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Jurij Trifonov. La casa sul lungofiume.

Titolo originale:

Dom na nabere¬znoj

Traduzione di Vilma Costantini

Prefazione di Lucetta Negarville

Biblioteca di narrativa

Copyright
M. Dru¬zba Narodov
Copyright
Editori Riuniti di Sisifo srl
Roma
III edizione: giugno 1997
Editori Riuniti



**********

La casa sul lungofiume è un grande palazzo di Mosca, "tozzo,
informe", che splende "di mille finestre". Vi abitano i privilegiati,
gli esponenti di quella società della quale il protagonista Glebov -
intellettuale "senza qualità" che aspira al successo e alla carriera
- è finalmente riuscito a entrare a far parte. Adolescente di molte
speranze, è ora un uomo "pelato, grosso", che ha raggiunto i suoi
traguardi a prezzo di alcune viltà e di un comportamento
costantemente amorfo e opportunista. Fra passato e presente, fra la
macerazione del disincanto, la fatica di esistere e lo sgretolarsi
della storia, Trifonov dà vita e forza narrativa a un'analisi del
conformismo così perfetta e dura - e al tempo stesso sfumata,
sottile, malinconicamente disposta a comprendere - da laurearlo
romanziere di gran razza, tra i pochi di questi ultimi decenni.
Jurij Valentinovi¬c Trifonov (1925-1981) iniziò lavorando come
meccanico e come redattore in un giornale di fabbrica. Figlio di un
bolscevico vittima dei lager staliniani, porterà per tutta la vita il
dolore cocente di questa perdita. Tra le sue opere pubblicate dagli
Editori Riuniti ricordiamo Un'altra vita (1978), Il vecchio (1979),
Il tempo e il luogo (1983), La sparizione (1988).

**********


Prefazione
  La società russa post-sovietica degli anni novanta ha messo in
cantina gli scrittori degli anni sessanta, i ¬sestidesjatniki che
durante il primo disgelo chru¬s¬cëviano avevano raccontato il paese a
se stesso, dando testimonianza della massa di orrori che si erano
abbattuti sulla Russia durante il periodo dello stalinismo, e una
speranza per un futuro finalmente più giusto.
  Ora il paese più letteraturicentrico del mondo, forse giustamente,
ha voluto normalizzarsi anche in questo. La letteratura non ha più
quella funzione di "coscienza critica" della società che aveva avuto
a partire dall'inizio del XIX secolo, ma è diventata uno dei tanti
mezzi di espressione, non certo il più importante, sintomo della
preferenza per i generi più "leggeri" del poliziesco, del rosa,
dell'erotico, o per una greve pseudo-religiosità misticheggiante o
anche, finalmente, per una raffinata sperimentazione.
Jurij Trifonov, considerato dieci anni fa il maggiore scrittore
sovietico, il cronista dell'intellighentsija urbana (quasi un
annalista, un letopisets medievale) secondo una calzante definizione
di Jurij Lotman, è ormai obsoleto per una Russia che vuole rimuovere
un passato durissimo, pagato a troppo caro prezzo ma in realtà
impossibile da cancellare dalla memoria collettiva.
  E proprio la memoria, uno dei temi più cari a Trifonov, la memoria
del passato che tiene insieme i fili della storia di un popolo e
quella di un individuo, sta al centro di questo romanzo, il più noto
e più emblematico dello scrittore.
  La casa sul lungofiume, il palazzo sulla Bersenjevskaja
nabere¬znaja abitato da funzionari medio-alti del partito e del
governo, ritorna spesso nei libri di Trifonov come punto di
riferimento, simbolo del terrore, o meglio della sorda, intima paura
e angoscia che più del terrore sono per lo scrittore il tratto
caratteristico della vita russa sotto Stalin; fantasma di un passato
drammatico, ma anche tana e rifugio dell'infanzia, dell'epoca felice
in cui tutta la famiglia viveva unita e le stanze impersonali del
palazzone erano riscaldate dagli oggetti più cari e profumate dai
biscotti alla cannella della nonna.
  E' proprio l'immagine della casa sul lungofiume ad aprire il
romanzo La sparizione, l'ultimo capitolo di quel lungo continuum
autobiografico che sono tutte le opere di Trifonov. A sparire lì è
lei, la casa con i suoi abitanti, è lei a ritrovarsi ridotta a una
"nave senza alberi e senza timone", possente bastione di qualcosa di
indifendibile, destinato alla rovina. Di lì a qualche anno sarebbe
sparita anche la struttura sociale di cui quella casa era simbolo e
delle cause di questa scomparsa, di questo destino di morte, Trifonov
è stato uno dei più acuti e preveggenti analisti.

  In questo romanzo, tutto costruito con la tecnica del flashback, la
casa viene descritta nel pieno del suo fulgore, negli anni trenta,
salda roccaforte, oggetto di invidia e desiderio da parte di coloro
che non vi abitano e che vi vengono ammessi qualche volta solo dopo
aver passato il filtro severo di un portiere-poliziotto. All'interno
della casa un microcosmo della Russia staliniana, dai comunisti della
vecchia guardia onesti, cristallini, un po' maniacali, fieri del loro
passato duro e glorioso, ai funzionari degli anni trenta, freddi e
vendicativi, pronti a difendere con le unghie e coi denti i loro
privilegi, inflessibili come il padre di Levka ¬sulepnikov che fa
deportare dal quartiere una famiglia di piccoli malavitosi che gli
aveva infastidito il figlio.
  Il libro è scritto in terza persona, ma ogni tanto Trifonov
interviene in prima persona a riconoscersi tra gli abitanti di quella
casa-destino da cui è stato cacciato nel 1937, dopo l'arresto del
padre che morirà in campo di concentramento. La scena della partenza
della famiglia Trifonov dalla casa, con il portiere che non li saluta
neanche e la nonna che finge uno straziante ottimismo, basta da sola
a suggellare il clima dell'epoca.
  Nel secondo atto, poiché il romanzo può anche essere visto come una
pièce con antefatto e tre atti, l'azione si sposta nel dopoguerra,
nel 1947, quando i vecchi compagni di scuola, Vadim Glebov, il
protagonista, Lev ¬sulepnikov, l'arrogante figlio dell'alto
funzionario, odiato amato e invidiato dai compagni, Sonja la dolce
ragazza che fa della compassione indiscriminata verso tutti la sua
ragione di vita, e gli altri, si ritrovano ormai all'università, dopo
aver vissuto l'esperienza fondamentale della guerra in un clima di
entusiasmo e di rinascita in cui tutto sembra possibile e la vita
torna a pulsare piena di promesse.
  Ma poco dopo, all'inizio degli anni cinquanta, gli ultimi di
Stalin, il clima di sospetto, di delazione, di piccolo orrore
quotidiano torna a imporsi con prepotenza e a coinvolgere i vari
personaggi. In particolare il protagonista, Vadim Glebov,
l'uomo-nessuno a cui ognuno attribuisce una diversa valenza, che pur
fidanzato della dolce Sonja, tradirà il professor Gan¬cuk, padre
della ragazza e relatore della sua tesi di laurea, rifiutandosi di
difenderlo dalle assurde e meschine accuse di alcuni piccoli
burocrati universitari arrivisti e intriganti che di lì a poco
verranno spazzati via dal nuovo clima chru¬s¬cëviano. Da quel momento
le vite dei ragazzi, presi nel vortice di una grande forza
centrifuga, si separano per sempre. Glebov cerca di rimuovere il
tradimento, il passato che torna però spesso ad affacciarsi in
brevissimi scorci, come la scena del professor Gan¬cuk in
pasticceria, o quella di Sonja, ormai inerte e malata di mente in un
caffè di Riga, provocando fitte lancinanti nella spessa corazza che
si è fabbricato per sopravvivere.
  Negli anni settanta, che sono quelli dell'antefatto e della stesura
del romanzo, la casa è stata adibita a teatro di varietà, Glebov è
uno scrittore e saggista accademico, ben inserito nella nomenclatura
che gli concede privilegi e viaggi all'estero, Lev ¬sulepnikov il
borioso e fortunato figlio della casa sul lungofiume dei tempi d'oro
è ridotto a un ubriacone declassato ora facchino, ora guardiano di un
vecchio crematorio in disuso in cui è sepolta Sonja, custode della
"morte morta". Il vecchio professor Gan¬cuk, riabilitato, titolare di
una pensione speciale, vive solo a 86 anni in un nuovo quartiere di
Mosca, si rifiuta di ricordare il passato di cui un tempo era andato
fiero e trova rifugio e consolazione nei serials televisivi.
  Solo la madre di Lev ¬sulepnikov, vecchia aristocratica russa
intelligente e sdegnosa, sembra aver conservato la sua lucidità: "il
nostro sangue è il più resistente - dice - abbiamo sopportato di
tutto" e non si degna di essere troppo gentile col vecchio compagno
del figlio che tenta invece di ingraziarsela.

  Trifonov non è un moralista, si limita a constatare che a vincere
sono gli uomini-nessuno, quelli che si adattano alle circostanze e
che per sopravvivere tentano di soffocare i rimorsi, di rimuovere il
passato, di non ricordare, proprio come adesso sembra voler fare
tutta la società russa.
    Lucetta Negarville


  Nessuno di quei ragazzi è ancora vivo: chi è scomparso in guerra,
chi è morto di malattia. Alcuni sono svaniti nel nulla, altri si sono
completamente trasformati, e, se incontrassero, per qualche
sortilegio, coloro che sono scomparsi con indosso i loro giubbotti di
fustagno e le scarpe di tela con la suola di gomma non saprebbero di
che parlare. Temo che sarebbero tanto ciechi da non accorgersi
neppure di aver incontrato se stessi. Al diavolo loro e la loro
cecità! Il loro tempo è prezioso: prendono aerei, navigano, corrono a
rotta di collo, arraffano a destra e a manca, vanno sempre più
lontano, sempre più in fretta, giorno dopo giorno, anno dopo anno; le
rive cambiano, le montagne arretrano, i boschi si diradano e si
spogliano, il cielo si oscura, incalza il freddo, bisogna
affrettarsi, affrettarsi, e non si ha più la forza di guardare
indietro a ciò che è rimasto fermo e sospeso come una nube
all'orizzonte.

  In una di quelle insopportabili giornate afose dell'agosto del 1972
- era l'estate in cui Mosca soffocava sotto una densa caligine e a
Glebov era toccato, manco a farlo apposta, di restare molti giorni in
città, in attesa del trasloco in una casa della cooperativa - Glebov
aveva fatto una corsa al negozio di mobili in un nuovo quartiere a
casa del diavolo, accanto al mercato Koptevskij; fu là che successe
una strana storia. Incontrò un amico che non vedeva da un sacco di
tempo. Si era dimenticato come si chiamava. Era andato in quel posto
per un tavolo. Gli avevano detto che si poteva prendere un bel
tavolo, non si sapeva bene dove, era un mistero, ma una cosa era
certa: era un pezzo d'antiquariato, con dei medaglioni, che andava
giusto bene per le sedie di mogano, acquistate l'anno prima da Marina
per la casa nuova. Gli avevano detto che nel negozio vicino al
mercato Koptevskij lavorava un certo Efim, che sapeva dove trovare il
tavolo. Glebov c'era andato dopo pranzo, con una canicola rovente;
aveva lasciato la macchina all'ombra e si era incamminato verso il
negozio. Sul marciapiedi davanti all'ingresso, dove, tra stracci e
carta da imballaggio, giacevano sparsi, armadi, sofà e altre
cianfrusaglie tirate a lustro, appena scaricate o in attesa di essere
caricate, dove gironzolavano malinconici acquirenti, tassisti e
ometti trasandati, pronti a tutto per quattro soldi, Glebov chiese
dove potesse trovare Efim. Nel cortile di dietro, gli fu risposto.
Glebov attraversò il negozio; l'aria era irrespirabile per il caldo e
l'odore di vernice, e uscì per una porta stretta nel cortile
completamente vuoto. Un operaio sonnecchiava, accovacciato nella poca
ombra vicino al muro.
  - E' lei Efim? - gli chiese Glebov.
  L'operaio sollevò gli occhi intorpiditi, lo guardò severamente e
sporse appena in avanti con fare sprezzante la fossetta che aveva sul
mento, il che doveva significare: no. Dalla fossetta e da qualche
altro particolare impercettibile, Glebov all'improvviso si accorse
che quel tizio, tramortito dal caldo e dall'arsura, quel misero
"portatore" di mobili era un suo vecchio amico. Lo capì non con gli
occhi, ma con qualcosa d'altro, come un colpo dentro. Ma il terribile
era che, pur sapendo bene chi fosse, aveva completamente dimenticato
il suo nome! Perciò se ne stava in silenzio, dondolandosi sui suoi
sandali scricchiolanti e guardava l'operaio, cercando nella memoria
con tutte le sue forze. Una vita intera lo investì di colpo. Ma il
nome? Era un nome furbetto, divertente. E nello stesso tempo
infantile. Unico nel suo genere. L'anonimo amico si mise di nuovo a
sonnecchiare, il berretto calato sul naso, la testa all'indietro e la
bocca spalancata.
  Glebov, turbato, si allontanò, urtò qua e là, cercando Efim, poi
attraversò la porta di dietro, entrò nel negozio e domandò di nuovo:
di Efim non c'era traccia, gli consigliarono di aspettare, ma Glebov
non aveva tempo per aspettare e, bestemmiando mentalmente,
maledicendo la gente che parla a vanvera, tornò nel cortile, nella
canicola, dove lo aveva stupito e confuso ¬sulepa. Ma certo: ¬sulepa!
Levka ¬sulepnikov! Una volta aveva sentito dire che ¬sulepa era
scomparso, era finito male, come era arrivato fin qua? Al negozio di
mobili? Voleva mettersi a parlare con lui amichevolmente, come un
vecchio compagno, chiedergli tra l'altro di Efim.
  - Lev... - disse Glebov senza molta convinzione e si avvicinò
all'uomo che stava seduto nello stesso posto di prima, all'ombra,
nella stessa posizione, accovacciato; adesso però non sonnecchiava,
ma osservava qualcuno che si muoveva in fondo al cortile, bagnando
una sigaretta con le labbra. Più forte e con più coraggio aggiunse:
  - ¬sulepa!
  L'uomo guardò di nuovo Glebov torpidamente e voltò la testa. Certo,
era Levka ¬sulepnikov, soltanto molto vecchio, sgualcito e corroso
dalla vita, con baffi grigi da ubriaco, diverso da quello di una
volta, ma forse in una cosa rimasto uguale, in quella arrogante e
sciocca insolenza di prima. Dargli del denaro per una sbornia? Glebov
toccò con le dita la tasca dei pantaloni cercando a tasto dei soldi.
Poteva dargli tre o quattro rubli, senza problemi. Se glieli avesse
chiesti. Ma l'uomo non gli rivolgeva la minima attenzione e Glebov
era perplesso e pensava che forse si era sbagliato e quel tipo non
era affatto ¬sulepnikov. Ma in quel momento stesso, arrabbiato, con
voce aspra, con brutale familiarità, come era abituato a rivolgersi
al personale di servizio, gli chiese:
  - Non mi riconosci, eh? Levk!
  ¬sulepnikov sputò il mozzicone, si alzò, senza guardare Glebov, e
si avviò barcollando in fondo al cortile dove stavano scaricando un
camion. Glebov, spiacevolmente colpito, si trascinò fuori, per
strada. Lo aveva colpito non tanto l'aspetto di Levka ¬sulepa o la
miseria del suo stato, ma il fatto che Levka non aveva voluto
riconoscerlo. Levka non aveva nessun motivo di essere offeso con
Glebov. Non era colpa di Glebov, né della gente, ma dei tempi. E con
i tempi non te la puoi prendere. Di nuovo, all'improvviso: qualcosa
di remoto, di povero, di sciocco, ecco la casa sul lungofiume, i
cortili pieni di neve, le lampade elettriche sui fili, le risse sui
mucchi di neve addosso al muro di mattoni. ¬sulepa era fatto di tante
cose, e si sfaldava pezzo per pezzo, e ogni pezzo era diverso
dall'altro, ma forse là, in mezzo alla neve, addosso al muro di
mattoni, quando si battevano a sangue, fino a gridare ansimando: "Mi
arrendo!", e poi nella tiepida casa enorme bevevano felici il tè
dalle tazzine fini, forse, allora, erano autentici. Ma, chissà, come
si può dirlo? In tempi diversi l'autenticità appare diversa.
  A dire il vero, Glebov odiava quei tempi, perché erano la sua
infanzia.
  E la sera, quando ne parlò a Marina, era agitato e nervoso, non
perché aveva incontrato un amico che non aveva voluto riconoscerlo,
ma perché gli toccava avere a che fare con individui irresponsabili
come Efim, che promettevano mari e monti per poi dimenticarsene o
infischiarsene, e intanto il tavolo antico con i medaglioni era
sparito in mani altrui. Andarono a passare la notte nella dacia. Vi
regnava l'angoscia: i suoceri non dormivano, nonostante l'ora tarda:
Margo¬sa era andata via la mattina sulla moto di Tolma¬cev, non aveva
telefonato per tutta la giornata e soltanto alle nove aveva fatto
sapere che si trovava sulla prospettiva Vernadskij, nello studio di
un artista. Aveva detto di non preoccuparsi, Tolma¬cev l'avrebbe
riportata non oltre mezzanotte. Glebov si infuriò:
  - Con la moto? Di notte? Perché non avete detto a quell'idiota di
non fare pazzie, di tornare subito, immediatamente...? - Il suocero e
la suocera, come due vecchi comici da commedia, borbottarono qualcosa
di assurdo e a sproposito.
  - Io volevo innaffiare per bene, Vadim Leksany¬c, ma l'acqua
l'hanno chiusa... Bisogna porre la questione all'amministrazione...
  Glebov fece un gesto con la mano e si diresse verso lo studio, al
primo piano. L'afa non si era attenuata, neanche a sera inoltrata. La
tiepida siccità del fogliame penetrava dal giardino oscuro. Glebov
prese una medicina e si sdraiò sul divano senza spogliarsi, pensando
che quel giorno stesso, se tutto andava bene e la figlia tornava
viva, doveva finalmente parlarle di Tolma¬cev. Aprirle gli occhi su
quella nullità. Alle dodici e mezza si sentì lo scoppiettio di una
moto, poi un brusio di voci in basso. Glebov udì con sollievo la
vocetta sonora della figlia. Subito, miracolosamente, si
tranquillizzò, e gli passò la voglia di parlare con la figlia. Si
preparò il letto sul divano, tanto sapeva che la moglie si sarebbe
messa a chiacchierare con Margo¬sa fino a notte fonda.
  Invece si precipitarono tutte e due nello studio, senza tante
cerimonie: la luce non era ancora spenta, Glebov era in mutande con
un piede sul tappetino davanti al divano, l'altro sul divano, e si
tagliava le unghie dei piedi con un paio di forbicine.
  Pallida in viso, la moglie disse con voce lamentevole:
  - Sai, si sposa con Tolma¬cev.
  - Cosa dici! - fece Glebov, come spaventato, sebbene in realtà non
lo fosse, ma l'aspetto di Marina era disperato. - E quando?
  - Tra dodici giorni, quando lui sarà tornato dal suo viaggio di
lavoro, - disse Margo¬sa, pronunciando in fretta e furia le parole,
per dare risalto al carattere perentorio e ineluttabile di ciò che
doveva accadere. Per di più, sorrideva: il piccolo viso infantile con
le guance un po' pienotte, il nasino, gli occhietti, piccoli
bottoncini neri come quelli della madre, tutto risplendeva, brillava,
cieco e felice. Margo¬sa si slanciò verso il padre e lo baciò. Glebov
sentì odore di vino. Si infilò frettolosamente sotto il lenzuolo. Era
spiacevole che sua figlia, ormai adulta, lo vedesse in mutande, ed
era ancor più spiacevole che non ne fosse affatto turbata, anzi
sembrava che non avesse affatto notato l'aspetto indecente del padre.
Del resto in quel momento non si accorgeva di niente. Uno
straordinario infantilismo in tutto. E questa scioccherella voleva
cominciare a vivere per conto suo, con un marito. O piuttosto, con un
lazzarone. Glebov domandò:
  - Da quale viaggio di lavoro? Perché, Tolma¬cev lavora da qualche
parte?
  - Certo che lavora. E' commesso in una libreria.
  - In una libreria? Commesso? - Per lo stupore, Glebov cacciò fuori
le braccia da sotto il lenzuolo. Cos'era quella novità? una truffa? -
E perché lo sento dire adesso, per la prima volta? Ci avevi fatto
credere che era un pittore, ci hai mostrato dei quadretti, dei
candelieri, dei ferri da stiro, o che so io...
  - No, ce l'ha detto dove lavora. L'ha detto, l'ha detto, - confermò
Marina, amante della verità. - Ma non si tratta di questo...
  - Mammina, quanto vi amo, tutti e due! - esclamò Margo¬sa, baciando
la madre e ridendo. - Papà, oggi sei pallido. Come ti senti?
  - E dov'è il tuo fidanzato in questo momento?
  - Paparino, ti prego, non pensare a niente, non preoccuparti!
  - Margo¬sa, rispondi: dove pensate di andare a vivere?
  Commesso in un negozio. Non poteva esserci niente di più assurdo.
Da tanto tempo non vedeva occhi così devoti e felici, né sentiva
risate così spensierate. Margo¬sa disse, ridendo:
  - Ma è così importante?
  - Tuo padre e io vogliamo sapere...
  - Ah, volete sapere? Siete assaliti dalla curiosità? - Di nuovo una
risata. - E se dicessi, qui... non va bene? Non siete d'accordo?
  - Andrai con l'autobus? Ti alzerai alle cinque di mattina?
  - Ma, mamma, sono particolari insignificanti...
  All'improvviso scomparvero tutte e due. Glebov porse l'orecchio
alle svolazzanti voci femminili che provenivano dal basso, alle quali
si aggiungeva il sordo parlottio dei suoceri. Glebov aveva
l'angoscioso presentimento che qualcosa sarebbe mutato e decise di
prendere un sonnifero per addormentarsi prima. Ad un tratto ebbe un
pensiero rasserenante: "Forse non succederà niente di terribile. Ma
sì, che tutto vada come deve andare. Come sempre. Fra un anno si
separeranno, e buonanotte". E si mise a pensare ad altro.
  Verso l'una di notte squillò il telefono. Glebov avvertì nel
dormiveglia la rabbia che lo afferrava, l'accelerazione del battito
cardiaco. Schizzò fuori dal divano con giovanile agilità e con un
rapido balzo raggiunse l'apparecchio posato sul tavolo: doveva fare
in tempo a prendere il ricevitore prima che Margo¬sa prendesse quello
del telefono di sotto, per dare una lezione a quel maleducato! Era
convinto che fosse Tolma¬cev.
  Ma era una voce sconosciuta, quasi sgangherata, da teppista.
  - Salve, Dunja, buon anno... Non mi riconosci? Eh? - gracchiò il
teppista. - Prima mi riconosce, e adesso non mi riconosce. Stronzo...
Ma che ore sono? L'una passata, accidenti, a quest'ora i bambini sono
a nanna. Gli intellettuali no, invece... Discutono, discutono... Sono
qui con un tizio... Ti ricordi che bei coltellini finlandesi che
avevo?
  - Sì, mi ricordo - disse Glebov e se ne ricordava davvero: i
coltellini erano cinque, tutti di misura diversa. Il più piccolo era
come una sigaretta. Levka li portava a scuola e se ne vantava. E
portava anche una pistola d'acciaio lucente con l'impugnatura d'osso,
che sembrava vera.
  Nello studio entrò Marina e chiese con sguardo spaventato: - Chi è?
- Glebov ammiccò, agitò la mano: niente, niente. Chissà perché, era
contento che ¬sulepnikov avesse telefonato.
  - Bene, dormi tranquillo, vecchio compagno... Scusami del disturbo...
Ho cercato per tre ore il tuo numero all'ufficio informazioni. Senti,
oggi, quando ti sei avvicinato, non volevo riconoscerti. A che cavolo
mi serve, ho pensato. Mi facevi proprio schifo. No, cerca di capire,
Vadºka, per Dio! Dico sul serio: mi facevi terribilmente schifo.
  - Perché dici così? - domandò Glebov sbadigliando.
  - Che cavolo ne so. Non mi hai fatto niente di male. Certo, tu sei
dottore, direttore, che ne so, porca merda, non mi interessa. Non me
ne frega niente. Io sono di un'altra parrocchia. Ma poi sono tornato
dal lavoro, mi sono messo a fare le mie cose e ho pensato: perché me
la sono presa con Vadºka Gleby¬c? Sarà venuto per qualche carabattola
che gli serviva? Magari, un'altra volta che viene, non mi trova più...
In un posto, più di un paio d'anni non riesco a stare...
  "O signore! - pensò Glebov. - Sempre uguale..."
  - Lev, telefonami domani, per favore.
  - No, domani non ti telefono. O oggi o niente, cosa sei, un
ministro? Telefonami domani! Chi ti credi di essere? Niente domani.
Sei impazzito, Glebov, a parlarmi in questo modo! Ti si è girata la
lingua? Tre ore ho cercato il tuo numero, sono qui con un tizio... E'
del corpo diplomatico, uno in gamba... Attraverso l'ufficio
informazioni del Mid (1)... Vadºka, te la ricordi la mia mamma?
  Glebov disse che se la ricordava e voleva aggiungere che anche del
padre di Levka si ricordava, cioè del patrigno. O meglio ancora, dei
suoi due patrigni. Ma il ricevitore emise un tintinnio, e si
sentirono subito dei brevi segnali sonori.
  Marina guardava con crescente spavento.
  - Che sciocchezza. E' quel tipo che ho trovato oggi al negozio di
mobili... - Glebov era in piedi, scalzo, accanto allo scrittoio e
guardava pensieroso l'apparecchio telefonico.- Però è proprio un bel
cretino... E poi, perché mi ha telefonato?

  Quasi un quarto di secolo prima, quando Vadim Aleksandrovi¬c Glebov
non era ancora pelato, grosso, con le poppe da donna, le cosce
grasse, il pancione e le spalle cadenti che lo costringevano a farsi
cucire i vestiti dal sarto e a non comprarli già confezionati, perché
di giacca portava il 52 e di pantaloni a malapena entrava nel 56, e a
volte prendeva addirittura il 58; quando in bocca ancora non aveva i
ponti di sopra e di sotto, i medici non rilevavano cambiamenti nel
suo cardiogramma, segni di insufficienza cardiaca e un principio di
stenocardia; quando ancora non era tormentato al mattino dai bruciori
di stomaco, dalle vertigini, da un senso di spossatezza generale;
quando il suo fegato lavorava normalmente ed egli poteva mangiare
cibi grassi, burro non troppo fresco, poteva bere vino e vodka finché
voleva, senza temerne le conseguenze, non sapeva che cosa significa
il dolore alle reni provocato dagli sforzi, dal freddo e Dio sa da
quale altra cosa; quando non aveva paura di attraversare a nuoto la
Moscova nel punto più largo, poteva giocare quattro ore a pallavolo
senza riprendere fiato; quando era veloce di gambe, ossuto, con i
capelli lunghi e gli occhiali rotondi che lo facevano somigliare a un
populista del secolo scorso; quand'era spesso senza soldi, lavorava
come facchino alla stazione o come spaccalegna nei cortiletti lungo
la Moscova; quando faceva la fame, c'era pericolo che si ammalasse di
tubercolosi, e allora lo mandarono in Crimea e tutto passò; quando
erano ancora vivi il padre, la zia Polja e la nonna, e tutti stavano
nella piccola casupola sul lungofiume, al primo piano, dove abitavano
altre sei famiglie e in cucina c'erano otto tavoli; quando gli
piaceva cantare le canzoni con le ragazze, e non lo chiamavano Vadim
Aleksandrovi¬c, ma Gleby¬c e Sfilatino; quando, nelle crisi di
insonnia, aveva appena cominciato a immaginare, nella dolorosa
impotenza della giovinezza, tutto quello che poi gli sarebbe capitato
senza dargli gioia perché gli avrebbe richiesto un tale dispendio di
energie e quelle rinunce che si chiamano vita; a quei tempi, quasi un
quarto di secolo fa, c'era un certo professor Gan¬cuk, c'era Sonja,
c'erano Anton e Levka ¬sulepnikov, soprannominato ¬sulepa, tutti i
suoi vicini di casa, c'erano varie altre persone scomparse un po'
alla volta, e c'era lui, diverso da ora e sparuto come un passero. Di
Marina, nessuna traccia.
  Marina deve essere sulla veranda, all'ombra delle betulle, che
scrive su dei fogli di carta tesi come tamburi su barattoli di vetro
e fissati con del filo al collo del recipiente, con calligrafia
infantile, "Uva spina 72", "Fragola 72". Anton non è più tra i vivi,
e neanche Sonja. Del professor Gan¬cuk non si sa nulla, probabilmente
anche lui è morto, e, se anche vive, è come se non ci fosse più.
Levka ¬sulepnikov è seduto nel cortile di un negozio di mobili, con
la schiena appoggiata alla parete, all'ombra, con una sigaretta tra
le labbra e sonnecchia: gli stessi sogni, le stanze spaziose dagli
alti soffitti, gli enormi paralumi arancione degli anni trenta...
  E' come a teatro: atto primo, atto secondo, atto terzo... atto
diciottesimo. Ogni volta il personaggio appare un po' diverso. Ma tra
una scena e l'altra passano anni, decenni. All'istituto - atto
secondo - ¬sulepnikov comparve solo al terzo anno, all'improvviso
affiorò dall'oblio in modo così naturale e lieve, come può accadere
soltanto nella prima metà della vita, quando sembra che ogni cosa
avvenga così come viene immaginata. La storia con Gan¬cuk e tutti gli
altri invece occupò il quarto e l'inizio del quinto atto.
Incredibilmente presto ¬sulepnikov ne divenne l'attore principale.
Era comprensibile, del resto: dietro le quinte c'era il patrigno,
dotato di possibilità gigantesche. Erano in pochi a saperlo, ma lo
sapevano certamente Glebov e Sonja, per i quali Levka ¬sulepnikov era
rimasto sempre il buon vecchio ¬sulepa. Lo consideravano un individuo
molto abile e capace, che avrebbe fatto una rapida e fortunata
carriera: nel comitato, nelle riunioni, dovunque, le ragazze migliori
le agganciava lui. Ma in realtà egli era una rapa, una mediocrissima
rapa. Non se ne accorsero subito, all'inizio irritava molti. Una
volta si avvicinò nel corridoio un robusto giovanotto di Charºkov, di
cognome Smyga, e disse: "Glebov, dicono che stai a scuola con questo
¬zuljatnikov?". Glebov disse: "Sì, però non storpiare il nome e non
fare troppo lo spiritoso". "Bene, il nome non glielo rovineremo, ma
il grugno sì, - ribatté Smyga. - Di' a ¬zuljabºev che la smetta di
correre dietro alle ragazze del nostro gruppo. O saran botte."
  Alcuni giorni dopo Smyga comparve nell'aula con il viso gonfio,
come se avesse avuto un ascesso. Levka raccontava, con una certa
meraviglia: "Questo elefante mi è caduto addosso al gabinetto e ha
cominciato a gridare: "Ti avevamo avvertito, bestione, e tu non ci
hai dato retta!". Pazzia furiosa; l'ho abbattuto con due colpi di
sambo (2). Ha spaccato il cesso con la zucca". Glebov non gli
credette, sapendo che Levka era un gran bugiardo, ma poi scoprì che
la tazza del cesso era davvero rotta, e allora credette non solo alla
crudele umiliazione di Smyga, ma anche a tutte le altre cose
fantastiche che ¬sulepnikov gli aveva raccontato della propria vita.
Che, per esempio, durante la guerra, aveva frequentato una
fantomatica scuola segreta in cui si insegnava a sparare, a lanciare
i coltelli, a uccidere a mani nude, oltre alle lingue straniere, e
che aveva compiuto missioni segrete nelle retrovie tedesche, ma che
poi lo avevano smobilitato perché gli si era aperta un'ulcera allo
stomaco. Sulla veridicità di questo racconto si poteva nutrire
qualche dubbio, perché il tedesco ¬sulepnikov lo conosceva poco,
lanciava i coltelli mediocremente ed era chiassoso, sfacciato,
mentiva su ogni sciocchezza, il che non corrispondeva all'immagine
che egli voleva dare di sé. Glebov decise che sicuramente Levka
doveva aver studiato in una scuola segreta (organizzata dal
patrigno), che si proponeva di diventare un altro colonnello
Law-rence, ma per qualche ragione il progetto era andato in fumo. E
Smyga, che aveva litigato a morte con Levka, diventò poi il suo più
fedele cavalier servente; questo l'anno dopo, quando il patrigno
regalò a Levka una Bmw che aveva preso al nemico. Levka arrivò
all'istituto su una carretta color ciliegia, vecchia e pidocchiosa: i
poveri studenti non solo provarono invidia, ma persero addirittura il
dono della parola. Da allora Smyga andava sempre in giro appresso a
Levka, gli correva dietro per i negozi e gli faceva conoscere le
ragazze che conosceva.
  Nei confronti di Levka ¬sulepnikov in quegli anni - era allora
all'apice del suo destino, così lambiccato e capriccioso - potevano
esserci solo due atteggiamenti: servirlo come uno schiavo o
invidiarlo con odio. Glebov, il più vecchio amico di Levka, non fu
mai suo schiavo, nemmeno nelle classi inferiori, quando è tanto
diffusa la piaggeria dei ragazzi deboli e poveri verso quelli più
forti e ricchi; e, quando fu all'istituto, non volle trasformarsi nel
suo luogotenente, sebbene ne fosse tentato. Intorno a ¬sulepnikov si
formavano compagnie vaganti, turbinava una vita particolare: ville di
campagna, automobili, teatro, sport. In quegli anni venne fuori
l'hockey su ghiaccio con disco, o, come allora veniva chiamato,
l'"hockey canadese", o più semplicemente, "canada". L'entusiasmo per
l'hockey era di gran moda, persino raffinato. Allo stadio andavano
signore in persiano e uomini in castoro. ¬sulepnikov si portava
dietro certe gran celebrità della squadra dell'aeronautica. Siccome
Glebov non aveva voglia neppure di sfiorare questa vita affascinante,
ma che gli appariva piuttosto illusoria e nello stesso tempo rozza, e
poiché lo stesso Levka non era poi tanto attaccato alle leggi
dell'amicizia, Glebov si teneva in disparte: non si trattava solo di
amor proprio nel non voler essere l'ultima ruota del carro, ma di una
sua innata riservatezza, che si rivelava talvolta senza motivo,
istintivamente. ¬sulepnikov proponeva, dall'alto della sua
liberalità: "Gleby¬c, è richiesta la tua presenza!". Questo voleva
dire che qualcuna delle ragazze di Levka aveva notato Glebov o ne
aveva sentito parlare - niente di strano, le ragazze, secondo
un'espressione di allora, "gli mettevano gli occhi addosso" - e
desiderava conoscerlo, o forse Levka raccontava balle, non c'era
nessuna "richiesta", voleva soltanto iniziare l'amico alle gioie
terrene. Levka era un compagnone, insisteva. Glebov si sottraeva.
Inventava delle scuse. Il pretesto era Sonja: Sonja lo aspettava,
aveva preso accordi con Sonja, Sonja era malata. In realtà, agiva un
segreto meccanismo di autodifesa, sorprendentemente, poiché a quel
tempo nessuno avrebbe potuto immaginare le catastrofi imminenti. Era
qualcosa da cui Glebov non poteva liberarsi, qualcosa che lo
accompagnava tormentosamente per tutti quegli anni, a cominciare dai
primi, un'offesa che lo tormentava nel profondo...
  E non gli riuscì di dominarla, né di averne la meglio. Come una
malattia cronica: a volte si aggravava, a volte in apparenza svaniva,
ma a volte faceva così male che non aveva la forza di sopportarlo.
Perché, per esempio, Levka aveva questo e quello, per lui era tutto
facile, gli bastava tendere la mano, come se gli fosse stato
assegnato un destino speciale? A Glebov, invece, toccava guadagnarsi
ogni cosa faticosamente, curvare la schiena, tendere le vene, la
pelle, così che poi, quando riusciva a ottenere qualcosa, le vene si
rompevano, la pelle si raggrinziva.
  Questo tormento - questo, diciamo, soffrire di disuguaglianza - era
cominciato in tempi remoti, in quinta o in sesta elementare, quando
¬sulepa era venuto ad abitare nel palazzone sul lungofiume. Glebov
viveva, dalla nascita, in una casetta a due piani. E a fianco di
quell'enorme palazzo dalle mille finestre, quasi un'intera città o
addirittura un intero stato, dietro i cortiletti, oltre la chiesa,
dietro i cumuli di rifiuti che crescevano come funghi su un ceppo,
stava una casa un po' sbilenca, con il tetto sfondato qua e là, con
quattro mezze colonne sulla facciata, conosciuta tra gli abitanti
della zona come "casa Derjuginskij". Anche il vicolo in cui si
trovava questa sgangherata bellezza si chiamava Derjuginskij. La
grigia mole del palazzone sovrastava il vicolo, al mattino copriva
subito il sole, di sera faceva volar via voci di radio, musica di
grammofoni. Là, nei piani più vicini al cielo, si conduceva una vita
che sembrava completamente diversa da quella dei piani bassi, nella
mediocrità, coperta da una tinta gialla di tradizione secolare. Ecco
la disuguaglianza! Alcuni non se ne accorgevano, altri se ne
fregavano, altri lo ritenevano giusto e legittimo, Glebov fin
dall'infanzia si portava un bruciore nell'anima: un misto di invidia
e di qualche altro oscuro sentimento. Il padre lavorava come chimico,
in una vecchia fabbrica di dolci, la madre faceva lavoretti saltuari
o, per lo più, non faceva niente. Non aveva istruzione. A volte
cuciva, a volte andava in qualche ufficio, a volte faceva la cassiera
in un cinema. Questo lavoro al cinema - un locale di terz'ordine, in
uno dei vicoli lungo la Moscova - era diventato oggetto di non poco
orgoglio per Glebov e lo premiava come un grandissimo privilegio:
poteva vedere qualunque film senza pagare. E nelle ore diurne, quando
c'erano pochi spettatori, poteva persino portarsi un compagno e
magari anche due. Naturalmente, se la madre era di buon umore.
  Questo privilegio era la base del potere di Glebov in classe. Se ne
serviva con parsimonia e intelligenza: invitava i ragazzi alla cui
compagnia era interessato o dai quali si aspettava qualcosa in
cambio, nutriva altri di promesse prima di offrire loro il beneficio,
altri invece, le canaglie, li privava per sempre dei suoi favori. La
cosa andò avanti così per un pezzo, e il potere di Glebov - non il
potere, ma, diciamo così, l'autorità - rimase saldo finché non spuntò
Levka ¬sulepa. Levka si era trasferito nel palazzone da qualche zona
della periferia o forse addirittura da un'altra città. Fece subito
impressione per i suoi calzoni di pelle. I primi giorni si tenne
sulle sue, guardando in giro sonnacchioso e sprezzante con i suoi
occhi azzurrini; non attaccava discorso con nessuno e stava seduto in
un banco accanto a una ragazzina. Durante le lezioni faceva
scricchiolare in maniera insopportabile i suoi calzoni. Decisero di
dargli una lezione, o meglio di umiliarlo. O, meglio ancora, di
disonorarlo. C'era una punizione chiamata "oh-oh-oh!": portavano la
vittima designata nel cortile di dietro, gli si ammucchiavano addosso
e, al grido di "oh-oh-oh!", gli strappavano via i calzoni.
Progettarono di riservare questo trattamento al novizio. Sarebbe
stata una delizia: levargli i meravigliosi calzoni scricchiolanti e
vederlo saltellare e piagnucolare mentre le ragazze, avvertite in
precedenza, avrebbero assistito alla scena dalla finestra. Glebov
incitava con calore a far giustizia di ¬sulepa, che non gli piaceva -
in genere non gli piacevano quelli che abitavano nel palazzone - ma,
all'ultimo momento, decise di non prendervi parte. Forse si
vergognava un po'. Osservò la scena dalla porta che dava sulla scala
posteriore.
  Dopo le lezioni invitarono Levka nel cortile di dietro. Erano in
cinque: Orso, Sjava, Manjunja e altri due. Circondarono Levka, si
misero a discutere di qualcosa, poi, ad un tratto, Orso, che era il
più forte della classe, lo afferrò per il collo e, con uno strappo,
lo rovesciò sul dorso. Al grido di "oh-oh-oh!" gli altri gli si
buttarono addosso. Levka resisteva, tirava calci, ma gli altri, alla
fine, lo tennero stretto, lo avvinghiarono, e uno gli si sedette sul
petto, ma, ad un tratto, echeggiò uno scoppio, come se fosse
scoppiato un pneumatico. Tutti e cinque si scansarono. Levka si alzò
in piedi. I pantaloni di pelle erano ancora al loro posto: Levka
teneva in mano una pistola. Sparò un'altra volta, in aria. Si sentì
odore di fumo e ci fu un attimo di terrore. Glebov si sentì piegare
le ginocchia. Orso gli si precipitò addosso con gli occhi sbarrati e
corse di sopra, saltando i gradini.
  Risultò poi che quella di ¬sulepnikov era una pistola giocattolo
straniera, molto bella, con delle speciali cartucce che riproducevano
il rumore dei colpi di una pistola vera. ¬sulepnikov uscì da questa
storia a testa alta, da eroe; gli aggressori invece furono coperti di
infamia e in seguito fecero tutto il possibile per rappacificarsi e
fare amicizia con il possessore di quella meravigliosa pistola. Con
un'arma simile si poteva diventare i dominatori di tutti i cortili
del lungofiume. A Glebov fu più facile che agli altri stringere
amicizia con ¬sulepa. Egli infatti non aveva preso parte
all'aggressione. ¬sulepnikov non manifestò nessuno spirito di
vendetta, anzi forse era contento che adesso lo adulassero e fossero
disposti a dargli interi patrimoni in cambio di un tiro con la
pistola. Ma la faccenda non era finita lì. All'improvviso comparve il
direttore con il bidello e un poliziotto e si mise a gridare che i
banditi dovevano essere puniti. Il direttore era fuori di sé: gridava
come non era mai accaduto, pallido, le guance tremanti, sembrava
inesorabile. Il bidello disse che si trattava di un'azione di
sabotaggio. Il poliziotto stava seduto in silenzio, ma la sua
presenza causava disagio a tutti.
  Il direttore pretendeva che si facessero i nomi dei banditi.
¬sulepnikov non voleva. Disse che non aveva notato chi fossero; gli
si erano ammucchiati addosso e poi se l'erano data a gambe. Il
direttore venne altre due volte, senza il poliziotto. Si chiamava
Borsover e sembrava quasi che avesse questo strano nome per via delle
borse sotto gli occhi. Aveva una lunga faccia bianca, gonfi
semicerchi bianchi sotto gli occhi. Era nervoso, non riusciva a stare
seduto tranquillo, come tutti gli insegnanti, e per tutto il tempo
andava su e giù, di corsa, davanti alla lavagna, come un invasato.
Nessuno aveva simpatia per il capocorso, che avevano soprannominato
Tromba, ma il direttore faceva pena. Aveva un'aria depressa.
  "Amici miei, vi chiedo un atto di coraggio... Coraggio non nel
nascondere, ma nel dire..." La faccia bianca e la voce spezzata non
parlavano affatto di coraggio.
  Nonostante tutta la compassione per il vecchio malato, la classe
taceva. Anche ¬sulepa taceva. Raccontò poi che il padre lo aveva
castigato: lo aveva chiuso nel bagno tutta la sera, e nel bagno c'era
buio, e c'erano gli scarafaggi. Pretendeva che rivelasse i nomi, ma
¬sulepa non denunciò nessuno.
  Così Levka ¬sulepnikov, colui che avevano deciso di svergognare
davanti a tutti, divenne un eroe. E fu probabilmente da quel momento,
dai calzoni di pelle, dalla pistola giocattolo e dalla sua condotta
eroica - una ragazza addirittura compose dei versi in onore di
¬sulepa - che ebbe origine quel peso terribile in fondo all'anima...
Perché un individuo solo non deve avere tutto. Perché, allora, si
doveva ribellare anche la natura, quello che è chiamato destino. In
seguito, Levka ¬sulepnikov avrebbe sentito questa "protesta del
destino", questi denti di drago sulla propria povera pelle, ma certo
allora, nel dormiveglia dell'infanzia, nessuno avrebbe potuto pensare
che una volta o l'altra si sarebbe rovesciato tutto quanto. E solo
Glebov sentiva qualcosa, che ancora non poteva definire con
esattezza, qualcosa di inquietante, come le voci sorde della realtà
che si insinuano nel sogno. No, l'invidia non è affatto quel basso,
vile sentimento che sembra. L'invidia è una parte della natura che si
ribella, un segnale che le anime sensibili devono cogliere. Ma non
c'è infelicità maggiore di quella delle persone colpite dall'invidia.
E non c'era infelicità più deleteria di quella che toccò a Glebov nel
momento di quello che sembrava il suo trionfo.
  Al cinema, al di là del ponte, davano il vecchio L'espresso
azzurro. Avventure cruente, sparatorie, delitti. Ai film di questo
tipo tutti si entusiasmavano, fantasticando di esserne coinvolti, ma,
chissà perché, ai ragazzi erano vietati. Glebov ce lo accompagnò la
madre. Il film risultò naturalmente straordinariamente bello. Per
un'ora e mezza Glebov, seduto sulla sedia pieghevole, tremò, come
avesse la febbre. S'intende che dovette vedere il film più di una
volta. Erano i giorni del suo incontrastato dominio. Non c'era altra
via se non attraverso di lui, Glebov, per poter sperare di vedere
quel filmone mondiale e incomparabile: in due parole raccontava di un
treno che portava i rossi ed era assalito dai bianchi, che facevano
piazza pulita di donne, vecchi e bambini, ma poi i rossi avevano la
meglio. C'erano sparatorie e duelli corpo a corpo sulle piattaforme,
sui tetti e sotto le ruote dei vagoni a tutta velocità. Il pubblico,
imbecille, non andava a vedere questo film, e la saletta nelle ore
diurne era vuota.
  Glebov scelse un paio dei più meritevoli, ponderò a lungo quella
scelta, annunciò la decisione dopo la lezione, quindi, attraversato
di corsa il ponte, si precipitarono tutti e tre allo spettacolo. Sua
madre ne poteva lasciar entrare anche quattro o cinque. Ma Glebov non
si sbilanciava. Non c'era motivo di aver fretta. Avrebbe voluto che
anche ¬sulepa lo pregasse, mendicasse come gli altri, ma quello non
mostrava alcun interesse. Una volta disse con aria sprezzante: "Ma
l'avrò visto cento volte!".
  Era certamente una fandonia. Durante le lezioni, Glebov si
deliziava nella cernita dei postulanti: uno gli offriva una serie di
francobolli di colonie francesi con l'aggiunta di uno spruzzatore,
Manjunja promise di portarlo alle corse con suo padre; c'erano altre
proposte, e c'erano anche delle minacce. Una ragazza gli scrisse un
bigliettino in cui gli prometteva di baciarlo, se l'avesse portata al
cinema. Glebov fu turbato dal biglietto. Non aveva mai ricevuto
bigliettini da una ragazza e non era stato mai baciato. La ragazza si
chiamava Dina, di cognome Kalmykova. Dina Kalmykova, soprannominata
Paralume. Era grassoccia, molto colorita, con gli occhi e le ciglia
nere, non molto bella. Glebov non le aveva mai rivolto la minima
attenzione. Ma gli rimase impressa per tutta la vita.
  Ricevuto il bigliettino, Glebov ebbe un attimo di vero spavento.
Aveva paura di muoversi e ancor più di voltarsi a guardare: Dina
stava seduta due banchi dietro di lui. Per prima cosa fece il
biglietto in mille pezzi. Si mise a riflettere febbrilmente a come
doveva comportarsi. Avrebbe certamente potuto dirle: "Sì, ti posso
portare al cinema, ma non è obbligatorio baciarsi". Ma questo sarebbe
suonato per lei come un'offesa. Era già così grassoccia, una vera
montagna di grasso, benché corresse veloce e alle lezioni di
educazione fisica superasse le altre ragazze. Sapeva andare molto
bene sulla trave e si arrampicava discretamente sulla fune. Aveva
degli enormi calzoncini color amaranto a volant che qualcuno aveva
definito un "paralume", e così era venuto fuori il soprannome:
Paralume. Se il bigliettino lo avesse mandato Sveta Kirillova o, per
esempio, Sonja Gan¬cuk, Glebov si sarebbe turbato assai di più. Sveta
gli sembrava bella, aveva un portamento altero, era flessuosa,
sottile, con le trecce color mogano e l'aria di chi sa un importante
segreto, sconosciuto agli altri; Sonja Gan¬cuk invece attraeva Glebov
non per la bellezza, ma per qualcos'altro. Forse per il fatto che il
padre, il professor Gan¬cuk, era un eroe della guerra civile e nel
suo studio, dove una volta Sonja lo aveva fatto entrare di nascosto,
erano appesi alla parete pugnali, fucili e una scimitarra turca. Ah,
se Sveta o Sonja gli avessero promesso di baciarlo! Ma Dina Paralume
lo aveva confuso.
  Durante la ricreazione, cogliendo un momento in cui Dina era sola
vicino alla finestra, con le spalle appoggiate al davanzale, gli
occhi al soffitto, e il sorriso sulle labbra, le si avvicinò e disse
borbottando: "Se vuoi, si può andare oggi. Vengono Tricheco e
Chimius...". Dopo un momento di silenzio, aggiunse: "Se ti va,
naturalmente...".
"Sì" disse Dina continuando a sorridere e a guardare il soffitto.
  "Però non perdere tempo, altrimenti faremo tardi. Alle due e mezza.
Vestiti subito e andiamo di corsa. Va bene?" Parlava seccamente,
senza nessuna allusione sentimentale.
  Durante la proiezione, Dina gli sussurrò all'orecchio: "Io vado a
casa!".
  Glebov si meravigliò. Le principali sparatorie de L'espresso
azzurro dovevano ancora arrivare, ed egli si preparava a guardarle
per la decima volta. Dina spiegò in un sussurro che le faceva male la
pancia. Si alzò ed uscì dalla sala. Glebov, dopo averci pensato su,
la seguì. Non era del tutto chiaro perché usciva con lei, e perciò si
sentivano entrambi imbarazzati e non dicevano niente. Dina camminava
rapidamente, quasi di corsa, e Glebov le camminava accanto con lo
stesso passo. In silenzio percorsero velocemente il vicolo ed
uscirono sul lungofiume Kanava. Sotto il ponte l'acqua era nera,
fumante di vapore. A tratti sul fiume scivolavano ancora blocchi di
ghiaccio; era aprile, un po' caldo e un po' freddo, chi ci capisce,
ma Glebov batteva i denti e tremava tutto. Adesso desiderava tanto
che Dina lo baciasse. Ma non sapeva come ricordarglielo. Almeno non
sarebbe stato inutile piantare a metà! E poi era andata proprio bene:
Tricheco e Chimius erano rimasti al cinema. In quattro non ne sarebbe
uscito niente.
  Guardò di profilo Dina Paralume, la sua guancia rosso acceso, il
naso all'insù, i riccioli neri che spuntavano da sotto il berretto da
sciatore; osservò come ansimava per la camminata veloce, le sue
grosse labbra dischiuse; quella vista gli era gradevole, perché
sentiva che Dina Paralume, anche se grassa e non molto bella, era in
quel momento in suo potere. E lei stessa aveva acconsentito a questo!
Il cuore gli batteva. Stringeva i pugni. Ad un tratto Dina prese a
camminare più lentamente. Anche Glebov rallentò il passo. Passarono
accanto a un vecchio caseggiato di tre piani, che però non era casa
sua. Abitava sulla Poljanka. Dina aprì il pesante portone d'ingresso,
entrò, senza guardarsi attorno, e dietro di lei entrò Glebov. Salì di
corsa le scale senza fermarsi né al primo piano, né al secondo, né al
terzo, e lui dietro. Dal pianerottolo del terzo piano partiva
un'altra rampa di scale, stretta e ripida, e Dina vi salì. Anche
Glebov salì. Davanti all'ingresso della soffitta c'era un piccolo
spazio, buio e maleodorante.
  Dina si voltò verso di lui ansimando, e disse: "Ecco fatto!".
  "Che cosa?" chiese lui, ansante.
  "Puoi baciarmi."
  "Perché dovrei? Sì, certo, me l'hai promesso..."
  "Cretino!" disse Dina.
  Erano in piedi, in silenzio, e il loro respiro si faceva a poco a
poco più calmo. Dina non voleva andar via e ancora una volta disse a
bassa voce: "Oh, che cretino...".
  Glebov decise fermamente di aspettare finché non avesse ricevuto
quanto gli era stato promesso. Trascorsero tre o quattro minuti di
assoluto silenzio e di immobilità, poi da dietro la porta della
soffitta risuonò un disperato miagolio, si sentì un rapido frusciare.
Si misero a ridere. All'improvviso Dina accostò il suo grasso viso
caldo, ed egli si sentì sfiorare le labbra, per un attimo appena, da
qualcosa di umido e sfuggente, e questo fu il primo bacio della sua
vita. Niente di particolarmente piacevole, si era solo tolto il
pensiero. Corsero giù per le scale e subito, all'ingresso, si
separarono: lei doveva svoltare a destra, sulla Poljanka, Glebov
attraversò il ponte di corsa.
  Uno o due giorni dopo, quando Glebov era al culmine della sua
potenza, ci fu un tracollo. ¬sulepnikov invitò i ragazzi a casa sua
dopo la scuola. Nel palazzone Glebov c'era già stato: da Tricheco, al
nono piano, dove da una finestra si spalancava una gran vista sul
ponte di Crimea, gli alberi del parco, e d'estate si vedeva la grande
ruota girare; oppure da Chimius, che abitava al piano di sotto nella
stessa scala e aveva stabilito con Tricheco un "sistema di
comunicazione di corda e bandierine"; oppure ancora da Sonja Gan¬cuk
o da Anton, nel piccolo appartamento al pianterreno, dove Anton
abitava insieme alla madre, Anna Georgievna. Tra tutti gli inquilini
del palazzo gli piaceva veramente Anton Ov¬cinnikov. Glebov riteneva
Anton semplicemente un genio. Ed erano in molti a pensarlo. Anton era
un musicista appassionato di Verdi, e sapeva cantare tutta l'Aida a
memoria, dalla prima all'ultima parola; inoltre era un pittore, il
migliore della scuola, dipingeva ad acquarello in maniera
meravigliosa monumenti storici o disegnava a inchiostro di china
profili di musicisti; per di più scriveva romanzi fantastici di
speleologia e archeologia, ma si interessava anche di paleontologia,
oceanografia, geografia e in parte di mineralogia. Di Anton lo
attraeva non solo la genialità, ma anche la modestia, la mancanza di
boria e di presunzione, a differenza degli altri inquilini del
palazzo, in ognuno dei quali c'era qualche traccia di arroganza,
detestabile agli occhi di Glebov. Anton viveva poveramente, in un
locale solo, dal mobilio banale, e non aveva stivaletti tedeschi,
maglioni finlandesi, meravigliosi coltellini dal fodero di cuoio e
non si portava a scuola panini al prosciutto o al formaggio finemente
avvoltolati nella carta velina che profumavano tutta la classe.
  Glebov non andava molto volentieri a casa dei ragazzi che abitavano
nel palazzone; o piuttosto ci andava con grande circospezione, perché
i portieri lo guardavano sempre sospettosi e gli chiedevano: "Da chi
vai?". Bisognava dire da chi si andava, il numero dell'appartamento,
a volte il portiere citofonava per accertare se realmente aspettavano
il tal dei tali. Era spiacevole stare in piedi ad aspettare che
finisse di accertarsi. Il portiere, mentre parlava, lo scrutava con
uno sguardo tagliente e incorruttibile, come temendo che Glebov
sgattaiolasse nell'ascensore senza permesso, e Glebov si sentiva un
malfattore colto sul fatto. E non si poteva mai sapere che cosa
avrebbero risposto dall'appartamento: Tricheco aveva una domestica
sorda, che non riusciva né a capire né a spiegare niente; da Chimius
invece andava a rispondere spesso la nonna, una vecchietta terribile
che sorvegliava a vista il nipote. Una volta disse al portiere che
Glebov non poteva salire, perché Chimius non aveva fatto i compiti.
Solo quando andava da Anton, Glebov non subiva il tormento
dell'interrogatorio: il suo appartamento era al pianterreno e il
portiere, con una stretta sorveglianza, si limitava a controllare che
Glebov suonasse proprio lì e che gli aprissero. Glebov aveva notato
che anche i ragazzi che abitavano nel palazzo avevano timore dei
portieri e cercavano di sgusciar loro davanti il più rapidamente
possibile.
  Ma Levka ¬sulepnikov, sebbene vi abitasse da poco, si comportava
diversamente. Quella volta, al suo passaggio, il portiere, un
occhialuto scuro in volto e con le guance penzolanti, lo salutò per
primo con un cenno del capo e accennò persino ad alzarsi dal grande
tavolo sul quale era poggiato il telefono, ma ¬sulepa passò oltre,
senza rivolgergli la minima attenzione. Si stiparono in cinque
nell'ascensore. Il portiere tentò di fermarli, ma quasi timidamente,
con una risatina: "Ma, giovanotti, e se restate bloccati tra un piano
e l'altro?". Levka rispose seccamente: "Non fa niente! Corriamo
questo rischio?". Tutti naturalmente gridarono: "Sì! Proviamo!
Saggiamo il limite di portata!". La faccia occhialuta, quando
l'ascensore partì, aveva un'espressione terrorizzata.
  Nell'appartamento, che colpì Glebov con le sue dimensioni
gigantesche - i corridoi e le sale facevano pensare a un museo -
continuarono a scherzare, a far baccano. Si tolsero gli stivali e si
lasciarono scivolare sul parquet tirato a cera, cadendo e urtandosi
l'uno con l'altro, risero forte, con allegria. Ad un tratto da una
porta bianca con i vetri smerigliati uscì una vecchia con una
sigaretta in bocca e disse: "Che diavolerie state facendo? Smettetela
immediatamente! Rimettetevi le scarpe e andate subito nella stanza
dei bambini". Levka ubbidì, borbottando. Gli chiesero se era sua
madre. Disse che era Agnessa. Insegnava francese alla zia e faceva la
spia alla madre. "Una volta o l'altra l'avveleno con l'arsenico o la
violento." Scoppiarono tutti a ridere, ma nello stesso tempo rimasero
meravigliati. Che modo di parlare! A nessuno sarebbe venuto in mente
di pronunciare quella parola, di cui conoscevano tutti il
significato, sebbene dicessero le sconcezze più indecenti senza il
minimo scrupolo. Levka invece l'aveva pronunciata, riferendola a se
stesso e alla vecchia con la sigaretta, in modo naturale, a cuor
leggero. E quanto più distintamente Glebov coglieva le particolari
qualità di Levka ¬sulepnikov, tanto più si concretava quel qualcosa
di bruciante, quel peso che poi sarebbe diventato piombo.
  ¬sulepnikov era così abituato fin da quegli anni spensierati a
pronunciare quella parola, come una vuota minaccia o come uno scherzo
innocente, che la ripeté poi spesso, anche quando era già grande e
grosso, all'istituto. Se si arrabbiava con una professoressa, la
insultava così: "Se non mi dà la sufficienza, la violento".
  Fu nella camera dei bambini, arredata con un'insolita mobilia di
bambù, con tappeti sul pavimento, ruote di bicicletta e guantoni da
boxe appesi alle pareti, un enorme globo di vetro che ruotava, quando
dentro si accendeva la lampadina, e un antico cannocchiale, montato
su un treppiede per agevolare l'osservazione (Levka disse che la sera
si poteva passare ottimamente il tempo, ispezionando le finestre
dall'altra parte del cortile), fu lì, in quella camera, che fu
demolito il fragile potere di Glebov. Nessuno però se ne accorse,
tranne Glebov stesso. Levka portò un proiettore, stese un lenzuolo
sulla parete e proiettò il film L'espresso azzurro. L'apparecchio
crepitava, la vecchia pellicola si rompeva, le didascalie ballavano
ed erano illeggibili, tuttavia ci fu un generale entusiasmo, mentre
Glebov all'improvviso si sentì profondamente offeso. Pensava: perché
diavolo un individuo deve avere tutto, ma proprio tutto? E persino
quell'unica cosa che appartiene ad un altro, quell'unica cosa di cui
si può vantare o servirsi, gliela tolgono e la dànno a lui, che ha
già tutto. Poi a poco a poco si abituò. Ci si abitua a tutto, persino
a un carico troppo gravoso: gli obesi si portano addosso trenta chili
di peso superfluo e ce la fanno.
  Glebov si abituò al palazzone, che oscurava il vicolo, si abituò ai
suoi portoni, ai portieri, al fatto che lo costringevano a prendere
il tè, mentre Alina Fëdorovna, la madre di Levka ¬sulepa, ficcava la
forchettina in un pezzo di torta e la scostava, dicendo: "Per me non
è fresca", e la torta veniva portata via. Quando questo accadde per
la prima volta, Glebov rimase colpito. Come poteva non essere fresca
la torta? Gli sembrava un'assurdità. A casa sua la torta compariva
raramente, ne facevano una alla svelta, quando era il compleanno di
qualcuno, e a nessuno passava per la testa di dichiarare se era
fresca o no. La torta era sempre fresca, splendidamente fresca,
soprattutto quella sfarzosa con i fiori rosa di crema.
  Glebov si abituò anche al proprio appartamento, quando vi ritornava
dopo le visite al palazzone. I primi tempi provava una certa
malinconia, quando vedeva sorgere all'improvviso, come da un canto,
la sua casupola sbilenca con le stuccature grigiastre, quando saliva
la scala buia, dove bisognava fare attenzione perché c'erano dei
gradini rotti; quando si avvicinava alla porta, costellata, come una
vecchia coperta piena di toppe, di una quantità di targhette, di
cartellini e di campanelli; quando affondava nell'odore composito, di
petrolio, della sua casa, dove sempre la biancheria bolliva nella
tinozza e qualcuno cuoceva i cavoli; quando si lavava le mani in
quella che era stata una stanza da bagno, divenuta angusta per le
tavole che coprivano la vasca in cui nessuno si lavava o faceva il
bucato, e sulle tavole c'erano i catini e le bacinelle dei vari
inquilini; quando molte altre cose vedeva, sentiva, notava, tornando
dalla casa di Levka ¬sulepnikov o di qualcun altro del palazzone, ma
un po' alla volta tutto questo si smussò, si ammorbidì e alla fine
non ferì più.
  Una volta, rientrato da una visita, mentre Glebov descriveva
eccitato il lampadario nella sala da pranzo di ¬sulepnikov e il
corridoio in cui si poteva andare in bicicletta, e i meravigliosi
dolci per il tè - non lo avevano colpito i dolci in sé, ma le
dimensioni della scatola - e la madre e la nonna chiedevano curiose
ora di questo ora di quello, il padre all'improvviso, strizzandogli
l'occhio, gli disse: "Ma scusate, vorreste forse abitare in quella
casa?".
  "E perché no? - disse la madre. - Vorrei avere un corridoio tutto
mio."
  "Senza rumore di casseruole" disse nonna Nila, afflitta da una
coinquilina che abitava nella stanza dirimpetto che arrivava tardi
dal lavoro e cominciava, alle undici di sera, a rimestare tra camera
e cucina, con le casseruole che tintinnavano una contro l'altra.
Nonna Nila dormiva su un cassone, vicino alla porta, cosicché
l'andirivieni della vicina e il tintinnio delle stoviglie la
svegliavano. Il padre guardò la madre e la nonna con stizza.
  "Che devo dirvi? Galline pezzate, femmine rintronate..."
  I suoi scherzi erano così, del tutto innocenti. Aveva
soprannominato anche sua madre "gallina pezzata". Le donne facevano
finta di arrabbiarsi, gli si scagliavano contro agitando le mani - la
madre non si era mai arrabbiata sul serio contro di lui - ed egli
dava una gomitata a Glebov, strizzandogli l'occhio.
  "Eh, Dimy¬c, senti che chiocce... Che oche giulive... ma è mai
possibile che non capiate che si vive più liberi senza un corridoio?
E poi, che musica il tintinnio delle stoviglie! Io nemmeno per
milleduecento rubli me ne andrei in quella casa..."
  Nonostante che avesse sempre un atteggiamento scherzoso e
spensierato e si burlasse della madre, della nonna e della zia Polja,
sorella della madre, prendendole in giro e spaventandole a tal punto
che era a volte difficile capire se facesse sul serio o no - Glebov
lo capì solo da adulto - il padre non era affatto un buontempone
spensierato. Quella era la facciata, era la commedia domestica.
Invece, in fondo alla natura paterna, il perno intorno a cui tutto
ruotava era una qualità possente: la prudenza. Ciò che egli diceva
ridendo, come una battuta "Ragazzi miei, seguite la regola del tram,
non sporgetevi dai finestrini!", non era solo una battuta di spirito.
Era saggezza nascosta, che egli cercava di trasfondere un po' alla
volta, timidamente, quasi senza volerlo. Ma perché non sporgersi?
Sembrava ritenerla una regola valida in sé. Forse lo soffocava, come
un'angina pectoris, un'antica paura non sopita. Era un po' più
anziano della madre, sembrava un vecchio, un vecchio crespo e
incanutito, sebbene avesse appena cinquant'anni. Ma erano stati
cinquant'anni di lotte, di avversità, di fatiche improbe. La sua era
la famiglia molto povera di un contabile della fabbrica Duks. Il
fratello, lo zio Nikolaj, era stato aviatore, uno dei primi piloti
russi caduti nella guerra contro i tedeschi. In famiglia ne erano
fieri. Non avevano altro di cui essere fieri. Il ritratto dello zio
Nikolaj, con la divisa del ginnasio, era appeso nel posto più
visibile. E, nell'amicizia sempre più stretta con Levka ¬sulepnikov
(non si capiva perché Levka avesse un debole per Glebov, lo invitava
a casa, gli regalava i libri che non lo interessavano, quindi
praticamente tutti, e c'era il sospetto che li sottraesse alla
biblioteca del padre, perché in alcuni vi era stampato il ritratto di
un uomo con un martello, i raggi del sole e la scritta "Ex libris
A'V'¬s'"), persino in quell'amicizia di ragazzi, il padre vedeva dei
pericoli e ammoniva di "non sporgersi". Consigliò Glebov di
frequentare meno quella casa, di non intensificare l'amicizia con
Levka, perché "gli ¬sulepnikov hanno una loro linea di vita, tu la
tua, e non si possono fare mescolanze". A lui, chissà perché,
sembrava che prima o poi Glebov sarebbe venuto certamente a noia a
Levka ¬sulepnikov, o, peggio ancora, ai suoi genitori, e da questo
fatto sarebbero sorte delle contrarietà. Da parte sua, Glebov
presentiva questa eventualità; non avrebbe voluto frequentare il
palazzo e tuttavia ci andava ogni volta che lo chiamavano, e ci
andava persino senza essere invitato.
  Tutto in quella casa era attraente, inconsueto: quanto
chiacchieravano con Anton, quanti libri gli mostrava Sonja Gan¬cuk,
prendendoli dalla biblioteca del padre, di quante meraviglie si
vantava ¬sulepa! A casa sua tutto era risaputo, per filo e per segno,
era meschinità, noia.
  Il padre non diceva niente direttamente, ma faceva capire
alludendo, scherzando. Glebov non voleva che si parlasse di Levka.
  "Perché dici così? Che cosa non ti va di ¬sulepa?"
  Eppure quello che a Glebov non andava di Levka, quello che destava
in lui un senso di avversione, di peso, era sconosciuto al padre. Il
padre faceva altre congetture, evitava le spiegazioni oppure se ne
usciva con spiritosaggini del tipo: "Vedi, in linea di principio io
non ce l'ho con il tuo Levka, o ¬sulepa, come lo chiami tu. A
proposito, ti consiglio di lasciare stare questo nomignolo. Chiamalo
semplicemente Lev... Il fatto è che è un gran maleducato. Per
esempio, non dice grazie, quando si alza dal tavolo dopo il tè".
  Era una sciocchezza, si capisce: il padre faceva lo spiritoso.
Levka non gli andava per altri motivi più sostanziali. Ma quando
Levka veniva a trovarlo a casa, il padre era gentile e persino molto
affabile, come con un adulto e lo chiamava con tono serio Lev, senza
i soliti diminutivi, cosa che faceva ridere Glebov. Per di più in
presenza di Levka il padre si mostrava eccessivamente loquace,
chiacchierava di argomenti diversi, raccontava frottole e faceva
smargiassate. Glebov ne era disgustato.
  Una volta, a proposito dello zio Nikolaj, dichiarò che era stato il
primo aviatore ad abbattere in una sola volta tre aerei, tra i quali
quello del famoso asso tedesco conte von Schwerin, che era rimasto
miracolosamente incolume, aveva ripreso a volare, e aveva dichiarato
che sognava di scontrarsi con quel russo e di vendicarsi. L'avevano
pubblicato su tutti i giornali.
  Glebov stava a sentire e non ne poteva più. Il padre disse:
"Neppure tu lo sai. Non te l'ho mai detto".
  E Levka ¬sulepnikov disse: "Una volta lei ha detto che aveva
abbattuto due aeroplani".
  "Io? Non può essere! Non ho mai detto che erano due. Non sarebbe un
record. Due non è un record. Ne ha abbattuti tre in una sola
volta..."
  Un'altra volta il padre raccontò che durante la guerra civile aveva
prestato servizio nel Caucaso sotto il comando del compagno Kirov
(che avesse prestato servizio da qualche parte nel Caucaso era vero)
e che era stato in Persia con un reparto di cavalleria e aveva visto
gli adoratori del fuoco. Levka ¬sulepnikov allora cominciò a dire
balle sul conto di suo padre che a Tiflis avrebbe ucciso con le sue
mani un fachiro. Il padre di Glebov disse che nell'India del nord
aveva visto un fachiro che faceva crescere con gli occhi una pianta
magica (non era mai stato di sicuro nell'India del nord). Levka disse
che suo padre aveva acciuffato una banda di fachiri, che erano stati
imprigionati in un sotterraneo e dovevano poi essere fucilati come
spie degli inglesi, ma quando la mattina dopo andarono nel
sotterraneo, non trovarono che cinque ranocchi. E i fachiri erano
proprio cinque.
  "Dovevano fucilare i ranocchi" disse il padre.
  "E lo fecero, - disse Levka. - Ma sa quanto è difficile sparare ai
ranocchi? E poi, in un sotterraneo..."
Il padre rideva, minacciandolo maliziosamente con il dito.
  "Vedo che ti piace fantasticare, Lev! E' una bella cosa, mi piace.
A parte gli scherzi, però, io li ho visti davvero i fachiri vivi...
La prima volta nell'India del nord, come ho già detto, e la seconda
volta qui da noi, a Mosca, sul viale Strastnoj..."
  Avevano qualcosa in comune, il padre e Levka ¬sulepnikov. Perciò
chiacchieravano così fitto, d'amore e d'accordo. A Glebov non
piaceva. Le fandonie lo esasperavano. Non tanto per il fatto che il
padre diceva balle, ma perché pensava una cosa e ne diceva un'altra.
Disse al padre, una volta:
  "E sì che Levka non ti piace. Perché ti comporti in quel modo? Quei
sorrisi, quelle storie... Sembra il tuo principale...".
  E allora il padre se l'ebbe a male. Non si arrabbiava quasi mai,
non gridava quasi mai, ma allora sbottò: "Moccioso! Mi fa il
predicozzo, piccolo impudente! - gli piaceva l'espressione "piccolo
impudente". - Io sorrido e racconto qualcosa solo perché sono una
persona educata. E certo, voi siete abituati ai Levka! Dimka! Ehi!
Tu! Frescone! Che incredibile faccia tosta, fare il predicozzo a suo
padre!".
  Era così furente che andò a lamentarsi con la madre e con la nonna
Nila, e anche le due donne se la presero con Glebov. Ma di sera
Glebov sentì bisbigliare dietro il paravento: "E tu che frottole vai
raccontando davanti a quel bellimbusto...".
  "E' un impudente! Fa le ramanzine a suo padre!"
  "Ma tu non strisciargli davanti in quel modo..."
  "Stupidi! Non capiscono niente!"
  Poi, a mente fredda, dopo qualche giorno, il padre gli spiegò con
calma: "A proposito, quanto a quello che mi dicevi... che trattavo il
tuo Levka come una personalità importante... sai, l'hai imbroccata! E'
davvero una personalità importante, non dico lui, Levka, ma suo
padre, anche se non so niente di preciso... Perché tutto è così
confuso, complicato...".
  E venne subito la conferma: proprio una cosa complicata. Ad un
tratto ci fu la storia di zio Volodja, il marito di zia Polja. Subito
pensarono: forse potrebbe appoggiarlo il padre di Levka ¬sulepnikov?
Zio Volodja e zia Polja abitavano alla Jakimanka, ma venivano a
trovare i Glebov quasi tutti i giorni, soprattutto zia Polja. La
madre e la nonna le erano affezionate. Era considerata la più bella
di casa, la più dotata, e aveva un bel lavoro: faceva la modellista
in una fabbrica di giocattoli. Zio Volodja era compositore
tipografico. Aveva avuto delle noie, lo avevano accusato quasi di
sabotaggio. Zia Polja piangeva: "Pensa un po', sabotatore il mio
Vovka! Sabota se stesso, più che altro...". A se stesso faceva
davvero del male, perché era un ubriacone. Il padre di Glebov lo
sgridava sempre. La madre e la nonna a volte compiangevano zia Polja,
a volte se la pigliavano con lei: "La colpa è tua, stupida, sei tu
che lo hai viziato. Perché gli compri da bere?". "E' meglio in casa
che per la strada, con chi capita", si giustificava zia Polja.
  Nonna Nila e la madre sostenevano che era per quello, per il vino,
che c'erano state quelle noie, ma zia Polja non era d'accordo: "Lo
hanno rovinato gli altri. E' un uomo fatto così!". Ed era davvero un
uomo molto buono, senza malizia. Ma Glebov già allora indovinò che
proprio queste anime candide sono la rovina di chi sta loro intorno:
zia Polja piangeva, nonna Nila soffriva, la mamma non pensava ad
altro e il padre bestemmiava. In primavera volevano comprare a Glebov
la bicicletta, ma la mamma gli disse: "Adesso non ci sono soldi,
bisogna aiutare Polina".
  E a un tratto pensarono al padre di Levka...
  Prima avevano cercato di allontanare Glebov da Levka, minacciato
col dito: stai alla larga da loro, non ti impicciare, e adesso
pensavano di chiedere aiuto a Levka. Perché tutti erano stati colpiti
dalla storia dei By¬ckovy.
I By¬ckovy, un'allegra famigliola, viveva nello stesso appartamento
dei Glebov come se fossero i padroni. Erano temuti da tutti, davano
sulla voce a tutti e facevano quel che volevano. Invadevano la cucina
verso sera e non lasciavano entrare nessuno. Roba da correre alla
polizia. Il vecchio By¬ckov, Semën Gervasievi¬c, metteva il pellame a
bagno in un liquido puzzolente. Cuciva in casa gli stivali, i più
cari e alla moda, e più spesso non li cuciva lui, ma li dava a un
lavorante; si limitava a ricevere i clienti e il pellame.
  Quanti strilli per quella cucina chiusa di notte! La vicina che
arrivava tardi la sera dava in escandescenze più di tutti. Anche la
madre di Glebov si infuriava. Prima di tutto il puzzo, poi l'abuso.
  Talvolta la mamma stava per sbottare: "Vi faccio vedere io!... Con
quale diritto!".
  Il vecchio Semën Gervasievi¬c borbottava a voce bassa: bu-bu-bu. Il
padre di Glebov si trascinava malvolentieri in corridoio, perché
tutti i By¬ckovy si rovesciavano fuori della "sala" - chissà perché
chiamavano "sala" la grande stanza dove vivevano in sei - e il
bu-bu-bu diventava generale, assordante. Come una tempesta, con tuoni
e scrosci di pioggia. Ma i principali farabutti erano Minºka e
Taranºka. Taranºka aveva dieci anni e frequentava la terza, Minºka
invece ne aveva quindici e non andava a scuola per niente, perché
aveva ripetuto due volte la quinta, era stato espulso, aveva fatto
l'apprendista da qualche parte, poi aveva smesso. Si occupava di
faccende poco chiare, passava tutto il giorno al biliardo e forse era
entrato in un giro di ladri.
  Minºka By¬ckov era il piccolo zar di vicolo Derjuginskij e
dintorni. E non era uno zar buono. Avevano paura di scontrarsi con
lui, perché sapevano che non andava in giro a mani vuote.
  Spesso accorreva a scuola alla fine delle lezioni e si metteva a
fare l'interrogatorio.
  "Chi è stato a picchiare Taras ieri sera? Chi l'ha graffiato per le
scale? Tu, vigliacco?"
  E già sapeva chi era stato, perché Taranºka si lamentava
continuamente e raccontava un mucchio di storie. Evitavano di toccare
quello scrofoloso di Taranºka, ma c'erano anche i male informati, che
non sapevano di Minºka: Taranºka faceva l'arrogante, e così gli
appioppavano a cuor leggero uno schiaffo o un nocchino sulla
capoccia, senza immaginare le terribili conseguenze. Minºka inscenava
in cortile, presso il muro di mattoni, dove trascinava le sue
vittime, un crudele processo sommario.
  "Come hai potuto, figlio d'un cane, prendertela con mio fratello?
Ti sei stufato di campare?"
  Jurka Orso, l'atleta che non aveva paura nemmeno di quelli della
decima, fu umiliato e pestato davanti a tutti: Minºka gli torse un
braccio dietro la schiena, quello strillava dal dolore, ma Minºka
torse ancora più forte, fino a farlo cadere in ginocchio. Poi gli
ordinò: "Ripeti: perdonami, Taras Alekseevi¬c, per averti offeso...
Non lo farò più!".
  E Taranºka, quel piccolo dritto dalle sopracciglia rossicce,
assisteva alla scena e rideva. Orso soffriva al di sopra delle sue
forze, gemeva, digrignava i denti e scuoteva la testa, non voleva
parlare, ma By¬ckov lo sopraffece. Taranºka gli si accostò e gli
avvicinò i piedi al viso. Minºka lo premeva, sempre più forte.
  "Ed ora ripeti, vigliacco, hai sentito? Altrimenti ti spezzo il
braccio!"
  Orso balbettò in maniera appena percettibile: "Perdonami, Taras
Alekseevi¬c..." e tutto il resto. Nessuno prese le sue difese: in
cortile non c'erano ragazzi grandi, e come avrebbero potuto farcela i
più piccoli? Anche Glebov aveva un po' paura di Minºka By¬ckov, ma
non come gli altri, Minºka del resto era suo coinquilino. A volte gli
chiedeva qualcosa, a volte gliela dava lui stesso. Talvolta Glebov
s'inorgogliva: tutti avevano paura di attraversare il vicolo
Derjuginskij dove c'era Minºka By¬ckov con la sua banda e lui no, non
aveva paura. Poteva camminare per il vicolo anche di sera tardi,
persino di notte, nessuno lo molestava. Glebov sentiva fortemente
questo suo privilegio ed avvertiva persino, con una certa vergogna,
senza neppure ammetterlo a se stesso, che nei momenti difficili
avrebbe potuto diventare un secondo Taranºka, o quasi. Minºka sarebbe
intervenuto in sua difesa! A chi toccava le avrebbe suonate.
  Ma Glebov non si lamentò mai di nessuno con Minºka. In genere non
si serviva di tutti i vantaggi che gli venivano dall'essere suo
vicino. Perché, oltre la segreta soddisfazione, c'era nascosto nel
profondo qualcosa di assolutamente diverso: una paura che
agghiacciava l'anima. Una paura che nessuno aveva mai provato. Perché
nessuno come Glebov conosceva e sentiva tutti quei By¬ckov che
facevano impallidire sua madre e costringevano la nonna a farsi il
segno della croce. La mamma ripeteva: "Per l'amor di Dio, non ti
mettere mai con Minºka, né con Taranºka...".
  Ma come poteva non stabilire dei rapporti, dal momento che loro
stessi prendevano l'iniziativa? Avevano una sorella, Vera, una
ragazza di sedici anni. Lavorava in fabbrica. Sembrava una donna
fatta, ma forse appariva così a Glebov, tutta rotonda, con il petto
prominente, le scarpe scricchiolanti e sempre un forte odore di acqua
di colonia.
  Taranºka una volta tirò Glebov in corridoio e cominciò a
importunarlo: "Vuoi che ti faccia vedere Vera nuda? Dammi venti
copechi!".
  Glebov non voleva, naturalmente. Non aveva nessuna intenzione di
guardare Vera nuda. Il solo pensiero gli procurava una spiacevole
inquietudine. E poi dove prendere venti copechi? Rubarli alla madre o
chiederli a nonna Nila? Ma Taranºka non gli dava pace e gli metteva
paura con il cane: i By¬ckovy avevano un grosso cane nero chiamato
Abdul che era considerato proprietà di Minºka. Abdul conosceva bene
Glebov, tuttavia se glielo avessero aizzato contro, non si sa come
sarebbe andata a finire.
  Andarono in bagno, tolsero il catino dalle tavole, vi misero uno
sgabello e Glebov si arrampicò. Al di sopra c'era una finestrella che
dava sulla "sala" coperta da una tenda. Taranºka scostò la tenda e
Glebov vide Vera che si lavava in una tinozza in mezzo alla stanza.
Vera, a quanto pare, non provava alcun imbarazzo di fronte a
Taranºka. Glebov vide tutto...
  Poi Taranºka gli si incollò come una zecca: fuori subito i venti
copechi! Erano tutti così: dammi, dammi subito! A volte succedeva che
la mamma rientrasse in camera tutta sconvolta, come in preda al
panico: "Aleutina vuole di nuovo la macchina da cucire... Che cosa le
dico?".
  Aleutina era la madre di Minºka, di Taranºka e di Vera, la moglie
del vecchio By¬ckov. Alla madre di Glebov non andava affatto di
prestare la macchina da cucire. Ora trovava una scusa, ora un'altra,
giocava d'astuzia, ma l'altra la spuntava ugualmente. Non c'era
alcuna possibilità di affrancarsi dai By¬ckovy.
  Ma la loro potenza finì in questo modo. Una volta corsero al vicolo
Derjuginskij Anton e Levka, non si sa per quale motivo, ma non
andavano da Glebov. Forse volevano passare dal vicolo per andare al
lungofiume Kanava, c'era un passaggio attraverso i cortili. I
By¬ckovy li notarono e subito mandarono Taranºka a fare degli stupidi
discorsi: "Ehi, giovanotto, vuoi che te le suoni?". Un vero invito a
una rissa. I due non si misero certo a discutere con Taranºka, lo
scostarono, ma a quel punto tutta la banda dei By¬ckovy si riversò
fuori del portone, era come in un copione; la baruffa era nell'aria,
qualcuno sguinzagliò Abdul, ma sembra che il cane non abbia morso
nessuno, ci fu solo una gran paura e un vestito strappato. Levka non
se la prese, ma per Anton ogni straccio che possedeva era prezioso.
Il giorno dopo venne a casa dei Glebov un uomo con un lungo cappotto
di pelle, che bussò subito alla "sala". Abdul ululò forte.
  Il vecchio Semën Gervasievi¬c, Aleutina e Taranºka erano in casa.
Ci fu qualche rumore, si sentì parlare, Aleutina gridava, il cane
abbaiava con voce acuta (Glebov non lo lasciarono uscire dalla camera
e tutta la famiglia decise di non uscire in corridoio, stavano lì
seduti, in ascolto), poi si sentirono tre colpi di pistola. Abdul,
dissero poi, si ficcò sotto il divano e non ne uscì mai più.
  Glebov era deluso: lo considerava un cane terribile e coraggioso, e
invece si era comportato come un vigliacco. Del cane dispiacque anche
ai By¬ckovy, e specialmente ad Aleutina e Taranºka, che
singhiozzarono. Nella casa invece furono contenti. Dopo la morte di
Abdul, quasi all'improvviso le cose cominciarono ad andar male per
tutti i By¬ckovy, e tutto crollò. Minºka fu arrestato per furto, il
vecchio Semën Gervasievi¬c cadde in mezzo al cortile e fu portato
all'ospedale, e in breve tempo tutti gli altri By¬ckovy scomparvero
non si sa dove, come se li avesse spazzati via il vento. E nella
"sala" divisa in due con un tramezzo e tappezzata a nuovo si
trasferirono i tranquilli Pomra¬cinskie, marito, moglie ed una
ragazza, Ljuba. Correvano per il corridoio senza farsi notare, come
sorci, e parlavano tra di loro sempre a bassa voce.

  Io mi ricordo tutte queste stupidaggini infantili, quello che si
perdeva e si trovava, quanto soffrivo a causa sua quando non mi
voleva aspettare e andava a scuola con un altro, e poi mi ricordo
quando spostarono la casa con la farmacia, e che in cortile c'era
sempre aria umida, odore di fiume, e l'odore si sentiva anche nelle
stanze, specialmente in quella grande di mio padre, e, quando passava
il tram sul ponte, si sentiva anche da lontano lo sferragliare e il
cigolio delle ruote. Mi ricordo: fare d'un fiato la scala laterale
del ponte; scontrarsi la sera sotto l'arco con la banda del vicolo
che tornava dal cinema di corsa, come un branco di coyotes; andare
loro incontro, stringendo i pugni, impietriti dalla paura.
  Tutta l'infanzia era avviluppata nella nube purpurea della vanità.
  Oh, quegli sforzi, la bramosia di una gloria momentanea! Il mondo
era piccolo, gli uomini erano quattro, o cinque: Anton, Chimius,
Tricheco, forse anche Sonja e Levka e, certamente, il buffo Jarik. E
in questo cosmo gorgogliava la nostra brama: dimostrare. Tenero,
succoso, vermiglio frutto dell'infanzia. Tutto era nuovo, senza
paragoni. Per la prima volta nella vita corsi al fiume, durante la
ricreazione, sull'asfalto inondato di sole. Per la prima volta nella
vita indovinai che la primavera era semplicemente il vento che faceva
sentire freddo e battere i denti. Un uomo magro e incurvato, con un
giubbotto corto e un grande berretto da donna color mattone,
camminava svelto sul marciapiedi e chiacchierava tra sé e sé. Una
terribile preoccupazione divorava quelle guance scavate, gli occhi
infossati. Dopo aver letto di sfuggita il nome della nostra scuola,
si fermò all'improvviso e si mise a gridare: "Non può essere! Non può
esistere una cosa simile! Mi sentite?". Non gridava rivolto a noi,
piccolo gruppetto sparuto, addossato al parapetto del lungofiume, ma
a qualcun altro invisibile, che bruciava con il suo sguardo d'odio:
"Scuola media SENO. Ma quale SENO? Cosa significa questa assurdità?
Dio mio, si rendono conto di quello che fanno?".
  E lanciò ancora qualche altra espressione di rabbia, con gli occhi
scintillanti. A un tratto si arrampicò con un balzo sulla striscia di
granito del parapetto e cominciò a camminare con gran facilità come
se si trattasse di un marciapiedi. Noi restammo stupefatti, le
ragazze urlarono dallo spavento. L'uomo con il berretto allora si
accorse di noi e, fermatosi un momento, ci disse dall'alto: "Poveri
bambini!".
  Dopo di che fece ancora alcuni metri con la sua andatura lunatica,
saltò giù e si allontanò velocemente in direzione del ponte sulla
Moscova. Per la prima volta in vita mia avevo visto un pazzo. Eravamo
rimasti tutti colpiti da quell'uomo. Quando fu a ragionevole
distanza, cominciammo a ridere selvaggiamente. Chimius si avvicinò
alla barriera di granito e vi si arrampicò aiutandosi con le mani.
Noi vedevamo che aveva paura, che non ce la faceva ad alzarsi, e
tuttavia egli fu il primo a issarsi sul muretto e, con le mani alzate
e il viso rattrappito dalla sofferenza, a gridare: "Poveri bambini!"
per poi lasciarsi cadere come un sacco sul marciapiedi. Noi ridevamo.
Ma ecco Anton Ov¬cinnikov, mortalmente pallido, mordendosi le labbra,
si avvicinò con passo sicuro al muretto ed anche lui ci salì sopra,
si alzò in piedi, allargò le braccia come un funambolo...
  Noi sapevamo che Anton aveva i piedi piatti, era miope, andava
soggetto ad attacchi di epilessia, ma nessuno lo fermò. La pazzia
aveva contagiato tutti. Risultò che camminare e persino correre sul
parapetto era incredibilmente facile. Dopo Anton si arrampicò il
grosso e pesante Zorik, detto Tricheco, ed anche lui strisciò sul
granito, senza alzare le suole, ingobbito come una scimmia, ma quando
saltò giù sull'asfalto le sue gambe cedettero ed egli cadde in
ginocchio. Poi mi arrampicai io, e infine Jarik.
  Non era poi così difficile. Prima di tutto non bisognava pensarci,
né guardare in basso, sul viottolo di pietra dell'argine. L'urlo
spaventoso di Nikfed ci strappò a quello strano sogno. Probabilmente
quell'urlo salvò Jarik, il più maldestro e indifeso di noi: non ce la
faceva a correre né a lottare, né a prendere parte alle "scaramucce"
che avvenivano nel cortile posteriore della scuola, dove si faceva a
pugni "al primo sangue". Jarik era rosso di capelli, aveva la pelle
bianca ed era tutto molle, come un giocattolo di gomma. Faceva
pensare a un uccello che non sa volare. Lo picchiavano quelli delle
altre classi, che non riuscivano a picchiare nessuno. Era una preda
allettante: così grosso e così smidollato. Una volta le prese da uno
della terza. Il fatto era che Jarik non poteva colpire nessuno, le
dita non gli si stringevano a pugno, e perciò lui non faceva
resistenza, quando gli si gettavano addosso, persino i piccolini. Noi
difendevamo sempre Jarik, ingaggiavamo battaglie per lui, perché
Jarik apparteneva alla nostra classe e chi alzava le mani su di lui
offendeva noi tutti. Se qualcuno gridava: "Stanno picchiando Jarik!",
noi volavamo a rotta di collo al primo piano o al secondo, in
soffitta, nella palestra o in cortile, là dove qualche vigliacco si
stava sfogando contro il nostro Jarik, come se fosse cosa sua: lo
trascinava in un angolo o si faceva portare a cavalluccio,
caracollandogli in groppa. Ma allora, sul lungofiume, quando egli si
avvicinò al muretto e con aria disperata slanciò i suoi lunghi
trampoli incurvati ai ginocchi, noi lo guardammo con gioioso
interesse, aspettandoci uno spettacolo divertente. E pensare che
poteva cadere in acqua e affogare.
  Cominciò allora il collaudo della volontà. Dopo che quasi tutti
quelli della nostra compagnia ebbero imparato non solo a camminare,
ma persino a correre sul parapetto, escluso un ragazzo che
strascicava una gamba, esonerato dalla ginnastica, Anton inventò una
seconda prova: attraversare il vicolo Derjuginskij di sera. Era il
posto più malfamato dell'isola e, forse, di tutto l'Oltremoscova. Vi
erano annidati i tipi meno raccomandabili: i banditi, per i quali non
c'era nulla di sacro, spergiuri e predoni di pacifiche carovane di
mercanti, filibustieri ed avventurieri, bande di pirati, come quella
di capitan Silver, il corsaro dalla gamba sola. Ogni ragazzo che
passava di là veniva derubato: a uno prendevano dieci copechi, a un
altro quindici, a un altro ancora toglievano le mostrine o il
coltello da tasca. I genitori proibivano di passarci.
  "Ma se quei banditi fossero capitati nei nostri cortili!..."
  Anton si allenava al ju-jitsu. L'allenamento consisteva in questo:
dalla mattina alla sera, negli intervalli, durante le lezioni, a
casa, mentre leggeva o ascoltava la musica alla radio, colpiva
qualcosa di duro con il taglio della mano destra. La mano doveva
diventare come ferro. Lui diceva "corazzarsi la mano". E, come tutto
ciò che faceva Anton, grazie alla sua tenacia sovrumana e alla sua
autodisciplina l'impresa procedeva con successo. Dopo un paio di mesi
la mano si era ornata di una dura callosità. Nessuno di noi avrebbe
avuto tanta pazienza. E quando spuntarono dal portone e ci si
pararono davanti, sbarrandoci la strada, e un certo Minºka, detto
Toro (una volta frequentava la nostra scuola, era un ragazzone e già
gli spuntava la barba), domandò: "Siete di queste parti? Andate da
Vadºka?", Anton rispose seccamente: "No!". Anton e Levka qualche
volta facevano una capatina da Glebov. Lo consideravano uno
abbastanza in gamba, senza troppa grinta. La maggior parte dei
ragazzi della nostra classe avevano, naturalmente, molta grinta.
Quella volta Anton rispose seccamente "no!", ben sapendo che, se
avesse detto "sì", non ci avrebbero toccato. Vadºka e Toro vivevano
nello stesso appartamento. Se noi avessimo gridato "Ehi! Sfilatino!"
(Vadºka Glebov era chiamato Sfilatino), e lui si fosse affacciato
alla finestra, poteva anche non scapparci la rissa.
  Ma Anton aveva escogitato tutto ciò per collaudare la nostra
volontà e noi non dovevamo rendere più facile la prova. Levka
¬sulepnikov non aveva nemmeno preso la sua pistola giocattolo. Il
povero Anton Ov¬cinnikov non aveva certo l'aria dell'eroe né
dell'atleta (in seguito, dopo quella baruffa, nei cortili corsero
leggende su di lui), era tarchiato, basso, uno dei meno sviluppati
della classe, ma portava i calzoni corti anche nel periodo più
freddo, per temprare il suo fisico, e questo gli dava un aspetto
infantile. Chi non lo conosceva non lo prendeva sul serio. Per di più
portava gli occhiali, quando andava al cinema o faceva una
passeggiata in campagna. Quella volta, nel vicolo, pare che avesse
gli occhiali. Per questo, quando cominciarono a molestarci, facendo a
uno lo sgambetto, dando un buffetto a un altro, tentando di togliere
ad Anton gli occhiali dal naso, fu come se a un tratto fosse
scoppiata una bomba: Anton dette un colpo di taglio all'addome
dell'aggressore e lo fece cadere. Ne colpì un altro, che cadde. Si
slanciò su di un terzo... cadevano quasi istantaneamente, senza un
grido, senza reagire, quasi per proprio desiderio, come clown ben
addestrati nell'arena del circo... Furono momenti favolosi... Poi ce
le dettero di santa ragione... E poi ancora quel cane... Anton stette
un mese a casa con la testa fasciata... Ma, con tutto ciò, eravamo
straordinariamente contenti. Di che cosa eravamo contenti? Era
qualcosa di strano, di inspiegabile. Andavamo a trovare Anton nel suo
buio appartamento al pianterreno, dove non c'era sole, dove alle
pareti, accanto ai ritratti dei compositori, erano appesi i suoi
acquarelli, giallini e azzurri, dove un giovane rapato a zero, con le
stellette sulle mostrine, ci guardava da una foto, in una grossa
cornice di legno, poggiata sul pianoforte (era il padre di Anton,
morto in Asia minore, ucciso dai controrivoluzionari), dove la radio
era sempre accesa, dove, in un recondito cassetto della scrivania,
c'era un mucchio di grossi quaderni da 55 copechi, con le pagine
ricoperte di scrittura minuta, dove nel bagno frusciavano tra i
giornali gli scarafaggi (in quella scala c'erano scarafaggi in tutti
gli appartamenti), dove mangiavamo in cucina patate fredde, cosparse
di sale, che accompagnavamo con ottimo pane nero, tagliato a spesse
fette, dove chiacchieravamo, lavoravamo di fantasia, ricordavamo,
sognavamo ed eravamo contenti di chissacché, come scemi...

  E di nuovo venne fuori il discorso di zio Volodja: si poteva dargli
un aiuto attraverso il padre di ¬sulepnikov? Sembrava che fosse un
uomo influente. La mamma intavolò il discorso. Il padre non era del
tutto convinto. "Non bisogna importunare la gente, - diceva, molto
innervosito. - Per ¬sulepnikov è una cosa di poco conto, è
imbarazzante chiederglielo." La mamma diceva: "Volodja non ti è mai
piaciuto. Ma è mio parente. E mi dispiace per Polina, per i bambini.
No, io pregherò assolutamente Lev di parlarne con suo padre". "Io ti
proibisco di farlo!", gridò il padre una volta.
  Difficilmente la madre entrava in discussione con il padre, ma di
solito faceva di testa sua. Una sera venne Levka ¬sulepa (Glebov lo
aiutava in algebra, ma veniva anche così per passare il tempo),
presero il tè con le ciambelle, a Levka piaceva prendere il tè da
Glebov, perché a casa sua non compravano le ciambelle. La madre di
Glebov a un tratto si mise a parlare di zio Volodja, che bisognava
conoscere qualcuno che potesse aiutarlo, perché si trattava di un
equivoco. Levka fu subito d'accordo: "Va bene, parlerò con papà". La
mamma gli diede un bigliettino con il cognome. Lo aveva già scritto
prima. Glebov avvertì quasi fisicamente la tensione e la contrazione
del padre, che stava rimescolando lo zucchero nel bicchiere: a un
tratto il movimento della mano, il tintinnio del cucchiaino erano
cessati, ed egli era rimasto immobile, con la testa china. La madre
invece sorrideva, gli occhi le brillavano e, quando le fu vicina,
Glebov sentì odore di vino. Neanche a lui era piaciuto molto
l'intervento della madre perché ¬sulepa era pur sempre un suo
compagno e, se c'era qualcosa da chiedergli, spettava a lui, a
Glebov.
  Quando Levka uscì, il padre aggredì la mamma rimproverandola: "Non
ti vergogni? Tu sei ubriaca! Hai parlato come un'ubriaca!". La mamma,
naturalmente, disse che non era vero, che lei non era ubriaca e che
la smettesse di dire sciocchezze. Non era affatto ubriaca, aveva
bevuto appena un goccetto per farsi coraggio. Il padre si era
accalorato, gridava che lui non ne voleva rispondere, che declinava
ogni responsabilità, anche se non si capiva in che cosa consistesse
il pericolo. In genere gli piaceva fare fosche previsioni. Glebov
raramente aveva visto suo padre così agitato. Batté persino il pugno
sul tavolo e farfugliò di rabbia: "Io faccio tutto per voi! In ogni
momento! e voi... che il diavolo vi porti! Cervelli di gallina!".
Solo più tardi Glebov comprese che il padre era spaventato a morte.
Era una sua caratteristica: era arrabbiato sul serio, ma per qualcosa
di completamente diverso da ciò che diceva a voce alta. La vera
ragione bisognava indovinarla, e risultava piuttosto difficile, a
volte impossibile. Ma allora, quando sgridò la mamma per il
bicchierino bevuto in fretta in una cantina alla Poljanka, il motivo
era chiaro: si era parlato di zio Volodja. Eppure lo aveva
categoricamente proibito! E la mamma non gli aveva dato retta.
  Soltanto alla fine, rilassandosi, dopo aver gridato, disse come per
inciso: "Per quanto riguarda Volodºka, poi, è una stupida faccenda...
Che cosa vai cicalando, stupida che sei?". La madre scoppiò a
piangere. Il padre si rattristò, se ne andò da qualche parte,
sbattendo la porta.
  Nonna Nila disse a Glebov con calma: "Dim, cerca di ricordarglielo
a Levka. La questione è che, chiasso o non chiasso, paura o non
paura, bisogna aiutarlo...".
  Nonna Nila sapeva sempre dire qualcosa di semplice, di sereno,
anche se intorno a lei sragionavano o gridavano spropositi. Glebov
voleva bene a questa vecchietta, raggomitolata su se stessa, con la
crocchia grigia ben stretta sulla nuca, con il piccolo viso
giallastro, che sfaccendava per casa ininterrottamente, dalla mattina
alla sera, si dava da fare, andava e veniva strisciando i piedi. Ed
era la sola, gli sembrava, che qualche volta lo capisse.
  Una volta, in una giornata di gelo, Glebov stava in camera di Levka
¬sulepa a giocare a scacchi, e a un tratto entrò il padre di Levka.
C'era anche un altro ragazzo, facevano un torneo a tre. Glebov aveva
visto rare volte, tre o quattro in tutto, ¬sulepnikov padre. Levka
diceva che papà lavorava ventiquattr'ore su ventiquattro e dormiva
persino sul lavoro. Levka lo chiamava papà, sebbene fosse il
patrigno: il padre vero, che aveva uno strano cognome doppio, era
morto o forse era misteriosamente scomparso dalla sua vita.
Prochorov-Plunge! Così si chiamava il padre vero di Levka. Per questo
una ventina di anni più tardi Levka riprese il suo vero cognome:
Prochorov. Senza Plunge. Ma questo accadde molto più tardi, in
un'altra vita. Tra il cognome ¬sulepnikov e il riesumato
Prochorov-Plunge (si parla sempre di nomi, non di persone), ci fu un
terzo cognome, un terzo padre, qualcosa come Fivejskij o Flavickij.
Con i padri di Levka c'era da confondersi. La madre invece era sempre
la stessa, ed era una donna rara! Levka diceva che era di origine
nobile e che lui, tra l'altro, era un discendente dei principi
Barjatinske.
  Alina Fëdorovna era alta, abbronzata, parlava in tono severo, aveva
lo sguardo altero. A Glebov sembrava che fosse la persona più
importante della famiglia e che Levka avesse più paura di lei che del
padre. Una via di mezzo tra l'antica boiarda Morozova e la Dama di
Picche. ¬sulepnikov, il patrigno di Levka, era invece una figura
insignificante, con gli occhi sporgenti, piccolo di statura; parlava
a bassa voce, e Glebov era colpito dal suo assoluto pallore. Non
aveva mai visto un viso così sbiadito e immobile. Il patrigno di
Levka portava una camicia grigia, tenuta alla vita da una sottile
cintura caucasica con decorazioni d'argento, un paio di calzoni a
sbuffo e gli stivali. Quando entrò nella stanza di Levka, si soffermò
a guardare la partita a scacchi e domandò: "Glebov Vadim devi essere
tu, vero?".
  Glebov fece cenno di sì.
  "Vieni un attimo con me."
  Glebov esitava. Non voleva interrompere la partita: stava vincendo,
aveva due cavalli in più.
  "Finito! Non valida!" gridò subito Levka, e mescolò le pedine.
  Glebov, depresso, seguì il patrigno nello studio, riflettendo a
come fosse astuto e ingiusto ¬sulepa. Non riusciva a immaginare che
cosa avrebbe sentito là dentro.
  "Siediti!"
  Glebov si sedette in una poltrona di pelle rosso scuro, così
morbida, che subito gli sembrò di sprofondare in un abisso, ebbe un
po' di paura, ma subito si riprese, trovando una posizione comoda e
tranquilla. Il patrigno di Levka disse: "Lev mi ha dato il biglietto
di tua madre riguardo a... - si mise gli occhiali e lesse: -
Burmistrov Vladimir Grigorºevi¬c. E' un vostro parente? Bene,
cercherò di informarmi della sua faccenda, se sarà possibile. Se non
sarà possibile, vi prego di scusarmi. Ma ho anch'io una cosa da
chiederti, Vadim!".
  ¬sulepnikov stava seduto dietro un'enorme scrivania; era piccolo,
abbattuto, con le spalle cadenti e tracciava qualcosa su di un
foglio.
  "Dimmi, Vadim, chi è stato l'istigatore dell'aggressione a mio
figlio Lev nel cortile della scuola?"
  Glebov rimase allibito. Non si sarebbe mai aspettato una tale
domanda. Gli pareva che quella storia fosse ormai dimenticata da un
pezzo, erano trascorsi vari mesi! Anche lui era stato uno degli
istigatori, sebbene all'ultimo minuto avesse deciso di non prendervi
parte. Ma qualcuno poteva averlo raccontato. Subito gli venne questo
pensiero e ne fu un po' spaventato. Vedendo che Glebov era rimasto
turbato e taceva, ¬sulepnikov disse severamente: "Non è una cosa da
niente, non è una sciocchezza: c'è stata un'aggressione ai danni di
mio figlio. E' stata opera di un gruppo, ma devono esserci stati
degli istigatori, degli organizzatori. Chi sono?".
  Glebov borbottò che non lo sapeva. Non si sentiva a suo agio. A tal
punto che qualcosa cominciò a gemere e a fargli male in fondo allo
stomaco. Il patrigno di ¬sulepa non somigliava a un uomo malvagio,
non gridava, non sbraitava, ma nella sua voce bassa e nello sguardo
luminoso di quegli occhi sporgenti c'era qualcosa che metteva a
disagio Glebov che gli sedeva di fronte, in una morbida poltrona.
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Jurij trifonov. la casa sul lungofiume

  • 1. Jurij Trifonov. La casa sul lungofiume. Titolo originale: Dom na nabere¬znoj Traduzione di Vilma Costantini Prefazione di Lucetta Negarville Biblioteca di narrativa Copyright M. Dru¬zba Narodov Copyright Editori Riuniti di Sisifo srl Roma III edizione: giugno 1997 Editori Riuniti ********** La casa sul lungofiume è un grande palazzo di Mosca, "tozzo, informe", che splende "di mille finestre". Vi abitano i privilegiati, gli esponenti di quella società della quale il protagonista Glebov - intellettuale "senza qualità" che aspira al successo e alla carriera - è finalmente riuscito a entrare a far parte. Adolescente di molte speranze, è ora un uomo "pelato, grosso", che ha raggiunto i suoi traguardi a prezzo di alcune viltà e di un comportamento costantemente amorfo e opportunista. Fra passato e presente, fra la macerazione del disincanto, la fatica di esistere e lo sgretolarsi della storia, Trifonov dà vita e forza narrativa a un'analisi del conformismo così perfetta e dura - e al tempo stesso sfumata, sottile, malinconicamente disposta a comprendere - da laurearlo romanziere di gran razza, tra i pochi di questi ultimi decenni. Jurij Valentinovi¬c Trifonov (1925-1981) iniziò lavorando come meccanico e come redattore in un giornale di fabbrica. Figlio di un bolscevico vittima dei lager staliniani, porterà per tutta la vita il dolore cocente di questa perdita. Tra le sue opere pubblicate dagli Editori Riuniti ricordiamo Un'altra vita (1978), Il vecchio (1979), Il tempo e il luogo (1983), La sparizione (1988). ********** Prefazione La società russa post-sovietica degli anni novanta ha messo in cantina gli scrittori degli anni sessanta, i ¬sestidesjatniki che durante il primo disgelo chru¬s¬cëviano avevano raccontato il paese a se stesso, dando testimonianza della massa di orrori che si erano abbattuti sulla Russia durante il periodo dello stalinismo, e una speranza per un futuro finalmente più giusto. Ora il paese più letteraturicentrico del mondo, forse giustamente, ha voluto normalizzarsi anche in questo. La letteratura non ha più quella funzione di "coscienza critica" della società che aveva avuto a partire dall'inizio del XIX secolo, ma è diventata uno dei tanti mezzi di espressione, non certo il più importante, sintomo della preferenza per i generi più "leggeri" del poliziesco, del rosa, dell'erotico, o per una greve pseudo-religiosità misticheggiante o anche, finalmente, per una raffinata sperimentazione.
  • 2. Jurij Trifonov, considerato dieci anni fa il maggiore scrittore sovietico, il cronista dell'intellighentsija urbana (quasi un annalista, un letopisets medievale) secondo una calzante definizione di Jurij Lotman, è ormai obsoleto per una Russia che vuole rimuovere un passato durissimo, pagato a troppo caro prezzo ma in realtà impossibile da cancellare dalla memoria collettiva. E proprio la memoria, uno dei temi più cari a Trifonov, la memoria del passato che tiene insieme i fili della storia di un popolo e quella di un individuo, sta al centro di questo romanzo, il più noto e più emblematico dello scrittore. La casa sul lungofiume, il palazzo sulla Bersenjevskaja nabere¬znaja abitato da funzionari medio-alti del partito e del governo, ritorna spesso nei libri di Trifonov come punto di riferimento, simbolo del terrore, o meglio della sorda, intima paura e angoscia che più del terrore sono per lo scrittore il tratto caratteristico della vita russa sotto Stalin; fantasma di un passato drammatico, ma anche tana e rifugio dell'infanzia, dell'epoca felice in cui tutta la famiglia viveva unita e le stanze impersonali del palazzone erano riscaldate dagli oggetti più cari e profumate dai biscotti alla cannella della nonna. E' proprio l'immagine della casa sul lungofiume ad aprire il romanzo La sparizione, l'ultimo capitolo di quel lungo continuum autobiografico che sono tutte le opere di Trifonov. A sparire lì è lei, la casa con i suoi abitanti, è lei a ritrovarsi ridotta a una "nave senza alberi e senza timone", possente bastione di qualcosa di indifendibile, destinato alla rovina. Di lì a qualche anno sarebbe sparita anche la struttura sociale di cui quella casa era simbolo e delle cause di questa scomparsa, di questo destino di morte, Trifonov è stato uno dei più acuti e preveggenti analisti. In questo romanzo, tutto costruito con la tecnica del flashback, la casa viene descritta nel pieno del suo fulgore, negli anni trenta, salda roccaforte, oggetto di invidia e desiderio da parte di coloro che non vi abitano e che vi vengono ammessi qualche volta solo dopo aver passato il filtro severo di un portiere-poliziotto. All'interno della casa un microcosmo della Russia staliniana, dai comunisti della vecchia guardia onesti, cristallini, un po' maniacali, fieri del loro passato duro e glorioso, ai funzionari degli anni trenta, freddi e vendicativi, pronti a difendere con le unghie e coi denti i loro privilegi, inflessibili come il padre di Levka ¬sulepnikov che fa deportare dal quartiere una famiglia di piccoli malavitosi che gli aveva infastidito il figlio. Il libro è scritto in terza persona, ma ogni tanto Trifonov interviene in prima persona a riconoscersi tra gli abitanti di quella casa-destino da cui è stato cacciato nel 1937, dopo l'arresto del padre che morirà in campo di concentramento. La scena della partenza della famiglia Trifonov dalla casa, con il portiere che non li saluta neanche e la nonna che finge uno straziante ottimismo, basta da sola a suggellare il clima dell'epoca. Nel secondo atto, poiché il romanzo può anche essere visto come una pièce con antefatto e tre atti, l'azione si sposta nel dopoguerra, nel 1947, quando i vecchi compagni di scuola, Vadim Glebov, il protagonista, Lev ¬sulepnikov, l'arrogante figlio dell'alto funzionario, odiato amato e invidiato dai compagni, Sonja la dolce ragazza che fa della compassione indiscriminata verso tutti la sua ragione di vita, e gli altri, si ritrovano ormai all'università, dopo aver vissuto l'esperienza fondamentale della guerra in un clima di entusiasmo e di rinascita in cui tutto sembra possibile e la vita torna a pulsare piena di promesse. Ma poco dopo, all'inizio degli anni cinquanta, gli ultimi di Stalin, il clima di sospetto, di delazione, di piccolo orrore quotidiano torna a imporsi con prepotenza e a coinvolgere i vari
  • 3. personaggi. In particolare il protagonista, Vadim Glebov, l'uomo-nessuno a cui ognuno attribuisce una diversa valenza, che pur fidanzato della dolce Sonja, tradirà il professor Gan¬cuk, padre della ragazza e relatore della sua tesi di laurea, rifiutandosi di difenderlo dalle assurde e meschine accuse di alcuni piccoli burocrati universitari arrivisti e intriganti che di lì a poco verranno spazzati via dal nuovo clima chru¬s¬cëviano. Da quel momento le vite dei ragazzi, presi nel vortice di una grande forza centrifuga, si separano per sempre. Glebov cerca di rimuovere il tradimento, il passato che torna però spesso ad affacciarsi in brevissimi scorci, come la scena del professor Gan¬cuk in pasticceria, o quella di Sonja, ormai inerte e malata di mente in un caffè di Riga, provocando fitte lancinanti nella spessa corazza che si è fabbricato per sopravvivere. Negli anni settanta, che sono quelli dell'antefatto e della stesura del romanzo, la casa è stata adibita a teatro di varietà, Glebov è uno scrittore e saggista accademico, ben inserito nella nomenclatura che gli concede privilegi e viaggi all'estero, Lev ¬sulepnikov il borioso e fortunato figlio della casa sul lungofiume dei tempi d'oro è ridotto a un ubriacone declassato ora facchino, ora guardiano di un vecchio crematorio in disuso in cui è sepolta Sonja, custode della "morte morta". Il vecchio professor Gan¬cuk, riabilitato, titolare di una pensione speciale, vive solo a 86 anni in un nuovo quartiere di Mosca, si rifiuta di ricordare il passato di cui un tempo era andato fiero e trova rifugio e consolazione nei serials televisivi. Solo la madre di Lev ¬sulepnikov, vecchia aristocratica russa intelligente e sdegnosa, sembra aver conservato la sua lucidità: "il nostro sangue è il più resistente - dice - abbiamo sopportato di tutto" e non si degna di essere troppo gentile col vecchio compagno del figlio che tenta invece di ingraziarsela. Trifonov non è un moralista, si limita a constatare che a vincere sono gli uomini-nessuno, quelli che si adattano alle circostanze e che per sopravvivere tentano di soffocare i rimorsi, di rimuovere il passato, di non ricordare, proprio come adesso sembra voler fare tutta la società russa. Lucetta Negarville Nessuno di quei ragazzi è ancora vivo: chi è scomparso in guerra, chi è morto di malattia. Alcuni sono svaniti nel nulla, altri si sono completamente trasformati, e, se incontrassero, per qualche sortilegio, coloro che sono scomparsi con indosso i loro giubbotti di fustagno e le scarpe di tela con la suola di gomma non saprebbero di che parlare. Temo che sarebbero tanto ciechi da non accorgersi neppure di aver incontrato se stessi. Al diavolo loro e la loro cecità! Il loro tempo è prezioso: prendono aerei, navigano, corrono a rotta di collo, arraffano a destra e a manca, vanno sempre più lontano, sempre più in fretta, giorno dopo giorno, anno dopo anno; le rive cambiano, le montagne arretrano, i boschi si diradano e si spogliano, il cielo si oscura, incalza il freddo, bisogna affrettarsi, affrettarsi, e non si ha più la forza di guardare indietro a ciò che è rimasto fermo e sospeso come una nube all'orizzonte. In una di quelle insopportabili giornate afose dell'agosto del 1972 - era l'estate in cui Mosca soffocava sotto una densa caligine e a Glebov era toccato, manco a farlo apposta, di restare molti giorni in città, in attesa del trasloco in una casa della cooperativa - Glebov aveva fatto una corsa al negozio di mobili in un nuovo quartiere a casa del diavolo, accanto al mercato Koptevskij; fu là che successe una strana storia. Incontrò un amico che non vedeva da un sacco di
  • 4. tempo. Si era dimenticato come si chiamava. Era andato in quel posto per un tavolo. Gli avevano detto che si poteva prendere un bel tavolo, non si sapeva bene dove, era un mistero, ma una cosa era certa: era un pezzo d'antiquariato, con dei medaglioni, che andava giusto bene per le sedie di mogano, acquistate l'anno prima da Marina per la casa nuova. Gli avevano detto che nel negozio vicino al mercato Koptevskij lavorava un certo Efim, che sapeva dove trovare il tavolo. Glebov c'era andato dopo pranzo, con una canicola rovente; aveva lasciato la macchina all'ombra e si era incamminato verso il negozio. Sul marciapiedi davanti all'ingresso, dove, tra stracci e carta da imballaggio, giacevano sparsi, armadi, sofà e altre cianfrusaglie tirate a lustro, appena scaricate o in attesa di essere caricate, dove gironzolavano malinconici acquirenti, tassisti e ometti trasandati, pronti a tutto per quattro soldi, Glebov chiese dove potesse trovare Efim. Nel cortile di dietro, gli fu risposto. Glebov attraversò il negozio; l'aria era irrespirabile per il caldo e l'odore di vernice, e uscì per una porta stretta nel cortile completamente vuoto. Un operaio sonnecchiava, accovacciato nella poca ombra vicino al muro. - E' lei Efim? - gli chiese Glebov. L'operaio sollevò gli occhi intorpiditi, lo guardò severamente e sporse appena in avanti con fare sprezzante la fossetta che aveva sul mento, il che doveva significare: no. Dalla fossetta e da qualche altro particolare impercettibile, Glebov all'improvviso si accorse che quel tizio, tramortito dal caldo e dall'arsura, quel misero "portatore" di mobili era un suo vecchio amico. Lo capì non con gli occhi, ma con qualcosa d'altro, come un colpo dentro. Ma il terribile era che, pur sapendo bene chi fosse, aveva completamente dimenticato il suo nome! Perciò se ne stava in silenzio, dondolandosi sui suoi sandali scricchiolanti e guardava l'operaio, cercando nella memoria con tutte le sue forze. Una vita intera lo investì di colpo. Ma il nome? Era un nome furbetto, divertente. E nello stesso tempo infantile. Unico nel suo genere. L'anonimo amico si mise di nuovo a sonnecchiare, il berretto calato sul naso, la testa all'indietro e la bocca spalancata. Glebov, turbato, si allontanò, urtò qua e là, cercando Efim, poi attraversò la porta di dietro, entrò nel negozio e domandò di nuovo: di Efim non c'era traccia, gli consigliarono di aspettare, ma Glebov non aveva tempo per aspettare e, bestemmiando mentalmente, maledicendo la gente che parla a vanvera, tornò nel cortile, nella canicola, dove lo aveva stupito e confuso ¬sulepa. Ma certo: ¬sulepa! Levka ¬sulepnikov! Una volta aveva sentito dire che ¬sulepa era scomparso, era finito male, come era arrivato fin qua? Al negozio di mobili? Voleva mettersi a parlare con lui amichevolmente, come un vecchio compagno, chiedergli tra l'altro di Efim. - Lev... - disse Glebov senza molta convinzione e si avvicinò all'uomo che stava seduto nello stesso posto di prima, all'ombra, nella stessa posizione, accovacciato; adesso però non sonnecchiava, ma osservava qualcuno che si muoveva in fondo al cortile, bagnando una sigaretta con le labbra. Più forte e con più coraggio aggiunse: - ¬sulepa! L'uomo guardò di nuovo Glebov torpidamente e voltò la testa. Certo, era Levka ¬sulepnikov, soltanto molto vecchio, sgualcito e corroso dalla vita, con baffi grigi da ubriaco, diverso da quello di una volta, ma forse in una cosa rimasto uguale, in quella arrogante e sciocca insolenza di prima. Dargli del denaro per una sbornia? Glebov toccò con le dita la tasca dei pantaloni cercando a tasto dei soldi. Poteva dargli tre o quattro rubli, senza problemi. Se glieli avesse chiesti. Ma l'uomo non gli rivolgeva la minima attenzione e Glebov era perplesso e pensava che forse si era sbagliato e quel tipo non era affatto ¬sulepnikov. Ma in quel momento stesso, arrabbiato, con voce aspra, con brutale familiarità, come era abituato a rivolgersi
  • 5. al personale di servizio, gli chiese: - Non mi riconosci, eh? Levk! ¬sulepnikov sputò il mozzicone, si alzò, senza guardare Glebov, e si avviò barcollando in fondo al cortile dove stavano scaricando un camion. Glebov, spiacevolmente colpito, si trascinò fuori, per strada. Lo aveva colpito non tanto l'aspetto di Levka ¬sulepa o la miseria del suo stato, ma il fatto che Levka non aveva voluto riconoscerlo. Levka non aveva nessun motivo di essere offeso con Glebov. Non era colpa di Glebov, né della gente, ma dei tempi. E con i tempi non te la puoi prendere. Di nuovo, all'improvviso: qualcosa di remoto, di povero, di sciocco, ecco la casa sul lungofiume, i cortili pieni di neve, le lampade elettriche sui fili, le risse sui mucchi di neve addosso al muro di mattoni. ¬sulepa era fatto di tante cose, e si sfaldava pezzo per pezzo, e ogni pezzo era diverso dall'altro, ma forse là, in mezzo alla neve, addosso al muro di mattoni, quando si battevano a sangue, fino a gridare ansimando: "Mi arrendo!", e poi nella tiepida casa enorme bevevano felici il tè dalle tazzine fini, forse, allora, erano autentici. Ma, chissà, come si può dirlo? In tempi diversi l'autenticità appare diversa. A dire il vero, Glebov odiava quei tempi, perché erano la sua infanzia. E la sera, quando ne parlò a Marina, era agitato e nervoso, non perché aveva incontrato un amico che non aveva voluto riconoscerlo, ma perché gli toccava avere a che fare con individui irresponsabili come Efim, che promettevano mari e monti per poi dimenticarsene o infischiarsene, e intanto il tavolo antico con i medaglioni era sparito in mani altrui. Andarono a passare la notte nella dacia. Vi regnava l'angoscia: i suoceri non dormivano, nonostante l'ora tarda: Margo¬sa era andata via la mattina sulla moto di Tolma¬cev, non aveva telefonato per tutta la giornata e soltanto alle nove aveva fatto sapere che si trovava sulla prospettiva Vernadskij, nello studio di un artista. Aveva detto di non preoccuparsi, Tolma¬cev l'avrebbe riportata non oltre mezzanotte. Glebov si infuriò: - Con la moto? Di notte? Perché non avete detto a quell'idiota di non fare pazzie, di tornare subito, immediatamente...? - Il suocero e la suocera, come due vecchi comici da commedia, borbottarono qualcosa di assurdo e a sproposito. - Io volevo innaffiare per bene, Vadim Leksany¬c, ma l'acqua l'hanno chiusa... Bisogna porre la questione all'amministrazione... Glebov fece un gesto con la mano e si diresse verso lo studio, al primo piano. L'afa non si era attenuata, neanche a sera inoltrata. La tiepida siccità del fogliame penetrava dal giardino oscuro. Glebov prese una medicina e si sdraiò sul divano senza spogliarsi, pensando che quel giorno stesso, se tutto andava bene e la figlia tornava viva, doveva finalmente parlarle di Tolma¬cev. Aprirle gli occhi su quella nullità. Alle dodici e mezza si sentì lo scoppiettio di una moto, poi un brusio di voci in basso. Glebov udì con sollievo la vocetta sonora della figlia. Subito, miracolosamente, si tranquillizzò, e gli passò la voglia di parlare con la figlia. Si preparò il letto sul divano, tanto sapeva che la moglie si sarebbe messa a chiacchierare con Margo¬sa fino a notte fonda. Invece si precipitarono tutte e due nello studio, senza tante cerimonie: la luce non era ancora spenta, Glebov era in mutande con un piede sul tappetino davanti al divano, l'altro sul divano, e si tagliava le unghie dei piedi con un paio di forbicine. Pallida in viso, la moglie disse con voce lamentevole: - Sai, si sposa con Tolma¬cev. - Cosa dici! - fece Glebov, come spaventato, sebbene in realtà non lo fosse, ma l'aspetto di Marina era disperato. - E quando? - Tra dodici giorni, quando lui sarà tornato dal suo viaggio di lavoro, - disse Margo¬sa, pronunciando in fretta e furia le parole, per dare risalto al carattere perentorio e ineluttabile di ciò che
  • 6. doveva accadere. Per di più, sorrideva: il piccolo viso infantile con le guance un po' pienotte, il nasino, gli occhietti, piccoli bottoncini neri come quelli della madre, tutto risplendeva, brillava, cieco e felice. Margo¬sa si slanciò verso il padre e lo baciò. Glebov sentì odore di vino. Si infilò frettolosamente sotto il lenzuolo. Era spiacevole che sua figlia, ormai adulta, lo vedesse in mutande, ed era ancor più spiacevole che non ne fosse affatto turbata, anzi sembrava che non avesse affatto notato l'aspetto indecente del padre. Del resto in quel momento non si accorgeva di niente. Uno straordinario infantilismo in tutto. E questa scioccherella voleva cominciare a vivere per conto suo, con un marito. O piuttosto, con un lazzarone. Glebov domandò: - Da quale viaggio di lavoro? Perché, Tolma¬cev lavora da qualche parte? - Certo che lavora. E' commesso in una libreria. - In una libreria? Commesso? - Per lo stupore, Glebov cacciò fuori le braccia da sotto il lenzuolo. Cos'era quella novità? una truffa? - E perché lo sento dire adesso, per la prima volta? Ci avevi fatto credere che era un pittore, ci hai mostrato dei quadretti, dei candelieri, dei ferri da stiro, o che so io... - No, ce l'ha detto dove lavora. L'ha detto, l'ha detto, - confermò Marina, amante della verità. - Ma non si tratta di questo... - Mammina, quanto vi amo, tutti e due! - esclamò Margo¬sa, baciando la madre e ridendo. - Papà, oggi sei pallido. Come ti senti? - E dov'è il tuo fidanzato in questo momento? - Paparino, ti prego, non pensare a niente, non preoccuparti! - Margo¬sa, rispondi: dove pensate di andare a vivere? Commesso in un negozio. Non poteva esserci niente di più assurdo. Da tanto tempo non vedeva occhi così devoti e felici, né sentiva risate così spensierate. Margo¬sa disse, ridendo: - Ma è così importante? - Tuo padre e io vogliamo sapere... - Ah, volete sapere? Siete assaliti dalla curiosità? - Di nuovo una risata. - E se dicessi, qui... non va bene? Non siete d'accordo? - Andrai con l'autobus? Ti alzerai alle cinque di mattina? - Ma, mamma, sono particolari insignificanti... All'improvviso scomparvero tutte e due. Glebov porse l'orecchio alle svolazzanti voci femminili che provenivano dal basso, alle quali si aggiungeva il sordo parlottio dei suoceri. Glebov aveva l'angoscioso presentimento che qualcosa sarebbe mutato e decise di prendere un sonnifero per addormentarsi prima. Ad un tratto ebbe un pensiero rasserenante: "Forse non succederà niente di terribile. Ma sì, che tutto vada come deve andare. Come sempre. Fra un anno si separeranno, e buonanotte". E si mise a pensare ad altro. Verso l'una di notte squillò il telefono. Glebov avvertì nel dormiveglia la rabbia che lo afferrava, l'accelerazione del battito cardiaco. Schizzò fuori dal divano con giovanile agilità e con un rapido balzo raggiunse l'apparecchio posato sul tavolo: doveva fare in tempo a prendere il ricevitore prima che Margo¬sa prendesse quello del telefono di sotto, per dare una lezione a quel maleducato! Era convinto che fosse Tolma¬cev. Ma era una voce sconosciuta, quasi sgangherata, da teppista. - Salve, Dunja, buon anno... Non mi riconosci? Eh? - gracchiò il teppista. - Prima mi riconosce, e adesso non mi riconosce. Stronzo... Ma che ore sono? L'una passata, accidenti, a quest'ora i bambini sono a nanna. Gli intellettuali no, invece... Discutono, discutono... Sono qui con un tizio... Ti ricordi che bei coltellini finlandesi che avevo? - Sì, mi ricordo - disse Glebov e se ne ricordava davvero: i coltellini erano cinque, tutti di misura diversa. Il più piccolo era come una sigaretta. Levka li portava a scuola e se ne vantava. E portava anche una pistola d'acciaio lucente con l'impugnatura d'osso,
  • 7. che sembrava vera. Nello studio entrò Marina e chiese con sguardo spaventato: - Chi è? - Glebov ammiccò, agitò la mano: niente, niente. Chissà perché, era contento che ¬sulepnikov avesse telefonato. - Bene, dormi tranquillo, vecchio compagno... Scusami del disturbo... Ho cercato per tre ore il tuo numero all'ufficio informazioni. Senti, oggi, quando ti sei avvicinato, non volevo riconoscerti. A che cavolo mi serve, ho pensato. Mi facevi proprio schifo. No, cerca di capire, Vadºka, per Dio! Dico sul serio: mi facevi terribilmente schifo. - Perché dici così? - domandò Glebov sbadigliando. - Che cavolo ne so. Non mi hai fatto niente di male. Certo, tu sei dottore, direttore, che ne so, porca merda, non mi interessa. Non me ne frega niente. Io sono di un'altra parrocchia. Ma poi sono tornato dal lavoro, mi sono messo a fare le mie cose e ho pensato: perché me la sono presa con Vadºka Gleby¬c? Sarà venuto per qualche carabattola che gli serviva? Magari, un'altra volta che viene, non mi trova più... In un posto, più di un paio d'anni non riesco a stare... "O signore! - pensò Glebov. - Sempre uguale..." - Lev, telefonami domani, per favore. - No, domani non ti telefono. O oggi o niente, cosa sei, un ministro? Telefonami domani! Chi ti credi di essere? Niente domani. Sei impazzito, Glebov, a parlarmi in questo modo! Ti si è girata la lingua? Tre ore ho cercato il tuo numero, sono qui con un tizio... E' del corpo diplomatico, uno in gamba... Attraverso l'ufficio informazioni del Mid (1)... Vadºka, te la ricordi la mia mamma? Glebov disse che se la ricordava e voleva aggiungere che anche del padre di Levka si ricordava, cioè del patrigno. O meglio ancora, dei suoi due patrigni. Ma il ricevitore emise un tintinnio, e si sentirono subito dei brevi segnali sonori. Marina guardava con crescente spavento. - Che sciocchezza. E' quel tipo che ho trovato oggi al negozio di mobili... - Glebov era in piedi, scalzo, accanto allo scrittoio e guardava pensieroso l'apparecchio telefonico.- Però è proprio un bel cretino... E poi, perché mi ha telefonato? Quasi un quarto di secolo prima, quando Vadim Aleksandrovi¬c Glebov non era ancora pelato, grosso, con le poppe da donna, le cosce grasse, il pancione e le spalle cadenti che lo costringevano a farsi cucire i vestiti dal sarto e a non comprarli già confezionati, perché di giacca portava il 52 e di pantaloni a malapena entrava nel 56, e a volte prendeva addirittura il 58; quando in bocca ancora non aveva i ponti di sopra e di sotto, i medici non rilevavano cambiamenti nel suo cardiogramma, segni di insufficienza cardiaca e un principio di stenocardia; quando ancora non era tormentato al mattino dai bruciori di stomaco, dalle vertigini, da un senso di spossatezza generale; quando il suo fegato lavorava normalmente ed egli poteva mangiare cibi grassi, burro non troppo fresco, poteva bere vino e vodka finché voleva, senza temerne le conseguenze, non sapeva che cosa significa il dolore alle reni provocato dagli sforzi, dal freddo e Dio sa da quale altra cosa; quando non aveva paura di attraversare a nuoto la Moscova nel punto più largo, poteva giocare quattro ore a pallavolo senza riprendere fiato; quando era veloce di gambe, ossuto, con i capelli lunghi e gli occhiali rotondi che lo facevano somigliare a un populista del secolo scorso; quand'era spesso senza soldi, lavorava come facchino alla stazione o come spaccalegna nei cortiletti lungo la Moscova; quando faceva la fame, c'era pericolo che si ammalasse di tubercolosi, e allora lo mandarono in Crimea e tutto passò; quando erano ancora vivi il padre, la zia Polja e la nonna, e tutti stavano nella piccola casupola sul lungofiume, al primo piano, dove abitavano altre sei famiglie e in cucina c'erano otto tavoli; quando gli piaceva cantare le canzoni con le ragazze, e non lo chiamavano Vadim Aleksandrovi¬c, ma Gleby¬c e Sfilatino; quando, nelle crisi di
  • 8. insonnia, aveva appena cominciato a immaginare, nella dolorosa impotenza della giovinezza, tutto quello che poi gli sarebbe capitato senza dargli gioia perché gli avrebbe richiesto un tale dispendio di energie e quelle rinunce che si chiamano vita; a quei tempi, quasi un quarto di secolo fa, c'era un certo professor Gan¬cuk, c'era Sonja, c'erano Anton e Levka ¬sulepnikov, soprannominato ¬sulepa, tutti i suoi vicini di casa, c'erano varie altre persone scomparse un po' alla volta, e c'era lui, diverso da ora e sparuto come un passero. Di Marina, nessuna traccia. Marina deve essere sulla veranda, all'ombra delle betulle, che scrive su dei fogli di carta tesi come tamburi su barattoli di vetro e fissati con del filo al collo del recipiente, con calligrafia infantile, "Uva spina 72", "Fragola 72". Anton non è più tra i vivi, e neanche Sonja. Del professor Gan¬cuk non si sa nulla, probabilmente anche lui è morto, e, se anche vive, è come se non ci fosse più. Levka ¬sulepnikov è seduto nel cortile di un negozio di mobili, con la schiena appoggiata alla parete, all'ombra, con una sigaretta tra le labbra e sonnecchia: gli stessi sogni, le stanze spaziose dagli alti soffitti, gli enormi paralumi arancione degli anni trenta... E' come a teatro: atto primo, atto secondo, atto terzo... atto diciottesimo. Ogni volta il personaggio appare un po' diverso. Ma tra una scena e l'altra passano anni, decenni. All'istituto - atto secondo - ¬sulepnikov comparve solo al terzo anno, all'improvviso affiorò dall'oblio in modo così naturale e lieve, come può accadere soltanto nella prima metà della vita, quando sembra che ogni cosa avvenga così come viene immaginata. La storia con Gan¬cuk e tutti gli altri invece occupò il quarto e l'inizio del quinto atto. Incredibilmente presto ¬sulepnikov ne divenne l'attore principale. Era comprensibile, del resto: dietro le quinte c'era il patrigno, dotato di possibilità gigantesche. Erano in pochi a saperlo, ma lo sapevano certamente Glebov e Sonja, per i quali Levka ¬sulepnikov era rimasto sempre il buon vecchio ¬sulepa. Lo consideravano un individuo molto abile e capace, che avrebbe fatto una rapida e fortunata carriera: nel comitato, nelle riunioni, dovunque, le ragazze migliori le agganciava lui. Ma in realtà egli era una rapa, una mediocrissima rapa. Non se ne accorsero subito, all'inizio irritava molti. Una volta si avvicinò nel corridoio un robusto giovanotto di Charºkov, di cognome Smyga, e disse: "Glebov, dicono che stai a scuola con questo ¬zuljatnikov?". Glebov disse: "Sì, però non storpiare il nome e non fare troppo lo spiritoso". "Bene, il nome non glielo rovineremo, ma il grugno sì, - ribatté Smyga. - Di' a ¬zuljabºev che la smetta di correre dietro alle ragazze del nostro gruppo. O saran botte." Alcuni giorni dopo Smyga comparve nell'aula con il viso gonfio, come se avesse avuto un ascesso. Levka raccontava, con una certa meraviglia: "Questo elefante mi è caduto addosso al gabinetto e ha cominciato a gridare: "Ti avevamo avvertito, bestione, e tu non ci hai dato retta!". Pazzia furiosa; l'ho abbattuto con due colpi di sambo (2). Ha spaccato il cesso con la zucca". Glebov non gli credette, sapendo che Levka era un gran bugiardo, ma poi scoprì che la tazza del cesso era davvero rotta, e allora credette non solo alla crudele umiliazione di Smyga, ma anche a tutte le altre cose fantastiche che ¬sulepnikov gli aveva raccontato della propria vita. Che, per esempio, durante la guerra, aveva frequentato una fantomatica scuola segreta in cui si insegnava a sparare, a lanciare i coltelli, a uccidere a mani nude, oltre alle lingue straniere, e che aveva compiuto missioni segrete nelle retrovie tedesche, ma che poi lo avevano smobilitato perché gli si era aperta un'ulcera allo stomaco. Sulla veridicità di questo racconto si poteva nutrire qualche dubbio, perché il tedesco ¬sulepnikov lo conosceva poco, lanciava i coltelli mediocremente ed era chiassoso, sfacciato, mentiva su ogni sciocchezza, il che non corrispondeva all'immagine che egli voleva dare di sé. Glebov decise che sicuramente Levka
  • 9. doveva aver studiato in una scuola segreta (organizzata dal patrigno), che si proponeva di diventare un altro colonnello Law-rence, ma per qualche ragione il progetto era andato in fumo. E Smyga, che aveva litigato a morte con Levka, diventò poi il suo più fedele cavalier servente; questo l'anno dopo, quando il patrigno regalò a Levka una Bmw che aveva preso al nemico. Levka arrivò all'istituto su una carretta color ciliegia, vecchia e pidocchiosa: i poveri studenti non solo provarono invidia, ma persero addirittura il dono della parola. Da allora Smyga andava sempre in giro appresso a Levka, gli correva dietro per i negozi e gli faceva conoscere le ragazze che conosceva. Nei confronti di Levka ¬sulepnikov in quegli anni - era allora all'apice del suo destino, così lambiccato e capriccioso - potevano esserci solo due atteggiamenti: servirlo come uno schiavo o invidiarlo con odio. Glebov, il più vecchio amico di Levka, non fu mai suo schiavo, nemmeno nelle classi inferiori, quando è tanto diffusa la piaggeria dei ragazzi deboli e poveri verso quelli più forti e ricchi; e, quando fu all'istituto, non volle trasformarsi nel suo luogotenente, sebbene ne fosse tentato. Intorno a ¬sulepnikov si formavano compagnie vaganti, turbinava una vita particolare: ville di campagna, automobili, teatro, sport. In quegli anni venne fuori l'hockey su ghiaccio con disco, o, come allora veniva chiamato, l'"hockey canadese", o più semplicemente, "canada". L'entusiasmo per l'hockey era di gran moda, persino raffinato. Allo stadio andavano signore in persiano e uomini in castoro. ¬sulepnikov si portava dietro certe gran celebrità della squadra dell'aeronautica. Siccome Glebov non aveva voglia neppure di sfiorare questa vita affascinante, ma che gli appariva piuttosto illusoria e nello stesso tempo rozza, e poiché lo stesso Levka non era poi tanto attaccato alle leggi dell'amicizia, Glebov si teneva in disparte: non si trattava solo di amor proprio nel non voler essere l'ultima ruota del carro, ma di una sua innata riservatezza, che si rivelava talvolta senza motivo, istintivamente. ¬sulepnikov proponeva, dall'alto della sua liberalità: "Gleby¬c, è richiesta la tua presenza!". Questo voleva dire che qualcuna delle ragazze di Levka aveva notato Glebov o ne aveva sentito parlare - niente di strano, le ragazze, secondo un'espressione di allora, "gli mettevano gli occhi addosso" - e desiderava conoscerlo, o forse Levka raccontava balle, non c'era nessuna "richiesta", voleva soltanto iniziare l'amico alle gioie terrene. Levka era un compagnone, insisteva. Glebov si sottraeva. Inventava delle scuse. Il pretesto era Sonja: Sonja lo aspettava, aveva preso accordi con Sonja, Sonja era malata. In realtà, agiva un segreto meccanismo di autodifesa, sorprendentemente, poiché a quel tempo nessuno avrebbe potuto immaginare le catastrofi imminenti. Era qualcosa da cui Glebov non poteva liberarsi, qualcosa che lo accompagnava tormentosamente per tutti quegli anni, a cominciare dai primi, un'offesa che lo tormentava nel profondo... E non gli riuscì di dominarla, né di averne la meglio. Come una malattia cronica: a volte si aggravava, a volte in apparenza svaniva, ma a volte faceva così male che non aveva la forza di sopportarlo. Perché, per esempio, Levka aveva questo e quello, per lui era tutto facile, gli bastava tendere la mano, come se gli fosse stato assegnato un destino speciale? A Glebov, invece, toccava guadagnarsi ogni cosa faticosamente, curvare la schiena, tendere le vene, la pelle, così che poi, quando riusciva a ottenere qualcosa, le vene si rompevano, la pelle si raggrinziva. Questo tormento - questo, diciamo, soffrire di disuguaglianza - era cominciato in tempi remoti, in quinta o in sesta elementare, quando ¬sulepa era venuto ad abitare nel palazzone sul lungofiume. Glebov viveva, dalla nascita, in una casetta a due piani. E a fianco di quell'enorme palazzo dalle mille finestre, quasi un'intera città o addirittura un intero stato, dietro i cortiletti, oltre la chiesa,
  • 10. dietro i cumuli di rifiuti che crescevano come funghi su un ceppo, stava una casa un po' sbilenca, con il tetto sfondato qua e là, con quattro mezze colonne sulla facciata, conosciuta tra gli abitanti della zona come "casa Derjuginskij". Anche il vicolo in cui si trovava questa sgangherata bellezza si chiamava Derjuginskij. La grigia mole del palazzone sovrastava il vicolo, al mattino copriva subito il sole, di sera faceva volar via voci di radio, musica di grammofoni. Là, nei piani più vicini al cielo, si conduceva una vita che sembrava completamente diversa da quella dei piani bassi, nella mediocrità, coperta da una tinta gialla di tradizione secolare. Ecco la disuguaglianza! Alcuni non se ne accorgevano, altri se ne fregavano, altri lo ritenevano giusto e legittimo, Glebov fin dall'infanzia si portava un bruciore nell'anima: un misto di invidia e di qualche altro oscuro sentimento. Il padre lavorava come chimico, in una vecchia fabbrica di dolci, la madre faceva lavoretti saltuari o, per lo più, non faceva niente. Non aveva istruzione. A volte cuciva, a volte andava in qualche ufficio, a volte faceva la cassiera in un cinema. Questo lavoro al cinema - un locale di terz'ordine, in uno dei vicoli lungo la Moscova - era diventato oggetto di non poco orgoglio per Glebov e lo premiava come un grandissimo privilegio: poteva vedere qualunque film senza pagare. E nelle ore diurne, quando c'erano pochi spettatori, poteva persino portarsi un compagno e magari anche due. Naturalmente, se la madre era di buon umore. Questo privilegio era la base del potere di Glebov in classe. Se ne serviva con parsimonia e intelligenza: invitava i ragazzi alla cui compagnia era interessato o dai quali si aspettava qualcosa in cambio, nutriva altri di promesse prima di offrire loro il beneficio, altri invece, le canaglie, li privava per sempre dei suoi favori. La cosa andò avanti così per un pezzo, e il potere di Glebov - non il potere, ma, diciamo così, l'autorità - rimase saldo finché non spuntò Levka ¬sulepa. Levka si era trasferito nel palazzone da qualche zona della periferia o forse addirittura da un'altra città. Fece subito impressione per i suoi calzoni di pelle. I primi giorni si tenne sulle sue, guardando in giro sonnacchioso e sprezzante con i suoi occhi azzurrini; non attaccava discorso con nessuno e stava seduto in un banco accanto a una ragazzina. Durante le lezioni faceva scricchiolare in maniera insopportabile i suoi calzoni. Decisero di dargli una lezione, o meglio di umiliarlo. O, meglio ancora, di disonorarlo. C'era una punizione chiamata "oh-oh-oh!": portavano la vittima designata nel cortile di dietro, gli si ammucchiavano addosso e, al grido di "oh-oh-oh!", gli strappavano via i calzoni. Progettarono di riservare questo trattamento al novizio. Sarebbe stata una delizia: levargli i meravigliosi calzoni scricchiolanti e vederlo saltellare e piagnucolare mentre le ragazze, avvertite in precedenza, avrebbero assistito alla scena dalla finestra. Glebov incitava con calore a far giustizia di ¬sulepa, che non gli piaceva - in genere non gli piacevano quelli che abitavano nel palazzone - ma, all'ultimo momento, decise di non prendervi parte. Forse si vergognava un po'. Osservò la scena dalla porta che dava sulla scala posteriore. Dopo le lezioni invitarono Levka nel cortile di dietro. Erano in cinque: Orso, Sjava, Manjunja e altri due. Circondarono Levka, si misero a discutere di qualcosa, poi, ad un tratto, Orso, che era il più forte della classe, lo afferrò per il collo e, con uno strappo, lo rovesciò sul dorso. Al grido di "oh-oh-oh!" gli altri gli si buttarono addosso. Levka resisteva, tirava calci, ma gli altri, alla fine, lo tennero stretto, lo avvinghiarono, e uno gli si sedette sul petto, ma, ad un tratto, echeggiò uno scoppio, come se fosse scoppiato un pneumatico. Tutti e cinque si scansarono. Levka si alzò in piedi. I pantaloni di pelle erano ancora al loro posto: Levka teneva in mano una pistola. Sparò un'altra volta, in aria. Si sentì odore di fumo e ci fu un attimo di terrore. Glebov si sentì piegare
  • 11. le ginocchia. Orso gli si precipitò addosso con gli occhi sbarrati e corse di sopra, saltando i gradini. Risultò poi che quella di ¬sulepnikov era una pistola giocattolo straniera, molto bella, con delle speciali cartucce che riproducevano il rumore dei colpi di una pistola vera. ¬sulepnikov uscì da questa storia a testa alta, da eroe; gli aggressori invece furono coperti di infamia e in seguito fecero tutto il possibile per rappacificarsi e fare amicizia con il possessore di quella meravigliosa pistola. Con un'arma simile si poteva diventare i dominatori di tutti i cortili del lungofiume. A Glebov fu più facile che agli altri stringere amicizia con ¬sulepa. Egli infatti non aveva preso parte all'aggressione. ¬sulepnikov non manifestò nessuno spirito di vendetta, anzi forse era contento che adesso lo adulassero e fossero disposti a dargli interi patrimoni in cambio di un tiro con la pistola. Ma la faccenda non era finita lì. All'improvviso comparve il direttore con il bidello e un poliziotto e si mise a gridare che i banditi dovevano essere puniti. Il direttore era fuori di sé: gridava come non era mai accaduto, pallido, le guance tremanti, sembrava inesorabile. Il bidello disse che si trattava di un'azione di sabotaggio. Il poliziotto stava seduto in silenzio, ma la sua presenza causava disagio a tutti. Il direttore pretendeva che si facessero i nomi dei banditi. ¬sulepnikov non voleva. Disse che non aveva notato chi fossero; gli si erano ammucchiati addosso e poi se l'erano data a gambe. Il direttore venne altre due volte, senza il poliziotto. Si chiamava Borsover e sembrava quasi che avesse questo strano nome per via delle borse sotto gli occhi. Aveva una lunga faccia bianca, gonfi semicerchi bianchi sotto gli occhi. Era nervoso, non riusciva a stare seduto tranquillo, come tutti gli insegnanti, e per tutto il tempo andava su e giù, di corsa, davanti alla lavagna, come un invasato. Nessuno aveva simpatia per il capocorso, che avevano soprannominato Tromba, ma il direttore faceva pena. Aveva un'aria depressa. "Amici miei, vi chiedo un atto di coraggio... Coraggio non nel nascondere, ma nel dire..." La faccia bianca e la voce spezzata non parlavano affatto di coraggio. Nonostante tutta la compassione per il vecchio malato, la classe taceva. Anche ¬sulepa taceva. Raccontò poi che il padre lo aveva castigato: lo aveva chiuso nel bagno tutta la sera, e nel bagno c'era buio, e c'erano gli scarafaggi. Pretendeva che rivelasse i nomi, ma ¬sulepa non denunciò nessuno. Così Levka ¬sulepnikov, colui che avevano deciso di svergognare davanti a tutti, divenne un eroe. E fu probabilmente da quel momento, dai calzoni di pelle, dalla pistola giocattolo e dalla sua condotta eroica - una ragazza addirittura compose dei versi in onore di ¬sulepa - che ebbe origine quel peso terribile in fondo all'anima... Perché un individuo solo non deve avere tutto. Perché, allora, si doveva ribellare anche la natura, quello che è chiamato destino. In seguito, Levka ¬sulepnikov avrebbe sentito questa "protesta del destino", questi denti di drago sulla propria povera pelle, ma certo allora, nel dormiveglia dell'infanzia, nessuno avrebbe potuto pensare che una volta o l'altra si sarebbe rovesciato tutto quanto. E solo Glebov sentiva qualcosa, che ancora non poteva definire con esattezza, qualcosa di inquietante, come le voci sorde della realtà che si insinuano nel sogno. No, l'invidia non è affatto quel basso, vile sentimento che sembra. L'invidia è una parte della natura che si ribella, un segnale che le anime sensibili devono cogliere. Ma non c'è infelicità maggiore di quella delle persone colpite dall'invidia. E non c'era infelicità più deleteria di quella che toccò a Glebov nel momento di quello che sembrava il suo trionfo. Al cinema, al di là del ponte, davano il vecchio L'espresso azzurro. Avventure cruente, sparatorie, delitti. Ai film di questo tipo tutti si entusiasmavano, fantasticando di esserne coinvolti, ma,
  • 12. chissà perché, ai ragazzi erano vietati. Glebov ce lo accompagnò la madre. Il film risultò naturalmente straordinariamente bello. Per un'ora e mezza Glebov, seduto sulla sedia pieghevole, tremò, come avesse la febbre. S'intende che dovette vedere il film più di una volta. Erano i giorni del suo incontrastato dominio. Non c'era altra via se non attraverso di lui, Glebov, per poter sperare di vedere quel filmone mondiale e incomparabile: in due parole raccontava di un treno che portava i rossi ed era assalito dai bianchi, che facevano piazza pulita di donne, vecchi e bambini, ma poi i rossi avevano la meglio. C'erano sparatorie e duelli corpo a corpo sulle piattaforme, sui tetti e sotto le ruote dei vagoni a tutta velocità. Il pubblico, imbecille, non andava a vedere questo film, e la saletta nelle ore diurne era vuota. Glebov scelse un paio dei più meritevoli, ponderò a lungo quella scelta, annunciò la decisione dopo la lezione, quindi, attraversato di corsa il ponte, si precipitarono tutti e tre allo spettacolo. Sua madre ne poteva lasciar entrare anche quattro o cinque. Ma Glebov non si sbilanciava. Non c'era motivo di aver fretta. Avrebbe voluto che anche ¬sulepa lo pregasse, mendicasse come gli altri, ma quello non mostrava alcun interesse. Una volta disse con aria sprezzante: "Ma l'avrò visto cento volte!". Era certamente una fandonia. Durante le lezioni, Glebov si deliziava nella cernita dei postulanti: uno gli offriva una serie di francobolli di colonie francesi con l'aggiunta di uno spruzzatore, Manjunja promise di portarlo alle corse con suo padre; c'erano altre proposte, e c'erano anche delle minacce. Una ragazza gli scrisse un bigliettino in cui gli prometteva di baciarlo, se l'avesse portata al cinema. Glebov fu turbato dal biglietto. Non aveva mai ricevuto bigliettini da una ragazza e non era stato mai baciato. La ragazza si chiamava Dina, di cognome Kalmykova. Dina Kalmykova, soprannominata Paralume. Era grassoccia, molto colorita, con gli occhi e le ciglia nere, non molto bella. Glebov non le aveva mai rivolto la minima attenzione. Ma gli rimase impressa per tutta la vita. Ricevuto il bigliettino, Glebov ebbe un attimo di vero spavento. Aveva paura di muoversi e ancor più di voltarsi a guardare: Dina stava seduta due banchi dietro di lui. Per prima cosa fece il biglietto in mille pezzi. Si mise a riflettere febbrilmente a come doveva comportarsi. Avrebbe certamente potuto dirle: "Sì, ti posso portare al cinema, ma non è obbligatorio baciarsi". Ma questo sarebbe suonato per lei come un'offesa. Era già così grassoccia, una vera montagna di grasso, benché corresse veloce e alle lezioni di educazione fisica superasse le altre ragazze. Sapeva andare molto bene sulla trave e si arrampicava discretamente sulla fune. Aveva degli enormi calzoncini color amaranto a volant che qualcuno aveva definito un "paralume", e così era venuto fuori il soprannome: Paralume. Se il bigliettino lo avesse mandato Sveta Kirillova o, per esempio, Sonja Gan¬cuk, Glebov si sarebbe turbato assai di più. Sveta gli sembrava bella, aveva un portamento altero, era flessuosa, sottile, con le trecce color mogano e l'aria di chi sa un importante segreto, sconosciuto agli altri; Sonja Gan¬cuk invece attraeva Glebov non per la bellezza, ma per qualcos'altro. Forse per il fatto che il padre, il professor Gan¬cuk, era un eroe della guerra civile e nel suo studio, dove una volta Sonja lo aveva fatto entrare di nascosto, erano appesi alla parete pugnali, fucili e una scimitarra turca. Ah, se Sveta o Sonja gli avessero promesso di baciarlo! Ma Dina Paralume lo aveva confuso. Durante la ricreazione, cogliendo un momento in cui Dina era sola vicino alla finestra, con le spalle appoggiate al davanzale, gli occhi al soffitto, e il sorriso sulle labbra, le si avvicinò e disse borbottando: "Se vuoi, si può andare oggi. Vengono Tricheco e Chimius...". Dopo un momento di silenzio, aggiunse: "Se ti va, naturalmente...".
  • 13. "Sì" disse Dina continuando a sorridere e a guardare il soffitto. "Però non perdere tempo, altrimenti faremo tardi. Alle due e mezza. Vestiti subito e andiamo di corsa. Va bene?" Parlava seccamente, senza nessuna allusione sentimentale. Durante la proiezione, Dina gli sussurrò all'orecchio: "Io vado a casa!". Glebov si meravigliò. Le principali sparatorie de L'espresso azzurro dovevano ancora arrivare, ed egli si preparava a guardarle per la decima volta. Dina spiegò in un sussurro che le faceva male la pancia. Si alzò ed uscì dalla sala. Glebov, dopo averci pensato su, la seguì. Non era del tutto chiaro perché usciva con lei, e perciò si sentivano entrambi imbarazzati e non dicevano niente. Dina camminava rapidamente, quasi di corsa, e Glebov le camminava accanto con lo stesso passo. In silenzio percorsero velocemente il vicolo ed uscirono sul lungofiume Kanava. Sotto il ponte l'acqua era nera, fumante di vapore. A tratti sul fiume scivolavano ancora blocchi di ghiaccio; era aprile, un po' caldo e un po' freddo, chi ci capisce, ma Glebov batteva i denti e tremava tutto. Adesso desiderava tanto che Dina lo baciasse. Ma non sapeva come ricordarglielo. Almeno non sarebbe stato inutile piantare a metà! E poi era andata proprio bene: Tricheco e Chimius erano rimasti al cinema. In quattro non ne sarebbe uscito niente. Guardò di profilo Dina Paralume, la sua guancia rosso acceso, il naso all'insù, i riccioli neri che spuntavano da sotto il berretto da sciatore; osservò come ansimava per la camminata veloce, le sue grosse labbra dischiuse; quella vista gli era gradevole, perché sentiva che Dina Paralume, anche se grassa e non molto bella, era in quel momento in suo potere. E lei stessa aveva acconsentito a questo! Il cuore gli batteva. Stringeva i pugni. Ad un tratto Dina prese a camminare più lentamente. Anche Glebov rallentò il passo. Passarono accanto a un vecchio caseggiato di tre piani, che però non era casa sua. Abitava sulla Poljanka. Dina aprì il pesante portone d'ingresso, entrò, senza guardarsi attorno, e dietro di lei entrò Glebov. Salì di corsa le scale senza fermarsi né al primo piano, né al secondo, né al terzo, e lui dietro. Dal pianerottolo del terzo piano partiva un'altra rampa di scale, stretta e ripida, e Dina vi salì. Anche Glebov salì. Davanti all'ingresso della soffitta c'era un piccolo spazio, buio e maleodorante. Dina si voltò verso di lui ansimando, e disse: "Ecco fatto!". "Che cosa?" chiese lui, ansante. "Puoi baciarmi." "Perché dovrei? Sì, certo, me l'hai promesso..." "Cretino!" disse Dina. Erano in piedi, in silenzio, e il loro respiro si faceva a poco a poco più calmo. Dina non voleva andar via e ancora una volta disse a bassa voce: "Oh, che cretino...". Glebov decise fermamente di aspettare finché non avesse ricevuto quanto gli era stato promesso. Trascorsero tre o quattro minuti di assoluto silenzio e di immobilità, poi da dietro la porta della soffitta risuonò un disperato miagolio, si sentì un rapido frusciare. Si misero a ridere. All'improvviso Dina accostò il suo grasso viso caldo, ed egli si sentì sfiorare le labbra, per un attimo appena, da qualcosa di umido e sfuggente, e questo fu il primo bacio della sua vita. Niente di particolarmente piacevole, si era solo tolto il pensiero. Corsero giù per le scale e subito, all'ingresso, si separarono: lei doveva svoltare a destra, sulla Poljanka, Glebov attraversò il ponte di corsa. Uno o due giorni dopo, quando Glebov era al culmine della sua potenza, ci fu un tracollo. ¬sulepnikov invitò i ragazzi a casa sua dopo la scuola. Nel palazzone Glebov c'era già stato: da Tricheco, al nono piano, dove da una finestra si spalancava una gran vista sul ponte di Crimea, gli alberi del parco, e d'estate si vedeva la grande
  • 14. ruota girare; oppure da Chimius, che abitava al piano di sotto nella stessa scala e aveva stabilito con Tricheco un "sistema di comunicazione di corda e bandierine"; oppure ancora da Sonja Gan¬cuk o da Anton, nel piccolo appartamento al pianterreno, dove Anton abitava insieme alla madre, Anna Georgievna. Tra tutti gli inquilini del palazzo gli piaceva veramente Anton Ov¬cinnikov. Glebov riteneva Anton semplicemente un genio. Ed erano in molti a pensarlo. Anton era un musicista appassionato di Verdi, e sapeva cantare tutta l'Aida a memoria, dalla prima all'ultima parola; inoltre era un pittore, il migliore della scuola, dipingeva ad acquarello in maniera meravigliosa monumenti storici o disegnava a inchiostro di china profili di musicisti; per di più scriveva romanzi fantastici di speleologia e archeologia, ma si interessava anche di paleontologia, oceanografia, geografia e in parte di mineralogia. Di Anton lo attraeva non solo la genialità, ma anche la modestia, la mancanza di boria e di presunzione, a differenza degli altri inquilini del palazzo, in ognuno dei quali c'era qualche traccia di arroganza, detestabile agli occhi di Glebov. Anton viveva poveramente, in un locale solo, dal mobilio banale, e non aveva stivaletti tedeschi, maglioni finlandesi, meravigliosi coltellini dal fodero di cuoio e non si portava a scuola panini al prosciutto o al formaggio finemente avvoltolati nella carta velina che profumavano tutta la classe. Glebov non andava molto volentieri a casa dei ragazzi che abitavano nel palazzone; o piuttosto ci andava con grande circospezione, perché i portieri lo guardavano sempre sospettosi e gli chiedevano: "Da chi vai?". Bisognava dire da chi si andava, il numero dell'appartamento, a volte il portiere citofonava per accertare se realmente aspettavano il tal dei tali. Era spiacevole stare in piedi ad aspettare che finisse di accertarsi. Il portiere, mentre parlava, lo scrutava con uno sguardo tagliente e incorruttibile, come temendo che Glebov sgattaiolasse nell'ascensore senza permesso, e Glebov si sentiva un malfattore colto sul fatto. E non si poteva mai sapere che cosa avrebbero risposto dall'appartamento: Tricheco aveva una domestica sorda, che non riusciva né a capire né a spiegare niente; da Chimius invece andava a rispondere spesso la nonna, una vecchietta terribile che sorvegliava a vista il nipote. Una volta disse al portiere che Glebov non poteva salire, perché Chimius non aveva fatto i compiti. Solo quando andava da Anton, Glebov non subiva il tormento dell'interrogatorio: il suo appartamento era al pianterreno e il portiere, con una stretta sorveglianza, si limitava a controllare che Glebov suonasse proprio lì e che gli aprissero. Glebov aveva notato che anche i ragazzi che abitavano nel palazzo avevano timore dei portieri e cercavano di sgusciar loro davanti il più rapidamente possibile. Ma Levka ¬sulepnikov, sebbene vi abitasse da poco, si comportava diversamente. Quella volta, al suo passaggio, il portiere, un occhialuto scuro in volto e con le guance penzolanti, lo salutò per primo con un cenno del capo e accennò persino ad alzarsi dal grande tavolo sul quale era poggiato il telefono, ma ¬sulepa passò oltre, senza rivolgergli la minima attenzione. Si stiparono in cinque nell'ascensore. Il portiere tentò di fermarli, ma quasi timidamente, con una risatina: "Ma, giovanotti, e se restate bloccati tra un piano e l'altro?". Levka rispose seccamente: "Non fa niente! Corriamo questo rischio?". Tutti naturalmente gridarono: "Sì! Proviamo! Saggiamo il limite di portata!". La faccia occhialuta, quando l'ascensore partì, aveva un'espressione terrorizzata. Nell'appartamento, che colpì Glebov con le sue dimensioni gigantesche - i corridoi e le sale facevano pensare a un museo - continuarono a scherzare, a far baccano. Si tolsero gli stivali e si lasciarono scivolare sul parquet tirato a cera, cadendo e urtandosi l'uno con l'altro, risero forte, con allegria. Ad un tratto da una porta bianca con i vetri smerigliati uscì una vecchia con una
  • 15. sigaretta in bocca e disse: "Che diavolerie state facendo? Smettetela immediatamente! Rimettetevi le scarpe e andate subito nella stanza dei bambini". Levka ubbidì, borbottando. Gli chiesero se era sua madre. Disse che era Agnessa. Insegnava francese alla zia e faceva la spia alla madre. "Una volta o l'altra l'avveleno con l'arsenico o la violento." Scoppiarono tutti a ridere, ma nello stesso tempo rimasero meravigliati. Che modo di parlare! A nessuno sarebbe venuto in mente di pronunciare quella parola, di cui conoscevano tutti il significato, sebbene dicessero le sconcezze più indecenti senza il minimo scrupolo. Levka invece l'aveva pronunciata, riferendola a se stesso e alla vecchia con la sigaretta, in modo naturale, a cuor leggero. E quanto più distintamente Glebov coglieva le particolari qualità di Levka ¬sulepnikov, tanto più si concretava quel qualcosa di bruciante, quel peso che poi sarebbe diventato piombo. ¬sulepnikov era così abituato fin da quegli anni spensierati a pronunciare quella parola, come una vuota minaccia o come uno scherzo innocente, che la ripeté poi spesso, anche quando era già grande e grosso, all'istituto. Se si arrabbiava con una professoressa, la insultava così: "Se non mi dà la sufficienza, la violento". Fu nella camera dei bambini, arredata con un'insolita mobilia di bambù, con tappeti sul pavimento, ruote di bicicletta e guantoni da boxe appesi alle pareti, un enorme globo di vetro che ruotava, quando dentro si accendeva la lampadina, e un antico cannocchiale, montato su un treppiede per agevolare l'osservazione (Levka disse che la sera si poteva passare ottimamente il tempo, ispezionando le finestre dall'altra parte del cortile), fu lì, in quella camera, che fu demolito il fragile potere di Glebov. Nessuno però se ne accorse, tranne Glebov stesso. Levka portò un proiettore, stese un lenzuolo sulla parete e proiettò il film L'espresso azzurro. L'apparecchio crepitava, la vecchia pellicola si rompeva, le didascalie ballavano ed erano illeggibili, tuttavia ci fu un generale entusiasmo, mentre Glebov all'improvviso si sentì profondamente offeso. Pensava: perché diavolo un individuo deve avere tutto, ma proprio tutto? E persino quell'unica cosa che appartiene ad un altro, quell'unica cosa di cui si può vantare o servirsi, gliela tolgono e la dànno a lui, che ha già tutto. Poi a poco a poco si abituò. Ci si abitua a tutto, persino a un carico troppo gravoso: gli obesi si portano addosso trenta chili di peso superfluo e ce la fanno. Glebov si abituò al palazzone, che oscurava il vicolo, si abituò ai suoi portoni, ai portieri, al fatto che lo costringevano a prendere il tè, mentre Alina Fëdorovna, la madre di Levka ¬sulepa, ficcava la forchettina in un pezzo di torta e la scostava, dicendo: "Per me non è fresca", e la torta veniva portata via. Quando questo accadde per la prima volta, Glebov rimase colpito. Come poteva non essere fresca la torta? Gli sembrava un'assurdità. A casa sua la torta compariva raramente, ne facevano una alla svelta, quando era il compleanno di qualcuno, e a nessuno passava per la testa di dichiarare se era fresca o no. La torta era sempre fresca, splendidamente fresca, soprattutto quella sfarzosa con i fiori rosa di crema. Glebov si abituò anche al proprio appartamento, quando vi ritornava dopo le visite al palazzone. I primi tempi provava una certa malinconia, quando vedeva sorgere all'improvviso, come da un canto, la sua casupola sbilenca con le stuccature grigiastre, quando saliva la scala buia, dove bisognava fare attenzione perché c'erano dei gradini rotti; quando si avvicinava alla porta, costellata, come una vecchia coperta piena di toppe, di una quantità di targhette, di cartellini e di campanelli; quando affondava nell'odore composito, di petrolio, della sua casa, dove sempre la biancheria bolliva nella tinozza e qualcuno cuoceva i cavoli; quando si lavava le mani in quella che era stata una stanza da bagno, divenuta angusta per le tavole che coprivano la vasca in cui nessuno si lavava o faceva il bucato, e sulle tavole c'erano i catini e le bacinelle dei vari
  • 16. inquilini; quando molte altre cose vedeva, sentiva, notava, tornando dalla casa di Levka ¬sulepnikov o di qualcun altro del palazzone, ma un po' alla volta tutto questo si smussò, si ammorbidì e alla fine non ferì più. Una volta, rientrato da una visita, mentre Glebov descriveva eccitato il lampadario nella sala da pranzo di ¬sulepnikov e il corridoio in cui si poteva andare in bicicletta, e i meravigliosi dolci per il tè - non lo avevano colpito i dolci in sé, ma le dimensioni della scatola - e la madre e la nonna chiedevano curiose ora di questo ora di quello, il padre all'improvviso, strizzandogli l'occhio, gli disse: "Ma scusate, vorreste forse abitare in quella casa?". "E perché no? - disse la madre. - Vorrei avere un corridoio tutto mio." "Senza rumore di casseruole" disse nonna Nila, afflitta da una coinquilina che abitava nella stanza dirimpetto che arrivava tardi dal lavoro e cominciava, alle undici di sera, a rimestare tra camera e cucina, con le casseruole che tintinnavano una contro l'altra. Nonna Nila dormiva su un cassone, vicino alla porta, cosicché l'andirivieni della vicina e il tintinnio delle stoviglie la svegliavano. Il padre guardò la madre e la nonna con stizza. "Che devo dirvi? Galline pezzate, femmine rintronate..." I suoi scherzi erano così, del tutto innocenti. Aveva soprannominato anche sua madre "gallina pezzata". Le donne facevano finta di arrabbiarsi, gli si scagliavano contro agitando le mani - la madre non si era mai arrabbiata sul serio contro di lui - ed egli dava una gomitata a Glebov, strizzandogli l'occhio. "Eh, Dimy¬c, senti che chiocce... Che oche giulive... ma è mai possibile che non capiate che si vive più liberi senza un corridoio? E poi, che musica il tintinnio delle stoviglie! Io nemmeno per milleduecento rubli me ne andrei in quella casa..." Nonostante che avesse sempre un atteggiamento scherzoso e spensierato e si burlasse della madre, della nonna e della zia Polja, sorella della madre, prendendole in giro e spaventandole a tal punto che era a volte difficile capire se facesse sul serio o no - Glebov lo capì solo da adulto - il padre non era affatto un buontempone spensierato. Quella era la facciata, era la commedia domestica. Invece, in fondo alla natura paterna, il perno intorno a cui tutto ruotava era una qualità possente: la prudenza. Ciò che egli diceva ridendo, come una battuta "Ragazzi miei, seguite la regola del tram, non sporgetevi dai finestrini!", non era solo una battuta di spirito. Era saggezza nascosta, che egli cercava di trasfondere un po' alla volta, timidamente, quasi senza volerlo. Ma perché non sporgersi? Sembrava ritenerla una regola valida in sé. Forse lo soffocava, come un'angina pectoris, un'antica paura non sopita. Era un po' più anziano della madre, sembrava un vecchio, un vecchio crespo e incanutito, sebbene avesse appena cinquant'anni. Ma erano stati cinquant'anni di lotte, di avversità, di fatiche improbe. La sua era la famiglia molto povera di un contabile della fabbrica Duks. Il fratello, lo zio Nikolaj, era stato aviatore, uno dei primi piloti russi caduti nella guerra contro i tedeschi. In famiglia ne erano fieri. Non avevano altro di cui essere fieri. Il ritratto dello zio Nikolaj, con la divisa del ginnasio, era appeso nel posto più visibile. E, nell'amicizia sempre più stretta con Levka ¬sulepnikov (non si capiva perché Levka avesse un debole per Glebov, lo invitava a casa, gli regalava i libri che non lo interessavano, quindi praticamente tutti, e c'era il sospetto che li sottraesse alla biblioteca del padre, perché in alcuni vi era stampato il ritratto di un uomo con un martello, i raggi del sole e la scritta "Ex libris A'V'¬s'"), persino in quell'amicizia di ragazzi, il padre vedeva dei pericoli e ammoniva di "non sporgersi". Consigliò Glebov di frequentare meno quella casa, di non intensificare l'amicizia con
  • 17. Levka, perché "gli ¬sulepnikov hanno una loro linea di vita, tu la tua, e non si possono fare mescolanze". A lui, chissà perché, sembrava che prima o poi Glebov sarebbe venuto certamente a noia a Levka ¬sulepnikov, o, peggio ancora, ai suoi genitori, e da questo fatto sarebbero sorte delle contrarietà. Da parte sua, Glebov presentiva questa eventualità; non avrebbe voluto frequentare il palazzo e tuttavia ci andava ogni volta che lo chiamavano, e ci andava persino senza essere invitato. Tutto in quella casa era attraente, inconsueto: quanto chiacchieravano con Anton, quanti libri gli mostrava Sonja Gan¬cuk, prendendoli dalla biblioteca del padre, di quante meraviglie si vantava ¬sulepa! A casa sua tutto era risaputo, per filo e per segno, era meschinità, noia. Il padre non diceva niente direttamente, ma faceva capire alludendo, scherzando. Glebov non voleva che si parlasse di Levka. "Perché dici così? Che cosa non ti va di ¬sulepa?" Eppure quello che a Glebov non andava di Levka, quello che destava in lui un senso di avversione, di peso, era sconosciuto al padre. Il padre faceva altre congetture, evitava le spiegazioni oppure se ne usciva con spiritosaggini del tipo: "Vedi, in linea di principio io non ce l'ho con il tuo Levka, o ¬sulepa, come lo chiami tu. A proposito, ti consiglio di lasciare stare questo nomignolo. Chiamalo semplicemente Lev... Il fatto è che è un gran maleducato. Per esempio, non dice grazie, quando si alza dal tavolo dopo il tè". Era una sciocchezza, si capisce: il padre faceva lo spiritoso. Levka non gli andava per altri motivi più sostanziali. Ma quando Levka veniva a trovarlo a casa, il padre era gentile e persino molto affabile, come con un adulto e lo chiamava con tono serio Lev, senza i soliti diminutivi, cosa che faceva ridere Glebov. Per di più in presenza di Levka il padre si mostrava eccessivamente loquace, chiacchierava di argomenti diversi, raccontava frottole e faceva smargiassate. Glebov ne era disgustato. Una volta, a proposito dello zio Nikolaj, dichiarò che era stato il primo aviatore ad abbattere in una sola volta tre aerei, tra i quali quello del famoso asso tedesco conte von Schwerin, che era rimasto miracolosamente incolume, aveva ripreso a volare, e aveva dichiarato che sognava di scontrarsi con quel russo e di vendicarsi. L'avevano pubblicato su tutti i giornali. Glebov stava a sentire e non ne poteva più. Il padre disse: "Neppure tu lo sai. Non te l'ho mai detto". E Levka ¬sulepnikov disse: "Una volta lei ha detto che aveva abbattuto due aeroplani". "Io? Non può essere! Non ho mai detto che erano due. Non sarebbe un record. Due non è un record. Ne ha abbattuti tre in una sola volta..." Un'altra volta il padre raccontò che durante la guerra civile aveva prestato servizio nel Caucaso sotto il comando del compagno Kirov (che avesse prestato servizio da qualche parte nel Caucaso era vero) e che era stato in Persia con un reparto di cavalleria e aveva visto gli adoratori del fuoco. Levka ¬sulepnikov allora cominciò a dire balle sul conto di suo padre che a Tiflis avrebbe ucciso con le sue mani un fachiro. Il padre di Glebov disse che nell'India del nord aveva visto un fachiro che faceva crescere con gli occhi una pianta magica (non era mai stato di sicuro nell'India del nord). Levka disse che suo padre aveva acciuffato una banda di fachiri, che erano stati imprigionati in un sotterraneo e dovevano poi essere fucilati come spie degli inglesi, ma quando la mattina dopo andarono nel sotterraneo, non trovarono che cinque ranocchi. E i fachiri erano proprio cinque. "Dovevano fucilare i ranocchi" disse il padre. "E lo fecero, - disse Levka. - Ma sa quanto è difficile sparare ai ranocchi? E poi, in un sotterraneo..."
  • 18. Il padre rideva, minacciandolo maliziosamente con il dito. "Vedo che ti piace fantasticare, Lev! E' una bella cosa, mi piace. A parte gli scherzi, però, io li ho visti davvero i fachiri vivi... La prima volta nell'India del nord, come ho già detto, e la seconda volta qui da noi, a Mosca, sul viale Strastnoj..." Avevano qualcosa in comune, il padre e Levka ¬sulepnikov. Perciò chiacchieravano così fitto, d'amore e d'accordo. A Glebov non piaceva. Le fandonie lo esasperavano. Non tanto per il fatto che il padre diceva balle, ma perché pensava una cosa e ne diceva un'altra. Disse al padre, una volta: "E sì che Levka non ti piace. Perché ti comporti in quel modo? Quei sorrisi, quelle storie... Sembra il tuo principale...". E allora il padre se l'ebbe a male. Non si arrabbiava quasi mai, non gridava quasi mai, ma allora sbottò: "Moccioso! Mi fa il predicozzo, piccolo impudente! - gli piaceva l'espressione "piccolo impudente". - Io sorrido e racconto qualcosa solo perché sono una persona educata. E certo, voi siete abituati ai Levka! Dimka! Ehi! Tu! Frescone! Che incredibile faccia tosta, fare il predicozzo a suo padre!". Era così furente che andò a lamentarsi con la madre e con la nonna Nila, e anche le due donne se la presero con Glebov. Ma di sera Glebov sentì bisbigliare dietro il paravento: "E tu che frottole vai raccontando davanti a quel bellimbusto...". "E' un impudente! Fa le ramanzine a suo padre!" "Ma tu non strisciargli davanti in quel modo..." "Stupidi! Non capiscono niente!" Poi, a mente fredda, dopo qualche giorno, il padre gli spiegò con calma: "A proposito, quanto a quello che mi dicevi... che trattavo il tuo Levka come una personalità importante... sai, l'hai imbroccata! E' davvero una personalità importante, non dico lui, Levka, ma suo padre, anche se non so niente di preciso... Perché tutto è così confuso, complicato...". E venne subito la conferma: proprio una cosa complicata. Ad un tratto ci fu la storia di zio Volodja, il marito di zia Polja. Subito pensarono: forse potrebbe appoggiarlo il padre di Levka ¬sulepnikov? Zio Volodja e zia Polja abitavano alla Jakimanka, ma venivano a trovare i Glebov quasi tutti i giorni, soprattutto zia Polja. La madre e la nonna le erano affezionate. Era considerata la più bella di casa, la più dotata, e aveva un bel lavoro: faceva la modellista in una fabbrica di giocattoli. Zio Volodja era compositore tipografico. Aveva avuto delle noie, lo avevano accusato quasi di sabotaggio. Zia Polja piangeva: "Pensa un po', sabotatore il mio Vovka! Sabota se stesso, più che altro...". A se stesso faceva davvero del male, perché era un ubriacone. Il padre di Glebov lo sgridava sempre. La madre e la nonna a volte compiangevano zia Polja, a volte se la pigliavano con lei: "La colpa è tua, stupida, sei tu che lo hai viziato. Perché gli compri da bere?". "E' meglio in casa che per la strada, con chi capita", si giustificava zia Polja. Nonna Nila e la madre sostenevano che era per quello, per il vino, che c'erano state quelle noie, ma zia Polja non era d'accordo: "Lo hanno rovinato gli altri. E' un uomo fatto così!". Ed era davvero un uomo molto buono, senza malizia. Ma Glebov già allora indovinò che proprio queste anime candide sono la rovina di chi sta loro intorno: zia Polja piangeva, nonna Nila soffriva, la mamma non pensava ad altro e il padre bestemmiava. In primavera volevano comprare a Glebov la bicicletta, ma la mamma gli disse: "Adesso non ci sono soldi, bisogna aiutare Polina". E a un tratto pensarono al padre di Levka... Prima avevano cercato di allontanare Glebov da Levka, minacciato col dito: stai alla larga da loro, non ti impicciare, e adesso pensavano di chiedere aiuto a Levka. Perché tutti erano stati colpiti dalla storia dei By¬ckovy.
  • 19. I By¬ckovy, un'allegra famigliola, viveva nello stesso appartamento dei Glebov come se fossero i padroni. Erano temuti da tutti, davano sulla voce a tutti e facevano quel che volevano. Invadevano la cucina verso sera e non lasciavano entrare nessuno. Roba da correre alla polizia. Il vecchio By¬ckov, Semën Gervasievi¬c, metteva il pellame a bagno in un liquido puzzolente. Cuciva in casa gli stivali, i più cari e alla moda, e più spesso non li cuciva lui, ma li dava a un lavorante; si limitava a ricevere i clienti e il pellame. Quanti strilli per quella cucina chiusa di notte! La vicina che arrivava tardi la sera dava in escandescenze più di tutti. Anche la madre di Glebov si infuriava. Prima di tutto il puzzo, poi l'abuso. Talvolta la mamma stava per sbottare: "Vi faccio vedere io!... Con quale diritto!". Il vecchio Semën Gervasievi¬c borbottava a voce bassa: bu-bu-bu. Il padre di Glebov si trascinava malvolentieri in corridoio, perché tutti i By¬ckovy si rovesciavano fuori della "sala" - chissà perché chiamavano "sala" la grande stanza dove vivevano in sei - e il bu-bu-bu diventava generale, assordante. Come una tempesta, con tuoni e scrosci di pioggia. Ma i principali farabutti erano Minºka e Taranºka. Taranºka aveva dieci anni e frequentava la terza, Minºka invece ne aveva quindici e non andava a scuola per niente, perché aveva ripetuto due volte la quinta, era stato espulso, aveva fatto l'apprendista da qualche parte, poi aveva smesso. Si occupava di faccende poco chiare, passava tutto il giorno al biliardo e forse era entrato in un giro di ladri. Minºka By¬ckov era il piccolo zar di vicolo Derjuginskij e dintorni. E non era uno zar buono. Avevano paura di scontrarsi con lui, perché sapevano che non andava in giro a mani vuote. Spesso accorreva a scuola alla fine delle lezioni e si metteva a fare l'interrogatorio. "Chi è stato a picchiare Taras ieri sera? Chi l'ha graffiato per le scale? Tu, vigliacco?" E già sapeva chi era stato, perché Taranºka si lamentava continuamente e raccontava un mucchio di storie. Evitavano di toccare quello scrofoloso di Taranºka, ma c'erano anche i male informati, che non sapevano di Minºka: Taranºka faceva l'arrogante, e così gli appioppavano a cuor leggero uno schiaffo o un nocchino sulla capoccia, senza immaginare le terribili conseguenze. Minºka inscenava in cortile, presso il muro di mattoni, dove trascinava le sue vittime, un crudele processo sommario. "Come hai potuto, figlio d'un cane, prendertela con mio fratello? Ti sei stufato di campare?" Jurka Orso, l'atleta che non aveva paura nemmeno di quelli della decima, fu umiliato e pestato davanti a tutti: Minºka gli torse un braccio dietro la schiena, quello strillava dal dolore, ma Minºka torse ancora più forte, fino a farlo cadere in ginocchio. Poi gli ordinò: "Ripeti: perdonami, Taras Alekseevi¬c, per averti offeso... Non lo farò più!". E Taranºka, quel piccolo dritto dalle sopracciglia rossicce, assisteva alla scena e rideva. Orso soffriva al di sopra delle sue forze, gemeva, digrignava i denti e scuoteva la testa, non voleva parlare, ma By¬ckov lo sopraffece. Taranºka gli si accostò e gli avvicinò i piedi al viso. Minºka lo premeva, sempre più forte. "Ed ora ripeti, vigliacco, hai sentito? Altrimenti ti spezzo il braccio!" Orso balbettò in maniera appena percettibile: "Perdonami, Taras Alekseevi¬c..." e tutto il resto. Nessuno prese le sue difese: in cortile non c'erano ragazzi grandi, e come avrebbero potuto farcela i più piccoli? Anche Glebov aveva un po' paura di Minºka By¬ckov, ma non come gli altri, Minºka del resto era suo coinquilino. A volte gli chiedeva qualcosa, a volte gliela dava lui stesso. Talvolta Glebov s'inorgogliva: tutti avevano paura di attraversare il vicolo
  • 20. Derjuginskij dove c'era Minºka By¬ckov con la sua banda e lui no, non aveva paura. Poteva camminare per il vicolo anche di sera tardi, persino di notte, nessuno lo molestava. Glebov sentiva fortemente questo suo privilegio ed avvertiva persino, con una certa vergogna, senza neppure ammetterlo a se stesso, che nei momenti difficili avrebbe potuto diventare un secondo Taranºka, o quasi. Minºka sarebbe intervenuto in sua difesa! A chi toccava le avrebbe suonate. Ma Glebov non si lamentò mai di nessuno con Minºka. In genere non si serviva di tutti i vantaggi che gli venivano dall'essere suo vicino. Perché, oltre la segreta soddisfazione, c'era nascosto nel profondo qualcosa di assolutamente diverso: una paura che agghiacciava l'anima. Una paura che nessuno aveva mai provato. Perché nessuno come Glebov conosceva e sentiva tutti quei By¬ckov che facevano impallidire sua madre e costringevano la nonna a farsi il segno della croce. La mamma ripeteva: "Per l'amor di Dio, non ti mettere mai con Minºka, né con Taranºka...". Ma come poteva non stabilire dei rapporti, dal momento che loro stessi prendevano l'iniziativa? Avevano una sorella, Vera, una ragazza di sedici anni. Lavorava in fabbrica. Sembrava una donna fatta, ma forse appariva così a Glebov, tutta rotonda, con il petto prominente, le scarpe scricchiolanti e sempre un forte odore di acqua di colonia. Taranºka una volta tirò Glebov in corridoio e cominciò a importunarlo: "Vuoi che ti faccia vedere Vera nuda? Dammi venti copechi!". Glebov non voleva, naturalmente. Non aveva nessuna intenzione di guardare Vera nuda. Il solo pensiero gli procurava una spiacevole inquietudine. E poi dove prendere venti copechi? Rubarli alla madre o chiederli a nonna Nila? Ma Taranºka non gli dava pace e gli metteva paura con il cane: i By¬ckovy avevano un grosso cane nero chiamato Abdul che era considerato proprietà di Minºka. Abdul conosceva bene Glebov, tuttavia se glielo avessero aizzato contro, non si sa come sarebbe andata a finire. Andarono in bagno, tolsero il catino dalle tavole, vi misero uno sgabello e Glebov si arrampicò. Al di sopra c'era una finestrella che dava sulla "sala" coperta da una tenda. Taranºka scostò la tenda e Glebov vide Vera che si lavava in una tinozza in mezzo alla stanza. Vera, a quanto pare, non provava alcun imbarazzo di fronte a Taranºka. Glebov vide tutto... Poi Taranºka gli si incollò come una zecca: fuori subito i venti copechi! Erano tutti così: dammi, dammi subito! A volte succedeva che la mamma rientrasse in camera tutta sconvolta, come in preda al panico: "Aleutina vuole di nuovo la macchina da cucire... Che cosa le dico?". Aleutina era la madre di Minºka, di Taranºka e di Vera, la moglie del vecchio By¬ckov. Alla madre di Glebov non andava affatto di prestare la macchina da cucire. Ora trovava una scusa, ora un'altra, giocava d'astuzia, ma l'altra la spuntava ugualmente. Non c'era alcuna possibilità di affrancarsi dai By¬ckovy. Ma la loro potenza finì in questo modo. Una volta corsero al vicolo Derjuginskij Anton e Levka, non si sa per quale motivo, ma non andavano da Glebov. Forse volevano passare dal vicolo per andare al lungofiume Kanava, c'era un passaggio attraverso i cortili. I By¬ckovy li notarono e subito mandarono Taranºka a fare degli stupidi discorsi: "Ehi, giovanotto, vuoi che te le suoni?". Un vero invito a una rissa. I due non si misero certo a discutere con Taranºka, lo scostarono, ma a quel punto tutta la banda dei By¬ckovy si riversò fuori del portone, era come in un copione; la baruffa era nell'aria, qualcuno sguinzagliò Abdul, ma sembra che il cane non abbia morso nessuno, ci fu solo una gran paura e un vestito strappato. Levka non se la prese, ma per Anton ogni straccio che possedeva era prezioso. Il giorno dopo venne a casa dei Glebov un uomo con un lungo cappotto
  • 21. di pelle, che bussò subito alla "sala". Abdul ululò forte. Il vecchio Semën Gervasievi¬c, Aleutina e Taranºka erano in casa. Ci fu qualche rumore, si sentì parlare, Aleutina gridava, il cane abbaiava con voce acuta (Glebov non lo lasciarono uscire dalla camera e tutta la famiglia decise di non uscire in corridoio, stavano lì seduti, in ascolto), poi si sentirono tre colpi di pistola. Abdul, dissero poi, si ficcò sotto il divano e non ne uscì mai più. Glebov era deluso: lo considerava un cane terribile e coraggioso, e invece si era comportato come un vigliacco. Del cane dispiacque anche ai By¬ckovy, e specialmente ad Aleutina e Taranºka, che singhiozzarono. Nella casa invece furono contenti. Dopo la morte di Abdul, quasi all'improvviso le cose cominciarono ad andar male per tutti i By¬ckovy, e tutto crollò. Minºka fu arrestato per furto, il vecchio Semën Gervasievi¬c cadde in mezzo al cortile e fu portato all'ospedale, e in breve tempo tutti gli altri By¬ckovy scomparvero non si sa dove, come se li avesse spazzati via il vento. E nella "sala" divisa in due con un tramezzo e tappezzata a nuovo si trasferirono i tranquilli Pomra¬cinskie, marito, moglie ed una ragazza, Ljuba. Correvano per il corridoio senza farsi notare, come sorci, e parlavano tra di loro sempre a bassa voce. Io mi ricordo tutte queste stupidaggini infantili, quello che si perdeva e si trovava, quanto soffrivo a causa sua quando non mi voleva aspettare e andava a scuola con un altro, e poi mi ricordo quando spostarono la casa con la farmacia, e che in cortile c'era sempre aria umida, odore di fiume, e l'odore si sentiva anche nelle stanze, specialmente in quella grande di mio padre, e, quando passava il tram sul ponte, si sentiva anche da lontano lo sferragliare e il cigolio delle ruote. Mi ricordo: fare d'un fiato la scala laterale del ponte; scontrarsi la sera sotto l'arco con la banda del vicolo che tornava dal cinema di corsa, come un branco di coyotes; andare loro incontro, stringendo i pugni, impietriti dalla paura. Tutta l'infanzia era avviluppata nella nube purpurea della vanità. Oh, quegli sforzi, la bramosia di una gloria momentanea! Il mondo era piccolo, gli uomini erano quattro, o cinque: Anton, Chimius, Tricheco, forse anche Sonja e Levka e, certamente, il buffo Jarik. E in questo cosmo gorgogliava la nostra brama: dimostrare. Tenero, succoso, vermiglio frutto dell'infanzia. Tutto era nuovo, senza paragoni. Per la prima volta nella vita corsi al fiume, durante la ricreazione, sull'asfalto inondato di sole. Per la prima volta nella vita indovinai che la primavera era semplicemente il vento che faceva sentire freddo e battere i denti. Un uomo magro e incurvato, con un giubbotto corto e un grande berretto da donna color mattone, camminava svelto sul marciapiedi e chiacchierava tra sé e sé. Una terribile preoccupazione divorava quelle guance scavate, gli occhi infossati. Dopo aver letto di sfuggita il nome della nostra scuola, si fermò all'improvviso e si mise a gridare: "Non può essere! Non può esistere una cosa simile! Mi sentite?". Non gridava rivolto a noi, piccolo gruppetto sparuto, addossato al parapetto del lungofiume, ma a qualcun altro invisibile, che bruciava con il suo sguardo d'odio: "Scuola media SENO. Ma quale SENO? Cosa significa questa assurdità? Dio mio, si rendono conto di quello che fanno?". E lanciò ancora qualche altra espressione di rabbia, con gli occhi scintillanti. A un tratto si arrampicò con un balzo sulla striscia di granito del parapetto e cominciò a camminare con gran facilità come se si trattasse di un marciapiedi. Noi restammo stupefatti, le ragazze urlarono dallo spavento. L'uomo con il berretto allora si accorse di noi e, fermatosi un momento, ci disse dall'alto: "Poveri bambini!". Dopo di che fece ancora alcuni metri con la sua andatura lunatica, saltò giù e si allontanò velocemente in direzione del ponte sulla Moscova. Per la prima volta in vita mia avevo visto un pazzo. Eravamo
  • 22. rimasti tutti colpiti da quell'uomo. Quando fu a ragionevole distanza, cominciammo a ridere selvaggiamente. Chimius si avvicinò alla barriera di granito e vi si arrampicò aiutandosi con le mani. Noi vedevamo che aveva paura, che non ce la faceva ad alzarsi, e tuttavia egli fu il primo a issarsi sul muretto e, con le mani alzate e il viso rattrappito dalla sofferenza, a gridare: "Poveri bambini!" per poi lasciarsi cadere come un sacco sul marciapiedi. Noi ridevamo. Ma ecco Anton Ov¬cinnikov, mortalmente pallido, mordendosi le labbra, si avvicinò con passo sicuro al muretto ed anche lui ci salì sopra, si alzò in piedi, allargò le braccia come un funambolo... Noi sapevamo che Anton aveva i piedi piatti, era miope, andava soggetto ad attacchi di epilessia, ma nessuno lo fermò. La pazzia aveva contagiato tutti. Risultò che camminare e persino correre sul parapetto era incredibilmente facile. Dopo Anton si arrampicò il grosso e pesante Zorik, detto Tricheco, ed anche lui strisciò sul granito, senza alzare le suole, ingobbito come una scimmia, ma quando saltò giù sull'asfalto le sue gambe cedettero ed egli cadde in ginocchio. Poi mi arrampicai io, e infine Jarik. Non era poi così difficile. Prima di tutto non bisognava pensarci, né guardare in basso, sul viottolo di pietra dell'argine. L'urlo spaventoso di Nikfed ci strappò a quello strano sogno. Probabilmente quell'urlo salvò Jarik, il più maldestro e indifeso di noi: non ce la faceva a correre né a lottare, né a prendere parte alle "scaramucce" che avvenivano nel cortile posteriore della scuola, dove si faceva a pugni "al primo sangue". Jarik era rosso di capelli, aveva la pelle bianca ed era tutto molle, come un giocattolo di gomma. Faceva pensare a un uccello che non sa volare. Lo picchiavano quelli delle altre classi, che non riuscivano a picchiare nessuno. Era una preda allettante: così grosso e così smidollato. Una volta le prese da uno della terza. Il fatto era che Jarik non poteva colpire nessuno, le dita non gli si stringevano a pugno, e perciò lui non faceva resistenza, quando gli si gettavano addosso, persino i piccolini. Noi difendevamo sempre Jarik, ingaggiavamo battaglie per lui, perché Jarik apparteneva alla nostra classe e chi alzava le mani su di lui offendeva noi tutti. Se qualcuno gridava: "Stanno picchiando Jarik!", noi volavamo a rotta di collo al primo piano o al secondo, in soffitta, nella palestra o in cortile, là dove qualche vigliacco si stava sfogando contro il nostro Jarik, come se fosse cosa sua: lo trascinava in un angolo o si faceva portare a cavalluccio, caracollandogli in groppa. Ma allora, sul lungofiume, quando egli si avvicinò al muretto e con aria disperata slanciò i suoi lunghi trampoli incurvati ai ginocchi, noi lo guardammo con gioioso interesse, aspettandoci uno spettacolo divertente. E pensare che poteva cadere in acqua e affogare. Cominciò allora il collaudo della volontà. Dopo che quasi tutti quelli della nostra compagnia ebbero imparato non solo a camminare, ma persino a correre sul parapetto, escluso un ragazzo che strascicava una gamba, esonerato dalla ginnastica, Anton inventò una seconda prova: attraversare il vicolo Derjuginskij di sera. Era il posto più malfamato dell'isola e, forse, di tutto l'Oltremoscova. Vi erano annidati i tipi meno raccomandabili: i banditi, per i quali non c'era nulla di sacro, spergiuri e predoni di pacifiche carovane di mercanti, filibustieri ed avventurieri, bande di pirati, come quella di capitan Silver, il corsaro dalla gamba sola. Ogni ragazzo che passava di là veniva derubato: a uno prendevano dieci copechi, a un altro quindici, a un altro ancora toglievano le mostrine o il coltello da tasca. I genitori proibivano di passarci. "Ma se quei banditi fossero capitati nei nostri cortili!..." Anton si allenava al ju-jitsu. L'allenamento consisteva in questo: dalla mattina alla sera, negli intervalli, durante le lezioni, a casa, mentre leggeva o ascoltava la musica alla radio, colpiva qualcosa di duro con il taglio della mano destra. La mano doveva
  • 23. diventare come ferro. Lui diceva "corazzarsi la mano". E, come tutto ciò che faceva Anton, grazie alla sua tenacia sovrumana e alla sua autodisciplina l'impresa procedeva con successo. Dopo un paio di mesi la mano si era ornata di una dura callosità. Nessuno di noi avrebbe avuto tanta pazienza. E quando spuntarono dal portone e ci si pararono davanti, sbarrandoci la strada, e un certo Minºka, detto Toro (una volta frequentava la nostra scuola, era un ragazzone e già gli spuntava la barba), domandò: "Siete di queste parti? Andate da Vadºka?", Anton rispose seccamente: "No!". Anton e Levka qualche volta facevano una capatina da Glebov. Lo consideravano uno abbastanza in gamba, senza troppa grinta. La maggior parte dei ragazzi della nostra classe avevano, naturalmente, molta grinta. Quella volta Anton rispose seccamente "no!", ben sapendo che, se avesse detto "sì", non ci avrebbero toccato. Vadºka e Toro vivevano nello stesso appartamento. Se noi avessimo gridato "Ehi! Sfilatino!" (Vadºka Glebov era chiamato Sfilatino), e lui si fosse affacciato alla finestra, poteva anche non scapparci la rissa. Ma Anton aveva escogitato tutto ciò per collaudare la nostra volontà e noi non dovevamo rendere più facile la prova. Levka ¬sulepnikov non aveva nemmeno preso la sua pistola giocattolo. Il povero Anton Ov¬cinnikov non aveva certo l'aria dell'eroe né dell'atleta (in seguito, dopo quella baruffa, nei cortili corsero leggende su di lui), era tarchiato, basso, uno dei meno sviluppati della classe, ma portava i calzoni corti anche nel periodo più freddo, per temprare il suo fisico, e questo gli dava un aspetto infantile. Chi non lo conosceva non lo prendeva sul serio. Per di più portava gli occhiali, quando andava al cinema o faceva una passeggiata in campagna. Quella volta, nel vicolo, pare che avesse gli occhiali. Per questo, quando cominciarono a molestarci, facendo a uno lo sgambetto, dando un buffetto a un altro, tentando di togliere ad Anton gli occhiali dal naso, fu come se a un tratto fosse scoppiata una bomba: Anton dette un colpo di taglio all'addome dell'aggressore e lo fece cadere. Ne colpì un altro, che cadde. Si slanciò su di un terzo... cadevano quasi istantaneamente, senza un grido, senza reagire, quasi per proprio desiderio, come clown ben addestrati nell'arena del circo... Furono momenti favolosi... Poi ce le dettero di santa ragione... E poi ancora quel cane... Anton stette un mese a casa con la testa fasciata... Ma, con tutto ciò, eravamo straordinariamente contenti. Di che cosa eravamo contenti? Era qualcosa di strano, di inspiegabile. Andavamo a trovare Anton nel suo buio appartamento al pianterreno, dove non c'era sole, dove alle pareti, accanto ai ritratti dei compositori, erano appesi i suoi acquarelli, giallini e azzurri, dove un giovane rapato a zero, con le stellette sulle mostrine, ci guardava da una foto, in una grossa cornice di legno, poggiata sul pianoforte (era il padre di Anton, morto in Asia minore, ucciso dai controrivoluzionari), dove la radio era sempre accesa, dove, in un recondito cassetto della scrivania, c'era un mucchio di grossi quaderni da 55 copechi, con le pagine ricoperte di scrittura minuta, dove nel bagno frusciavano tra i giornali gli scarafaggi (in quella scala c'erano scarafaggi in tutti gli appartamenti), dove mangiavamo in cucina patate fredde, cosparse di sale, che accompagnavamo con ottimo pane nero, tagliato a spesse fette, dove chiacchieravamo, lavoravamo di fantasia, ricordavamo, sognavamo ed eravamo contenti di chissacché, come scemi... E di nuovo venne fuori il discorso di zio Volodja: si poteva dargli un aiuto attraverso il padre di ¬sulepnikov? Sembrava che fosse un uomo influente. La mamma intavolò il discorso. Il padre non era del tutto convinto. "Non bisogna importunare la gente, - diceva, molto innervosito. - Per ¬sulepnikov è una cosa di poco conto, è imbarazzante chiederglielo." La mamma diceva: "Volodja non ti è mai piaciuto. Ma è mio parente. E mi dispiace per Polina, per i bambini.
  • 24. No, io pregherò assolutamente Lev di parlarne con suo padre". "Io ti proibisco di farlo!", gridò il padre una volta. Difficilmente la madre entrava in discussione con il padre, ma di solito faceva di testa sua. Una sera venne Levka ¬sulepa (Glebov lo aiutava in algebra, ma veniva anche così per passare il tempo), presero il tè con le ciambelle, a Levka piaceva prendere il tè da Glebov, perché a casa sua non compravano le ciambelle. La madre di Glebov a un tratto si mise a parlare di zio Volodja, che bisognava conoscere qualcuno che potesse aiutarlo, perché si trattava di un equivoco. Levka fu subito d'accordo: "Va bene, parlerò con papà". La mamma gli diede un bigliettino con il cognome. Lo aveva già scritto prima. Glebov avvertì quasi fisicamente la tensione e la contrazione del padre, che stava rimescolando lo zucchero nel bicchiere: a un tratto il movimento della mano, il tintinnio del cucchiaino erano cessati, ed egli era rimasto immobile, con la testa china. La madre invece sorrideva, gli occhi le brillavano e, quando le fu vicina, Glebov sentì odore di vino. Neanche a lui era piaciuto molto l'intervento della madre perché ¬sulepa era pur sempre un suo compagno e, se c'era qualcosa da chiedergli, spettava a lui, a Glebov. Quando Levka uscì, il padre aggredì la mamma rimproverandola: "Non ti vergogni? Tu sei ubriaca! Hai parlato come un'ubriaca!". La mamma, naturalmente, disse che non era vero, che lei non era ubriaca e che la smettesse di dire sciocchezze. Non era affatto ubriaca, aveva bevuto appena un goccetto per farsi coraggio. Il padre si era accalorato, gridava che lui non ne voleva rispondere, che declinava ogni responsabilità, anche se non si capiva in che cosa consistesse il pericolo. In genere gli piaceva fare fosche previsioni. Glebov raramente aveva visto suo padre così agitato. Batté persino il pugno sul tavolo e farfugliò di rabbia: "Io faccio tutto per voi! In ogni momento! e voi... che il diavolo vi porti! Cervelli di gallina!". Solo più tardi Glebov comprese che il padre era spaventato a morte. Era una sua caratteristica: era arrabbiato sul serio, ma per qualcosa di completamente diverso da ciò che diceva a voce alta. La vera ragione bisognava indovinarla, e risultava piuttosto difficile, a volte impossibile. Ma allora, quando sgridò la mamma per il bicchierino bevuto in fretta in una cantina alla Poljanka, il motivo era chiaro: si era parlato di zio Volodja. Eppure lo aveva categoricamente proibito! E la mamma non gli aveva dato retta. Soltanto alla fine, rilassandosi, dopo aver gridato, disse come per inciso: "Per quanto riguarda Volodºka, poi, è una stupida faccenda... Che cosa vai cicalando, stupida che sei?". La madre scoppiò a piangere. Il padre si rattristò, se ne andò da qualche parte, sbattendo la porta. Nonna Nila disse a Glebov con calma: "Dim, cerca di ricordarglielo a Levka. La questione è che, chiasso o non chiasso, paura o non paura, bisogna aiutarlo...". Nonna Nila sapeva sempre dire qualcosa di semplice, di sereno, anche se intorno a lei sragionavano o gridavano spropositi. Glebov voleva bene a questa vecchietta, raggomitolata su se stessa, con la crocchia grigia ben stretta sulla nuca, con il piccolo viso giallastro, che sfaccendava per casa ininterrottamente, dalla mattina alla sera, si dava da fare, andava e veniva strisciando i piedi. Ed era la sola, gli sembrava, che qualche volta lo capisse. Una volta, in una giornata di gelo, Glebov stava in camera di Levka ¬sulepa a giocare a scacchi, e a un tratto entrò il padre di Levka. C'era anche un altro ragazzo, facevano un torneo a tre. Glebov aveva visto rare volte, tre o quattro in tutto, ¬sulepnikov padre. Levka diceva che papà lavorava ventiquattr'ore su ventiquattro e dormiva persino sul lavoro. Levka lo chiamava papà, sebbene fosse il patrigno: il padre vero, che aveva uno strano cognome doppio, era morto o forse era misteriosamente scomparso dalla sua vita.
  • 25. Prochorov-Plunge! Così si chiamava il padre vero di Levka. Per questo una ventina di anni più tardi Levka riprese il suo vero cognome: Prochorov. Senza Plunge. Ma questo accadde molto più tardi, in un'altra vita. Tra il cognome ¬sulepnikov e il riesumato Prochorov-Plunge (si parla sempre di nomi, non di persone), ci fu un terzo cognome, un terzo padre, qualcosa come Fivejskij o Flavickij. Con i padri di Levka c'era da confondersi. La madre invece era sempre la stessa, ed era una donna rara! Levka diceva che era di origine nobile e che lui, tra l'altro, era un discendente dei principi Barjatinske. Alina Fëdorovna era alta, abbronzata, parlava in tono severo, aveva lo sguardo altero. A Glebov sembrava che fosse la persona più importante della famiglia e che Levka avesse più paura di lei che del padre. Una via di mezzo tra l'antica boiarda Morozova e la Dama di Picche. ¬sulepnikov, il patrigno di Levka, era invece una figura insignificante, con gli occhi sporgenti, piccolo di statura; parlava a bassa voce, e Glebov era colpito dal suo assoluto pallore. Non aveva mai visto un viso così sbiadito e immobile. Il patrigno di Levka portava una camicia grigia, tenuta alla vita da una sottile cintura caucasica con decorazioni d'argento, un paio di calzoni a sbuffo e gli stivali. Quando entrò nella stanza di Levka, si soffermò a guardare la partita a scacchi e domandò: "Glebov Vadim devi essere tu, vero?". Glebov fece cenno di sì. "Vieni un attimo con me." Glebov esitava. Non voleva interrompere la partita: stava vincendo, aveva due cavalli in più. "Finito! Non valida!" gridò subito Levka, e mescolò le pedine. Glebov, depresso, seguì il patrigno nello studio, riflettendo a come fosse astuto e ingiusto ¬sulepa. Non riusciva a immaginare che cosa avrebbe sentito là dentro. "Siediti!" Glebov si sedette in una poltrona di pelle rosso scuro, così morbida, che subito gli sembrò di sprofondare in un abisso, ebbe un po' di paura, ma subito si riprese, trovando una posizione comoda e tranquilla. Il patrigno di Levka disse: "Lev mi ha dato il biglietto di tua madre riguardo a... - si mise gli occhiali e lesse: - Burmistrov Vladimir Grigorºevi¬c. E' un vostro parente? Bene, cercherò di informarmi della sua faccenda, se sarà possibile. Se non sarà possibile, vi prego di scusarmi. Ma ho anch'io una cosa da chiederti, Vadim!". ¬sulepnikov stava seduto dietro un'enorme scrivania; era piccolo, abbattuto, con le spalle cadenti e tracciava qualcosa su di un foglio. "Dimmi, Vadim, chi è stato l'istigatore dell'aggressione a mio figlio Lev nel cortile della scuola?" Glebov rimase allibito. Non si sarebbe mai aspettato una tale domanda. Gli pareva che quella storia fosse ormai dimenticata da un pezzo, erano trascorsi vari mesi! Anche lui era stato uno degli istigatori, sebbene all'ultimo minuto avesse deciso di non prendervi parte. Ma qualcuno poteva averlo raccontato. Subito gli venne questo pensiero e ne fu un po' spaventato. Vedendo che Glebov era rimasto turbato e taceva, ¬sulepnikov disse severamente: "Non è una cosa da niente, non è una sciocchezza: c'è stata un'aggressione ai danni di mio figlio. E' stata opera di un gruppo, ma devono esserci stati degli istigatori, degli organizzatori. Chi sono?". Glebov borbottò che non lo sapeva. Non si sentiva a suo agio. A tal punto che qualcosa cominciò a gemere e a fargli male in fondo allo stomaco. Il patrigno di ¬sulepa non somigliava a un uomo malvagio, non gridava, non sbraitava, ma nella sua voce bassa e nello sguardo luminoso di quegli occhi sporgenti c'era qualcosa che metteva a disagio Glebov che gli sedeva di fronte, in una morbida poltrona.