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Modulo 2
La Comunicazione Interculturale
Edith Cognigni e Daniela Mancini1
Università di Macerata
1
Sebbene il modulo sia stato concepito insieme, la stesura dei paragrafi 2.0, 2.1, 2.4 è opera di Daniela
Mancini, mentre la stesura dei paragrafi 2.2, 2.3, 2.5, 2.6 è opera di Edith Cognigni. La guida bibliografica
nel par. 2.7 è stata curata da Edith Cognigni. Per quanto concerne la guida sitografica, Edith Cognigni ha
fornito i link a-i e Daniela Mancini i link j,k.
1
Indice:
2.0 Guida al modulo
2.1 Introduzione alla comunicazione interculturale
2.1.1 Aspetti e condizioni della comunicazione
2.1.2 Concetti di cultura
2.1.3 Dal multiculturalismo all’interculturalità
2.1.4 Lingua, contesto e comunicazione interculturale
2.2 La competenza comunicativa interculturale
2.2.1 Decostruire gli stereotipi
2.2.2 Sapere, saper essere, saper comunicare
2.3 Norme e valori sottesi
2.3.1 Il tempo e lo spazio
2.3.2 I rapporti a/simmetrici: status e gerarchia
2.3.3 La religione e le pratiche culturali
2.3.4 I tabù
2.4 La comunicazione non verbale
2.4.1 Cinesica
2.4.1.1 Volto e sguardo
2.4.1.2 Gesti
2.4.1.3 Contatto
2.4.1.4 Postura
2.4.2 Prossemica
2.4.3 Vestiti e oggetti
2.4.4 Odori e rumori
2.5 La comunicazione verbale
2.5.1 Alcune regole conversazionali
2.5.2 La voce
2.5.3 Il silenzio
2.5.4 Registro: formale/informale
2.5.5 Scelte lessicali e alterità nel linguaggio
2.5.6 Retoriche del “testo”
2.6 Conclusioni
2.7 Guida bibliografica e sitografica
2
2.0 Guida al modulo
Il modulo sulla comunicazione interculturale cerca di offrire degli spunti di riflessione su alcuni
aspetti che sottostanno ai concetti di comunicazione e di interculturalità. Ogni scheda si focalizza su
un determinato aspetto, non ha la pretesa di dare delle informazioni sulle caratteristiche delle varie
culture quanto di problematizzare e di approfondire concetti che l’uso comune ha banalizzato.
Abbiamo distinto tra comunicazione non verbale e verbale per il semplice scopo strumentale,
comune tra gli studiosi, di tentare di delimitare il campo d’indagine e di analizzare il fenomeno
comunicativo dalle due prospettive. Siamo tuttavia consapevoli che nella pragmatica della
comunicazione, e in particolare in quella interculturale che attraversa e supera le culture, gli aspetti
non verbali e verbali, gli atteggiamenti psicologici ed emotivi, le aspettative e le presupposizioni
costituiscono una rete di fili comunicativi interrelati, interdipendenti e, talvolta, anche inconsci. Gli
argomenti trattati sono i seguenti:
Introduzione alla comunicazione interculturale
La competenza comunicativa interculturale
Norme e valori sottesi
La comunicazione non verbale
La comunicazione verbale
3
2.1 Introduzione alla comunicazione interculturale
Comunicare, nell’accezione comune, significa stabilire un contatto con un’altra persona e implica il
trasferimento di un messaggio da una persona ad un’altra. È un termine che attraversa tutte le
relazioni e che più di ogni altra parola si presta ad abusi e confusione. Qualificato dall’aggettivo
interculturale, il termine si connota di ulteriori dimensioni, di immagini di popoli diversi, di
rappresentazioni simboliche contrastanti, di modelli di vita a noi estranei. Indagare, allora, il
processo comunicativo e le implicazioni della interculturalità diventa, per chi ricerca, il primo
passo per poter arrivare ad una reale interazione. Il valore della comunicazione tra le culture (2.1.2)
risiede, a nostro parere, nella ricerca creativa di modi e di strategie adeguate per comunicare. Anche
se c’è chiarezza relativamente agli aspetti costitutivi della comunicazione (2.1.1), affrontati da più
prospettive, questi approcci analitici (semiotici, conversazionali e discorsivi) non risolvono i
problemi della comunicazione pragmatica: 1) la differenza di contesto, percepita dai partecipanti al
processo della comunicazione; 2) la diversità esperienziale di mondi personali non condivisi,
talvolta così diversi dai modi usuali da sembrare non condivisibili. Coloro che vivono da tempo in
uno stesso luogo e che sostengono gli stessi sistemi di valori (2.3), possono esprimere a volte
reazioni non mediate, stereotipate (2.2.1) e viscerali nei confronti di chi proviene da realtà estranee.
Un’educazione alla comunicazione interculturale, nell’accezione più funzionale di trasversalità, può
aiutare ad evidenziare gli automatismi culturali, a esplorare le differenze, a sciogliere i nodi
dell’incomprensione radicati nelle singole persone, interagendo con la diversità, ripercorrendo il
processo della costruzione individuale della conoscenza e relativizzando l’esperienza personale.
Nello scambio comunicativo, un ruolo importante è quello degli elementi del mondo fisico-
biologico dei partecipanti, che fanno parte della comunicazione non verbale (CNV) (2.4). Sono i
movimenti del corpo e i gesti, che inconsciamente anticipano, sottolineano, seguono le parole e che
apparentemente riportano la comunicazione al periodo pre-fasico, alle strutture primarie della
relazione tra esseri viventi: alla dimensione più genuina, non contaminata da codici linguistici,
culturali e sociali. Ma non è così, perché anche i segnali del corpo sottostanno alle codificazioni che
i contesti culturali impongono spazialmente e temporalmente (2.3.1).
La competenza comunicativa interculturale richiede allora una serie di conoscenze che vanno da
quelle più analitico-razionali degli elementi che costituiscono il processo comunicativo, a quelle
più olistiche che riguardano l’acquisizione di pratiche dinamiche interattive.
Abbiamo bisogno di stabilire una connessione con l’altro, che è una persona prima di essere un
membro di una entità culturale, attraverso un genuino ascolto attivo.
4
2.1.1 Aspetti e condizioni della comunicazione
Gli aspetti costitutivi della comunicazione, soprattutto in relazione con la teoria dell’informazione,
sono stati trattati da molti studiosi, che, in un dialogo “interteorico,” hanno di volta in volta
aggiunto qualcosa di nuovo ai risultati raggiunti dai predecessori. Un’importante progenitura può
essere attribuita a Lasswell, il cui schema di cinque punti (emittente, contenuto di quello che si dice,
canale, ricevente, effetti) ha orientato le successive ricerche. McQuail integra questo schema, che
rimanda ad una comunicazione unidirezionale, con le nozioni di feedback, variabili, presupposti,
contesto. Le domande alle quali si dovrebbe rispondere per capire l’atto comunicativo dovrebbero
quindi essere: “Chi comunica con chi?; Perché si comunica?; Come avviene la comunicazione?; Su
quali temi?; Quali sono le conseguenze della comunicazione?
Un ulteriore schema riassuntivo è stato elaborato da Hymes che raggruppa gli elementi in otto
categorie, riassunte nell’acronimo SPEAKING: Setting (elementi contestuali in senso lato),
Partecipants (i partecipanti), Ends (gli obiettivi e gli esiti raggiunti), Art characteristics (le forme e
i contenuti), Key (il modo in cui l’atto è compiuto), Instruments (il canale e il codice), Norms (le
norme interattive e interpretative), Genres (le categorie degli atti comunicativi).
Il quadro dell’atto comunicativo si configura così in modo molto complesso e lo diventa ancora di
più, se consideriamo le ricerche che si sono sviluppate nei singoli ambiti.
Nella prospettiva della semiotica, il modello della Situazione Comunicativa di Petöfi (in stampa) ci
aiuta a descrivere in modo chiaro gli elementi costitutivi che si intrecciano nel processo della
comunicazione.
In pratica, nelle situazioni di vita quotidiana, la comunicazione tra le persone si colloca in uno
specifico contesto e si orienta secondo le forze locutoria, illocutoria e perlocutoria di quello che si
comunica.
La conoscenza dei fattori della comunicazione non garantisce tuttavia il successo della
comunicazione stessa. Le condizioni per il suo successo non possono essere ricercate in schemi
astratti, ma negli atteggiamenti di disponibilità al dialogo condivisi dai partecipanti. Nel caso di
rapporti interpersonali, e ancor più con membri di culture differenti, è necessario rimuovere alcuni
ostacoli:
1) il primo riguarda la carenza di informazioni relativa ai due mondi che vengono in contatto
(il mondo dell’immigrato e quello dell’autoctono);
2) il secondo, interfaccia del primo, è la serie di presupposizioni, di cui non si ha
consapevolezza, che derivano dalle varie concezioni del mondo e dalle costruzioni
simboliche (miti) negli universi mentali degli individui;
3) il terzo può essere rappresentato dallo squilibrio tra le intenzioni comunicative dei
partecipanti, uno interessato a risolvere problemi primari, quali trovare un lavoro, una casa e
il soddisfacimento di bisogni quotidiani, l’altro più o meno desideroso di stabilire un
contatto per varie motivazioni.
5
2.1.2 Concetti di cultura
Il titolo sottolinea la difficoltà di definire la nozione di cultura e l’esistenza di varie
concettualizzazioni della stessa in ambiti e periodi differenti. Per introdurre il problema facciamo
riferimento ai tre ambiti che Raymond Williams (Keywords. A vocabulary of culture and society,
Fontana Press, Londra, 1976 [rist. 1988], pag. 90) individua nell’uso della parola “cultura”. Essa è
intesa come:
1. termine astratto che descrive il progresso intellettuale, spirituale ed estetico (dal XVIII
secolo);
2. termine che indica un particolare modo di vita, sia di un popolo, di un periodo, di un
gruppo di persone o dell’umanità in generale (da Herder e Klemm);
3. termine astratto che descrive i prodotti e le pratiche dell’attività intellettuale ed artistica, per
cui la cultura comprende la musica, la letteratura, la pittura e la scultura, il teatro e il cinema.
Questo è il senso più ampiamente usato oggi, a cui si rapportano le attività del Ministero
della Cultura.
Il termine possiede una storia complessa e ancora in evoluzione, il che ci induce a pensare che i
riferimenti stessi della definizione di “cultura” si rinnovino continuamente. In merito alle culture
occidentali o alla nostra cultura si preferiscono solitamente i sensi 1 e 3 (per cui la nostra è una
cultura che progredisce, che produce, sia in senso materiale che spirituale), mentre per parlare delle
culture dei migranti si utilizza il secondo, riprendendo posizioni etno-/eurocentriche che sono state
superate anche dalla stessa antropologia culturale (vedi etnologia come frutto della colonizzazione).
Questo concetto di cultura è dunque afflitto dal determinismo e vede la società come un’ipostasi.
Il concetto di cultura è stato uno strumento teorico, un oggetto culturale che è servito per studiare il
fenomeno, per distanziare l’oggetto di studio dallo studioso, ma che attraverso l’azione di
antropologi e sociologi ha inglobato progressivamente elementi della sfera sociale, liberando il
concetto dall’impasse descrittivo-tassonomico e dalla corrispondenza quasi automatica di
cultura=etnia=razza.
Molte sono state le concettualizzazioni antropologiche di cultura (nel 1952, Kroeber e Kluckhohn
registrarono circa trecento definizioni), ma, come sottolinea Rivera, non si risolve l’ambiguità del
termine (A. Rivera, “Etnia-etnicità” in R. Galissot, M. Kilani, A. Rivera (a cura di), L’imbroglio
etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari, 2001).
Se si sostiene che la cultura costituisce una realtà/entità diversa, con stratificazioni e strutturazioni
del senso, tipiche e peculiari, generalizzate, si incorre nel pericolo di enfatizzare la differenza e di
creare recinti in cui gli stessi membri si sentono costretti. L’idea che la cultura sia un blocco
monolitico, unico, contrasta con la realtà che si arricchisce di nuove forme sociali e culturali e
propone comportamenti e atteggiamenti discontinui e variegati. Nella circolazione planetaria delle
merci e dei modi di vita, nel pericolo d’uniformazione culturale e di cancellazione delle differenze,
si assiste, in questi ultimi tempi nei paesi di immigrazione, alla ricomposizione di culture terze,
culture di diaspora, anche se in forma più frammentata e meticcia, che si formano come difesa
contro la marginalizzazione.
Al concetto di cultura, che divide e che inevitabilmente porta alla frantumazione della società in
gruppi di persone in lotta tra di loro, alcuni propongono l’atteggiamento di universalismo critico
che sostiene “una visione della storia aperta, in cui la coesistenza e il métissage fra le culture sono
la regola” (M. Kilani, “L’ideologia dell’esclusione. Note su alcuni concetti chiave”, in R. Galissot ,
M. Kilani, A. Rivera (a cura di), op. cit.).
6
2.1.3 Dal multiculturalismo all’interculturalità
Il termine multiculturale ha origine statunitense ed è stato usato in tale contesto per sostituire il
termine melting pot inefficace ormai a descrivere la società americana. Le rivolte dei ghetti neri, del
radicalismo black (Black Panthers), i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, resero
possibile la crescita di movimenti di rivendicazione “etnica,” di valorizzazione del pluralismo
culturale, che comunque non poneva fine alla gerarchizzazione sociale, all’accesso ineguale alle
risorse e al potere, e alle reazioni razziste.
Le antiche potenze coloniali europee hanno dovuto accogliere numerosi individui provenienti dalle
colonie e, per gestire l’etereogeneità, hanno seguito tre principali modelli:
- il modello integrazionista (Svezia, Olanda, Regno Unito) che riconosce alle minoranze il
diritto di espressione della propria cultura di origine nella sfera pubblica;
- il modello assimilazionista, monoculturale in cui i gruppi minoritari tendono ad inglobarsi
nella società d’accoglienza (per esempio, in Francia in cui si riconoscono diritti individuali
universali e si favorisce l’assimilazione della popolazione immigrata).;
- il modello multiculturale, delle azioni positive (affirmative action), che cerca di superare le
due posizioni, presenta delle accezioni diversificate, come ad esempio negli Stati Uniti. La
politica multiculturale, di tutela delle identità non è riuscita, comunque, nell’intento di
garantire a tutti gli stessi diritti: le minoranze (nera, nativa, messicana, portoricana)
continuano a vivere in condizioni di indigenza, ad abitare zone degradate, ad avere
un’istruzione scadente e a costituire una buona parte della popolazione carceraria degli Stati
Uniti.
I primi due modelli presentano risvolti insoddisfacenti. Il primo favorisce la radicalizzazione dei
conflitti, la segregazione e la marginalizzazione, il secondo, pur avendo assicurato l’integrazione ad
un certo numero di immigrati nel passato, non riesce più a garantire loro l’inserimento sociale e la
tutela dei diritti universali. (A. Rivera, “Etnia-etnicità” in R. Galissot, M. Kilani, A. Rivera (a cura
di), L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari, 2001).
La società multiculturale si trova ad affrontare il problema di conciliare il bene collettivo con quello
individuale e deve trovare una via d’uscita tra l’omogeneizzazione di un universalismo astratto e la
difesa del particolarismo che oppone gli uni agli altri. È necessario un approccio diverso.
L’interculturalismo introduce un concetto più universalistico, definisce i termini dell’incontro, della
negoziazione ed è capace di riconoscere le migliaia di assimilazioni che hanno luogo ogni giorno in
un discorso che rende possibile lo scambio e la contaminazione e sancisce le identità meticce e
l’ibridazione culturale. L’approccio interculturale è una scelta pragmatica in una società
multiculturale per superare le barriere e costruire uno spazio di interazione, di reciprocità e di vera
solidarietà.
7
2.1.4 Lingua, contesto e comunicazione interculturale
La lingua intesa come fonte di identità nazionale, e generalmente fondata sui testi sacri, esprime la
speranza messianica in un destino nazionale. Per esempio, l’arabo, non l’arabo come lingua parlata
quotidianamente, ma la lingua sacra del Corano e dell’universalità dei credenti, veicola il
sentimento di appartenenza alla Nazione araba ed è inteso come il baluardo contro l’alienazione
culturale ed economica proveniente dall’esterno e specialmente dall’Occidente. La stessa sacralità
della lingua si ritrova nella lingua ebraica, biblica e rinnovata, che Elizer Ben Yehouda scelse come
cemento per le popolazioni eterogenee, provenienti da tutte le parti del mondo e invitate a fondersi
nello Stato di Israele. Il serbo-croato, la fusione tra la lingua serba e quella croata, fu il puntello per
la nascita della Jugoslavia dopo la Prima guerra mondiale. Più recentemente, nel 1983, la
Catalogna ha normalizzato l’uso del catalano, in attesa di diventare lingua ufficiale della regione.
L’idea della purezza della lingua non è un fenomeno (e un atteggiamento) isolato. Gli ambiti
(costruiti ideologicamente) in cui la nozione di purismo può essere applicata, sono molti: la
religione, la cultura, la razza, l’etnia; ma l’atteggiamento di fondo, in tutti questi contesti, è generato
dal senso di difesa dal nuovo, dall’ansia verso ciò che è estraneo, dal timore della destabilizzazione.
Nella situazione italiana, il tentativo “purista”, di difendere la lingua da invasioni di parole
straniere, si confronta sia con le costruzioni mediatiche sia con la ricchezza di parole, gesti, profumi
e colori che arrivano da tutte le parti del mondo tramite i nuovi “messaggeri” con grande possibilità
di dilatazione della lingua italiana. La lingua viva, parlata e vissuta, ha un carattere mercuriale,
sfuggente a ogni regola sistematica, aperta al conio di nuove parole, e all’assimilazione di
regionalismi e di termini da altre lingue, allorché non è possibile trovare il corrispettivo concettuale
e simbolico nella nuova lingua. Le parole che vengono mantenute in originale ci conducono così
verso la comprensione di dimensioni nuove e verso un arricchimento sia culturale che linguistico.
La lingua smette di essere un luogo di omogeneità, di chiusura e diventa fucina di diversità, di
racconti e di esperienze che si incontrano in una reciprocità narrativa interculturale.
La possibilità comunicativa richiede allora scelte metodologiche nuove e contesti allargati in cui
costruire relazioni. Le istituzioni scolastiche che da tempo hanno attivato corsi di alfabetizzazione
per adulti hanno individuato nell’orientamento narrativo un metodo di lavoro, che attraverso la
narrazione del sé, delle proprie storie permette una relazione più autentica tra i parlanti. Ma è
necessario individuare, creare altri contesti, al di là di quelli scolastici e istituzionali, per stare
insieme e comunicare. Contesti più autentici, più naturali, incontri, feste, passeggiate in cui tutti i
linguaggi umani, da quello corporeo a quello musicale vengano utilizzati appieno, al fine di rendere
sempre più pregnante e ricca l'interazione tra le persone.
Se la fondamentale necessità dei nuovi cittadini è quella del soddisfacimento di bisogni primari,
quella più essenziale alla comunicazione vera è la possibilità di scambiare i linguaggi e i simboli
che sono parte del mondo esperienziale, immaginario e concreto, degli abitanti del mondo.
8
2.2 La competenza comunicativa interculturale
Il concetto di competenza comunicativa elaborato in ambito sociolinguistico negli anni Settanta, ha
dato vita a vari approcci comunicativi all’insegnamento delle lingue straniere. Basandosi sulla
tradizionale distinzione tra parlante nativo e parlante non nativo, tali approcci hanno cercato in varia
misura di definire quali abilità fossero necessarie per interagire in modo efficace con un
madrelingua. In anni più recenti, tuttavia, l’indiscussa nozione di parlante nativo di trenta anni fa è
diventata molto più instabile e complessa. In un’epoca in cui le migrazioni internazionali e i contatti
transnazionali e transculturali rappresentano la norma, in cui le classi scolastiche sono eterogenee
per provenienza geografica, background culturale e linguistico, è bene chiedersi se il modello
monolinguistico (e monoculturale) del parlante nativo abbia ancora ragione di esistere come asse di
riferimento, e non solo nell’insegnamento linguistico. Se da un lato è vero che l’immigrazione in
Italia è un fenomeno relativamente recente rispetto ad altre parti del mondo (es. gli USA o la
Francia), è pur ragionevole affermare che il paradigma “una lingua, un popolo, una nazione” era già
inadeguato per la realtà scolastica italiana di pochi decenni fa, quando l’italiano era quasi una lingua
straniera per molti bambini provenienti da aree fortemente dialettofone. Molti studiosi (per una
rassegna vedi C. Kramsch, “The privilege of the intercultural speaker”, in M. Byram e M. Fleming
(a cura di), Language Learning in Intercultural Perspective, CUP, Cambridge, 1998, pgg. 16-31)
hanno proposto di sostituire la nozione di parlante nativo con quella di “parlante interculturale”,
questione non puramente terminologica se si pensa che ognuno di noi possiede molte identità
sociali, “culture” e “lingue” (lingue straniere, dialetti, varietà regionali, lingue-culture di gruppo,
ecc.).
Chi è allora il parlante nativo? Poiché nell’atto di comunicare ogni partecipante veicola uno
specifico repertorio di identità, posizioni e aspettative formate attraverso relazioni complesse con la
propria cultura o con culture altre, ogni comunicazione può dirsi intrinsecamente interculturale. Il
parlante interculturale dovrebbe quindi essere cosciente delle numerose identità presenti
nell’interazione ed essere in grado di mediare, di stabilire cioè delle relazioni tra la propria cultura e
quella degli altri sulla base di una competenza comunicativa interculturale. Essere sensibili alla
natura interculturale di ogni comunicazione significa, in primo luogo, combattere atteggiamenti
resistenti alla diversità e alla differenza, decostruendo gli stereotipi (2.2.1) e accettando una nozione
più ampia di identità personale. Divenire parlanti in grado di mediare culturalmente e
linguisticamente vuol dire inoltre acquisire conoscenze e abilità che permettano di interagire in
modo critico e creativo con parlanti, nativi o meno, di una data lingua (2.2.2).
9
2.2.1 Decostruire gli stereotipi
Come ci fa notare la psicologia, lo stereotipo rappresenta una categoria cognitiva necessaria alla
semplificazione della realtà e rispondente al bisogno di nutrire delle aspettative circa le persone e lo
sviluppo degli eventi (per approfondire vedi B. M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il
Mulino, 1997). In quanto cliché che cristallizza l’altro in immagini fisse, docili al controllo e alla
manipolazione, lo stereotipo aiuta a filtrare la realtà circostante e a relazionarsi con l’incerto e
l’inatteso. La presa di coscienza di questa “economia della mente” e l’osservazione critica dei
fenomeni costituiscono il primo passo da affrontare per poter giungere all’eventuale messa in
discussione di rappresentazioni preconfezionate, basate spesso più sul senso comune che
sull’esperienza diretta. Una comunicazione interculturale efficace non avrebbe modo di realizzarsi
se non si operasse nel senso di un decentramento cognitivo che ci consenta di rimettere in
discussione la nostra soggettività e il nostro sistema di valori (per una proposta applicativa clicca
qui).
Tuttavia ci chiediamo se decostruire o smascherare lo stereotipo (capirne le ragioni storiche e
culturali che ne sono alla base e prendere coscienza del fatto che si tratti di un processo “naturale”)
sia sufficiente per liberarsi da certi automatismi cognitivi. Non si rischia forse, per paura di divenire
noi stessi preda di questo male diffuso, di sostituire semplificazioni costrittive (“tutti gli islamici
sono fanatici”) con altre semplificazioni (“il fanatismo islamico non esiste”)?
La vera sfida, per l’insegnante come per il parlante interculturale, sarà allora quella di essere in
grado di costruire, all’interno della relazione con l’altro, “rappresentazioni intersoggettive
negoziabili” (M. De Carlo, L’interculturel, CLE International, Paris, 1998, pag. 87) nelle quali ci si
possa riconoscere vicendevolmente. Il dialogo tra identità e alterità deve quindi potersi realizzare
nei due sensi, anche se può spesso essere difficile sopportare lo spettacolo della nostra immagine
riflessa nello specchio che ci porgono gli altri.
In relazione di continuità rispetto a percorsi già tracciati, l’ipotesi di riflessione ulteriore che qui
proponiamo è che lo stereotipo sia, oltre che immagine dell’alterità, un elemento costitutivo
dell’identità di ciascuno (M. De Carlo, op. cit., pag. 88). Se infatti per identità personale intendiamo
l’idea che ognuno si fa di sé, esiste un legame stretto tra noi e gli altri: la nostra identità dipende al
contempo da come noi ci vediamo e da come gli altri ci vedono. Il concetto stesso di identità non
avrebbe infatti modo di esistere al di fuori di una dialettica con l’altro, sia esso il simile o il diverso.
Viviamo dunque il paradosso secondo il quale per affermare il nostro “io” si deve riconoscere la
presenza del “non-io”, al contempo condizione necessaria e minaccia alla nostra esistenza. La presa
di coscienza di questa intrinseca natura dialogica di ogni soggetto è, a nostro parere, antecedente ad
ogni discorso interculturalmente fondato.
10
2.2.2 Sapere, saper essere, saper comunicare
Il modello di competenza comunicativa interculturale di M. Byram (Teaching and Assessing
Intercultural Communicative Competence, Multilingual Matters, Clevedon, 1997, pgg. 58-63)
suggerisce che, per realizzare una interazione interculturale riuscita, sia necessario tenere in
considerazione le seguenti dimensioni:
- Atteggiamenti (savoir être): curiosità ed apertura, disponibilità ad abbandonare
atteggiamenti etnocentrici.
- Conoscenze (savoirs): circa i gruppi sociali e le loro culture, presenti nel proprio
paese e in quello dell’interlocutore; circa i processi generali di interazione sociale e
individuale.
- Abilità di interpretare e di mettere in relazione (savoir apprendre): abilità di
interpretare un documento o un evento di un’altra cultura, di spiegarlo e di metterlo in
relazione con documenti ed eventi della propria.
- Abilità di scoperta e di interazione (savoir faire): abilità di acquisire nuove
conoscenze circa una cultura e le sue pratiche culturali; abilità di gestire le tre dimensioni
precedenti nella comunicazione e nell’interazione in tempo reale.
- Consapevolezza culturale critica (savoir s’engager): abilità di valutare
criticamente, e sulla base di criteri espliciti, punti di vista e pratiche della propria e
dell’altrui cultura.
In particolare, il saper essere di un parlante interculturale consiste nell’abilità affettiva di superare il
malessere derivante dal confronto (incontro, ma talvolta scontro) di due sistemi culturali e, quindi,
di due punti di vista non sempre convergenti. Esso implica la capacità di distanziarsi dal proprio
sistema di valori, in modo che la percezione della diversità non sia falsificata da un punto di vista
esclusivamente monoculturale.
Ogni comunità linguistica possiede inoltre dei saperi (impliciti o espliciti) più o meno condivisi e
giudicati evidenti dai suoi membri. E’ pertanto importante conoscere, ad esempio, come ci si saluta
o si ringrazia in una lingua-cultura diversa dalla propria (2.5.1), ma è altrettanto importante essere
coscienti di quei saperi, inevitabilmente impliciti, che sottendono le differenti maniere di
comunicare, ovvero di quelle norme e valori di cui tratteremo più avanti (2.3).
Nella realtà scolastica italiana la promozione degli aspetti sopra indicati non dovrebbe essere
appannaggio dei soli docenti di lingua, materna o straniera che sia, ma responsabilità di ogni
singolo attore scolastico coinvolto nel processo educativo. In tale ottica l’incontro con la diversità si
traduce non tanto in una immersione tout-court del parlante non nativo nel sistema linguistico e
valoriale del paese d’immigrazione o nella sua folklorizzazione, ma nella creazione di uno “spazio
terzo” costruito dallo sforzo congiunto di insegnanti, allievi italiani e allievi stranieri.
11
2.3 Norme e valori sottesi
Sin dalla prima infanzia, attraverso il processo di socializzazione in un determinato contesto
socioculturale, l’individuo acquisisce norme, valori e modelli comportamentali caratteristici di una
comunità culturale. Poiché appresi e non innati, questi modelli sono dunque suscettibili di giudizio,
ma valutarli unicamente attraverso le lenti della propria cultura non può che produrne un’immagine
distorta che si cristallizza facilmente in stereotipi e pregiudizi. La realtà osservabile dei
comportamenti e delle pratiche culturali (lingua, rituali, abitudini alimentari, abbigliamento, ecc.)
andrebbe interpretata anche alla luce delle norme e dei valori ad essi sottesi. Essi non vanno però
letti come condizioni ineluttabili che generano dei comportamenti, ma piuttosto come dei
condizionamenti che permettono ad un individuo di riconoscersi in una determinata comunità
culturale, fornendogli al contempo un quadro di riferimento per l’elaborazione di orientamenti
soggettivi.
Le norme si sviluppano sia a livello formale, in forma di leggi codificate, sia a livello informale,
come strumenti di controllo sociale. Come suggerisce F. Trompenaars (Riding the Waves of
Culture, The Economist Books, Londra, 1993), esse possono essere considerate come il senso
comune che una comunità culturale possiede circa ciò che è “giusto” o “sbagliato”. Rientrano in
questo ambito aspetti come i diritti e i doveri, le tradizioni, le relazioni interpersonali e familiari, le
gerarchie, le aree tabuizzate, ecc.
I valori, che influenzano atteggiamenti, criteri di giudizio e di scelta, sostanziano la definizione di
ciò che è ritenuto “buono” o “cattivo” e possono essere visti come ideali positivi che generano un
desiderio. Rientrano in questo ambito le credenze religiose, i concetti di solidarietà e di libertà
individuale, la concezione del tempo e dello spazio, il rapporto con la natura, ecc.
Nei paragrafi a seguire analizzeremo alcuni di questi aspetti, scelti tra quelli ritenuti più idonei ad
una riflessione critica in ambito formativo e necessari per un decentramento dal proprio sistema di
valori. In particolare:
- tempo e spazio;
- status e gerarchia;
- religione e pratiche culturali;
- tabù
12
2.3.1 Il tempo e lo spazio
Il rapporto con le categorie di tempo e di spazio è multiforme e varia a seconda delle diverse
comunità culturali.
Abituati alla rappresentazione del tempo proposta dalla storia tradizionale - una successione lineare
e cronologica di avvenimenti - si dimentica spesso che il tempo, a seconda delle comunità culturali,
ha un’infinità di modi d’uso. Il tempo può infatti essere percepito come lineare o circolare, per dirla
con il noto storico delle religioni M. Eliade, ma anche senza contrapporre pensiero occidentale e
pensiero delle civiltà orali, è ugualmente possibile rendersi conto di quanto e come la percezione del
tempo sia diversificata nelle culture contemporanee. Si pensi, ad esempio, al diverso valore che può
avere la puntualità per un nord-europeo o per un latino. Secondo la cultura, ma anche il genere
dell’incontro e il rapporto con la persona che facciamo attendere, il nostro ritardo può essere
interpretato come un insulto, un segno di irresponsabilità, o addirittura come un gesto appropriato.
Il tempo come risorsa da organizzare e monetizzare, il tempo libero dei passatempi e del consumo,
o il tempo della formazione, strutturato e programmato in funzione di obiettivi futuri e progetti da
realizzare, saranno ugualmente concetti cangianti alla luce della variazione culturale. E’ plausibile
quindi, come sostiene E. T. Hall, che una concezione diversa dello scorrere del tempo influenzi i
comportamenti soggettivi, le relazioni interetniche e la comunicazione verbale (2.5) tra persone di
culture diverse.
Lo spazio, come il tempo, non può essere l’oggetto di una lettura univoca poiché la sua
interpretazione s’iscrive in una molteplicità di visioni del mondo. Ogni comunità demarca il proprio
spazio trasformandolo in “luoghi”, mutando cioè lo spazio geografico in spazio socioculturale. Se
dunque il concetto di spazio è influenzato, più che determinato, dagli schemi che interiorizziamo
attraverso uno o più specifici contesti culturali, i concetti di distanza interpersonale (2.4.2), di uso e
rispetto dello spazio pubblico e di quello privato (es. la “casa” e i suoi rituali di accesso) o di ciò
che è considerato vicino/lontano, grande/piccolo ecc. non saranno universalmente validi. Anche la
scuola, in quanto spazio organizzato, può essere intesa come espressione di una particolare visione
del mondo: la disposizione di banchi e cattedra nell’aula italiana tradizionale trasmette una specifica
cultura scolastica, retaggio di una mentalità educativa in cui gerarchia e disciplina erano valori
ancora molto forti. Riflettere su gestioni differenti dello spazio scolastico e delle strutture mobili
dell’aula, magari sperimentando in classe quelle di paesi lontani, potrebbe permettere ad insegnante
ed allievi di percepire e vivere lo spazio non come semplice aggregato di tratti fisici, ma per la sua
dimensione di territorio simbolicamente e culturalmente delimitato (per una proposta applicativa
clicca qui).
13
2.3.2 I rapporti a/simmetrici: status e gerarchia
Stratificazioni e differenze sociali esistono in tutte le società, per cui in una stessa cultura la
comunicazione interpersonale è spesso caratterizzata da relazioni asimmetriche legate ad una
diversa distribuzione del potere. Varia tuttavia da cultura a cultura il modo di percepire, tollerare e
rendere esplicita la distanza gerarchica che ne deriva, sia attraverso la scelta di determinati registri
verbali (2.5.4) che nell’uso di vestiti e oggetti (2.4.3) come simboli di status.
Nelle culture in cui il concetto di gerarchia è molto forte, come quelle africane o asiatiche, la
consapevolezza circa il proprio ruolo nella società e nella famiglia informa di sé l’intera sfera delle
relazioni interpersonali. Pertanto, anche nell’incontro con un individuo di cultura diversa si avrà la
tendenza ad esplicitare sin da subito la propria posizione sociale ed economica, cosa che può creare
imbarazzo o irritazione se l’interlocutore percepisce status e gerarchia in maniera differente. Infatti,
nelle culture in cui la distanza gerarchica è debole (es. quella nord-americana o nord-europea), in
quanto uguaglianza e rispetto del singolo sono ritenuti prioritari, l’ostentazione di simboli di
prestigio o di privilegi tramite titoli e appellativi è di solito mal tollerata. La questione diventa
particolarmente delicata in ambito formativo, in cui l’interazione tra insegnante e studenti o tra
insegnante e genitori ingenera l’incontro di tradizioni educative e percezioni gerarchiche reciproche
spesso molto diverse (vedi anche 4.5. Stili partecipativi e culture diverse).
Il concetto di gerarchia si fonda su quello di status che, nelle varie culture, può essere attribuito o
ottenuto a seconda di nascita, età, sesso, livello di istruzione, appartenenza familiare, occupazione,
potere economico, ruolo sociale, ecc. In molti paesi africani e asiatici, ad esempio, l’età è simbolo
di saggezza e di alto prestigio sociale, pertanto i rapporti familiari e sociali sono regolati da precise
scelte linguistiche oltre che da norme comportamentali: in cinese, ad esempio, non si può fare
riferimento ad uno zio paterno senza indicare contemporaneamente se è un fratello maggiore o
minore del padre. In quanto all’attribuzione di status legato alle differenze di genere, il contesto
religioso ha certamente il suo peso: nei paesi arabo-musulmani, ad esempio, alla donna viene
attribuito lo status particolare di credente, sposa e madre per sottolinearne il ruolo di portatrice di
valori religiosi e preservatrice delle tradizioni, escludendola però spesso dalla vita pubblica di
pertinenza dell’uomo. Ad un’attenta analisi del Corano si scopre tuttavia che non tutto è attribuibile
a questioni puramente religiose, ma che la concezione della donna nel mondo arabo-islamico è
anche il frutto di un lungo processo storico in cui la religione si è fatta codice espressivo di rapporti
di forza prevalenti (per approfondire clicca qui).
14
2.3.3 La religione e le pratiche culturali
Interrogarsi sulle norme e sui valori di altre comunità culturali significa anche riflettere sul ruolo
che la religione riveste nella definizione sia di comportamenti rituali socialmente condivisi che di
scelte e posizioni soggettive. La sua funzione di conservazione della sfera simbolica rende la
religione un meccanismo coagulante di appartenenza ad un’identità collettiva: chiese e moschee
sono luoghi della condivisione e dell’incontro e, quindi, di appartenenza ad un gruppo, oltre che
emblemi di una professione di fede. Parallelamente, i testi sacri (Bibbia, Corano, Talmud, ecc.)
costituiscono referenti importanti per orientare vissuti individuali e collettivi, anche oltre le
frontiere nazionali. Come è noto, può esistere un generale consenso tra popolazioni musulmane
maghrebine, pachistane o senegalesi su come alimentarsi, abbigliarsi, educare i propri figli ecc.
Tuttavia, vale la pena sottolineare che le religioni sono anche dei referenti instabili e provvisori che,
come le stesse “culture”, sono soggetti al mutamento. Esse vanno pertanto lette alla luce dei diverse
contesti storico-culturali in cui si sono formate, dei percorsi biografici e degli universi socioculturali
dei migranti che le rappresentano ai nostri occhi, dell’ibridazione che subiscono nell’incontro con la
società italiana. Si scopre così che anche tra popolazioni con una religione “totalizzante” come
l’Islam esistono persone alle quali la religione interessa poco o per niente, come succede spesso in
Italia o nel resto dell’Occidente; che esistono tante e tali sfumature all’interno del “mondo
musulmano” per cui non ci si deve sorprendere se un pachistano accetta un bicchiere di vino o se
una tunisina non indossa il chador.
Questo ci porta a concludere che, nell’incontro interculturale, è necessario operare con cautela
prima di considerare - solo per fare un esempio tra i più diffusi - l’Islam come blocco
indifferenziato e di ascrivere a prescrizioni coraniche comportamenti visibili (dal modo di
abbigliarsi alla relazione tra i sessi) che spesso dipendono da specifiche pratiche culturali locali.
Non considerare queste diversità, inerenti al singolo migrante o alla comunità culturale da cui
proviene, può comportare il rischio che certi simboli identitari (chador, turbante sikh, ecc.) siano
stigmatizzati come catalizzatori di differenze interreligiose irrimediabili e, dunque,
dell’impossibilità di trovare punti in comune su cui fondare una comunicazione efficace. Come
rilevato da alcune ricerche sociologiche, sono talvolta gli stessi migranti a rivendicare determinati
simboli come tratti peculiari della propria religione: il loro recupero in terra di migrazione si
arricchisce di nuovo senso e diventa un modo per enfatizzare un’appartenenza identitaria che si
sente minacciata (per approfondire clicca qui).
15
2.3.4 I tabù
Derivante dal polinesiano ‘ta-pu’ - nel quale indicava il sacro e, quindi, l’inibito - nelle società
moderne il termine tabù indica ciò che è proibito per tradizione morale e sociale, il quale può essere
o meno interdetto dalla giurisdizione formale.
Sebbene esistano tabù comuni a gran parte delle culture (relativi, ad esempio, a sessualità, morte,
malattia, funzioni e umori corporali, ecc.), ve ne sono molti che variano considerevolmente da
cultura a cultura, come ad esempio i tabù legati all’uso dei gesti, del vestiario o del cibo, ma anche
ad aspetti apparentemente superficiali come animali, numeri e colori. Trattandosi di costruzioni
sociali, i canoni che determinano il grado di inaccettabilità di un tabù sono legati allo specifico
contesto socioculturale e storico in cui sono stati creati. Si pensi a quanto poteva essere tabù la
nudità nella nostra società di qualche decennio fa e a quanto lo è oggi o all’insorgere di tabù
“moderni” come quelli legati alla sfera delle cure psicologiche o della pedofilia.
Dal punto di vista più strettamente verbale, i tabù possono riguardare:
- parole o nomi, come il divieto di nominare il nome di Dio nella religione ebraica o
all’uso, diffuso in più lingue, di eufemismi, metafore e vocaboli specialistici per dissimulare
il concetto tabuizzato (es. “trapasso/decesso” per morte, “bisogni fisiologici/deiezioni” per
escrementi, “persona della terza età/anziano” per vecchio, ecc.);
- argomenti di conversazione: parlare del proprio reddito è per noi italiani alquanto
innaturale, mentre se ne discute con più disinvoltura in America, in Oriente o in molti paesi
emergenti in cui l’esibizione del denaro è accettata e ricercata (P. E. Balboni, Parole
comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999,
pag. 67); informarsi circa l’età, lo stato civile, il credo religioso o politico dell’interlocutore
al primo contatto è spesso considerato indiscreto nelle culture occidentali, mentre in Cina e
in altre culture asiatiche è un modo per stabilire un rapporto di fiducia con l’altro.
In quanto specifici di una determinata cultura e non sempre codificati, i tabù rappresentano dunque
un aspetto delicato nell’interazione interculturale. La loro inconscia violazione da parte di uno dei
partecipanti e il blocco comunicativo che ne può derivare sono spesso l’unico modo per diventarne
consapevoli. Nella classe multietnica, sarebbe pertanto indicato avviare un “discorso sul tabù” (H.
Schröder “Recherche interculturelle sur le tabou - un défi aux sciences culturelles”, in Etudes
culturelles internationales, Section VII, INST, 1999) al fine di sensibilizzare gli studenti circa gli
argomenti, gli oggetti e le azioni tabuizzate nelle varie culture presenti in classe, nel rispetto dei
reciproci contesti culturali e comunicativi. A tal fine sarà utile facilitare l’apprendimento di un
vocabolario adeguato (eufemismi, metafore, circonlocuzioni, ecc.), di strategie verbali e non
verbali, di strategie metacomunicative di riparazione atte alla gestione dei domini tabuizzati.
16
2.4 La comunicazione non verbale
Se nella discussione sugli aspetti costitutivi della comunicazione (2.1.1), il focus dell’analisi è
costituito dalla parte verbale e dall’atteggiamento psicologico alla comunicazione, dobbiamo ora
considerare altri elementi che hanno la possibilità di influenzare o ostacolare l’atto comunicativo:
gli elementi della comunicazione non verbale, la cui analisi può esserci di aiuto soprattutto
nell’iterazione tra esperienze culturali diverse. Questi segni, che condividiamo con i membri del
mondo animale, ci riportano a periodi antichi. Se il linguaggio si è sviluppato più di cinquantamila
anni fa e la scrittura solo da seimila anni, i gesti della comunicazione sono molto più stratificati e
raggiungono i livelli della pre-umanità.
Molti significati sono stati analizzati: le espressioni facciali, lo sguardo, (2.4.1.1) i gesti e i
movimenti del corpo (2.4.1.2), il contatto fisico (2.4.1.3), la postura (2.4.1.4), il comportamento
spaziale (2.4.2), l’abbigliamento (2.4.3), l’odore, le vocalizzazioni non verbali (2.4.1.4). Quello che
dobbiamo considerare, tuttavia, è la possibilità di incomprensione che insorge quando persone di
culture differenti si incontrano. Gesti che nel nostro paese sono di cortesia, possono comunicare
ostilità o offesa in altri e viceversa. Per una effettiva ed efficace comunicazione interculturale
bisogna allora sviluppare, partendo dall’autocoscienza di quelli propri, un’attenzione critica,
un’osservazione attenta ai segni, anche quelli apparentemente insignificanti, dei comportamenti
della socialità. Non che tutti dobbiamo diventare degli antropologi/etnologi, ma alcuni strumenti di
queste discipline, quali griglie di osservazione, video registrazioni, possono rivelarsi preziosi anche
per il nostro lavoro.
Ci sono, comunque, delle considerazioni da fare: la prima sulla genuinità dei comportamenti. Gli
elementi che fanno parte di un modello culturale sono il risultato di mediazioni e di adattamenti che
i singoli individui sperimentano e che mettono in atto come strategie di compensazione in situazioni
di disparità, per cui trovare comportamenti autentici è quindi difficilissimo; la seconda sulla
rilevanza della disponibilità al dialogo nei rapporti interpersonali.
Dobbiamo certamente conoscere i vari segni con cui una particolare “cultura” esprime la sua
esperienza del mondo, ma è necessario sempre tener presente che nei rapporti interculturali siamo di
fronte a delle persone, che come tali reagiscono in modo individuale, saltano gli steccati delle
regole e delle tradizioni, si adattano alle nuove situazioni. La conoscenza del loro background,
sociale e culturale, è certamente importante, ma la mancanza di comunicazione non dipende dalle
incomprensioni riguardo ad un gesto o ad un comportamento, quanto dalla mancata disponibilità a
tenere aperta la comunicazione, se qualche incomprensione dovesse sorgere.
Poiché è impensabile offrire una panoramica esauriente delle varietà dei segni, in ogni scheda
successiva verranno riportati solo alcuni esempi illustrativi.
17
2.4.1 Cinesica
Si intende per cinesica l’insieme dei gesti, o delle sequenze di gesti, significativi che realizzano
funzioni di interazione nelle situazioni comunicative interpersonali. Questi segni riguardano il volto
e sguardo (2.4.1.1), i gesti (2.4.1.2), il contatto (2.4.1.3) e la postura (2.4.1.4). La manifestazione
fisica di una persona segnala dei significati, la cui decodificazione permette una comprensione
maggiore di quello che sta avvenendo in un atto comunicativo. Che cosa si comunica con il corpo?
- emozioni, soprattutto attraverso il viso, il corpo e la voce;
- atteggiamenti di relazione, attraverso cenni che segnalano la volontà di interagire, come il
contatto, lo sguardo e l’espressione del volto;
- desiderio di mantenere aperto il canale comunicativo, con cenni del capo, sguardi e
elementi prosodici sincronizzati con le parole;
- l’immagine che si ha di sé, attraverso il vestiario e l’aspetto esteriore;
- rituali sociali, ovvero i segnali non verbali che giocano un ruolo preminente nei saluti e in
altre azioni rituali.
Questo tipo di comunicazione rivela l’affettività delle persone coinvolte nell’interazione secondo
gradi differenti di automatismo o di consapevolezza. Infatti fino a che punto certe manifestazioni
sono consapevoli, dettate da interesse e da convinzioni, o inconsapevoli, dovute a spinte
automatiche inscritte nella tradizione genetica dei gruppi culturali? Argyle (M. Argyle, Bodily
Communication, Methuen, Londra, 1975; trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna,
1975, p.5) schematizza gli atteggiamenti di consapevolezza o di inconsapevolezza nel modo
seguente:
emittente ricevente
1 consapevole consapevole comunicazione verbale, alcuni gesti, per
esempio indicare
2 prevalentemente
inconsapevole
prevalentemente
consapevole
gran parte della comunicazione non
verbale
3 inconsapevole inconsapevole,
eppure ha un effetto
dilatazione delle pupille, cambiamenti di
sguardo ed altri piccoli segnali non
verbali
4 consapevole inconsapevole l’emittente è educato all’uso, per esempio
del comportamento spaziale
5 inconsapevole consapevole il ricevente è addestrato
all’interpretazione per esempio delle
posizioni del corpo
Quello che a noi interessa sono i punti in cui si evidenzia il divario di consapevolezza tra l’emittente
e il ricevente che sottolinea la disomogeneità della comunicazione e il rischio di fraintendimenti.
Nella comunicazione verbale questo rischio è molto basso in quanto esiste consapevolezza da
entrambi i lati, ma nelle restanti situazioni, che riguardano la comunicazione non verbale, è
necessaria un’educazione alle differenze che inconsapevolmente ostacolano il rapporto con gli altri.
Ciò è di grandissima importanza nel contesto multiculturale in cui il grado di condivisione dei segni
e il numero dei segni stessi possono variare enormemente. Di conseguenza è importante riflettere,
pur con le dovute considerazioni, sulle varianti che caratterizzano i vari modi in cui si manifestato
le diversità culturali.
18
2.4.1.1 Volto e sguardo
Il volto è la principale area della comunicazione non verbale sia umana che animale. Quando si
comunica si ha bisogno di vedere in faccia il nostro interlocutore. L'espressione del volto è una
macro categoria che include la posizione degli occhi, del naso, della bocca, delle sopracciglia, dei
muscoli facciali, della sudorazione frontale e muta col mutare della loro posizione. Tali mutamenti
sono segnali che comunicano atteggiamenti ed emozioni e di solito accadono, in entrambi gli
interlocutori, in stretta combinazione con il linguaggio verbale. In questo caso sono elementi
ridondanti di comunicazione.
Gli antropologi sono tutti concordi nell’ammettere che i movimenti dei muscoli facciali, tipici per
ciascuno stato emozionale primario, sono movimenti innati, cioè non appresi, trasmissibili per via
ereditaria. Si possono individuare sette emozioni primarie: felicità, sorpresa, paura, tristezza,
collera, disgusto, interesse. Sono espresse in tutte le culture nello stesso modo?
Gli esperimenti condotti da Ekman e collaboratori hanno dimostrato che la felicità, la tristezza e la
collera sono espresse per la maggior parte allo stesso modo.
Alcuni gesti illustrativi:
Mostrare la lingua: un gesto che si ritrova nei primati, nei bambini, ma anche negli adulti di varie
culture esprime differenti significati: in Australia significa “Non mi infastidire ora”, in Tibet e
nella Cina meridionale si usa per dire “Non intendevo ciò” (D. Morris , Bodytalk. A world guide to
gestures, Cape, Londra, 1994). In genere significa incredulità o incertezza. Se accompagna le parole
“sì, sono d’accordo” contraddice l’affermazione o segnala un’incertezza.
Il movimento delle sopracciglia: se sono abbassate significa contentezza in Kenya, ma irritazione in
Cina; se sono sollevate indica infelicità in Tailandia; gli Afroamericani manifestano irritazione
stropicciandole.
Anche lo sguardo svolge un ruolo molto importante nel comunicare atteggiamenti interpersonali e
per instaurare relazioni di diverso tipo.
Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza che esiste una correlazione fra tratti della personalità e
l'uso di questo segnale non verbale: le persone estroverse ne fanno un uso maggiore in frequenza e
durata; gli introversi guardano invece molto poco e quasi mai direttamente. Sguardi più lunghi sono
quasi sempre indice di un interesse vivace per l'altra persona, in senso affiliativo, sessuale,
aggressivo e competitivo.
In Giappone, in cui vige una norma comportamentale che vieta di mostrare emozioni (2.5.3) il
contatto visivo è intenzionalmente evitato. Nelle conferenze gli ascoltatori giapponesi guardano il
collo del relatore per evitare di guardarne gli occhi, mentre nel mondo occidentale è norma di
buona educazione l’opposto. Altri studi confermano un’intensa interazione visiva in differenti
culture. Per esempio, nelle popolazioni mediterranee, sudamericane e arabe, lo sguardo reciproco è
molto importante e non guardare in modo abbastanza diretto è considerata maleducazione.
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2.4.1.2 Gesti
La gestualità, l’insieme dei gesti che utilizziamo per sottolineare il discorso o per esprimere
emozioni e sentimenti lontano dalla parola, è l’elemento che più di altri assume forme differenti a
seconda delle culture, anche se ci sono posizioni universaliste, che sostengono l’universalità di
alcuni gesti. Mentre il segno verbale è artificiale e costruito, il gesto è automatico, naturale,
autoreferenziale e metonimico.
I gesti che hanno un alto grado di condivisibilità sono stati elencati da Argyle (M. Argyle, Bodily
Communication, Methuen, Londra, 1975; trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli,
Bologna,1975) e si basano sugli studi di Creider relativi a quattro culture dell’Africa orientale, e di
Saitz e Cervenka (R Saitz., E. J. Cervenka., Handbook of Gestures: Colombia and the United
States, in T.A.Seabock (a cura di), Approaches to Semiotics, The Hague, Mouton,1972), che hanno
comparato Stati Uniti e Colombia. Il 65% dei gesti riscontrati in Nordamerica e il 75% di quelli
individuati in Sudamerica sono comuni anche nei quattro paesi africani. I più condivisi sono i
seguenti:
- additare, far segno di fermarsi, stringersi nelle spalla, colpetto sulla spalla, cenno con la
testa, pollice verso, battere le mani, profilo del corpo femminile, cenno di richiamo,
inclinare il capo poggiandolo sul palmo della mano piatto (sonno), salutare con la mano,
indicare l’altezza di un bambino tenendo la mano orizzontale.
Alcuni gesti risalgono ad una causa biologica, ma molti sono legati a situazioni culturali. Il gesto di
incrociare le braccia può essere una protezione psicologica in momenti di nervosismo e ricorda il
gesto di difesa contro antichi pericoli. Analogamente i gesti di reazione sono movimenti di fuga per
evitare un pericolo, come ad esempio flettere il collo e proteggere la testa. Sono gesti che
rintracciamo e condividiamo con gli animali. Nei mammiferi la risposta difensiva più primitiva è
quella di allontanare la testa e il collo dal pericolo.
I gesti che esprimono la felicità sono condivisi dalla maggior parte dell’umanità anche se con
differenze di grado. Prendiamo l’esempio di una vittoria di calcio. Tutti i giocatori, da qualunque
cultura provengano, esprimono la loro gioia saltando, alzando le braccia, slanciandosi verso l’alto
in una direzione verticale. Metaforizzando la realtà possiamo parafrasare Lakoff e dire che FELICE
è SU (G. Lakoff ,L. Johnson, Metaphors We Live By, Chicago University Press, Chicago,1980).
Nel nostro contesto, con la forza dei mezzi massmediali, alcuni gesti nuovi possono essere introdotti
nel bagaglio gestuale di tutti (si pensi al gesto ormai universale di batti un cinque).
Il movimento verticale, “su e giù,” della testa è usato per assentire, per mostrare approvazione e
comprensione in quasi in tutto il mondo, nello Sri Lanka significa il contrario. Altri considerano lo
stesso movimento del capo una forma di sottomissione, un inchino in miniatura (D. Morris,
Bodytalk. A world guide to gestures, Cape, Londra, 1994).
20
2.4.1.3 Contatto
Per contatto intendiamo il contatto fisico che costituisce la forma più ancestrale di azione sociale. Si
riferisce alle numerose parti del corpo e si realizza in forme diverse: dai contatti di aggressività,
quali morsi, spinte, urti, ai segnali di amicizia che generalmente esprimono l'intenzione e il
desiderio di instaurare un legame di tipo sessuale o amicale, o l'intenzione pacifica di
interessamento e di sottomissione. Alcuni studiosi sostengono che il contatto fisico derivi dal
bisogno infantile di cercare protezione e sicurezza presso la madre in situazioni che provocano nel
soggetto paura o angoscia: in questi casi, infatti il contatto con la madre ha carattere rassicurante.
In quasi tutte le culture il contatto fisico è molto utilizzato all'interno del nucleo familiare, fra
moglie e marito, fra genitori e figli. In questo caso, però, esistono delle rigide restrizioni che
stabiliscono quali parti del corpo possono essere toccate e da parte di chi può essere effettuato
questo tipo di contatto. Sono state individuate culture in cui il contatto fisico avviene con frequenza,
le cosiddette “culture di contatto”, per esempio, in Francia, in America Latina e in Arabia Saudita,
e le “culture di non contatto”, per esempio, in Germania e nell’America del Nord.
Nella cultura occidentale si può toccare un estraneo solo nel momento delle presentazioni o nel
congedo. In alcune parti dell’ India e in Giappone, tuttavia, la forma più comune di saluto non
implica il contatto e lo stesso accade anche in Inghilterra per i saluti quotidiani. In culture come
quelle giapponese e inglese le restrizioni sono molto rigide, ma nelle culture africana e araba il
contatto fisico viene usato in molte circostanze.
Alcuni popoli indiani, in segno di saluto, strofinano le labbra sulla guancia del partner con
movimenti laterali del capo, oppure esibiscono un altro contatto fisico amichevole che consiste nella
confricazione nasale. Questo tipo di segnale si ritrova anche in altri popoli quali gli esquimesi. I tipi
di contatto fisico amichevoli sono i saluti, che sono espressi comunemente dall'abbraccio, dalla
carezza, dal bacio e dalla stretta di mano.
In Giappone, nei luoghi pubblici si osserva poco contatto fisico, nemmeno una stretta di mano, ma
su treni e autobus affollati il contatto è accettato, e si possono vedere persone addormentate che si
appoggiano le une alle altre. Questa situazione verrebbe considerata, in generale e con le dovute
eccezioni, intollerabile ad un inglese, secondo le osservazioni di Brosnahan (L. Brosnahan.,
Japanese and English Gesture. Contrastive Nonverbal Communication, Taishukan, Tokyo, 1990),
per il quale la differenza tra il mondo anglosassone e quello giapponese si evidenzia anche riguardo
ai contatti che esistono all’interno dei rapporti familiari. I bambini giapponesi, infatti, sono
accarezzati e coccolati più a lungo rispetto ai bambini inglesi e per questo motivo i genitori inglesi
vengono considerati più freddi dagli orientali.
21
2.4.1.4 Postura
Un movimento del corpo mantenuto più di due secondi, quale per esempio la testa piegata, può
essere considerato una postura. Le posture esprimono atteggiamenti, sentimenti ed umori più
efficacemente dei gesti. Questi segnali non-verbali sono involontari e difficilmente controllabili
coscientemente. La postura è influenzata notevolmente dallo stato emotivo del soggetto che la
esibisce lungo la dimensione rilassamento-tensione. A questo proposito gli studi di Elkamn e
Friesen (P. Elkman, W.V. Friesen, The Repertoire of Non Verbal Behaviour, in “Semiotica”, n.1,
1969, pgg. 49-98) sono particolarmente utili perché mettono in evidenza come avviene la
comunicazione di atteggiamenti (valutazione e gradimento) in rapporto allo status sociale (potenza e
controllo sociale), attraverso le esibizioni posturali.
Ogni cultura ha elaborato diversi modi possibili di stare distesi, seduti o in piedi. I tipi di postura
sono molti, circa un migliaio, anche se alcuni, tra i quali l’inginocchiarsi, avvengono di rado e solo
in particolari momenti (chiedere in sposa una persona), o in particolari luoghi (di solito i luoghi del
culto religioso). I cambiamenti di postura variano con il ruolo e l'atteggiamento interpersonale in
rapporto alla variabile culturale: si riscontrano, per esempio, variazioni tra le posture dell'uomo e
della donna. Altri studi hanno tenuto in considerazione la variabile situazione e una stretta
dipendenza dal contesto sociale. All'interno di alcuni contesti specifici regole precise governano le
posture che devono essere assunte, cioè definiscono quali posture sono approvate e quali invece
devono essere bandite dal comportamento individuale. Ci sono anche posture speciali per i rituali.
Le posture che definiscono i rapporti di potere sono il portamento eretto, la testa reclinata
all'indietro e le mani posate sui fianchi che sottolineano il desiderio di dominare; chi occupa uno
status elevato, inoltre, solitamente siede eretto in posizione centrale di fronte agli altri.
Brosnahan (L. Brosnahan., Japanese and English Gesture. Contrastive Nonverbal Communication,
Taishukan, Tokyo, 1990) confronta le posizioni che gli inglesi e i giapponesi assumono quando
sono in piedi. I primi seguono un ideale militare e atletico con la testa alta, le spalle indietro, il petto
in fuori, che si differenzia notevolmente da quello giapponese che presenta una testa più inclinata,
petto e spalle più rilassate. Un altro contrasto è quello tra la posizione eretta con le mani sui fianchi,
che è abbastanza neutro nel contesto britannico, ma che sembra temeraria al giapponese che
tradizionalmente tende ad essere meno visibile.
Un’ultima osservazione riguarda il fenomeno dell’eco posturalità che si determina quando in un
contesto rilassato e informale, gli interlocutori assumono, in modo automatico, posture
specularmente simili, abbandonando posizioni di superiorità e di dominanza e cercando di aderire in
una forma di inconscio cameratismo alla posizione dell’altro.
22
2.4.2 Prossemica
Secondo il suo fondatore, Edward T. Hall, la prossemica è lo studio della percezione e dell’uso che
un essere umano fa dello spazio (E. T. Hall, The Hidden Dimension, Doubleday, Garden City
(NY), 1969). Lo spazio personale che ogni individuo occupa è considerato come una zona
cuscinetto o di difesa che gli altri individui non possono invadere senza causare disagio nell'altro. Si
può considerare questa area cuscinetto come una bolla o una sfera protettiva che un organismo
mantiene fra sé e gli altri. Come per i movimenti del volto, i gesti e la postura, lo spazio segnala
informazioni, secondo delle regole ben precise che variano in rapporto alla situazione, al tipo di
relazione instaurata con il partner o più partners (intima o formale), oltre alle relazioni gerarchiche
che si sono stabilite dalla cultura del gruppo di appartenenza e dall'ambiente sociale. Il concetto di
distanza implica anche il senso di territorialità, lo spazio vitale di cui l’individuo ha bisogno per
sviluppare la sua autonomia e in cui sentirsi libero quando stabilisce rapporti con gli altri. La
distanza che adotterà nei confronti di un'altra persona sarà proporzionale al rapporto o ai legami che
vorrà stabilire nell'interazione.
La prima norma dello spazio prossemico è che non ci si può muovere in ogni parte come si vuole:
ci sono, ovunque, norme culturali e biologiche, esplicite ed implicite, e limiti da osservare. Hall
identificò, nel modo di posizionarsi degli uomini, quattro tipi di distanza: intima (da 0 a 18 pollici),
personale-informale (da 1.5 a 4 piedi), sociale-consultiva (da 4 a 10 piedi), e pubblica (da 10 piedi
in poi). Hall notò anche che ogni cultura applica norme distintive di vicinanza, per esempio, in
relazione alla conversazione, alle situazioni d’affari e al corteggiamento e che lo stare troppo vicini
o troppo lontani può provocare incomprensioni e persino uno shock culturale. Esistono anche delle
notevoli differenze a livello individuale. Le persone che presentano disturbi del comportamento, per
esempio, preferiscono mantenersi più lontane spazialmente nei loro rapporti interpersonali,
innalzando una invisibile barriera protettiva tra se stesse e il mondo.
Le forme culturali di questo segnale non verbale sono numerose e assumono dimensioni che variano
da cultura a cultura. Queste distanze, oltre ad essere specificamente legate alla cultura, vengono
apprese informalmente e inconsciamente e sono quindi fonte di incomprensioni. Complessivamente
le distanze nel mondo giapponese sono più ravvicinate di quelle inglesi. Ugualmente la distanza
mantenuta dalle persone durante una conversazione è molto più ridotta nelle popolazione
dell'Europa del sud che negli Stati Uniti o nell'Europa del nord. In molte culture mediterranee, come
anche in quelle arabe e nelle zone rurali dell’oriente, i maschi si prendono a braccetto tra di loro per
manifestare amicizia, come il turco che mettendo la mano sulla spalla di uno straniero è come se gli
dicesse “Caro ospite lascia che ti guidi” (Celentin).
23
2.4.3 Vestiti e oggetti
In ogni cultura il coprirsi il corpo con i vestiti ha avuto, otre alla funzione di proteggersi dalle
variazioni climatiche, anche lo scopo di ornare il corpo e di comunicare ruoli e significati. Il vestito
è stato anche strumento del pudore per coprire le parti del corpo considerate “indecenti”, come
testimoniano alcuni tentativi dei missionari occidentali nei confronti dei nativi (P. E. Balboni,
Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999).
Le alterazioni del corpo nelle società primitive, sia con tatuaggi che con vari oggetti di
abbigliamento, rispondevano alla necessità di distinguere ruoli sociali e di esprimere ideali estetici:
una pratica che si è tramandata in tutte le culture di tutti i tempi. Se da un lato si riscontrano modelli
di comportamento omogenei di isoprassi, dall’altra, generalmente, l’individuo ama ostentare la sua
importanza e superiorità sugli altri attraverso l’esibizioni di oggetti di status symbol. Anche ai nostri
giorni, nelle nostra cultura, notiamo che gli abiti usati nei contesti religiosi e giudiziari differiscono
dall’abbigliamento comune per sottolineare la superiorità e distanza gerarchica.
Nel contesto interculturale l’abito è un elemento comunicativo importante, una forma attraverso la
quale gli immigrati veicolano la propria identità e stabiliscono un filo di contatto con il paese di
origine; rappresenta, inoltre, la volontà di rendere visibile un’appartenenza a tradizioni e ad una
terra, generalmente misconosciute, e quindi non esistenti, nell’immaginario degli autoctoni. Nelle
città con alta presenza di immigrati da ogni parte del mondo, si registra una trasformazione
dell’immagine urbana, che rimanda sempre di più alla varietà di pratiche inconsuete, quali nuovi
negozi di abbigliamento, indiano, cinese, africano, sudamericano, e tanti altri, che introducono
nuovi abbinamenti di colori e di tessuti nell’universo visivo occidentale. Nel nuovo contesto del
paese di immigrazione, l’abito “etnico”, da un lato, si semiotizza, diventa segno distintivo di
orgoglio nazionale e di identità dietro al quale riunirsi e proteggersi, dall’altro, si folklorizza ed è
esibito come oggetto esotico e decorativo nelle feste interculturali. Il costume etnico diventa un
oggetto decontestualizzato, da esibire per esigenze turistico-commerciali e costruito acrititicamente,
come si nota in questa promozione di un viaggio in Tailandia tra il popolo Akha: “ I loro abiti
vistosi, in particolare i copricapi ornati con le sterline dell'impero britannico (!!?), non sono sintomo
di ricchezza ma esprimono la loro dignità di popolo libero e indipendente” (per approfondire clicca
qui).
Oltre ai vestiti anche gli oggetti parlano di modi di vita diversi, perché insieme alle popolazioni
anche gli oggetti sono emigrati. Fare un elenco dei nuovi oggetti che sono entrati, o a breve
entreranno nell’universo degli strumenti a servizio dell’uomo, è arduo ed inutile.
Potrebbero costituire il tema di progetti da fare interdisciplinarmente con l’apporto delle differenti
esperienze dei migranti.
24
2.4.4 Odori e rumori
Nella comunicazione interculturale dovremmo includere i due aspetti dei nuovi odori e dei
suoni/rumori che accompagnano le migrazioni dei popoli. Le culture si caratterizzano anche per
l’insieme di odori che si respirano lungo le vie delle città. Sono gli odori degli uomini e delle donne
che popolano le strade, odore di umanità misto anche ai profumi che provengono dai mercati
all’aperto, dai negozi i e dai luoghi di ristorazione. Sono i segni della presenza degli aromi e sapori
di modi alimentari diversi: l'aroma di cardamomo, curcuma, cannella, coriandolo, dell'olio di cocco
e delle verdure, delle banane fritte e dei masala, del kebab, degli involtini primavera e del maiale
all’agrodolce. I cartelli indicanti cucina cinese, turca, egiziana, ecc, si trovano sempre più
frequentemente sulla porta di molti ristoranti etnici sparsi sul territorio. In alcune macellerie si trova
la carne halal, macellata secondo il rito islamico e sulle vetrine delle panetterie leggiamo scritte in
arabo per il pane egiziano o del Maghreb. Nei supermercati, accanto alle merci tradizionali,
troviamo nuovi tipi di frutta, verdure mai viste e spezie nuove. Per non parlare dei nuovi profumi,
gli incensi, le essenze provenienti da tutto il mondo che hanno allargato la gamma delle percezioni
olfattive. I nuovi odori riempiono l’aria e poiché non siamo abituati ad essi alcuni possono essere
fastidiosi ed invadenti.
Nell’ambito delle percezioni olfattive, possiamo includere anche gli odori corporali che vengono
più o meno controllati a seconda delle varie pratiche igieniche individuali o culturali e che possono
interferire nella comunicazione. Nel mondo occidentale, l’uniformità delle pratiche igieniche è
pressoché sanzionata dalla pubblicità degli innumerevoli prodotti per l’igiene della persona, ma
questo “conformismo” non si rintraccia automaticamente nel microcosmo della classe, in cui i
bambini immigrati, ma anche i bambini italiani, emanano odori che possono risultare fastidiosi ad
un olfatto trasformato da prodotti chimici. È un argomento che può essere imbarazzante se
affrontato apertamente. Attività didattiche, quali i giochi di ruolo, le simulazioni e l’analisi della
pubblicità, potranno servire per prospettare problemi e ricercare soluzioni.
Lo stesso imbarazzo si prova per i rumori corporali che vengono considerati in maniera diversa a
seconda delle culture e delle situazioni
A questo proposito rimandiamo ad alcuni esempi tratti dal libro di P. E. Balboni, in particolare al
sottocapitolo 3.1.7, che fa riferimento alle norme che variano nei differenti contesti culturali.
Possiamo aggiungere che, per quanto queste regole possano più o meno essere condivise all’interno
del gruppo, esse sono comunque soggette alle trasformazioni e agli adattamenti dovuti al contatto
con altri modi di vivere.
25
2.5 La comunicazione verbale
L’acquisizione delle abilità comunicative interculturali è intimamente connessa all’apprendimento
linguistico, in quanto la lingua è il mezzo privilegiato attraverso il quale il sistema di credenze,
norme e valori di una comunità viene codificato. Tuttavia, quando uno dei due parlanti non
padroneggia la lingua-cultura dell’interazione, non tutti i problemi di intercomprensione possono
essere ricondotti ad una conoscenza imperfetta di lessico, grammatica o pronuncia, sebbene questi
problemi esistano. Asimmetrie nella comunicazione verbale possono manifestarsi anche nella non
condivisione di determinate regole conversazionali (2.5.1) e di altri codici la cui interpretazione è
legata ai diversi contesti culturali all’interno dei quali i parlanti sono stati socializzati. La lingua,
come abbiamo visto a proposito della comunicazione non verbale (2.4), si accompagna infatti ad
altri codici che differiscono a seconda della cultura presa in esame: dal codice paralinguistico che
orienta l’uso della voce (2.5.2) e la diversa interpretazione di pause e silenzio (2.5.3), fino ai codici
retorici con cui strutturiamo testi orali o scritti (2.5.6).
Una interpretazione unilaterale di questi elementi può dar adito a malintesi culturali, laddove non si
tenga presente che certe norme comunicative non sono necessariamente universali. Quando
sopraggiungono queste difficoltà, esse vengono generalmente attribuite agli atteggiamenti, alle
caratteristiche personali, al livello di generale competenza o, nei casi peggiori, all’intelligenza dello
straniero piuttosto che ad effettive differenze socioculturali. Un parlante interculturale, sia esso
l’autoctono o lo straniero, dovrebbe pertanto essere cosciente di quelle aree della comunicazione
verbale più sensibili alla variazione e che possono essere motivo di asincronia nella comunicazione.
Tuttavia, dal momento che non è sempre possibile conoscere la lingua-cultura del nostro
interlocutore, è in primo luogo necessario accettare che c’è dell’incerto e del vago nell’incontro con
l’altro e che la nozione di codifica/decodica del messaggio è un processo dinamico e co-costruito
nell’interazione stessa.
Diventa pertanto essenziale affinare i propri mezzi espressivi in modo da sviluppare un
atteggiamento positivo e trasferibile ad ogni situazione interculturale: piuttosto che reagire
emotivamente ad un evento comunicativo incerto, bisogna essere capaci di analizzarne gli elementi
costitutivi, elaborare le informazioni e creare un quadro di riferimento in cui sia possibile agire nel
rispetto dell’altro senza rinunciare a se stessi.
26
2.5.1 Alcune regole conversazionali
L’interazione verbale può essere interpretata come un continuum suddiviso in turni, per cui, in linea
generale, parlanti distinti prendono la parola l’uno dopo l’altro. Il turno di parola può essere dato
all’interlocutore attraverso espliciti segnali discorsivi (“no?”, “che ne pensi?”, ecc.), ma il suo
passaggio è spesso segnalato in modo implicito (cambiamento nel tono di voce, termine di un’unità
sintattica, silenzio momentaneo, ecc.). Si tratta tuttavia di aspetti che variano a seconda della
diversa etichetta sociale, ovvero di quelle regole conversazionali che vengono acquisite da bambini
e che di solito trasferiamo anche in altre lingue.
La nostra tendenziale percezione “policronica” del tempo ci porta, ad esempio, a trattare più
argomenti allo stesso tempo e ad essere generalmente tolleranti nei confronti di sovrapposizioni ed
interruzioni. Laddove però queste modalità interattive si incontrano con quelle di individui
socializzati in culture differenti (vedi percezione monocronica del tempo), esse possono creare
irritazione nell’interlocutore.
Sebbene sovrapposizioni momentanee siano generalmente tollerate, le interruzioni rappresentano un
aspetto più delicato, sia nella comunicazione interculturale che in quella intraculturale. Lo stesso
concetto di “sovrapposizione” non è univoco e trasparente: sovrapposizioni reiterate o prolungate
possono essere interpretate come un tentativo di usurpazione del turno di parola, al pari di
un’interruzione. A tale proposito, D. Tannen (Conversational Style: Analyzing Talk Among
Friends, Ablex, Norwood, NJ, 1984) rileva che nell’interazione faccia a faccia i newyorkesi
prediligono la sovrapposizione cooperativa come strategia per mostrare entusiasmo e interesse per
l’interlocutore, strategia non sempre condivisa ed apprezzata da altri anglofoni. Mentre il
partecipante “veloce” pensa che l’altro non abbia niente da dire e continua il suo turno, il
partecipante più “lento” avverte che non gli viene fornita l’occasione per prendere la parola. Questo
“stile ad alto coinvolgimento”, caratterizzato da un rapido scambio di turni, velocità d’elocuzione
sostenuta, evitamento di pause ed ascolto partecipe, può definirsi genericamente valido anche per
gli italiani, che sono talvolta stigmatizzati come chiassosi ed invadenti.
Un tipo particolare di presa del turno è rappresentato dalle coppie adiacenti, ovvero da quelle
routine conversazionali tipiche della comunicazione quotidiana (salutare/rispondere;
ringraziare/rispondere; scusarsi/minimizzare; offrire/accettare, ecc.). In quanto strettamente
correlate al contesto socioculturale in cui sono prodotte, la loro realizzazione varia non solo da
lingua a lingua, ma anche all’interno delle varietà di una stessa lingua. Come si nota dagli esempi,
ciò che è naturale e apprezzato in una lingua, può divenire bizzarro e fastidioso se trasferito in
un’altra. Non è detto che queste differenze linguistico-culturali diano sempre luogo a
fraintendimenti o a conflitti interculturali, ma giudicarle semplicemente come idiosincrasie del
parlante non nativo dà sicuramente origine a visioni riduttive che pongono un limite alla
comprensione reciproca.
27
2.5.2 La voce
Nell’interazione faccia a faccia elementi prosodici come l'intonazione, l’accentuazione, il volume o
la velocità d’elocuzione possono risultare importanti per risolvere casi di ambiguità linguistica o per
modulare le nostre intenzioni comunicative. In contesto interculturale, la percezione di alcune di
queste caratteristiche della voce consente spesso all’interlocutore non nativo di cogliere il
significato globale di un enunciato anche quando le sue conoscenze linguistiche non gli permettono
di distinguerne ogni singola unità verbale. Specifiche scelte prosodiche, accompagnate da eventuali
segnali non verbali, possono pertanto facilitare la comprensione reciproca quando le parole non
sono sufficienti.
Bisogna però tener presente che la nostra generale tendenza a parlare con un volume di voce
piuttosto alto può dare ad alcuni stranieri l’impressione di assistere ad una discussione concitata,
anche quando stanno semplicemente ascoltando una normale conversazione. Nelle classi italiane, la
situazione è aggravata dal fatto che l’insegnante deve spesso aumentare ulteriormente il tono di
voce per mantenere la disciplina: soprattutto se proviene da un paese orientale, l’allievo straniero
potrebbe avere l’impressione di essere verbalmente aggredito piuttosto che semplicemente chiamato
in causa.
E’ noto che, in italiano come in tutte le altre lingue, la stessa stringa di parole può assumere
significati differenti a seconda dell’intonazione che le diamo (frase interrogativa, dichiarativa, ecc.).
Nelle situazioni in cui la comunicazione si focalizza più sul contenuto che sulla forma della lingua,
queste differenze non sono però sempre così nette. Parlanti non nativi possono avere difficoltà a
cogliere queste sfumature e, quindi, a decidere in quale contesto interazionale debbano muoversi
(“era una domanda o un’affermazione?”), tanto più se a complicare le cose sopraggiungono
inflessioni regionali e dialettali - fonologiche e prosodiche - di cui non siamo sempre pienamente
coscienti e che creano confusione in chi cerca di orientarsi tra tante varietà socioculturali ed
espressive.
Un altro aspetto da non dimenticare è la velocità d’elocuzione: sebbene sia ovvio che ad una bassa
competenza linguistica possa corrispondere la percezione che il madrelingua parli troppo
rapidamente, è pur vero che abbiamo la generale tendenza a parlare con un ritmo sostenuto rispetto
a parlanti di lingue diverse. In ambito formativo questo è un aspetto piuttosto delicato dal punto di
vista sia cognitivo che psicologico: parlare ad una velocità accettabile e in modo chiaro può
facilitare la comprensione, ma è necessario non sconfinare in quello che viene generalmente
definito foreigner talk (6.6.2). Piuttosto che facilitare la comprensione, questo linguaggio
semplificato e rallentato toglie allo straniero la possibilità di apprendere un italiano autentico,
quando non è addirittura percepito come una forma di razzismo comunicativo.
28
2.5.3 Il silenzio
Abbiamo accennato, a proposito delle regole conversazionali (2.5.1), che culture differenti possono
avere una percezione diversa di quanto una pausa debba essere lunga per segnalare che il parlante
ha terminato il suo turno o meno. Coloro che sono abituati a pause brevi tra un turno e l’altro
potrebbero interpretare la non immediata reazione verbale dell’interlocutore come un diritto a
continuare il proprio turno, soprattutto se nella loro cultura pause prolungate in una interazione
creano imbarazzo. Questo può dirsi vero per gran parte delle culture occidentali, in cui il “parlato” è
vissuto come un modo per ottenere comprensione reciproca e per esprimere la propria individualità,
tanto che, in casi estremi, la sua assenza può essere correlata ad un tentativo di controllare
sentimenti di ostilità. In molte società orientali, in cui vengono enfatizzati gli scopi del gruppo
piuttosto che del singolo, il silenzio nell’interazione interpersonale è spesso vissuto come
manifestazione di armonia o di solidarietà. In Cina, ad esempio, tacere è del tutto normale in caso di
argomenti delicati o ambigui. In Giappone, si ha la tendenza a ritenere che i sentimenti non possano
essere sempre veicolati dalle parole e che, non appena un’esperienza viene resa verbalmente, la sua
reale essenza si dissolva. C. Goddard e A. Wierzbicka (“Discourse and Culture”, in T. A. van Dijk
(a cura di), Discourse as Social Interaction, Sage Publications, Londra, 1997, pgg. 237-240)
attribuiscono questa sfiducia nella parola all’ideale giapponese dell’ enryo (riservatezza o
moderazione) che implica un certo controllo anche nell’espressione dei propri desideri ed opinioni.
E’ così possibile che nei momenti di particolare intensità emotiva, nella pedagogia tradizionale
come nel rapporto madre-figlio, il silenzio sia preferito alla verbalizzazione del proprio stato
emotivo.
Questi esempi dovrebbero suggerire che è importante non interpretare il “silenzio” come categoria
descrittiva dall’unica prospettiva della propria cultura, ma è anche essenziale chiedersi se le pause
discorsive possano essere sempre lette attraverso il filtro culturale. Parlanti non esperti possono
certamente aver bisogno di più tempo per esprimersi, con la conseguenza che il loro comportamento
verbale sarà punteggiato da un maggior numero di “pause cognitive”. Pertanto, componenti
contestuali come l’evento comunicativo, l’argomento e la funzione dell’interazione dal punto di
vista di entrambi i partecipanti (quindi, anche eventuali discrepanze nella percezione reciproca)
vanno sempre tenute in considerazione se non ci si vuole accontentare di rappresentazioni riduttive
come l’ “orientale silenzioso” o l’ “italiano chiacchierone”.
Per approfondire questa tematica vedi K. Knapp, Metaphorical and Interactional Uses of Silence
29
2.5.4 Registro: formale/informale
La lingua italiana prevede un ampio repertorio di varietà espressive, appartenenti a differenti livelli
di ricercatezza o registri. Un diverso grado di (in)formalità viene pertanto espresso attraverso varie
scelte lessicali e sintattiche (nonché prosodiche, cinesiche, ecc.) sulla base di un giudizio di
appropriatezza che tenga conto del tipo di relazione con l’interlocutore, dei reciproci ruoli e del
contesto comunicativo. Il più evidente riflesso di questo processo di codifica dei ruoli nel
linguaggio si ha nella scelta dei pronomi allocutivi tu e Lei, parte di un sistema più ampio che
prevede specifiche formule di saluto e un congruo uso dei vocativi (ciao Mario, ma Buongiorno
Sig. Rossi). La non osservanza di questi meccanismi routinari della lingua, dei quali gli stranieri
vengono spesso a conoscenza per prove ed errori, può dar luogo a spiacevoli stigmatizzazioni
reciproche. Ad esempio, l’uso sempre più diffuso del tu con cui intendiamo ridurre la distanza
reciproca o con cui spesso ci rivolgiamo all’immigrato può essere frainteso come un modo per
sminuire l’interlocutore, se questi non condivide le nostre stesse intenzioni comunicative. Inoltre,
sebbene in molte lingue esistano sistemi allocutivi simili al tu/Lei dell’italiano (fr. tu/vous, ted.
du/Sie, sp. tu/Usted, rus. ty/Vy, ecc.), ciò non implica che vengano usati nella stessa maniera. In
russo, ad esempio, il passaggio dal ty (tu) al Vy (Lei) è molto meno naturale che in italiano, tanto
che relazioni parentali o amicali in cui c’è disparità sociale o differenza di età sono più spesso
governate da un registro formale. In molte società orientali il modo di rivolgersi all’altro è ben più
articolato: in giapponese, il sistema del keigo o “linguaggio onorifico” è così complesso che una
stessa frase può essere espressa in più di venti modi, a seconda del rapporto tra i partecipanti.
Ogni lingua possiede dunque strumenti diversi per esprimere formalità ed informalità e non è
sempre possibile, nella comunicazione interculturale, essere al corrente delle norme comunicative
della lingua dell’altro. Si possono tuttavia mettere in atto strategie interazionali di adattamento
reciproco che promuovano l’ascolto attivo e la negoziazione dei significati, evitando i pericoli di
un’eccessiva semplificazione. Infatti, mediare linguisticamente non significa necessariamente
ricorrere a parafrasi colloquiali, che lo straniero può ugualmente non comprendere: essi fanno parte
di sottocodici socioculturali a cui il migrante può non essere stato esposto, se il suo contatto con
l’italiano si è limitato all’apprendimento guidato o alla fruizione televisiva. Parallelamente, coloro
che hanno imparato l’italiano in modo spontaneo, attraverso il contatto con i coetanei o con i
colleghi, avranno difficoltà nella gestione di codici alti e settoriali (es. quelli dei libri di testo e,
talvolta, dell’interazione insegnante-allievo). L’uso di codici troppo colloquiali o troppo ricercati
può quindi ingenerare spiacevoli meccanismi di esclusione, analoghi a quelli del foreigner talk
prima accennati (2.5.2).
30
2.5.5 Scelte lessicali e alterità nel linguaggio
Nella comunicazione interculturale è importante essere coscienti di quegli automatismi linguistici
che possono creare fenomeni di inconsapevole ma non innocuo razzismo comunicativo. Non si
tratta di condurre un’astratta opera di epurazione del linguaggio, sebbene l’uso di nomi e aggettivi
non offensivi (es. “di colore”/”nero” piuttosto che “negro”) sia certamente da incentivare. Ciò che
qui auspichiamo è piuttosto un’analisi del lessico dell’alterità che renda noi e i nostri allievi
consapevoli della visione del mondo che il linguaggio veicola. Nessuna parola è infatti del tutto
neutra: anche le parole più diffuse in ambito giornalistico o giuridico (extra-comunitario,
immigrato, clandestino ecc.), e che pertanto ci appaiono legittimate dall’uso, possono celare
ideologie dominanti o atteggiamenti xenofobi. Ad esempio, nell’analizzare la parola immigrato,
Balibar ne sottolinea il carattere di categoria di amalgama che combina criteri etnici e di classe,
riservata a molti stranieri ma non a tutti. Solitamente si definisce straniero (non immigrato o
extra-comunitario) l’americano, il giapponese, l’australiano, ecc. ovvero chi proviene da un paese
con alto prestigio socioeconomico e politico, proprio per differenziarlo dalle categorie
immigrazione/immigrato. Nasce dunque, nel linguaggio come negli atteggiamenti, quello che
Balibar definisce il paradosso delle categorie unificatrici e differenzianti.
Un’altra scelta lessicale che può creare distanza psico-affettiva nell’interazione interetnica è la
diffusa tendenza a normalizzare il nome straniero o addirittura a “ribattezzare” l’altro con nomi
italiani, sulla base della presupposizione (o presunzione?) che non trattandosi di un nome familiare,
non c’è nulla di male nel manipolarlo. Il principio con il quale ci auto-legittimiamo a trasformare il
diverso, nel tentativo di rimuoverne l’estraneità, può essere interpretato come sintomo di
disimpegno nella comunicazione interculturale e di un atteggiamento etnocentrico. Il nome è infatti
di per sé un’attribuzione d’identità, tanto più forte quanto più connotata religiosamente e
culturalmente (si pensi a nomi come Mohamed o Abdullah nella religione islamica: per un
approfondimento dei significati dei nomi stranieri clicca qui. Il sentirsi chiamare con un nome
storpiato, tradotto o non sentirsi chiamare che di rado rappresenta una forma di negazione del
soggetto, oltre che della sua realtà culturale, che viene presto interiorizzata e considerata “normale”
anche dagli stessi stranieri. Questa forma di mimetismo, sia essa imposta o indotta, non facilita la
continuità psichica negli allievi bilingui più giovani e, dunque, uno sviluppo dell’identità che non
miri all’assimilazione del diverso.
31
2.5.6 Retoriche del “testo”
Per retoriche del “testo” intendiamo qui, a parità di genere, le diverse maniere di organizzare un
elaborato scritto o di strutturare un’esposizione orale. Ciò che rende un “testo” significativo e
strutturato in modo logico dipende in prima istanza dagli scopi comunicativi e dai lettori/ascoltatori
cui si rivolge e varia, pertanto, a seconda della lingua-cultura considerata. Sulla scorta di queste
differenze, Kaplan suggerisce che ogni cultura possiede una determinata struttura del paragrafo
(espositivo nella sua analisi), postulando l’esistenza di modelli culturali di pensiero che influenzano
le modalità espositive anche in una lingua diversa dalla propria. Sebbene i diagrammi di Kaplan
siano stati molto criticati in quanto partono da un’ottica anglocentrica che assume come “normale”
il solo modello inglese, ci paiono utili per riflettere sia sui pericoli di una prospettiva etnocentrica,
sia su quelli di una visione che tende a ipostatizzare le culture. Infatti, interpretando le differenze
retoriche come puramente determinate dalle differenze linguistiche o culturali si rischia di
rinforzare gli stereotipi piuttosto che sensibilizzare alla diversità culturale. E’ dunque lecito
chiedersi se sia la lingua in sé e non piuttosto il sistema educativo – inteso come cultura scolastica –
a decidere che cosa conta come “paragrafo” (espositivo o d’altro genere) e quali devono esserne le
caratteristiche (vedi C. Kramsch, “Language, Thought and Culture”, in A. Davies e C. Elder (a cura
di), The Handbook of Applied Linguistics, Blackwell, Oxford, 2003).
Dal momento che un soggetto scolarizzato nel proprio paese di provenienza ha la naturale tendenza
a trasferire nella L2 le convenzioni retoriche note, può essere utile prevedere una esplicita
riflessione sulle diverse organizzazioni del “testo”. In tal modo l’imposizione implicita di una
visione retorica e il corrispondente sradicamento di possibili interferenze lasceranno spazio al
confronto interculturale e all’arricchimento del repertorio di scelte a disposizione dello studente
straniero. A tale proposito, C. Kramsch (“Stylistic choice and cultural awareness”, in L. Bredella e
W. Delanoy (a cura di), Challenges for Pedagogy: Literary Texts in the Foreign Language
Classroom, Gunter Narr, Tübingen, 1996, pgg. 162-184) suggerisce di usare il riassunto di un
racconto come strumento che permetta agli studenti di riflettere sulle scelte operate nella selezione e
presentazione dei contenuti. Attraverso l’esplicito confronto degli elaborati in classe, gli studenti
hanno così l’occasione di scoprire quanto ognuno di loro ha costruito il senso della propria storia in
base ad esperienze personali, appartenenza etnica, retroterra socioeconomico, atteggiamenti e
credenze.
32
2.6 Conclusioni
Come abbiamo cercato di evidenziare in questo modulo, nell’attuale società plurilingue e
multiculturale una comunicazione interculturale efficace è ormai condizione irrinunciabile per una
relazione consapevole tra le persone e i loro mondi. La maniera migliore di scoprire una “cultura”
nella sua contemporaneità non è semplicemente – come abbiamo notato a più riprese – quella di
considerarla unicamente come entità omogenea e conoscibile: le culture, come le persone, non sono
dei libri aperti, ma delle “opere” perennemente incompiute e talvolta sfuggenti. Poiché le culture,
non più circoscrivibili nei confini delle nazioni, sono diventate movibili e trasportabili (v.
globalizzazione, transmigrazioni, Internet ...), esse sono diventate sempre più strettamente connesse
alla lingua e alle parole che usiamo. E’ forse la lingua, e dunque la comunicazione, ad essere
diventata la “realtà” culturale più preziosa e conoscibile. Se la cultura è dunque il risultato
dell’attività linguistica e comunicativa, l’accento dovrebbe essere posto non tanto sulle culture in sé,
quanto sugli individui che la rendono possibile. Parafrasando Marc Augé (Il senso degli altri.
Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000) si potrebbe infatti affermare che la
migliore etnografia non comporta semplicemente una raccolta di informazioni su temi generali, ma
l’osservazione di pratiche individuali e collettive, la raccolta di discorsi che non sono opinioni o
informazioni sulle società in generale, ma sono quelle su una vita individuale nell’atto stesso di
essere vissuta.
A questo punto, più che chiederci che cosa dobbiamo conoscere degli altri e delle loro culture per
poter comunicare efficacemente, è piuttosto il caso di domandarsi come gli individui utilizzino le
culture o, meglio, tracce di esse – delle proprie o di quelle altrui – al fine di comunicare (M.
Abdallah-Pretceille, “Intercultural Communication: Elements for a Curricular Approach”, in M.
Kelly et al. (a cura di), Third Level, Third Space: Intercultural Communication and Language in
European Higher Education, Bern, Peter Lang SA, Éditions Scientifiques Européennes, 2001, pag.
141).
Questo comporta non solo farsi osservatori attenti della complessità culturale (contenuti), ma essere
soprattutto in grado di attivare competenze discorsive e relazionali utili alla mediazione
interculturale (procedure). In ambito educativo, in particolare, ciò non può realizzarsi soltanto sul
piano delle buone intenzioni o dei buoni sentimenti: è necessario interpretare criticamente valori,
stili di vita e comportamenti propri e altrui; ripensare gli strumenti concettuali e didattici per creare
uno spazio in cui la diversità possa essere vissuta come uno dei tanti punti di vista possibili,
piuttosto che come elemento esotico o come problema da risolvere.
Alla luce dei cambiamenti in atto, i luoghi della formazione sono pertanto chiamati a contribuire
alla creazione di nuovi linguaggi della relazione interculturale, così come un tempo hanno
partecipato alla formazione dell’identità nazionale.
33
2.7 Guida bibliografica e sitografica
Suggeriamo in questa sezione alcuni testi utili all’approfondimento delle tematiche trattate nel
modulo o ad una loro applicazione didattica. Per visualizzarne le descrizioni2
, clicca sulla parte del
titolo che è stata evidenziata.
P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio,
Venezia, 1999.
G. Bolaffi, S. Gindro, T. Tentori (a cura di), Dizionario della diversità. Le parole
dell'immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Liberal Libri, Firenze, 1998.
M. Callari Galli, Antropologia per insegnare. Teorie e pratiche dell’analisi culturale, Bruno
Mondatori, Milano, 2000.
S. Dal Negro, P. Molinelli (a cura di), Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in
Italia oggi, Carocci, Roma, 2002.
A. De Benedetti, F. Gatti, Routine e rituali nella comunicazione, Paravia Scriptorium, Torino, 1999.
P. Diadori, Senza parole. 100 gesti degli Italiani, Bonacci, Roma, 1999.
E. A. A. Garcea, La comunicazione interculturale. Teoria e pratica, Armando Editore Roma, 1996.
Per un ulteriore approfondimento, si veda la guida sitografica ad alcuni dei numerosi siti correlati
alle tematiche del modulo.
2
Se non diversamente specificato, gli abstract dei testi sono quelli predisposti dalle relative case editrici.
34
L’ascolto attivo supera l’atteggiamento autoritario etnocentrico dell’ “io ho ragione, tu hai torto”,
per comprendere che l’interlocutore ha un suo sistema di ragionamento che determina
comportamenti e azioni che sono per lui totalmente razionali, anche se per noi sono completamente
irragionevoli. (M. Sclavi, Etnografia urbana e arte di ascoltare, Milano, Politecnico, 2000.)
Per un ulteriore approfondimento clicca qui.
Torna al paragrafo 2.1
35
Figura 1.: Il modello di Situazione Comunicativa
…… Si Co ……
< tprd, sprd > < trcp, srcp >
ID ID
C1 Prd / Rcp C2
Ve Ve-eff
Ve'-eff
[ X ] Ve c o
Ve-int
Ve' Ve'-int
Spiegazione del modello
<…, B, …> <…, B,
>
Int
Il modello mostra che in un dato tempo (tprd,) e in un dato luogo/sede (sprd), l’emittente/produttore
(Prd), ha un’intenzione dominante (ID) e una configurazione di stati di cose X da comunicare.
Attraverso l’elaborazione nella base (B) (si produce un comunicato (C1), che ha una sua
manifestazione fisica (Ve).
La manifestazione fisica del comunicato può essere considerata nella forma originariamente
prodotta (Ve) o nella forma assunta (Ve’) allorché sia stata trasformata da un interprete/mediatore
(Int).
Attraverso un canale (uditivo, visivo o percettivo) (c), questo comunicato viene interpretato e
trasformato dal ricevente/interprete (Rcp). Sul versante del ricevente, la manifestazione fisica (Ve)
del comunicato di Prd si trasforma con l’aiuto dell’elaborazione nella base (B) in comunicato (C2)
di Rcp . Anche nel settore del ricevente individuiamo una intenzione dominante (ID) e un contesto
di tempo (trcp,) e di luogo/sede (srcp), (che nella comunicazione orale può o meno coincidere con
quello del produttore). Il ricevente può reagire in due modi al vehiculum ricevuto: in modo non-
interpretativo, e in questo caso produce effetti [=Ve-eff e/o Ve'-eff], o in modo interpretativo, e in
tal caso assegna una o più interpretazioni [=Ve-int e/o Ve'-int] al vehiculum dato.
Le attività didattiche che si possono fare in riferimento a questo modello sono innumerevoli. Ogni
etichetta/elemento permette di preparare una serie di esercizi differenziati a seconda del livello degli
studenti-obiettivo. Per esempio, per studenti di un primo livello, per l’etichetta Ve possiamo creare
delle attività che aiutino gli studenti:
(1) ad individuare/analizzare il modo e la forma in cui i comunicati (parole, suoni, gesti, immagini)
si manifestano in diversi contesti culturali;
(2) a comparare/manipolare queste manifestazioni per valutarne l’efficacia comunicativa in
riferimento ai contesti culturali in cui i comunicati si attualizzano.
Torna al paragrafo 2.1.1
36
La Base è un’unità che contiene diversi settori: a) un settore delle conoscenze; b) un settore delle
ipotesi; c) un settore delle preferenze/ motivazioni; d) un settore delle disposizioni psico-fisiche in
atto nel momento della comunicazione.
Torna alla figura 1
37
Un comunicato è quello che il produttore comunica e quello che il ricevente percepisce come
oggetto comunicato
Torna alla figura 1
38
Ve (Vehiculum) : La manifestazione fisica di un testo è l’immagine che si percepisce di un testo
verbale/suono/segno grafico prima che sia analizzata nei suoi componenti.
Torna alla figura 1
39
Le forze locutorie, illocutorie e perlocutorie fanno riferimento alla teoria di J.L.Austin che distingue
nell’atto linguistico tre componenti:
- l’atto locutorio, che riguarda l’enunciazione:
es. Chiudi la finestra!
- l’atto illocutorio, che riguarda l’intenzione di quello che si dice:
es. “Chiudi la finestra” può essere un comando o un suggerimento.
- l’atto perlocutorio, che riguarda l’effetto di quello che si dice:
es. la chiusura della finestra.
Torna al paragrafo 2.1.1
40
La metafora/mito del melting pot, del crogiuolo in cui tutte le razze dovevano fondersi (melting)
secondo il modello dei WASPs (White Anglo-Saxon Protestants), dei protestanti bianchi
anglosassoni, non riguardava i neri e i nativi, ma solo gli immigrati provenienti dall’Europa.
Torna al paragrafo 2.1.3
41
Le diverse accezioni possono essere raggruppate in quattro altri modelli:
1) il modello della cittadinanza multiculturale, che riconosce l’importanza dell’identità etnica e
accetta di integrarla purché non destabilizzi l’ordine sociale;
2) il modello massimalista, che rifiuta l’idea di un nucleo di valori condivisi e reclama completa
autonomia;
3) il modello del culturalismo corporativo, la cui maggiore preoccupazione è l’ordine economico e
che produce delle differenze funzionali per l’internazionalizzazione dei mercati;
4) il modello del multiculturalismo culturale, che sostiene una negoziazione continua tra i diversi
gruppi in vista di uno spazio comune.
Torna al paragrafo 2.1.3
42
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  • 1. Modulo 2 La Comunicazione Interculturale Edith Cognigni e Daniela Mancini1 Università di Macerata 1 Sebbene il modulo sia stato concepito insieme, la stesura dei paragrafi 2.0, 2.1, 2.4 è opera di Daniela Mancini, mentre la stesura dei paragrafi 2.2, 2.3, 2.5, 2.6 è opera di Edith Cognigni. La guida bibliografica nel par. 2.7 è stata curata da Edith Cognigni. Per quanto concerne la guida sitografica, Edith Cognigni ha fornito i link a-i e Daniela Mancini i link j,k. 1
  • 2. Indice: 2.0 Guida al modulo 2.1 Introduzione alla comunicazione interculturale 2.1.1 Aspetti e condizioni della comunicazione 2.1.2 Concetti di cultura 2.1.3 Dal multiculturalismo all’interculturalità 2.1.4 Lingua, contesto e comunicazione interculturale 2.2 La competenza comunicativa interculturale 2.2.1 Decostruire gli stereotipi 2.2.2 Sapere, saper essere, saper comunicare 2.3 Norme e valori sottesi 2.3.1 Il tempo e lo spazio 2.3.2 I rapporti a/simmetrici: status e gerarchia 2.3.3 La religione e le pratiche culturali 2.3.4 I tabù 2.4 La comunicazione non verbale 2.4.1 Cinesica 2.4.1.1 Volto e sguardo 2.4.1.2 Gesti 2.4.1.3 Contatto 2.4.1.4 Postura 2.4.2 Prossemica 2.4.3 Vestiti e oggetti 2.4.4 Odori e rumori 2.5 La comunicazione verbale 2.5.1 Alcune regole conversazionali 2.5.2 La voce 2.5.3 Il silenzio 2.5.4 Registro: formale/informale 2.5.5 Scelte lessicali e alterità nel linguaggio 2.5.6 Retoriche del “testo” 2.6 Conclusioni 2.7 Guida bibliografica e sitografica 2
  • 3. 2.0 Guida al modulo Il modulo sulla comunicazione interculturale cerca di offrire degli spunti di riflessione su alcuni aspetti che sottostanno ai concetti di comunicazione e di interculturalità. Ogni scheda si focalizza su un determinato aspetto, non ha la pretesa di dare delle informazioni sulle caratteristiche delle varie culture quanto di problematizzare e di approfondire concetti che l’uso comune ha banalizzato. Abbiamo distinto tra comunicazione non verbale e verbale per il semplice scopo strumentale, comune tra gli studiosi, di tentare di delimitare il campo d’indagine e di analizzare il fenomeno comunicativo dalle due prospettive. Siamo tuttavia consapevoli che nella pragmatica della comunicazione, e in particolare in quella interculturale che attraversa e supera le culture, gli aspetti non verbali e verbali, gli atteggiamenti psicologici ed emotivi, le aspettative e le presupposizioni costituiscono una rete di fili comunicativi interrelati, interdipendenti e, talvolta, anche inconsci. Gli argomenti trattati sono i seguenti: Introduzione alla comunicazione interculturale La competenza comunicativa interculturale Norme e valori sottesi La comunicazione non verbale La comunicazione verbale 3
  • 4. 2.1 Introduzione alla comunicazione interculturale Comunicare, nell’accezione comune, significa stabilire un contatto con un’altra persona e implica il trasferimento di un messaggio da una persona ad un’altra. È un termine che attraversa tutte le relazioni e che più di ogni altra parola si presta ad abusi e confusione. Qualificato dall’aggettivo interculturale, il termine si connota di ulteriori dimensioni, di immagini di popoli diversi, di rappresentazioni simboliche contrastanti, di modelli di vita a noi estranei. Indagare, allora, il processo comunicativo e le implicazioni della interculturalità diventa, per chi ricerca, il primo passo per poter arrivare ad una reale interazione. Il valore della comunicazione tra le culture (2.1.2) risiede, a nostro parere, nella ricerca creativa di modi e di strategie adeguate per comunicare. Anche se c’è chiarezza relativamente agli aspetti costitutivi della comunicazione (2.1.1), affrontati da più prospettive, questi approcci analitici (semiotici, conversazionali e discorsivi) non risolvono i problemi della comunicazione pragmatica: 1) la differenza di contesto, percepita dai partecipanti al processo della comunicazione; 2) la diversità esperienziale di mondi personali non condivisi, talvolta così diversi dai modi usuali da sembrare non condivisibili. Coloro che vivono da tempo in uno stesso luogo e che sostengono gli stessi sistemi di valori (2.3), possono esprimere a volte reazioni non mediate, stereotipate (2.2.1) e viscerali nei confronti di chi proviene da realtà estranee. Un’educazione alla comunicazione interculturale, nell’accezione più funzionale di trasversalità, può aiutare ad evidenziare gli automatismi culturali, a esplorare le differenze, a sciogliere i nodi dell’incomprensione radicati nelle singole persone, interagendo con la diversità, ripercorrendo il processo della costruzione individuale della conoscenza e relativizzando l’esperienza personale. Nello scambio comunicativo, un ruolo importante è quello degli elementi del mondo fisico- biologico dei partecipanti, che fanno parte della comunicazione non verbale (CNV) (2.4). Sono i movimenti del corpo e i gesti, che inconsciamente anticipano, sottolineano, seguono le parole e che apparentemente riportano la comunicazione al periodo pre-fasico, alle strutture primarie della relazione tra esseri viventi: alla dimensione più genuina, non contaminata da codici linguistici, culturali e sociali. Ma non è così, perché anche i segnali del corpo sottostanno alle codificazioni che i contesti culturali impongono spazialmente e temporalmente (2.3.1). La competenza comunicativa interculturale richiede allora una serie di conoscenze che vanno da quelle più analitico-razionali degli elementi che costituiscono il processo comunicativo, a quelle più olistiche che riguardano l’acquisizione di pratiche dinamiche interattive. Abbiamo bisogno di stabilire una connessione con l’altro, che è una persona prima di essere un membro di una entità culturale, attraverso un genuino ascolto attivo. 4
  • 5. 2.1.1 Aspetti e condizioni della comunicazione Gli aspetti costitutivi della comunicazione, soprattutto in relazione con la teoria dell’informazione, sono stati trattati da molti studiosi, che, in un dialogo “interteorico,” hanno di volta in volta aggiunto qualcosa di nuovo ai risultati raggiunti dai predecessori. Un’importante progenitura può essere attribuita a Lasswell, il cui schema di cinque punti (emittente, contenuto di quello che si dice, canale, ricevente, effetti) ha orientato le successive ricerche. McQuail integra questo schema, che rimanda ad una comunicazione unidirezionale, con le nozioni di feedback, variabili, presupposti, contesto. Le domande alle quali si dovrebbe rispondere per capire l’atto comunicativo dovrebbero quindi essere: “Chi comunica con chi?; Perché si comunica?; Come avviene la comunicazione?; Su quali temi?; Quali sono le conseguenze della comunicazione? Un ulteriore schema riassuntivo è stato elaborato da Hymes che raggruppa gli elementi in otto categorie, riassunte nell’acronimo SPEAKING: Setting (elementi contestuali in senso lato), Partecipants (i partecipanti), Ends (gli obiettivi e gli esiti raggiunti), Art characteristics (le forme e i contenuti), Key (il modo in cui l’atto è compiuto), Instruments (il canale e il codice), Norms (le norme interattive e interpretative), Genres (le categorie degli atti comunicativi). Il quadro dell’atto comunicativo si configura così in modo molto complesso e lo diventa ancora di più, se consideriamo le ricerche che si sono sviluppate nei singoli ambiti. Nella prospettiva della semiotica, il modello della Situazione Comunicativa di Petöfi (in stampa) ci aiuta a descrivere in modo chiaro gli elementi costitutivi che si intrecciano nel processo della comunicazione. In pratica, nelle situazioni di vita quotidiana, la comunicazione tra le persone si colloca in uno specifico contesto e si orienta secondo le forze locutoria, illocutoria e perlocutoria di quello che si comunica. La conoscenza dei fattori della comunicazione non garantisce tuttavia il successo della comunicazione stessa. Le condizioni per il suo successo non possono essere ricercate in schemi astratti, ma negli atteggiamenti di disponibilità al dialogo condivisi dai partecipanti. Nel caso di rapporti interpersonali, e ancor più con membri di culture differenti, è necessario rimuovere alcuni ostacoli: 1) il primo riguarda la carenza di informazioni relativa ai due mondi che vengono in contatto (il mondo dell’immigrato e quello dell’autoctono); 2) il secondo, interfaccia del primo, è la serie di presupposizioni, di cui non si ha consapevolezza, che derivano dalle varie concezioni del mondo e dalle costruzioni simboliche (miti) negli universi mentali degli individui; 3) il terzo può essere rappresentato dallo squilibrio tra le intenzioni comunicative dei partecipanti, uno interessato a risolvere problemi primari, quali trovare un lavoro, una casa e il soddisfacimento di bisogni quotidiani, l’altro più o meno desideroso di stabilire un contatto per varie motivazioni. 5
  • 6. 2.1.2 Concetti di cultura Il titolo sottolinea la difficoltà di definire la nozione di cultura e l’esistenza di varie concettualizzazioni della stessa in ambiti e periodi differenti. Per introdurre il problema facciamo riferimento ai tre ambiti che Raymond Williams (Keywords. A vocabulary of culture and society, Fontana Press, Londra, 1976 [rist. 1988], pag. 90) individua nell’uso della parola “cultura”. Essa è intesa come: 1. termine astratto che descrive il progresso intellettuale, spirituale ed estetico (dal XVIII secolo); 2. termine che indica un particolare modo di vita, sia di un popolo, di un periodo, di un gruppo di persone o dell’umanità in generale (da Herder e Klemm); 3. termine astratto che descrive i prodotti e le pratiche dell’attività intellettuale ed artistica, per cui la cultura comprende la musica, la letteratura, la pittura e la scultura, il teatro e il cinema. Questo è il senso più ampiamente usato oggi, a cui si rapportano le attività del Ministero della Cultura. Il termine possiede una storia complessa e ancora in evoluzione, il che ci induce a pensare che i riferimenti stessi della definizione di “cultura” si rinnovino continuamente. In merito alle culture occidentali o alla nostra cultura si preferiscono solitamente i sensi 1 e 3 (per cui la nostra è una cultura che progredisce, che produce, sia in senso materiale che spirituale), mentre per parlare delle culture dei migranti si utilizza il secondo, riprendendo posizioni etno-/eurocentriche che sono state superate anche dalla stessa antropologia culturale (vedi etnologia come frutto della colonizzazione). Questo concetto di cultura è dunque afflitto dal determinismo e vede la società come un’ipostasi. Il concetto di cultura è stato uno strumento teorico, un oggetto culturale che è servito per studiare il fenomeno, per distanziare l’oggetto di studio dallo studioso, ma che attraverso l’azione di antropologi e sociologi ha inglobato progressivamente elementi della sfera sociale, liberando il concetto dall’impasse descrittivo-tassonomico e dalla corrispondenza quasi automatica di cultura=etnia=razza. Molte sono state le concettualizzazioni antropologiche di cultura (nel 1952, Kroeber e Kluckhohn registrarono circa trecento definizioni), ma, come sottolinea Rivera, non si risolve l’ambiguità del termine (A. Rivera, “Etnia-etnicità” in R. Galissot, M. Kilani, A. Rivera (a cura di), L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari, 2001). Se si sostiene che la cultura costituisce una realtà/entità diversa, con stratificazioni e strutturazioni del senso, tipiche e peculiari, generalizzate, si incorre nel pericolo di enfatizzare la differenza e di creare recinti in cui gli stessi membri si sentono costretti. L’idea che la cultura sia un blocco monolitico, unico, contrasta con la realtà che si arricchisce di nuove forme sociali e culturali e propone comportamenti e atteggiamenti discontinui e variegati. Nella circolazione planetaria delle merci e dei modi di vita, nel pericolo d’uniformazione culturale e di cancellazione delle differenze, si assiste, in questi ultimi tempi nei paesi di immigrazione, alla ricomposizione di culture terze, culture di diaspora, anche se in forma più frammentata e meticcia, che si formano come difesa contro la marginalizzazione. Al concetto di cultura, che divide e che inevitabilmente porta alla frantumazione della società in gruppi di persone in lotta tra di loro, alcuni propongono l’atteggiamento di universalismo critico che sostiene “una visione della storia aperta, in cui la coesistenza e il métissage fra le culture sono la regola” (M. Kilani, “L’ideologia dell’esclusione. Note su alcuni concetti chiave”, in R. Galissot , M. Kilani, A. Rivera (a cura di), op. cit.). 6
  • 7. 2.1.3 Dal multiculturalismo all’interculturalità Il termine multiculturale ha origine statunitense ed è stato usato in tale contesto per sostituire il termine melting pot inefficace ormai a descrivere la società americana. Le rivolte dei ghetti neri, del radicalismo black (Black Panthers), i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, resero possibile la crescita di movimenti di rivendicazione “etnica,” di valorizzazione del pluralismo culturale, che comunque non poneva fine alla gerarchizzazione sociale, all’accesso ineguale alle risorse e al potere, e alle reazioni razziste. Le antiche potenze coloniali europee hanno dovuto accogliere numerosi individui provenienti dalle colonie e, per gestire l’etereogeneità, hanno seguito tre principali modelli: - il modello integrazionista (Svezia, Olanda, Regno Unito) che riconosce alle minoranze il diritto di espressione della propria cultura di origine nella sfera pubblica; - il modello assimilazionista, monoculturale in cui i gruppi minoritari tendono ad inglobarsi nella società d’accoglienza (per esempio, in Francia in cui si riconoscono diritti individuali universali e si favorisce l’assimilazione della popolazione immigrata).; - il modello multiculturale, delle azioni positive (affirmative action), che cerca di superare le due posizioni, presenta delle accezioni diversificate, come ad esempio negli Stati Uniti. La politica multiculturale, di tutela delle identità non è riuscita, comunque, nell’intento di garantire a tutti gli stessi diritti: le minoranze (nera, nativa, messicana, portoricana) continuano a vivere in condizioni di indigenza, ad abitare zone degradate, ad avere un’istruzione scadente e a costituire una buona parte della popolazione carceraria degli Stati Uniti. I primi due modelli presentano risvolti insoddisfacenti. Il primo favorisce la radicalizzazione dei conflitti, la segregazione e la marginalizzazione, il secondo, pur avendo assicurato l’integrazione ad un certo numero di immigrati nel passato, non riesce più a garantire loro l’inserimento sociale e la tutela dei diritti universali. (A. Rivera, “Etnia-etnicità” in R. Galissot, M. Kilani, A. Rivera (a cura di), L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari, 2001). La società multiculturale si trova ad affrontare il problema di conciliare il bene collettivo con quello individuale e deve trovare una via d’uscita tra l’omogeneizzazione di un universalismo astratto e la difesa del particolarismo che oppone gli uni agli altri. È necessario un approccio diverso. L’interculturalismo introduce un concetto più universalistico, definisce i termini dell’incontro, della negoziazione ed è capace di riconoscere le migliaia di assimilazioni che hanno luogo ogni giorno in un discorso che rende possibile lo scambio e la contaminazione e sancisce le identità meticce e l’ibridazione culturale. L’approccio interculturale è una scelta pragmatica in una società multiculturale per superare le barriere e costruire uno spazio di interazione, di reciprocità e di vera solidarietà. 7
  • 8. 2.1.4 Lingua, contesto e comunicazione interculturale La lingua intesa come fonte di identità nazionale, e generalmente fondata sui testi sacri, esprime la speranza messianica in un destino nazionale. Per esempio, l’arabo, non l’arabo come lingua parlata quotidianamente, ma la lingua sacra del Corano e dell’universalità dei credenti, veicola il sentimento di appartenenza alla Nazione araba ed è inteso come il baluardo contro l’alienazione culturale ed economica proveniente dall’esterno e specialmente dall’Occidente. La stessa sacralità della lingua si ritrova nella lingua ebraica, biblica e rinnovata, che Elizer Ben Yehouda scelse come cemento per le popolazioni eterogenee, provenienti da tutte le parti del mondo e invitate a fondersi nello Stato di Israele. Il serbo-croato, la fusione tra la lingua serba e quella croata, fu il puntello per la nascita della Jugoslavia dopo la Prima guerra mondiale. Più recentemente, nel 1983, la Catalogna ha normalizzato l’uso del catalano, in attesa di diventare lingua ufficiale della regione. L’idea della purezza della lingua non è un fenomeno (e un atteggiamento) isolato. Gli ambiti (costruiti ideologicamente) in cui la nozione di purismo può essere applicata, sono molti: la religione, la cultura, la razza, l’etnia; ma l’atteggiamento di fondo, in tutti questi contesti, è generato dal senso di difesa dal nuovo, dall’ansia verso ciò che è estraneo, dal timore della destabilizzazione. Nella situazione italiana, il tentativo “purista”, di difendere la lingua da invasioni di parole straniere, si confronta sia con le costruzioni mediatiche sia con la ricchezza di parole, gesti, profumi e colori che arrivano da tutte le parti del mondo tramite i nuovi “messaggeri” con grande possibilità di dilatazione della lingua italiana. La lingua viva, parlata e vissuta, ha un carattere mercuriale, sfuggente a ogni regola sistematica, aperta al conio di nuove parole, e all’assimilazione di regionalismi e di termini da altre lingue, allorché non è possibile trovare il corrispettivo concettuale e simbolico nella nuova lingua. Le parole che vengono mantenute in originale ci conducono così verso la comprensione di dimensioni nuove e verso un arricchimento sia culturale che linguistico. La lingua smette di essere un luogo di omogeneità, di chiusura e diventa fucina di diversità, di racconti e di esperienze che si incontrano in una reciprocità narrativa interculturale. La possibilità comunicativa richiede allora scelte metodologiche nuove e contesti allargati in cui costruire relazioni. Le istituzioni scolastiche che da tempo hanno attivato corsi di alfabetizzazione per adulti hanno individuato nell’orientamento narrativo un metodo di lavoro, che attraverso la narrazione del sé, delle proprie storie permette una relazione più autentica tra i parlanti. Ma è necessario individuare, creare altri contesti, al di là di quelli scolastici e istituzionali, per stare insieme e comunicare. Contesti più autentici, più naturali, incontri, feste, passeggiate in cui tutti i linguaggi umani, da quello corporeo a quello musicale vengano utilizzati appieno, al fine di rendere sempre più pregnante e ricca l'interazione tra le persone. Se la fondamentale necessità dei nuovi cittadini è quella del soddisfacimento di bisogni primari, quella più essenziale alla comunicazione vera è la possibilità di scambiare i linguaggi e i simboli che sono parte del mondo esperienziale, immaginario e concreto, degli abitanti del mondo. 8
  • 9. 2.2 La competenza comunicativa interculturale Il concetto di competenza comunicativa elaborato in ambito sociolinguistico negli anni Settanta, ha dato vita a vari approcci comunicativi all’insegnamento delle lingue straniere. Basandosi sulla tradizionale distinzione tra parlante nativo e parlante non nativo, tali approcci hanno cercato in varia misura di definire quali abilità fossero necessarie per interagire in modo efficace con un madrelingua. In anni più recenti, tuttavia, l’indiscussa nozione di parlante nativo di trenta anni fa è diventata molto più instabile e complessa. In un’epoca in cui le migrazioni internazionali e i contatti transnazionali e transculturali rappresentano la norma, in cui le classi scolastiche sono eterogenee per provenienza geografica, background culturale e linguistico, è bene chiedersi se il modello monolinguistico (e monoculturale) del parlante nativo abbia ancora ragione di esistere come asse di riferimento, e non solo nell’insegnamento linguistico. Se da un lato è vero che l’immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente rispetto ad altre parti del mondo (es. gli USA o la Francia), è pur ragionevole affermare che il paradigma “una lingua, un popolo, una nazione” era già inadeguato per la realtà scolastica italiana di pochi decenni fa, quando l’italiano era quasi una lingua straniera per molti bambini provenienti da aree fortemente dialettofone. Molti studiosi (per una rassegna vedi C. Kramsch, “The privilege of the intercultural speaker”, in M. Byram e M. Fleming (a cura di), Language Learning in Intercultural Perspective, CUP, Cambridge, 1998, pgg. 16-31) hanno proposto di sostituire la nozione di parlante nativo con quella di “parlante interculturale”, questione non puramente terminologica se si pensa che ognuno di noi possiede molte identità sociali, “culture” e “lingue” (lingue straniere, dialetti, varietà regionali, lingue-culture di gruppo, ecc.). Chi è allora il parlante nativo? Poiché nell’atto di comunicare ogni partecipante veicola uno specifico repertorio di identità, posizioni e aspettative formate attraverso relazioni complesse con la propria cultura o con culture altre, ogni comunicazione può dirsi intrinsecamente interculturale. Il parlante interculturale dovrebbe quindi essere cosciente delle numerose identità presenti nell’interazione ed essere in grado di mediare, di stabilire cioè delle relazioni tra la propria cultura e quella degli altri sulla base di una competenza comunicativa interculturale. Essere sensibili alla natura interculturale di ogni comunicazione significa, in primo luogo, combattere atteggiamenti resistenti alla diversità e alla differenza, decostruendo gli stereotipi (2.2.1) e accettando una nozione più ampia di identità personale. Divenire parlanti in grado di mediare culturalmente e linguisticamente vuol dire inoltre acquisire conoscenze e abilità che permettano di interagire in modo critico e creativo con parlanti, nativi o meno, di una data lingua (2.2.2). 9
  • 10. 2.2.1 Decostruire gli stereotipi Come ci fa notare la psicologia, lo stereotipo rappresenta una categoria cognitiva necessaria alla semplificazione della realtà e rispondente al bisogno di nutrire delle aspettative circa le persone e lo sviluppo degli eventi (per approfondire vedi B. M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino, 1997). In quanto cliché che cristallizza l’altro in immagini fisse, docili al controllo e alla manipolazione, lo stereotipo aiuta a filtrare la realtà circostante e a relazionarsi con l’incerto e l’inatteso. La presa di coscienza di questa “economia della mente” e l’osservazione critica dei fenomeni costituiscono il primo passo da affrontare per poter giungere all’eventuale messa in discussione di rappresentazioni preconfezionate, basate spesso più sul senso comune che sull’esperienza diretta. Una comunicazione interculturale efficace non avrebbe modo di realizzarsi se non si operasse nel senso di un decentramento cognitivo che ci consenta di rimettere in discussione la nostra soggettività e il nostro sistema di valori (per una proposta applicativa clicca qui). Tuttavia ci chiediamo se decostruire o smascherare lo stereotipo (capirne le ragioni storiche e culturali che ne sono alla base e prendere coscienza del fatto che si tratti di un processo “naturale”) sia sufficiente per liberarsi da certi automatismi cognitivi. Non si rischia forse, per paura di divenire noi stessi preda di questo male diffuso, di sostituire semplificazioni costrittive (“tutti gli islamici sono fanatici”) con altre semplificazioni (“il fanatismo islamico non esiste”)? La vera sfida, per l’insegnante come per il parlante interculturale, sarà allora quella di essere in grado di costruire, all’interno della relazione con l’altro, “rappresentazioni intersoggettive negoziabili” (M. De Carlo, L’interculturel, CLE International, Paris, 1998, pag. 87) nelle quali ci si possa riconoscere vicendevolmente. Il dialogo tra identità e alterità deve quindi potersi realizzare nei due sensi, anche se può spesso essere difficile sopportare lo spettacolo della nostra immagine riflessa nello specchio che ci porgono gli altri. In relazione di continuità rispetto a percorsi già tracciati, l’ipotesi di riflessione ulteriore che qui proponiamo è che lo stereotipo sia, oltre che immagine dell’alterità, un elemento costitutivo dell’identità di ciascuno (M. De Carlo, op. cit., pag. 88). Se infatti per identità personale intendiamo l’idea che ognuno si fa di sé, esiste un legame stretto tra noi e gli altri: la nostra identità dipende al contempo da come noi ci vediamo e da come gli altri ci vedono. Il concetto stesso di identità non avrebbe infatti modo di esistere al di fuori di una dialettica con l’altro, sia esso il simile o il diverso. Viviamo dunque il paradosso secondo il quale per affermare il nostro “io” si deve riconoscere la presenza del “non-io”, al contempo condizione necessaria e minaccia alla nostra esistenza. La presa di coscienza di questa intrinseca natura dialogica di ogni soggetto è, a nostro parere, antecedente ad ogni discorso interculturalmente fondato. 10
  • 11. 2.2.2 Sapere, saper essere, saper comunicare Il modello di competenza comunicativa interculturale di M. Byram (Teaching and Assessing Intercultural Communicative Competence, Multilingual Matters, Clevedon, 1997, pgg. 58-63) suggerisce che, per realizzare una interazione interculturale riuscita, sia necessario tenere in considerazione le seguenti dimensioni: - Atteggiamenti (savoir être): curiosità ed apertura, disponibilità ad abbandonare atteggiamenti etnocentrici. - Conoscenze (savoirs): circa i gruppi sociali e le loro culture, presenti nel proprio paese e in quello dell’interlocutore; circa i processi generali di interazione sociale e individuale. - Abilità di interpretare e di mettere in relazione (savoir apprendre): abilità di interpretare un documento o un evento di un’altra cultura, di spiegarlo e di metterlo in relazione con documenti ed eventi della propria. - Abilità di scoperta e di interazione (savoir faire): abilità di acquisire nuove conoscenze circa una cultura e le sue pratiche culturali; abilità di gestire le tre dimensioni precedenti nella comunicazione e nell’interazione in tempo reale. - Consapevolezza culturale critica (savoir s’engager): abilità di valutare criticamente, e sulla base di criteri espliciti, punti di vista e pratiche della propria e dell’altrui cultura. In particolare, il saper essere di un parlante interculturale consiste nell’abilità affettiva di superare il malessere derivante dal confronto (incontro, ma talvolta scontro) di due sistemi culturali e, quindi, di due punti di vista non sempre convergenti. Esso implica la capacità di distanziarsi dal proprio sistema di valori, in modo che la percezione della diversità non sia falsificata da un punto di vista esclusivamente monoculturale. Ogni comunità linguistica possiede inoltre dei saperi (impliciti o espliciti) più o meno condivisi e giudicati evidenti dai suoi membri. E’ pertanto importante conoscere, ad esempio, come ci si saluta o si ringrazia in una lingua-cultura diversa dalla propria (2.5.1), ma è altrettanto importante essere coscienti di quei saperi, inevitabilmente impliciti, che sottendono le differenti maniere di comunicare, ovvero di quelle norme e valori di cui tratteremo più avanti (2.3). Nella realtà scolastica italiana la promozione degli aspetti sopra indicati non dovrebbe essere appannaggio dei soli docenti di lingua, materna o straniera che sia, ma responsabilità di ogni singolo attore scolastico coinvolto nel processo educativo. In tale ottica l’incontro con la diversità si traduce non tanto in una immersione tout-court del parlante non nativo nel sistema linguistico e valoriale del paese d’immigrazione o nella sua folklorizzazione, ma nella creazione di uno “spazio terzo” costruito dallo sforzo congiunto di insegnanti, allievi italiani e allievi stranieri. 11
  • 12. 2.3 Norme e valori sottesi Sin dalla prima infanzia, attraverso il processo di socializzazione in un determinato contesto socioculturale, l’individuo acquisisce norme, valori e modelli comportamentali caratteristici di una comunità culturale. Poiché appresi e non innati, questi modelli sono dunque suscettibili di giudizio, ma valutarli unicamente attraverso le lenti della propria cultura non può che produrne un’immagine distorta che si cristallizza facilmente in stereotipi e pregiudizi. La realtà osservabile dei comportamenti e delle pratiche culturali (lingua, rituali, abitudini alimentari, abbigliamento, ecc.) andrebbe interpretata anche alla luce delle norme e dei valori ad essi sottesi. Essi non vanno però letti come condizioni ineluttabili che generano dei comportamenti, ma piuttosto come dei condizionamenti che permettono ad un individuo di riconoscersi in una determinata comunità culturale, fornendogli al contempo un quadro di riferimento per l’elaborazione di orientamenti soggettivi. Le norme si sviluppano sia a livello formale, in forma di leggi codificate, sia a livello informale, come strumenti di controllo sociale. Come suggerisce F. Trompenaars (Riding the Waves of Culture, The Economist Books, Londra, 1993), esse possono essere considerate come il senso comune che una comunità culturale possiede circa ciò che è “giusto” o “sbagliato”. Rientrano in questo ambito aspetti come i diritti e i doveri, le tradizioni, le relazioni interpersonali e familiari, le gerarchie, le aree tabuizzate, ecc. I valori, che influenzano atteggiamenti, criteri di giudizio e di scelta, sostanziano la definizione di ciò che è ritenuto “buono” o “cattivo” e possono essere visti come ideali positivi che generano un desiderio. Rientrano in questo ambito le credenze religiose, i concetti di solidarietà e di libertà individuale, la concezione del tempo e dello spazio, il rapporto con la natura, ecc. Nei paragrafi a seguire analizzeremo alcuni di questi aspetti, scelti tra quelli ritenuti più idonei ad una riflessione critica in ambito formativo e necessari per un decentramento dal proprio sistema di valori. In particolare: - tempo e spazio; - status e gerarchia; - religione e pratiche culturali; - tabù 12
  • 13. 2.3.1 Il tempo e lo spazio Il rapporto con le categorie di tempo e di spazio è multiforme e varia a seconda delle diverse comunità culturali. Abituati alla rappresentazione del tempo proposta dalla storia tradizionale - una successione lineare e cronologica di avvenimenti - si dimentica spesso che il tempo, a seconda delle comunità culturali, ha un’infinità di modi d’uso. Il tempo può infatti essere percepito come lineare o circolare, per dirla con il noto storico delle religioni M. Eliade, ma anche senza contrapporre pensiero occidentale e pensiero delle civiltà orali, è ugualmente possibile rendersi conto di quanto e come la percezione del tempo sia diversificata nelle culture contemporanee. Si pensi, ad esempio, al diverso valore che può avere la puntualità per un nord-europeo o per un latino. Secondo la cultura, ma anche il genere dell’incontro e il rapporto con la persona che facciamo attendere, il nostro ritardo può essere interpretato come un insulto, un segno di irresponsabilità, o addirittura come un gesto appropriato. Il tempo come risorsa da organizzare e monetizzare, il tempo libero dei passatempi e del consumo, o il tempo della formazione, strutturato e programmato in funzione di obiettivi futuri e progetti da realizzare, saranno ugualmente concetti cangianti alla luce della variazione culturale. E’ plausibile quindi, come sostiene E. T. Hall, che una concezione diversa dello scorrere del tempo influenzi i comportamenti soggettivi, le relazioni interetniche e la comunicazione verbale (2.5) tra persone di culture diverse. Lo spazio, come il tempo, non può essere l’oggetto di una lettura univoca poiché la sua interpretazione s’iscrive in una molteplicità di visioni del mondo. Ogni comunità demarca il proprio spazio trasformandolo in “luoghi”, mutando cioè lo spazio geografico in spazio socioculturale. Se dunque il concetto di spazio è influenzato, più che determinato, dagli schemi che interiorizziamo attraverso uno o più specifici contesti culturali, i concetti di distanza interpersonale (2.4.2), di uso e rispetto dello spazio pubblico e di quello privato (es. la “casa” e i suoi rituali di accesso) o di ciò che è considerato vicino/lontano, grande/piccolo ecc. non saranno universalmente validi. Anche la scuola, in quanto spazio organizzato, può essere intesa come espressione di una particolare visione del mondo: la disposizione di banchi e cattedra nell’aula italiana tradizionale trasmette una specifica cultura scolastica, retaggio di una mentalità educativa in cui gerarchia e disciplina erano valori ancora molto forti. Riflettere su gestioni differenti dello spazio scolastico e delle strutture mobili dell’aula, magari sperimentando in classe quelle di paesi lontani, potrebbe permettere ad insegnante ed allievi di percepire e vivere lo spazio non come semplice aggregato di tratti fisici, ma per la sua dimensione di territorio simbolicamente e culturalmente delimitato (per una proposta applicativa clicca qui). 13
  • 14. 2.3.2 I rapporti a/simmetrici: status e gerarchia Stratificazioni e differenze sociali esistono in tutte le società, per cui in una stessa cultura la comunicazione interpersonale è spesso caratterizzata da relazioni asimmetriche legate ad una diversa distribuzione del potere. Varia tuttavia da cultura a cultura il modo di percepire, tollerare e rendere esplicita la distanza gerarchica che ne deriva, sia attraverso la scelta di determinati registri verbali (2.5.4) che nell’uso di vestiti e oggetti (2.4.3) come simboli di status. Nelle culture in cui il concetto di gerarchia è molto forte, come quelle africane o asiatiche, la consapevolezza circa il proprio ruolo nella società e nella famiglia informa di sé l’intera sfera delle relazioni interpersonali. Pertanto, anche nell’incontro con un individuo di cultura diversa si avrà la tendenza ad esplicitare sin da subito la propria posizione sociale ed economica, cosa che può creare imbarazzo o irritazione se l’interlocutore percepisce status e gerarchia in maniera differente. Infatti, nelle culture in cui la distanza gerarchica è debole (es. quella nord-americana o nord-europea), in quanto uguaglianza e rispetto del singolo sono ritenuti prioritari, l’ostentazione di simboli di prestigio o di privilegi tramite titoli e appellativi è di solito mal tollerata. La questione diventa particolarmente delicata in ambito formativo, in cui l’interazione tra insegnante e studenti o tra insegnante e genitori ingenera l’incontro di tradizioni educative e percezioni gerarchiche reciproche spesso molto diverse (vedi anche 4.5. Stili partecipativi e culture diverse). Il concetto di gerarchia si fonda su quello di status che, nelle varie culture, può essere attribuito o ottenuto a seconda di nascita, età, sesso, livello di istruzione, appartenenza familiare, occupazione, potere economico, ruolo sociale, ecc. In molti paesi africani e asiatici, ad esempio, l’età è simbolo di saggezza e di alto prestigio sociale, pertanto i rapporti familiari e sociali sono regolati da precise scelte linguistiche oltre che da norme comportamentali: in cinese, ad esempio, non si può fare riferimento ad uno zio paterno senza indicare contemporaneamente se è un fratello maggiore o minore del padre. In quanto all’attribuzione di status legato alle differenze di genere, il contesto religioso ha certamente il suo peso: nei paesi arabo-musulmani, ad esempio, alla donna viene attribuito lo status particolare di credente, sposa e madre per sottolinearne il ruolo di portatrice di valori religiosi e preservatrice delle tradizioni, escludendola però spesso dalla vita pubblica di pertinenza dell’uomo. Ad un’attenta analisi del Corano si scopre tuttavia che non tutto è attribuibile a questioni puramente religiose, ma che la concezione della donna nel mondo arabo-islamico è anche il frutto di un lungo processo storico in cui la religione si è fatta codice espressivo di rapporti di forza prevalenti (per approfondire clicca qui). 14
  • 15. 2.3.3 La religione e le pratiche culturali Interrogarsi sulle norme e sui valori di altre comunità culturali significa anche riflettere sul ruolo che la religione riveste nella definizione sia di comportamenti rituali socialmente condivisi che di scelte e posizioni soggettive. La sua funzione di conservazione della sfera simbolica rende la religione un meccanismo coagulante di appartenenza ad un’identità collettiva: chiese e moschee sono luoghi della condivisione e dell’incontro e, quindi, di appartenenza ad un gruppo, oltre che emblemi di una professione di fede. Parallelamente, i testi sacri (Bibbia, Corano, Talmud, ecc.) costituiscono referenti importanti per orientare vissuti individuali e collettivi, anche oltre le frontiere nazionali. Come è noto, può esistere un generale consenso tra popolazioni musulmane maghrebine, pachistane o senegalesi su come alimentarsi, abbigliarsi, educare i propri figli ecc. Tuttavia, vale la pena sottolineare che le religioni sono anche dei referenti instabili e provvisori che, come le stesse “culture”, sono soggetti al mutamento. Esse vanno pertanto lette alla luce dei diverse contesti storico-culturali in cui si sono formate, dei percorsi biografici e degli universi socioculturali dei migranti che le rappresentano ai nostri occhi, dell’ibridazione che subiscono nell’incontro con la società italiana. Si scopre così che anche tra popolazioni con una religione “totalizzante” come l’Islam esistono persone alle quali la religione interessa poco o per niente, come succede spesso in Italia o nel resto dell’Occidente; che esistono tante e tali sfumature all’interno del “mondo musulmano” per cui non ci si deve sorprendere se un pachistano accetta un bicchiere di vino o se una tunisina non indossa il chador. Questo ci porta a concludere che, nell’incontro interculturale, è necessario operare con cautela prima di considerare - solo per fare un esempio tra i più diffusi - l’Islam come blocco indifferenziato e di ascrivere a prescrizioni coraniche comportamenti visibili (dal modo di abbigliarsi alla relazione tra i sessi) che spesso dipendono da specifiche pratiche culturali locali. Non considerare queste diversità, inerenti al singolo migrante o alla comunità culturale da cui proviene, può comportare il rischio che certi simboli identitari (chador, turbante sikh, ecc.) siano stigmatizzati come catalizzatori di differenze interreligiose irrimediabili e, dunque, dell’impossibilità di trovare punti in comune su cui fondare una comunicazione efficace. Come rilevato da alcune ricerche sociologiche, sono talvolta gli stessi migranti a rivendicare determinati simboli come tratti peculiari della propria religione: il loro recupero in terra di migrazione si arricchisce di nuovo senso e diventa un modo per enfatizzare un’appartenenza identitaria che si sente minacciata (per approfondire clicca qui). 15
  • 16. 2.3.4 I tabù Derivante dal polinesiano ‘ta-pu’ - nel quale indicava il sacro e, quindi, l’inibito - nelle società moderne il termine tabù indica ciò che è proibito per tradizione morale e sociale, il quale può essere o meno interdetto dalla giurisdizione formale. Sebbene esistano tabù comuni a gran parte delle culture (relativi, ad esempio, a sessualità, morte, malattia, funzioni e umori corporali, ecc.), ve ne sono molti che variano considerevolmente da cultura a cultura, come ad esempio i tabù legati all’uso dei gesti, del vestiario o del cibo, ma anche ad aspetti apparentemente superficiali come animali, numeri e colori. Trattandosi di costruzioni sociali, i canoni che determinano il grado di inaccettabilità di un tabù sono legati allo specifico contesto socioculturale e storico in cui sono stati creati. Si pensi a quanto poteva essere tabù la nudità nella nostra società di qualche decennio fa e a quanto lo è oggi o all’insorgere di tabù “moderni” come quelli legati alla sfera delle cure psicologiche o della pedofilia. Dal punto di vista più strettamente verbale, i tabù possono riguardare: - parole o nomi, come il divieto di nominare il nome di Dio nella religione ebraica o all’uso, diffuso in più lingue, di eufemismi, metafore e vocaboli specialistici per dissimulare il concetto tabuizzato (es. “trapasso/decesso” per morte, “bisogni fisiologici/deiezioni” per escrementi, “persona della terza età/anziano” per vecchio, ecc.); - argomenti di conversazione: parlare del proprio reddito è per noi italiani alquanto innaturale, mentre se ne discute con più disinvoltura in America, in Oriente o in molti paesi emergenti in cui l’esibizione del denaro è accettata e ricercata (P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999, pag. 67); informarsi circa l’età, lo stato civile, il credo religioso o politico dell’interlocutore al primo contatto è spesso considerato indiscreto nelle culture occidentali, mentre in Cina e in altre culture asiatiche è un modo per stabilire un rapporto di fiducia con l’altro. In quanto specifici di una determinata cultura e non sempre codificati, i tabù rappresentano dunque un aspetto delicato nell’interazione interculturale. La loro inconscia violazione da parte di uno dei partecipanti e il blocco comunicativo che ne può derivare sono spesso l’unico modo per diventarne consapevoli. Nella classe multietnica, sarebbe pertanto indicato avviare un “discorso sul tabù” (H. Schröder “Recherche interculturelle sur le tabou - un défi aux sciences culturelles”, in Etudes culturelles internationales, Section VII, INST, 1999) al fine di sensibilizzare gli studenti circa gli argomenti, gli oggetti e le azioni tabuizzate nelle varie culture presenti in classe, nel rispetto dei reciproci contesti culturali e comunicativi. A tal fine sarà utile facilitare l’apprendimento di un vocabolario adeguato (eufemismi, metafore, circonlocuzioni, ecc.), di strategie verbali e non verbali, di strategie metacomunicative di riparazione atte alla gestione dei domini tabuizzati. 16
  • 17. 2.4 La comunicazione non verbale Se nella discussione sugli aspetti costitutivi della comunicazione (2.1.1), il focus dell’analisi è costituito dalla parte verbale e dall’atteggiamento psicologico alla comunicazione, dobbiamo ora considerare altri elementi che hanno la possibilità di influenzare o ostacolare l’atto comunicativo: gli elementi della comunicazione non verbale, la cui analisi può esserci di aiuto soprattutto nell’iterazione tra esperienze culturali diverse. Questi segni, che condividiamo con i membri del mondo animale, ci riportano a periodi antichi. Se il linguaggio si è sviluppato più di cinquantamila anni fa e la scrittura solo da seimila anni, i gesti della comunicazione sono molto più stratificati e raggiungono i livelli della pre-umanità. Molti significati sono stati analizzati: le espressioni facciali, lo sguardo, (2.4.1.1) i gesti e i movimenti del corpo (2.4.1.2), il contatto fisico (2.4.1.3), la postura (2.4.1.4), il comportamento spaziale (2.4.2), l’abbigliamento (2.4.3), l’odore, le vocalizzazioni non verbali (2.4.1.4). Quello che dobbiamo considerare, tuttavia, è la possibilità di incomprensione che insorge quando persone di culture differenti si incontrano. Gesti che nel nostro paese sono di cortesia, possono comunicare ostilità o offesa in altri e viceversa. Per una effettiva ed efficace comunicazione interculturale bisogna allora sviluppare, partendo dall’autocoscienza di quelli propri, un’attenzione critica, un’osservazione attenta ai segni, anche quelli apparentemente insignificanti, dei comportamenti della socialità. Non che tutti dobbiamo diventare degli antropologi/etnologi, ma alcuni strumenti di queste discipline, quali griglie di osservazione, video registrazioni, possono rivelarsi preziosi anche per il nostro lavoro. Ci sono, comunque, delle considerazioni da fare: la prima sulla genuinità dei comportamenti. Gli elementi che fanno parte di un modello culturale sono il risultato di mediazioni e di adattamenti che i singoli individui sperimentano e che mettono in atto come strategie di compensazione in situazioni di disparità, per cui trovare comportamenti autentici è quindi difficilissimo; la seconda sulla rilevanza della disponibilità al dialogo nei rapporti interpersonali. Dobbiamo certamente conoscere i vari segni con cui una particolare “cultura” esprime la sua esperienza del mondo, ma è necessario sempre tener presente che nei rapporti interculturali siamo di fronte a delle persone, che come tali reagiscono in modo individuale, saltano gli steccati delle regole e delle tradizioni, si adattano alle nuove situazioni. La conoscenza del loro background, sociale e culturale, è certamente importante, ma la mancanza di comunicazione non dipende dalle incomprensioni riguardo ad un gesto o ad un comportamento, quanto dalla mancata disponibilità a tenere aperta la comunicazione, se qualche incomprensione dovesse sorgere. Poiché è impensabile offrire una panoramica esauriente delle varietà dei segni, in ogni scheda successiva verranno riportati solo alcuni esempi illustrativi. 17
  • 18. 2.4.1 Cinesica Si intende per cinesica l’insieme dei gesti, o delle sequenze di gesti, significativi che realizzano funzioni di interazione nelle situazioni comunicative interpersonali. Questi segni riguardano il volto e sguardo (2.4.1.1), i gesti (2.4.1.2), il contatto (2.4.1.3) e la postura (2.4.1.4). La manifestazione fisica di una persona segnala dei significati, la cui decodificazione permette una comprensione maggiore di quello che sta avvenendo in un atto comunicativo. Che cosa si comunica con il corpo? - emozioni, soprattutto attraverso il viso, il corpo e la voce; - atteggiamenti di relazione, attraverso cenni che segnalano la volontà di interagire, come il contatto, lo sguardo e l’espressione del volto; - desiderio di mantenere aperto il canale comunicativo, con cenni del capo, sguardi e elementi prosodici sincronizzati con le parole; - l’immagine che si ha di sé, attraverso il vestiario e l’aspetto esteriore; - rituali sociali, ovvero i segnali non verbali che giocano un ruolo preminente nei saluti e in altre azioni rituali. Questo tipo di comunicazione rivela l’affettività delle persone coinvolte nell’interazione secondo gradi differenti di automatismo o di consapevolezza. Infatti fino a che punto certe manifestazioni sono consapevoli, dettate da interesse e da convinzioni, o inconsapevoli, dovute a spinte automatiche inscritte nella tradizione genetica dei gruppi culturali? Argyle (M. Argyle, Bodily Communication, Methuen, Londra, 1975; trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna, 1975, p.5) schematizza gli atteggiamenti di consapevolezza o di inconsapevolezza nel modo seguente: emittente ricevente 1 consapevole consapevole comunicazione verbale, alcuni gesti, per esempio indicare 2 prevalentemente inconsapevole prevalentemente consapevole gran parte della comunicazione non verbale 3 inconsapevole inconsapevole, eppure ha un effetto dilatazione delle pupille, cambiamenti di sguardo ed altri piccoli segnali non verbali 4 consapevole inconsapevole l’emittente è educato all’uso, per esempio del comportamento spaziale 5 inconsapevole consapevole il ricevente è addestrato all’interpretazione per esempio delle posizioni del corpo Quello che a noi interessa sono i punti in cui si evidenzia il divario di consapevolezza tra l’emittente e il ricevente che sottolinea la disomogeneità della comunicazione e il rischio di fraintendimenti. Nella comunicazione verbale questo rischio è molto basso in quanto esiste consapevolezza da entrambi i lati, ma nelle restanti situazioni, che riguardano la comunicazione non verbale, è necessaria un’educazione alle differenze che inconsapevolmente ostacolano il rapporto con gli altri. Ciò è di grandissima importanza nel contesto multiculturale in cui il grado di condivisione dei segni e il numero dei segni stessi possono variare enormemente. Di conseguenza è importante riflettere, pur con le dovute considerazioni, sulle varianti che caratterizzano i vari modi in cui si manifestato le diversità culturali. 18
  • 19. 2.4.1.1 Volto e sguardo Il volto è la principale area della comunicazione non verbale sia umana che animale. Quando si comunica si ha bisogno di vedere in faccia il nostro interlocutore. L'espressione del volto è una macro categoria che include la posizione degli occhi, del naso, della bocca, delle sopracciglia, dei muscoli facciali, della sudorazione frontale e muta col mutare della loro posizione. Tali mutamenti sono segnali che comunicano atteggiamenti ed emozioni e di solito accadono, in entrambi gli interlocutori, in stretta combinazione con il linguaggio verbale. In questo caso sono elementi ridondanti di comunicazione. Gli antropologi sono tutti concordi nell’ammettere che i movimenti dei muscoli facciali, tipici per ciascuno stato emozionale primario, sono movimenti innati, cioè non appresi, trasmissibili per via ereditaria. Si possono individuare sette emozioni primarie: felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera, disgusto, interesse. Sono espresse in tutte le culture nello stesso modo? Gli esperimenti condotti da Ekman e collaboratori hanno dimostrato che la felicità, la tristezza e la collera sono espresse per la maggior parte allo stesso modo. Alcuni gesti illustrativi: Mostrare la lingua: un gesto che si ritrova nei primati, nei bambini, ma anche negli adulti di varie culture esprime differenti significati: in Australia significa “Non mi infastidire ora”, in Tibet e nella Cina meridionale si usa per dire “Non intendevo ciò” (D. Morris , Bodytalk. A world guide to gestures, Cape, Londra, 1994). In genere significa incredulità o incertezza. Se accompagna le parole “sì, sono d’accordo” contraddice l’affermazione o segnala un’incertezza. Il movimento delle sopracciglia: se sono abbassate significa contentezza in Kenya, ma irritazione in Cina; se sono sollevate indica infelicità in Tailandia; gli Afroamericani manifestano irritazione stropicciandole. Anche lo sguardo svolge un ruolo molto importante nel comunicare atteggiamenti interpersonali e per instaurare relazioni di diverso tipo. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza che esiste una correlazione fra tratti della personalità e l'uso di questo segnale non verbale: le persone estroverse ne fanno un uso maggiore in frequenza e durata; gli introversi guardano invece molto poco e quasi mai direttamente. Sguardi più lunghi sono quasi sempre indice di un interesse vivace per l'altra persona, in senso affiliativo, sessuale, aggressivo e competitivo. In Giappone, in cui vige una norma comportamentale che vieta di mostrare emozioni (2.5.3) il contatto visivo è intenzionalmente evitato. Nelle conferenze gli ascoltatori giapponesi guardano il collo del relatore per evitare di guardarne gli occhi, mentre nel mondo occidentale è norma di buona educazione l’opposto. Altri studi confermano un’intensa interazione visiva in differenti culture. Per esempio, nelle popolazioni mediterranee, sudamericane e arabe, lo sguardo reciproco è molto importante e non guardare in modo abbastanza diretto è considerata maleducazione. 19
  • 20. 2.4.1.2 Gesti La gestualità, l’insieme dei gesti che utilizziamo per sottolineare il discorso o per esprimere emozioni e sentimenti lontano dalla parola, è l’elemento che più di altri assume forme differenti a seconda delle culture, anche se ci sono posizioni universaliste, che sostengono l’universalità di alcuni gesti. Mentre il segno verbale è artificiale e costruito, il gesto è automatico, naturale, autoreferenziale e metonimico. I gesti che hanno un alto grado di condivisibilità sono stati elencati da Argyle (M. Argyle, Bodily Communication, Methuen, Londra, 1975; trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna,1975) e si basano sugli studi di Creider relativi a quattro culture dell’Africa orientale, e di Saitz e Cervenka (R Saitz., E. J. Cervenka., Handbook of Gestures: Colombia and the United States, in T.A.Seabock (a cura di), Approaches to Semiotics, The Hague, Mouton,1972), che hanno comparato Stati Uniti e Colombia. Il 65% dei gesti riscontrati in Nordamerica e il 75% di quelli individuati in Sudamerica sono comuni anche nei quattro paesi africani. I più condivisi sono i seguenti: - additare, far segno di fermarsi, stringersi nelle spalla, colpetto sulla spalla, cenno con la testa, pollice verso, battere le mani, profilo del corpo femminile, cenno di richiamo, inclinare il capo poggiandolo sul palmo della mano piatto (sonno), salutare con la mano, indicare l’altezza di un bambino tenendo la mano orizzontale. Alcuni gesti risalgono ad una causa biologica, ma molti sono legati a situazioni culturali. Il gesto di incrociare le braccia può essere una protezione psicologica in momenti di nervosismo e ricorda il gesto di difesa contro antichi pericoli. Analogamente i gesti di reazione sono movimenti di fuga per evitare un pericolo, come ad esempio flettere il collo e proteggere la testa. Sono gesti che rintracciamo e condividiamo con gli animali. Nei mammiferi la risposta difensiva più primitiva è quella di allontanare la testa e il collo dal pericolo. I gesti che esprimono la felicità sono condivisi dalla maggior parte dell’umanità anche se con differenze di grado. Prendiamo l’esempio di una vittoria di calcio. Tutti i giocatori, da qualunque cultura provengano, esprimono la loro gioia saltando, alzando le braccia, slanciandosi verso l’alto in una direzione verticale. Metaforizzando la realtà possiamo parafrasare Lakoff e dire che FELICE è SU (G. Lakoff ,L. Johnson, Metaphors We Live By, Chicago University Press, Chicago,1980). Nel nostro contesto, con la forza dei mezzi massmediali, alcuni gesti nuovi possono essere introdotti nel bagaglio gestuale di tutti (si pensi al gesto ormai universale di batti un cinque). Il movimento verticale, “su e giù,” della testa è usato per assentire, per mostrare approvazione e comprensione in quasi in tutto il mondo, nello Sri Lanka significa il contrario. Altri considerano lo stesso movimento del capo una forma di sottomissione, un inchino in miniatura (D. Morris, Bodytalk. A world guide to gestures, Cape, Londra, 1994). 20
  • 21. 2.4.1.3 Contatto Per contatto intendiamo il contatto fisico che costituisce la forma più ancestrale di azione sociale. Si riferisce alle numerose parti del corpo e si realizza in forme diverse: dai contatti di aggressività, quali morsi, spinte, urti, ai segnali di amicizia che generalmente esprimono l'intenzione e il desiderio di instaurare un legame di tipo sessuale o amicale, o l'intenzione pacifica di interessamento e di sottomissione. Alcuni studiosi sostengono che il contatto fisico derivi dal bisogno infantile di cercare protezione e sicurezza presso la madre in situazioni che provocano nel soggetto paura o angoscia: in questi casi, infatti il contatto con la madre ha carattere rassicurante. In quasi tutte le culture il contatto fisico è molto utilizzato all'interno del nucleo familiare, fra moglie e marito, fra genitori e figli. In questo caso, però, esistono delle rigide restrizioni che stabiliscono quali parti del corpo possono essere toccate e da parte di chi può essere effettuato questo tipo di contatto. Sono state individuate culture in cui il contatto fisico avviene con frequenza, le cosiddette “culture di contatto”, per esempio, in Francia, in America Latina e in Arabia Saudita, e le “culture di non contatto”, per esempio, in Germania e nell’America del Nord. Nella cultura occidentale si può toccare un estraneo solo nel momento delle presentazioni o nel congedo. In alcune parti dell’ India e in Giappone, tuttavia, la forma più comune di saluto non implica il contatto e lo stesso accade anche in Inghilterra per i saluti quotidiani. In culture come quelle giapponese e inglese le restrizioni sono molto rigide, ma nelle culture africana e araba il contatto fisico viene usato in molte circostanze. Alcuni popoli indiani, in segno di saluto, strofinano le labbra sulla guancia del partner con movimenti laterali del capo, oppure esibiscono un altro contatto fisico amichevole che consiste nella confricazione nasale. Questo tipo di segnale si ritrova anche in altri popoli quali gli esquimesi. I tipi di contatto fisico amichevoli sono i saluti, che sono espressi comunemente dall'abbraccio, dalla carezza, dal bacio e dalla stretta di mano. In Giappone, nei luoghi pubblici si osserva poco contatto fisico, nemmeno una stretta di mano, ma su treni e autobus affollati il contatto è accettato, e si possono vedere persone addormentate che si appoggiano le une alle altre. Questa situazione verrebbe considerata, in generale e con le dovute eccezioni, intollerabile ad un inglese, secondo le osservazioni di Brosnahan (L. Brosnahan., Japanese and English Gesture. Contrastive Nonverbal Communication, Taishukan, Tokyo, 1990), per il quale la differenza tra il mondo anglosassone e quello giapponese si evidenzia anche riguardo ai contatti che esistono all’interno dei rapporti familiari. I bambini giapponesi, infatti, sono accarezzati e coccolati più a lungo rispetto ai bambini inglesi e per questo motivo i genitori inglesi vengono considerati più freddi dagli orientali. 21
  • 22. 2.4.1.4 Postura Un movimento del corpo mantenuto più di due secondi, quale per esempio la testa piegata, può essere considerato una postura. Le posture esprimono atteggiamenti, sentimenti ed umori più efficacemente dei gesti. Questi segnali non-verbali sono involontari e difficilmente controllabili coscientemente. La postura è influenzata notevolmente dallo stato emotivo del soggetto che la esibisce lungo la dimensione rilassamento-tensione. A questo proposito gli studi di Elkamn e Friesen (P. Elkman, W.V. Friesen, The Repertoire of Non Verbal Behaviour, in “Semiotica”, n.1, 1969, pgg. 49-98) sono particolarmente utili perché mettono in evidenza come avviene la comunicazione di atteggiamenti (valutazione e gradimento) in rapporto allo status sociale (potenza e controllo sociale), attraverso le esibizioni posturali. Ogni cultura ha elaborato diversi modi possibili di stare distesi, seduti o in piedi. I tipi di postura sono molti, circa un migliaio, anche se alcuni, tra i quali l’inginocchiarsi, avvengono di rado e solo in particolari momenti (chiedere in sposa una persona), o in particolari luoghi (di solito i luoghi del culto religioso). I cambiamenti di postura variano con il ruolo e l'atteggiamento interpersonale in rapporto alla variabile culturale: si riscontrano, per esempio, variazioni tra le posture dell'uomo e della donna. Altri studi hanno tenuto in considerazione la variabile situazione e una stretta dipendenza dal contesto sociale. All'interno di alcuni contesti specifici regole precise governano le posture che devono essere assunte, cioè definiscono quali posture sono approvate e quali invece devono essere bandite dal comportamento individuale. Ci sono anche posture speciali per i rituali. Le posture che definiscono i rapporti di potere sono il portamento eretto, la testa reclinata all'indietro e le mani posate sui fianchi che sottolineano il desiderio di dominare; chi occupa uno status elevato, inoltre, solitamente siede eretto in posizione centrale di fronte agli altri. Brosnahan (L. Brosnahan., Japanese and English Gesture. Contrastive Nonverbal Communication, Taishukan, Tokyo, 1990) confronta le posizioni che gli inglesi e i giapponesi assumono quando sono in piedi. I primi seguono un ideale militare e atletico con la testa alta, le spalle indietro, il petto in fuori, che si differenzia notevolmente da quello giapponese che presenta una testa più inclinata, petto e spalle più rilassate. Un altro contrasto è quello tra la posizione eretta con le mani sui fianchi, che è abbastanza neutro nel contesto britannico, ma che sembra temeraria al giapponese che tradizionalmente tende ad essere meno visibile. Un’ultima osservazione riguarda il fenomeno dell’eco posturalità che si determina quando in un contesto rilassato e informale, gli interlocutori assumono, in modo automatico, posture specularmente simili, abbandonando posizioni di superiorità e di dominanza e cercando di aderire in una forma di inconscio cameratismo alla posizione dell’altro. 22
  • 23. 2.4.2 Prossemica Secondo il suo fondatore, Edward T. Hall, la prossemica è lo studio della percezione e dell’uso che un essere umano fa dello spazio (E. T. Hall, The Hidden Dimension, Doubleday, Garden City (NY), 1969). Lo spazio personale che ogni individuo occupa è considerato come una zona cuscinetto o di difesa che gli altri individui non possono invadere senza causare disagio nell'altro. Si può considerare questa area cuscinetto come una bolla o una sfera protettiva che un organismo mantiene fra sé e gli altri. Come per i movimenti del volto, i gesti e la postura, lo spazio segnala informazioni, secondo delle regole ben precise che variano in rapporto alla situazione, al tipo di relazione instaurata con il partner o più partners (intima o formale), oltre alle relazioni gerarchiche che si sono stabilite dalla cultura del gruppo di appartenenza e dall'ambiente sociale. Il concetto di distanza implica anche il senso di territorialità, lo spazio vitale di cui l’individuo ha bisogno per sviluppare la sua autonomia e in cui sentirsi libero quando stabilisce rapporti con gli altri. La distanza che adotterà nei confronti di un'altra persona sarà proporzionale al rapporto o ai legami che vorrà stabilire nell'interazione. La prima norma dello spazio prossemico è che non ci si può muovere in ogni parte come si vuole: ci sono, ovunque, norme culturali e biologiche, esplicite ed implicite, e limiti da osservare. Hall identificò, nel modo di posizionarsi degli uomini, quattro tipi di distanza: intima (da 0 a 18 pollici), personale-informale (da 1.5 a 4 piedi), sociale-consultiva (da 4 a 10 piedi), e pubblica (da 10 piedi in poi). Hall notò anche che ogni cultura applica norme distintive di vicinanza, per esempio, in relazione alla conversazione, alle situazioni d’affari e al corteggiamento e che lo stare troppo vicini o troppo lontani può provocare incomprensioni e persino uno shock culturale. Esistono anche delle notevoli differenze a livello individuale. Le persone che presentano disturbi del comportamento, per esempio, preferiscono mantenersi più lontane spazialmente nei loro rapporti interpersonali, innalzando una invisibile barriera protettiva tra se stesse e il mondo. Le forme culturali di questo segnale non verbale sono numerose e assumono dimensioni che variano da cultura a cultura. Queste distanze, oltre ad essere specificamente legate alla cultura, vengono apprese informalmente e inconsciamente e sono quindi fonte di incomprensioni. Complessivamente le distanze nel mondo giapponese sono più ravvicinate di quelle inglesi. Ugualmente la distanza mantenuta dalle persone durante una conversazione è molto più ridotta nelle popolazione dell'Europa del sud che negli Stati Uniti o nell'Europa del nord. In molte culture mediterranee, come anche in quelle arabe e nelle zone rurali dell’oriente, i maschi si prendono a braccetto tra di loro per manifestare amicizia, come il turco che mettendo la mano sulla spalla di uno straniero è come se gli dicesse “Caro ospite lascia che ti guidi” (Celentin). 23
  • 24. 2.4.3 Vestiti e oggetti In ogni cultura il coprirsi il corpo con i vestiti ha avuto, otre alla funzione di proteggersi dalle variazioni climatiche, anche lo scopo di ornare il corpo e di comunicare ruoli e significati. Il vestito è stato anche strumento del pudore per coprire le parti del corpo considerate “indecenti”, come testimoniano alcuni tentativi dei missionari occidentali nei confronti dei nativi (P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999). Le alterazioni del corpo nelle società primitive, sia con tatuaggi che con vari oggetti di abbigliamento, rispondevano alla necessità di distinguere ruoli sociali e di esprimere ideali estetici: una pratica che si è tramandata in tutte le culture di tutti i tempi. Se da un lato si riscontrano modelli di comportamento omogenei di isoprassi, dall’altra, generalmente, l’individuo ama ostentare la sua importanza e superiorità sugli altri attraverso l’esibizioni di oggetti di status symbol. Anche ai nostri giorni, nelle nostra cultura, notiamo che gli abiti usati nei contesti religiosi e giudiziari differiscono dall’abbigliamento comune per sottolineare la superiorità e distanza gerarchica. Nel contesto interculturale l’abito è un elemento comunicativo importante, una forma attraverso la quale gli immigrati veicolano la propria identità e stabiliscono un filo di contatto con il paese di origine; rappresenta, inoltre, la volontà di rendere visibile un’appartenenza a tradizioni e ad una terra, generalmente misconosciute, e quindi non esistenti, nell’immaginario degli autoctoni. Nelle città con alta presenza di immigrati da ogni parte del mondo, si registra una trasformazione dell’immagine urbana, che rimanda sempre di più alla varietà di pratiche inconsuete, quali nuovi negozi di abbigliamento, indiano, cinese, africano, sudamericano, e tanti altri, che introducono nuovi abbinamenti di colori e di tessuti nell’universo visivo occidentale. Nel nuovo contesto del paese di immigrazione, l’abito “etnico”, da un lato, si semiotizza, diventa segno distintivo di orgoglio nazionale e di identità dietro al quale riunirsi e proteggersi, dall’altro, si folklorizza ed è esibito come oggetto esotico e decorativo nelle feste interculturali. Il costume etnico diventa un oggetto decontestualizzato, da esibire per esigenze turistico-commerciali e costruito acrititicamente, come si nota in questa promozione di un viaggio in Tailandia tra il popolo Akha: “ I loro abiti vistosi, in particolare i copricapi ornati con le sterline dell'impero britannico (!!?), non sono sintomo di ricchezza ma esprimono la loro dignità di popolo libero e indipendente” (per approfondire clicca qui). Oltre ai vestiti anche gli oggetti parlano di modi di vita diversi, perché insieme alle popolazioni anche gli oggetti sono emigrati. Fare un elenco dei nuovi oggetti che sono entrati, o a breve entreranno nell’universo degli strumenti a servizio dell’uomo, è arduo ed inutile. Potrebbero costituire il tema di progetti da fare interdisciplinarmente con l’apporto delle differenti esperienze dei migranti. 24
  • 25. 2.4.4 Odori e rumori Nella comunicazione interculturale dovremmo includere i due aspetti dei nuovi odori e dei suoni/rumori che accompagnano le migrazioni dei popoli. Le culture si caratterizzano anche per l’insieme di odori che si respirano lungo le vie delle città. Sono gli odori degli uomini e delle donne che popolano le strade, odore di umanità misto anche ai profumi che provengono dai mercati all’aperto, dai negozi i e dai luoghi di ristorazione. Sono i segni della presenza degli aromi e sapori di modi alimentari diversi: l'aroma di cardamomo, curcuma, cannella, coriandolo, dell'olio di cocco e delle verdure, delle banane fritte e dei masala, del kebab, degli involtini primavera e del maiale all’agrodolce. I cartelli indicanti cucina cinese, turca, egiziana, ecc, si trovano sempre più frequentemente sulla porta di molti ristoranti etnici sparsi sul territorio. In alcune macellerie si trova la carne halal, macellata secondo il rito islamico e sulle vetrine delle panetterie leggiamo scritte in arabo per il pane egiziano o del Maghreb. Nei supermercati, accanto alle merci tradizionali, troviamo nuovi tipi di frutta, verdure mai viste e spezie nuove. Per non parlare dei nuovi profumi, gli incensi, le essenze provenienti da tutto il mondo che hanno allargato la gamma delle percezioni olfattive. I nuovi odori riempiono l’aria e poiché non siamo abituati ad essi alcuni possono essere fastidiosi ed invadenti. Nell’ambito delle percezioni olfattive, possiamo includere anche gli odori corporali che vengono più o meno controllati a seconda delle varie pratiche igieniche individuali o culturali e che possono interferire nella comunicazione. Nel mondo occidentale, l’uniformità delle pratiche igieniche è pressoché sanzionata dalla pubblicità degli innumerevoli prodotti per l’igiene della persona, ma questo “conformismo” non si rintraccia automaticamente nel microcosmo della classe, in cui i bambini immigrati, ma anche i bambini italiani, emanano odori che possono risultare fastidiosi ad un olfatto trasformato da prodotti chimici. È un argomento che può essere imbarazzante se affrontato apertamente. Attività didattiche, quali i giochi di ruolo, le simulazioni e l’analisi della pubblicità, potranno servire per prospettare problemi e ricercare soluzioni. Lo stesso imbarazzo si prova per i rumori corporali che vengono considerati in maniera diversa a seconda delle culture e delle situazioni A questo proposito rimandiamo ad alcuni esempi tratti dal libro di P. E. Balboni, in particolare al sottocapitolo 3.1.7, che fa riferimento alle norme che variano nei differenti contesti culturali. Possiamo aggiungere che, per quanto queste regole possano più o meno essere condivise all’interno del gruppo, esse sono comunque soggette alle trasformazioni e agli adattamenti dovuti al contatto con altri modi di vivere. 25
  • 26. 2.5 La comunicazione verbale L’acquisizione delle abilità comunicative interculturali è intimamente connessa all’apprendimento linguistico, in quanto la lingua è il mezzo privilegiato attraverso il quale il sistema di credenze, norme e valori di una comunità viene codificato. Tuttavia, quando uno dei due parlanti non padroneggia la lingua-cultura dell’interazione, non tutti i problemi di intercomprensione possono essere ricondotti ad una conoscenza imperfetta di lessico, grammatica o pronuncia, sebbene questi problemi esistano. Asimmetrie nella comunicazione verbale possono manifestarsi anche nella non condivisione di determinate regole conversazionali (2.5.1) e di altri codici la cui interpretazione è legata ai diversi contesti culturali all’interno dei quali i parlanti sono stati socializzati. La lingua, come abbiamo visto a proposito della comunicazione non verbale (2.4), si accompagna infatti ad altri codici che differiscono a seconda della cultura presa in esame: dal codice paralinguistico che orienta l’uso della voce (2.5.2) e la diversa interpretazione di pause e silenzio (2.5.3), fino ai codici retorici con cui strutturiamo testi orali o scritti (2.5.6). Una interpretazione unilaterale di questi elementi può dar adito a malintesi culturali, laddove non si tenga presente che certe norme comunicative non sono necessariamente universali. Quando sopraggiungono queste difficoltà, esse vengono generalmente attribuite agli atteggiamenti, alle caratteristiche personali, al livello di generale competenza o, nei casi peggiori, all’intelligenza dello straniero piuttosto che ad effettive differenze socioculturali. Un parlante interculturale, sia esso l’autoctono o lo straniero, dovrebbe pertanto essere cosciente di quelle aree della comunicazione verbale più sensibili alla variazione e che possono essere motivo di asincronia nella comunicazione. Tuttavia, dal momento che non è sempre possibile conoscere la lingua-cultura del nostro interlocutore, è in primo luogo necessario accettare che c’è dell’incerto e del vago nell’incontro con l’altro e che la nozione di codifica/decodica del messaggio è un processo dinamico e co-costruito nell’interazione stessa. Diventa pertanto essenziale affinare i propri mezzi espressivi in modo da sviluppare un atteggiamento positivo e trasferibile ad ogni situazione interculturale: piuttosto che reagire emotivamente ad un evento comunicativo incerto, bisogna essere capaci di analizzarne gli elementi costitutivi, elaborare le informazioni e creare un quadro di riferimento in cui sia possibile agire nel rispetto dell’altro senza rinunciare a se stessi. 26
  • 27. 2.5.1 Alcune regole conversazionali L’interazione verbale può essere interpretata come un continuum suddiviso in turni, per cui, in linea generale, parlanti distinti prendono la parola l’uno dopo l’altro. Il turno di parola può essere dato all’interlocutore attraverso espliciti segnali discorsivi (“no?”, “che ne pensi?”, ecc.), ma il suo passaggio è spesso segnalato in modo implicito (cambiamento nel tono di voce, termine di un’unità sintattica, silenzio momentaneo, ecc.). Si tratta tuttavia di aspetti che variano a seconda della diversa etichetta sociale, ovvero di quelle regole conversazionali che vengono acquisite da bambini e che di solito trasferiamo anche in altre lingue. La nostra tendenziale percezione “policronica” del tempo ci porta, ad esempio, a trattare più argomenti allo stesso tempo e ad essere generalmente tolleranti nei confronti di sovrapposizioni ed interruzioni. Laddove però queste modalità interattive si incontrano con quelle di individui socializzati in culture differenti (vedi percezione monocronica del tempo), esse possono creare irritazione nell’interlocutore. Sebbene sovrapposizioni momentanee siano generalmente tollerate, le interruzioni rappresentano un aspetto più delicato, sia nella comunicazione interculturale che in quella intraculturale. Lo stesso concetto di “sovrapposizione” non è univoco e trasparente: sovrapposizioni reiterate o prolungate possono essere interpretate come un tentativo di usurpazione del turno di parola, al pari di un’interruzione. A tale proposito, D. Tannen (Conversational Style: Analyzing Talk Among Friends, Ablex, Norwood, NJ, 1984) rileva che nell’interazione faccia a faccia i newyorkesi prediligono la sovrapposizione cooperativa come strategia per mostrare entusiasmo e interesse per l’interlocutore, strategia non sempre condivisa ed apprezzata da altri anglofoni. Mentre il partecipante “veloce” pensa che l’altro non abbia niente da dire e continua il suo turno, il partecipante più “lento” avverte che non gli viene fornita l’occasione per prendere la parola. Questo “stile ad alto coinvolgimento”, caratterizzato da un rapido scambio di turni, velocità d’elocuzione sostenuta, evitamento di pause ed ascolto partecipe, può definirsi genericamente valido anche per gli italiani, che sono talvolta stigmatizzati come chiassosi ed invadenti. Un tipo particolare di presa del turno è rappresentato dalle coppie adiacenti, ovvero da quelle routine conversazionali tipiche della comunicazione quotidiana (salutare/rispondere; ringraziare/rispondere; scusarsi/minimizzare; offrire/accettare, ecc.). In quanto strettamente correlate al contesto socioculturale in cui sono prodotte, la loro realizzazione varia non solo da lingua a lingua, ma anche all’interno delle varietà di una stessa lingua. Come si nota dagli esempi, ciò che è naturale e apprezzato in una lingua, può divenire bizzarro e fastidioso se trasferito in un’altra. Non è detto che queste differenze linguistico-culturali diano sempre luogo a fraintendimenti o a conflitti interculturali, ma giudicarle semplicemente come idiosincrasie del parlante non nativo dà sicuramente origine a visioni riduttive che pongono un limite alla comprensione reciproca. 27
  • 28. 2.5.2 La voce Nell’interazione faccia a faccia elementi prosodici come l'intonazione, l’accentuazione, il volume o la velocità d’elocuzione possono risultare importanti per risolvere casi di ambiguità linguistica o per modulare le nostre intenzioni comunicative. In contesto interculturale, la percezione di alcune di queste caratteristiche della voce consente spesso all’interlocutore non nativo di cogliere il significato globale di un enunciato anche quando le sue conoscenze linguistiche non gli permettono di distinguerne ogni singola unità verbale. Specifiche scelte prosodiche, accompagnate da eventuali segnali non verbali, possono pertanto facilitare la comprensione reciproca quando le parole non sono sufficienti. Bisogna però tener presente che la nostra generale tendenza a parlare con un volume di voce piuttosto alto può dare ad alcuni stranieri l’impressione di assistere ad una discussione concitata, anche quando stanno semplicemente ascoltando una normale conversazione. Nelle classi italiane, la situazione è aggravata dal fatto che l’insegnante deve spesso aumentare ulteriormente il tono di voce per mantenere la disciplina: soprattutto se proviene da un paese orientale, l’allievo straniero potrebbe avere l’impressione di essere verbalmente aggredito piuttosto che semplicemente chiamato in causa. E’ noto che, in italiano come in tutte le altre lingue, la stessa stringa di parole può assumere significati differenti a seconda dell’intonazione che le diamo (frase interrogativa, dichiarativa, ecc.). Nelle situazioni in cui la comunicazione si focalizza più sul contenuto che sulla forma della lingua, queste differenze non sono però sempre così nette. Parlanti non nativi possono avere difficoltà a cogliere queste sfumature e, quindi, a decidere in quale contesto interazionale debbano muoversi (“era una domanda o un’affermazione?”), tanto più se a complicare le cose sopraggiungono inflessioni regionali e dialettali - fonologiche e prosodiche - di cui non siamo sempre pienamente coscienti e che creano confusione in chi cerca di orientarsi tra tante varietà socioculturali ed espressive. Un altro aspetto da non dimenticare è la velocità d’elocuzione: sebbene sia ovvio che ad una bassa competenza linguistica possa corrispondere la percezione che il madrelingua parli troppo rapidamente, è pur vero che abbiamo la generale tendenza a parlare con un ritmo sostenuto rispetto a parlanti di lingue diverse. In ambito formativo questo è un aspetto piuttosto delicato dal punto di vista sia cognitivo che psicologico: parlare ad una velocità accettabile e in modo chiaro può facilitare la comprensione, ma è necessario non sconfinare in quello che viene generalmente definito foreigner talk (6.6.2). Piuttosto che facilitare la comprensione, questo linguaggio semplificato e rallentato toglie allo straniero la possibilità di apprendere un italiano autentico, quando non è addirittura percepito come una forma di razzismo comunicativo. 28
  • 29. 2.5.3 Il silenzio Abbiamo accennato, a proposito delle regole conversazionali (2.5.1), che culture differenti possono avere una percezione diversa di quanto una pausa debba essere lunga per segnalare che il parlante ha terminato il suo turno o meno. Coloro che sono abituati a pause brevi tra un turno e l’altro potrebbero interpretare la non immediata reazione verbale dell’interlocutore come un diritto a continuare il proprio turno, soprattutto se nella loro cultura pause prolungate in una interazione creano imbarazzo. Questo può dirsi vero per gran parte delle culture occidentali, in cui il “parlato” è vissuto come un modo per ottenere comprensione reciproca e per esprimere la propria individualità, tanto che, in casi estremi, la sua assenza può essere correlata ad un tentativo di controllare sentimenti di ostilità. In molte società orientali, in cui vengono enfatizzati gli scopi del gruppo piuttosto che del singolo, il silenzio nell’interazione interpersonale è spesso vissuto come manifestazione di armonia o di solidarietà. In Cina, ad esempio, tacere è del tutto normale in caso di argomenti delicati o ambigui. In Giappone, si ha la tendenza a ritenere che i sentimenti non possano essere sempre veicolati dalle parole e che, non appena un’esperienza viene resa verbalmente, la sua reale essenza si dissolva. C. Goddard e A. Wierzbicka (“Discourse and Culture”, in T. A. van Dijk (a cura di), Discourse as Social Interaction, Sage Publications, Londra, 1997, pgg. 237-240) attribuiscono questa sfiducia nella parola all’ideale giapponese dell’ enryo (riservatezza o moderazione) che implica un certo controllo anche nell’espressione dei propri desideri ed opinioni. E’ così possibile che nei momenti di particolare intensità emotiva, nella pedagogia tradizionale come nel rapporto madre-figlio, il silenzio sia preferito alla verbalizzazione del proprio stato emotivo. Questi esempi dovrebbero suggerire che è importante non interpretare il “silenzio” come categoria descrittiva dall’unica prospettiva della propria cultura, ma è anche essenziale chiedersi se le pause discorsive possano essere sempre lette attraverso il filtro culturale. Parlanti non esperti possono certamente aver bisogno di più tempo per esprimersi, con la conseguenza che il loro comportamento verbale sarà punteggiato da un maggior numero di “pause cognitive”. Pertanto, componenti contestuali come l’evento comunicativo, l’argomento e la funzione dell’interazione dal punto di vista di entrambi i partecipanti (quindi, anche eventuali discrepanze nella percezione reciproca) vanno sempre tenute in considerazione se non ci si vuole accontentare di rappresentazioni riduttive come l’ “orientale silenzioso” o l’ “italiano chiacchierone”. Per approfondire questa tematica vedi K. Knapp, Metaphorical and Interactional Uses of Silence 29
  • 30. 2.5.4 Registro: formale/informale La lingua italiana prevede un ampio repertorio di varietà espressive, appartenenti a differenti livelli di ricercatezza o registri. Un diverso grado di (in)formalità viene pertanto espresso attraverso varie scelte lessicali e sintattiche (nonché prosodiche, cinesiche, ecc.) sulla base di un giudizio di appropriatezza che tenga conto del tipo di relazione con l’interlocutore, dei reciproci ruoli e del contesto comunicativo. Il più evidente riflesso di questo processo di codifica dei ruoli nel linguaggio si ha nella scelta dei pronomi allocutivi tu e Lei, parte di un sistema più ampio che prevede specifiche formule di saluto e un congruo uso dei vocativi (ciao Mario, ma Buongiorno Sig. Rossi). La non osservanza di questi meccanismi routinari della lingua, dei quali gli stranieri vengono spesso a conoscenza per prove ed errori, può dar luogo a spiacevoli stigmatizzazioni reciproche. Ad esempio, l’uso sempre più diffuso del tu con cui intendiamo ridurre la distanza reciproca o con cui spesso ci rivolgiamo all’immigrato può essere frainteso come un modo per sminuire l’interlocutore, se questi non condivide le nostre stesse intenzioni comunicative. Inoltre, sebbene in molte lingue esistano sistemi allocutivi simili al tu/Lei dell’italiano (fr. tu/vous, ted. du/Sie, sp. tu/Usted, rus. ty/Vy, ecc.), ciò non implica che vengano usati nella stessa maniera. In russo, ad esempio, il passaggio dal ty (tu) al Vy (Lei) è molto meno naturale che in italiano, tanto che relazioni parentali o amicali in cui c’è disparità sociale o differenza di età sono più spesso governate da un registro formale. In molte società orientali il modo di rivolgersi all’altro è ben più articolato: in giapponese, il sistema del keigo o “linguaggio onorifico” è così complesso che una stessa frase può essere espressa in più di venti modi, a seconda del rapporto tra i partecipanti. Ogni lingua possiede dunque strumenti diversi per esprimere formalità ed informalità e non è sempre possibile, nella comunicazione interculturale, essere al corrente delle norme comunicative della lingua dell’altro. Si possono tuttavia mettere in atto strategie interazionali di adattamento reciproco che promuovano l’ascolto attivo e la negoziazione dei significati, evitando i pericoli di un’eccessiva semplificazione. Infatti, mediare linguisticamente non significa necessariamente ricorrere a parafrasi colloquiali, che lo straniero può ugualmente non comprendere: essi fanno parte di sottocodici socioculturali a cui il migrante può non essere stato esposto, se il suo contatto con l’italiano si è limitato all’apprendimento guidato o alla fruizione televisiva. Parallelamente, coloro che hanno imparato l’italiano in modo spontaneo, attraverso il contatto con i coetanei o con i colleghi, avranno difficoltà nella gestione di codici alti e settoriali (es. quelli dei libri di testo e, talvolta, dell’interazione insegnante-allievo). L’uso di codici troppo colloquiali o troppo ricercati può quindi ingenerare spiacevoli meccanismi di esclusione, analoghi a quelli del foreigner talk prima accennati (2.5.2). 30
  • 31. 2.5.5 Scelte lessicali e alterità nel linguaggio Nella comunicazione interculturale è importante essere coscienti di quegli automatismi linguistici che possono creare fenomeni di inconsapevole ma non innocuo razzismo comunicativo. Non si tratta di condurre un’astratta opera di epurazione del linguaggio, sebbene l’uso di nomi e aggettivi non offensivi (es. “di colore”/”nero” piuttosto che “negro”) sia certamente da incentivare. Ciò che qui auspichiamo è piuttosto un’analisi del lessico dell’alterità che renda noi e i nostri allievi consapevoli della visione del mondo che il linguaggio veicola. Nessuna parola è infatti del tutto neutra: anche le parole più diffuse in ambito giornalistico o giuridico (extra-comunitario, immigrato, clandestino ecc.), e che pertanto ci appaiono legittimate dall’uso, possono celare ideologie dominanti o atteggiamenti xenofobi. Ad esempio, nell’analizzare la parola immigrato, Balibar ne sottolinea il carattere di categoria di amalgama che combina criteri etnici e di classe, riservata a molti stranieri ma non a tutti. Solitamente si definisce straniero (non immigrato o extra-comunitario) l’americano, il giapponese, l’australiano, ecc. ovvero chi proviene da un paese con alto prestigio socioeconomico e politico, proprio per differenziarlo dalle categorie immigrazione/immigrato. Nasce dunque, nel linguaggio come negli atteggiamenti, quello che Balibar definisce il paradosso delle categorie unificatrici e differenzianti. Un’altra scelta lessicale che può creare distanza psico-affettiva nell’interazione interetnica è la diffusa tendenza a normalizzare il nome straniero o addirittura a “ribattezzare” l’altro con nomi italiani, sulla base della presupposizione (o presunzione?) che non trattandosi di un nome familiare, non c’è nulla di male nel manipolarlo. Il principio con il quale ci auto-legittimiamo a trasformare il diverso, nel tentativo di rimuoverne l’estraneità, può essere interpretato come sintomo di disimpegno nella comunicazione interculturale e di un atteggiamento etnocentrico. Il nome è infatti di per sé un’attribuzione d’identità, tanto più forte quanto più connotata religiosamente e culturalmente (si pensi a nomi come Mohamed o Abdullah nella religione islamica: per un approfondimento dei significati dei nomi stranieri clicca qui. Il sentirsi chiamare con un nome storpiato, tradotto o non sentirsi chiamare che di rado rappresenta una forma di negazione del soggetto, oltre che della sua realtà culturale, che viene presto interiorizzata e considerata “normale” anche dagli stessi stranieri. Questa forma di mimetismo, sia essa imposta o indotta, non facilita la continuità psichica negli allievi bilingui più giovani e, dunque, uno sviluppo dell’identità che non miri all’assimilazione del diverso. 31
  • 32. 2.5.6 Retoriche del “testo” Per retoriche del “testo” intendiamo qui, a parità di genere, le diverse maniere di organizzare un elaborato scritto o di strutturare un’esposizione orale. Ciò che rende un “testo” significativo e strutturato in modo logico dipende in prima istanza dagli scopi comunicativi e dai lettori/ascoltatori cui si rivolge e varia, pertanto, a seconda della lingua-cultura considerata. Sulla scorta di queste differenze, Kaplan suggerisce che ogni cultura possiede una determinata struttura del paragrafo (espositivo nella sua analisi), postulando l’esistenza di modelli culturali di pensiero che influenzano le modalità espositive anche in una lingua diversa dalla propria. Sebbene i diagrammi di Kaplan siano stati molto criticati in quanto partono da un’ottica anglocentrica che assume come “normale” il solo modello inglese, ci paiono utili per riflettere sia sui pericoli di una prospettiva etnocentrica, sia su quelli di una visione che tende a ipostatizzare le culture. Infatti, interpretando le differenze retoriche come puramente determinate dalle differenze linguistiche o culturali si rischia di rinforzare gli stereotipi piuttosto che sensibilizzare alla diversità culturale. E’ dunque lecito chiedersi se sia la lingua in sé e non piuttosto il sistema educativo – inteso come cultura scolastica – a decidere che cosa conta come “paragrafo” (espositivo o d’altro genere) e quali devono esserne le caratteristiche (vedi C. Kramsch, “Language, Thought and Culture”, in A. Davies e C. Elder (a cura di), The Handbook of Applied Linguistics, Blackwell, Oxford, 2003). Dal momento che un soggetto scolarizzato nel proprio paese di provenienza ha la naturale tendenza a trasferire nella L2 le convenzioni retoriche note, può essere utile prevedere una esplicita riflessione sulle diverse organizzazioni del “testo”. In tal modo l’imposizione implicita di una visione retorica e il corrispondente sradicamento di possibili interferenze lasceranno spazio al confronto interculturale e all’arricchimento del repertorio di scelte a disposizione dello studente straniero. A tale proposito, C. Kramsch (“Stylistic choice and cultural awareness”, in L. Bredella e W. Delanoy (a cura di), Challenges for Pedagogy: Literary Texts in the Foreign Language Classroom, Gunter Narr, Tübingen, 1996, pgg. 162-184) suggerisce di usare il riassunto di un racconto come strumento che permetta agli studenti di riflettere sulle scelte operate nella selezione e presentazione dei contenuti. Attraverso l’esplicito confronto degli elaborati in classe, gli studenti hanno così l’occasione di scoprire quanto ognuno di loro ha costruito il senso della propria storia in base ad esperienze personali, appartenenza etnica, retroterra socioeconomico, atteggiamenti e credenze. 32
  • 33. 2.6 Conclusioni Come abbiamo cercato di evidenziare in questo modulo, nell’attuale società plurilingue e multiculturale una comunicazione interculturale efficace è ormai condizione irrinunciabile per una relazione consapevole tra le persone e i loro mondi. La maniera migliore di scoprire una “cultura” nella sua contemporaneità non è semplicemente – come abbiamo notato a più riprese – quella di considerarla unicamente come entità omogenea e conoscibile: le culture, come le persone, non sono dei libri aperti, ma delle “opere” perennemente incompiute e talvolta sfuggenti. Poiché le culture, non più circoscrivibili nei confini delle nazioni, sono diventate movibili e trasportabili (v. globalizzazione, transmigrazioni, Internet ...), esse sono diventate sempre più strettamente connesse alla lingua e alle parole che usiamo. E’ forse la lingua, e dunque la comunicazione, ad essere diventata la “realtà” culturale più preziosa e conoscibile. Se la cultura è dunque il risultato dell’attività linguistica e comunicativa, l’accento dovrebbe essere posto non tanto sulle culture in sé, quanto sugli individui che la rendono possibile. Parafrasando Marc Augé (Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000) si potrebbe infatti affermare che la migliore etnografia non comporta semplicemente una raccolta di informazioni su temi generali, ma l’osservazione di pratiche individuali e collettive, la raccolta di discorsi che non sono opinioni o informazioni sulle società in generale, ma sono quelle su una vita individuale nell’atto stesso di essere vissuta. A questo punto, più che chiederci che cosa dobbiamo conoscere degli altri e delle loro culture per poter comunicare efficacemente, è piuttosto il caso di domandarsi come gli individui utilizzino le culture o, meglio, tracce di esse – delle proprie o di quelle altrui – al fine di comunicare (M. Abdallah-Pretceille, “Intercultural Communication: Elements for a Curricular Approach”, in M. Kelly et al. (a cura di), Third Level, Third Space: Intercultural Communication and Language in European Higher Education, Bern, Peter Lang SA, Éditions Scientifiques Européennes, 2001, pag. 141). Questo comporta non solo farsi osservatori attenti della complessità culturale (contenuti), ma essere soprattutto in grado di attivare competenze discorsive e relazionali utili alla mediazione interculturale (procedure). In ambito educativo, in particolare, ciò non può realizzarsi soltanto sul piano delle buone intenzioni o dei buoni sentimenti: è necessario interpretare criticamente valori, stili di vita e comportamenti propri e altrui; ripensare gli strumenti concettuali e didattici per creare uno spazio in cui la diversità possa essere vissuta come uno dei tanti punti di vista possibili, piuttosto che come elemento esotico o come problema da risolvere. Alla luce dei cambiamenti in atto, i luoghi della formazione sono pertanto chiamati a contribuire alla creazione di nuovi linguaggi della relazione interculturale, così come un tempo hanno partecipato alla formazione dell’identità nazionale. 33
  • 34. 2.7 Guida bibliografica e sitografica Suggeriamo in questa sezione alcuni testi utili all’approfondimento delle tematiche trattate nel modulo o ad una loro applicazione didattica. Per visualizzarne le descrizioni2 , clicca sulla parte del titolo che è stata evidenziata. P. E. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia, 1999. G. Bolaffi, S. Gindro, T. Tentori (a cura di), Dizionario della diversità. Le parole dell'immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Liberal Libri, Firenze, 1998. M. Callari Galli, Antropologia per insegnare. Teorie e pratiche dell’analisi culturale, Bruno Mondatori, Milano, 2000. S. Dal Negro, P. Molinelli (a cura di), Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in Italia oggi, Carocci, Roma, 2002. A. De Benedetti, F. Gatti, Routine e rituali nella comunicazione, Paravia Scriptorium, Torino, 1999. P. Diadori, Senza parole. 100 gesti degli Italiani, Bonacci, Roma, 1999. E. A. A. Garcea, La comunicazione interculturale. Teoria e pratica, Armando Editore Roma, 1996. Per un ulteriore approfondimento, si veda la guida sitografica ad alcuni dei numerosi siti correlati alle tematiche del modulo. 2 Se non diversamente specificato, gli abstract dei testi sono quelli predisposti dalle relative case editrici. 34
  • 35. L’ascolto attivo supera l’atteggiamento autoritario etnocentrico dell’ “io ho ragione, tu hai torto”, per comprendere che l’interlocutore ha un suo sistema di ragionamento che determina comportamenti e azioni che sono per lui totalmente razionali, anche se per noi sono completamente irragionevoli. (M. Sclavi, Etnografia urbana e arte di ascoltare, Milano, Politecnico, 2000.) Per un ulteriore approfondimento clicca qui. Torna al paragrafo 2.1 35
  • 36. Figura 1.: Il modello di Situazione Comunicativa …… Si Co …… < tprd, sprd > < trcp, srcp > ID ID C1 Prd / Rcp C2 Ve Ve-eff Ve'-eff [ X ] Ve c o Ve-int Ve' Ve'-int Spiegazione del modello <…, B, …> <…, B, > Int Il modello mostra che in un dato tempo (tprd,) e in un dato luogo/sede (sprd), l’emittente/produttore (Prd), ha un’intenzione dominante (ID) e una configurazione di stati di cose X da comunicare. Attraverso l’elaborazione nella base (B) (si produce un comunicato (C1), che ha una sua manifestazione fisica (Ve). La manifestazione fisica del comunicato può essere considerata nella forma originariamente prodotta (Ve) o nella forma assunta (Ve’) allorché sia stata trasformata da un interprete/mediatore (Int). Attraverso un canale (uditivo, visivo o percettivo) (c), questo comunicato viene interpretato e trasformato dal ricevente/interprete (Rcp). Sul versante del ricevente, la manifestazione fisica (Ve) del comunicato di Prd si trasforma con l’aiuto dell’elaborazione nella base (B) in comunicato (C2) di Rcp . Anche nel settore del ricevente individuiamo una intenzione dominante (ID) e un contesto di tempo (trcp,) e di luogo/sede (srcp), (che nella comunicazione orale può o meno coincidere con quello del produttore). Il ricevente può reagire in due modi al vehiculum ricevuto: in modo non- interpretativo, e in questo caso produce effetti [=Ve-eff e/o Ve'-eff], o in modo interpretativo, e in tal caso assegna una o più interpretazioni [=Ve-int e/o Ve'-int] al vehiculum dato. Le attività didattiche che si possono fare in riferimento a questo modello sono innumerevoli. Ogni etichetta/elemento permette di preparare una serie di esercizi differenziati a seconda del livello degli studenti-obiettivo. Per esempio, per studenti di un primo livello, per l’etichetta Ve possiamo creare delle attività che aiutino gli studenti: (1) ad individuare/analizzare il modo e la forma in cui i comunicati (parole, suoni, gesti, immagini) si manifestano in diversi contesti culturali; (2) a comparare/manipolare queste manifestazioni per valutarne l’efficacia comunicativa in riferimento ai contesti culturali in cui i comunicati si attualizzano. Torna al paragrafo 2.1.1 36
  • 37. La Base è un’unità che contiene diversi settori: a) un settore delle conoscenze; b) un settore delle ipotesi; c) un settore delle preferenze/ motivazioni; d) un settore delle disposizioni psico-fisiche in atto nel momento della comunicazione. Torna alla figura 1 37
  • 38. Un comunicato è quello che il produttore comunica e quello che il ricevente percepisce come oggetto comunicato Torna alla figura 1 38
  • 39. Ve (Vehiculum) : La manifestazione fisica di un testo è l’immagine che si percepisce di un testo verbale/suono/segno grafico prima che sia analizzata nei suoi componenti. Torna alla figura 1 39
  • 40. Le forze locutorie, illocutorie e perlocutorie fanno riferimento alla teoria di J.L.Austin che distingue nell’atto linguistico tre componenti: - l’atto locutorio, che riguarda l’enunciazione: es. Chiudi la finestra! - l’atto illocutorio, che riguarda l’intenzione di quello che si dice: es. “Chiudi la finestra” può essere un comando o un suggerimento. - l’atto perlocutorio, che riguarda l’effetto di quello che si dice: es. la chiusura della finestra. Torna al paragrafo 2.1.1 40
  • 41. La metafora/mito del melting pot, del crogiuolo in cui tutte le razze dovevano fondersi (melting) secondo il modello dei WASPs (White Anglo-Saxon Protestants), dei protestanti bianchi anglosassoni, non riguardava i neri e i nativi, ma solo gli immigrati provenienti dall’Europa. Torna al paragrafo 2.1.3 41
  • 42. Le diverse accezioni possono essere raggruppate in quattro altri modelli: 1) il modello della cittadinanza multiculturale, che riconosce l’importanza dell’identità etnica e accetta di integrarla purché non destabilizzi l’ordine sociale; 2) il modello massimalista, che rifiuta l’idea di un nucleo di valori condivisi e reclama completa autonomia; 3) il modello del culturalismo corporativo, la cui maggiore preoccupazione è l’ordine economico e che produce delle differenze funzionali per l’internazionalizzazione dei mercati; 4) il modello del multiculturalismo culturale, che sostiene una negoziazione continua tra i diversi gruppi in vista di uno spazio comune. Torna al paragrafo 2.1.3 42