapacità della politica, che ha ritenuto opportuno (oltre che eticamente plausibile) lucrare a danno di chi lucra sui malanni altrui, è stato il combustibile di quarant’anni di errori che ci hanno progressivamente lasciato fuori da un settore vitale, per la nostra salute e i nostri affari. Il caso dell’oncologia è la punta di diamante di questa catena di disastri, perché l’oncologia è la punta di diamante della ricerca biomedica moderna. Sconfiggere il cancro con nuovi farmaci è la scommessa che ispira scienziati di prim’ordine, alimentando migliaia di progetti straordinari e muovendo milioni di dollari. Noi ne siamo fuori, siamo solo un mercato acritico: compriamo dal- XI
  • 7. Il bagnino e i samurai XII le multinazionali farmaci per sviluppare ognuno dei quali è stato speso un miliardo e mezzo di dollari; non abbiamo la possibilità di generare ricerca autonoma e subiamo, quindi, le scelte di Big Pharma, il cui fatturato non conosce crisi ed è tale da permettere massicci investimenti nella ricerca. Questo ci fa male, anche alla salute, e lo vedremo nel dettaglio. Eppure poteva andare diversamente. Prima di cominciare a spiegare che cosa è andato storto, vogliamo dire chiaramente che non ci piace il paese che vediamo, tutto intento a disegnare scarpe, modellare divani o imbottigliare Cartizze. Baloccarsi con l’economia delle tre F (fashion, furniture e food) che oggi fa grande l’Italia nel mondo è un’illusione pericolosa della quale già si vedono i rovinosi effetti. Sentiamo ancora l’eco delle parole ottuse di quel commercialista di Sondrio che ha guidato l’economia italiana, per un tempo che ci è parso infinito, nella convinzione che la «cultura non si mangia» e che non ci si può fare «un panino con la Divina Commedia». A gente come l’allora ministro Giulio Tremonti piace un paese ignorante intento a fare soldi cucendo tomaie e limando rondelle, ma anche chi lo ha preceduto e chi lo ha seguito non ha mai pensato che, invece, la cultura è l’anima del progresso industriale. Anche se lo ha pensato, non ha mai smesso di togliere ossigeno alla ricerca, proprio mentre il paese guida dell’Europa, la Germania, tagliando, nel suo bilancio di previsione dello Stato per il 2013, ottanta miliardi di euro, ha aumentato quelli investiti in ricerca e università di tredici. In Italia la scienza è un lusso astruso; a nessuno viene in mente che, invece, è l’unico pilastro contro il declino. Così, quando abbiamo visto la bella faccia di Fabiola Giannotti sulla copertina di “Time Magazine”, una donna dell’anno 2012, ci si è stretto il cuore. È vero, la faccenda del bosone di Higgs ha riempito i giornali anche italiani, e a Fabiola qualche intervista gliel’hanno fatta, ma da qui ad essere diventata una celebrità ce ne corre. Gli scienziati in Italia non se li fila nessuno: magari pensiamo anche che facciano delle cose importanti, ma fatichiamo a capire perché queste cose sono importanti,
  • 8. Premessa il che significa che fatichiamo a riconoscerli come la colonna portante dello sviluppo e della modernità. Vale persino per il grande padre Galileo: per i più è un signore con la barba bianca che si mise contro la Chiesa, ma le ragioni di ciò la maggior parte degli italiani le ignora. La stessa sorte tocca a Fermi, Rubbia, Montalcini o all’uomo delle fortune Montedison, Giulio Natta: tutti Nobel. Già, ma perché? Si fa presto a dare la colpa a don Benedetto Croce, alla scuola che nasce e resta gentiliana, alla cultura spiritualista che marchia scienza e tecnologia come frutti del demonio, o a quella post-moderna che le snobba come subculture borghesi al servizio dello sfruttamento capitalista, illusorie e ingenue come illusoria e ingenua è l’idea di progresso. Di certo è questo il terreno di coltura dove nasce e ingrassa il disinteresse della politica per la ricerca scientifica, ma, al fondo, c’è la natura stessa dell’Italia: investiamo meno di ogni paese industrializzato nella ricerca, che sola può essere oggi il generatore dell’industria (l’1,2 per cento del Pil, la metà di Germania e Stati Uniti, un terzo di Giappone e Corea), abbiamo il numero di laureati tra i più bassi dei paesi OCSE (il trentaquattresimo posto su trentasei), e paghiamo i nostri ricercatori cifre ridicole rispetto a quanto li pagano i paesi che contano (un post-doc in Italia, nel momento della sua massima creatività, non guadagna più di milleduecento euro lordi, quando li guadagna). Il fatto è che l’Italia considera marginale ed elitaria la scienza; siamo il paese dei bagnini: ci piacciono i samurai ma non capiamo cosa fanno, e per questo li mettiamo ai margini dei nostri interessi. Questo è l’errore storico dell’Italia, quello che l’ha trascinata in un abisso dal quale, come ci dicono i grandi economisti, chissà mai se si solleverà. Perché è evidente che non c’è sviluppo economico senza ricerca scientifica: come dimostra il passato, tutte le innovazioni sociali sono state guidate dalle rivoluzioni scientifiche e, come dimostra il presente, le economie trainanti lo sono in virtù del loro motore scientifico-tecnologico. Questo motore, va detto, ha sempre preso il volo sulle ali XIII
  • 9. Il bagnino e i samurai di una ricca dotazione pubblica. È dal manifesto Science, the Endless Frontier consegnato da Vannevar Bush al presidente Roosevelt alla fine della seconda guerra mondiale che nasce il mondo contemporaneo, dal mandato stringente a supportare senza sosta il lavoro degli scienziati: a spendere, spendere, spendere, seguito con diligenza per decenni. Il nostro mondo prende forma con i grandi progetti (dalla conquista dello spazio di Kennedy alla guerra al cancro di Nixon alla rivoluzione green di Obama) che investono milioni di dollari nella ricerca scientifica creativa. Non sarà mica un caso se la Cina investe già l’1,6 per cento del suo Pil e mette ogni anno il 25 per cento in più di soldi nella scienza. L’Italia non l’ha fatto e non lo fa. Così si balocca nell’economia residuale delle tre F, gioiosamente brindando al suo declino. Con un ottimo Cartizze, però. Daniela Minerva e Silvio Monfardini Milano,  luglio  2013 XIV
  • 10. Prefazione di Ignazio Marino «Tenersi sulla punta dei piedi non vuole dire crescere» recita una massima di Lao Tzu. Sono parole che ben si addicono all’Italia, che figura tra le nazioni più avanzate della Terra senza avere la forza degli altri paesi occidentali anche per l’incapacità di investire, ieri come oggi, in progresso, ricerca e cultura scientifica. È questa una delle ragioni che rende il nostro paese, al di là della crisi attuale, strutturalmente fragile e privo di solide fondamenta. Ancora adesso gli investimenti italiani in ricerca scientifica non raggiungono un punto percentuale di Pil. Questo bel libro di Daniela Minerva e Silvio Monfardini è prezioso per capire come siamo arrivati a sottodimensionare, relegandolo alla marginalità sulla scena internazionale, un pilastro importante del sistema produttivo come il settore farmaceutico. E per comprendere che restare a bordo campo in questo ambito comporta tra l’altro accedere per ultimi alle formule terapeutiche più avanzate. Sullo sfondo della storia della guerra contro il cancro, si raccontano da un lato i limiti dell’impresa farmaceutica italiana, i suoi fallimenti e le opacità del rapporto con la politica che hanno impedito la crescita di un’industria forte in grado di fare investimenti, e, dall’altro, il lavoro pionieristico di ottimi ricercatori e clinici italiani che hanno condotto alla sintesi dell’adriamicina e alla nascita dell’oncologia medica.
  • 11. Il bagnino e i samurai XVI I protagonisti che si nascondono dietro il titolo da favola di questo libro, il bagnino e i samurai, sono gli uomini che, nel bene e nel male, hanno condotto il gioco della ricerca e della sperimentazione, della politica e degli affari, negli ultimi decenni del secolo scorso. La cessione di Farmitalia, che aveva sviluppato una molecola altamente innovativa, a un’azienda straniera è esemplare. Rappresenta il momento culminante di una lunga politica del farmaco basata sull’assenza: pochi fondi, nessuna buona legislazione sui brevetti, nessun impulso alle imprese a fondersi o aggregarsi in grandi gruppi imprenditoriali in grado di concentrare la massa critica di risorse necessaria a finanziare l’innovazione. Anche la convenienza di alcune imprese – padroncini piuttosto che industriali – a restare piccole ha contribuito a bloccare il sistema. Né la politica né l’impresa hanno scommesso sul farmaco come fattore di sviluppo economico, oltre che di promozione della salute. Il risultato è che tra le prime dieci aziende farmaceutiche di tutto il mondo non c’è oggi un nome italiano. Quanto tutto questo ci costi in termini economici è spiegato qui con grande chiarezza: gli autori ricordano che siamo il terzo mercato europeo del farmaco per dimensioni, abbiamo importanti capacità di spesa grazie al Servizio Sanitario Nazionale, possiamo contare su scienziati e medici di ottimo livello, ma siamo fuori dall’industria mondiale del farmaco che ha fatturato lo scorso anno complessivamente oltre mille miliardi di dollari e che registra una crescita annua dell’8 per cento. Quanto alle conseguenze sulle possibilità di cura, vale la pena ricordare, come fanno Daniela Minerva e Silvio Monfardini, le parole di Gordon McVie: «Si cura meglio dove si fa ricerca». Il mercato farmaceutico italiano è un settore cruciale per l’assetto industriale del nostro paese, ma occorre superare la cultura dell’emergenza e puntare su innovazione e nuove tecnologie. Alcuni interventi irrinunciabili, come stanziamenti mirati alla messa a punto di farmaci innovativi e finanziamen-
  • 12. Prefazione ti a bando per le aziende che si impegnano nel campo della ricerca clinica coinvolgendo personale dedicato, dovrebbero andare di pari passo con norme che evitano frammentazioni territoriali e assicurano un accesso uniforme per tutti i pazienti alle nuove terapie. Una lunga catena di passi indietro, invece, ci ha portato a indebolire la nostra economia e a legare le nostre strategie terapeutiche a indirizzi produttivi e di ricerca decisi altrove, nei paesi in cui i farmaci vengono sperimentati e prodotti. È lì che le terapie più nuove ed efficaci sono immediatamente disponibili, non nel nostro paese dove scontiamo tempi più lunghi anche per la sola approvazione e registrazione. Ripercorrere questa storia è importante per tentare di invertire la rotta. Al contrario, siamo costretti a costatare che il nostro presente somiglia al passato e che la ricerca e l’innovazione scientifica continuano a trovarsi all’ultimo punto dell’agenda del paese, mentre un numero significativo di risorse viene destinato a comprare aerei da guerra come gli F-35. Leggere queste pagine dovrebbe indurci a una riflessione sul ruolo della politica, che è stata a lungo troppo vicina alla gestione e all’amministrazione della ricerca e della sanità, desiderosa di gestire e controllare, e meno di frequente ha assolto il suo ruolo, assumendosi la responsabilità di promuovere politiche a favore della ricerca e dello sviluppo. Forse anche gli uomini di scienza – penso alla mia generazione – avrebbero potuto far di più. Nonostante i grandi traguardi raggiunti tra gli anni sessanta e novanta, ulteriori progressi sarebbero stati possibili se molti scienziati, medici e ricercatori avessero rinunciato a rinchiudersi nel recinto rassicurante della propria specializzazione. Pochi se la sono sentita di uscire dalla propria sala chirurgica o dal proprio laboratorio per tentare di sensibilizzare e coinvolgere la classe dirigente del paese. La gratificazione derivante da un altissimo perfezionamento ha portato molti a trascorrere ore in laboratorio a studiare l’RNA, la funzione di un mitocondrio o una nuova XVII
  • 13. Il bagnino e i samurai molecola, isolandosi e rinunciando a trasmettere quella fede nella scienza di cui la società ha bisogno per crescere. Non è stato il caso dei samurai di cui si scrive qui, il gruppo di Gianni Bonadonna, che all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, con il suo lavoro di frontiera, ha dato vita all’oncologia medica. Da allora questa nuova disciplina medica si è affiancata efficacemente alla chirurgia e alla radioterapia nella grande guerra contro il cancro, contribuendo a far sì che un numero crescente di malati possa conoscerlo come una malattia cronica e una condizione con la quale poter convivere. Ignazio R. Marino XVIII