Bargiacchi Paolo, El equipo de expertos en mediación de la naciones unidas
Salvo Andò, Europa e povertà
1. Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
EUROPA E POVERTÀ
Salvo Andò
Professore ordinario di Diritto comparato nell’Università Kore di Enna
Nei giorni scorsi i sindacati hanno organizzato in tutti i Paesi dell'Unione europea
grandi mobilitazioni per la difesa del lavoro e del welfare. All'appello dei sindacati hanno
risposto moltissimi cittadini preoccupati sempre più delle conseguenze che le politiche
dell'austerità producono sulle condizioni di vita dei cittadini. Ci troviamo di fronte a processi
di esclusione sociale di massa, tali da mettere seriamente in crisi quei principi di eguaglianza
e giustizia sociale su cui si sono fondate le democrazie emancipanti di questo dopoguerra. Le
nuove povertà prodotte dalla perdita del lavoro e dalla sua sempre minore remunerazione
rischiano di creare contrasti sociali molto seri, se si considera che si allarga sempre più la
forbice che esiste fra i redditi medi dei lavoratori e quelli di una ristretta casta fatta da top
manager, alti burocrati e professionisti di successo. Tutto ciò comporta una crisi di quei valori
che hanno consentito il formarsi di forti legami sociali rivelatisi essenziali per fronteggiare le
diverse emergenze che hanno caratterizzato un difficile dopoguerra.
L'avvio del processo di integrazione europea attraverso le prime Comunità ha dato un
importante supporto all'estendersi ed al consolidarsi di un'economia sociale di mercato che,
attraverso la redistribuzione del reddito, ha creato un forte consenso sociale e ha così
realizzato le condizioni perché le abitudini della democrazia potessero diffondersi anche in
Paesi privi di significative tradizioni democratiche. Non c'è da sorprendersi se oggi i cittadini
europei, contestando l'Europa dell'austerità che si preoccupa soprattutto di difendere la tenuta
dell'euro, si schierino contro una visione dell'Europa che appare quanto mai lontana da quella
per la quale si batterono i Padri fondatori. Costoro non pensavano soltanto ad abbattere le
barriere doganali per far circolare ricchezza e consentire un più facile accesso alle risorse a
Paesi che di essi erano sprovviste -facendo così venire meno una delle cause delle tante guerre
europee-, ma miravano attraverso la collaborazione dei governi nazionali a promuovere forme
di lotta alla povertà mai sperimentate a livello continentale, attraverso politiche di sostegno
allo sviluppo.
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In alcuni casi si trattava di estendere lo Stato sociale a Paesi che lo Stato sociale non
avevo mai conosciuto. In altri, occorreva invece consolidare quella esperienza in contesti
dove le ferite recenti della guerra erano ancora troppo profonde per permettere a ciascun
Paese di realizzare una politica della crescita che desse pari opportunità a tutti i cittadini e
privilegiasse la protezione dei non abbienti.
Nel momento in cui l'Europa appare ai suoi cittadini come una matrigna che smentisce
le tradizioni di solidarietà che hanno costituito il costante punto di riferimento dell'intero
processo di integrazione, è del tutto comprensibile che gli europei protestino e lamentino una
scarsa attenzione verso i problemi sociali e una ingiustificata preoccupazione verso i destini di
quei poteri forti che nell'immaginario collettivo sono i veri responsabili della crisi attuale.
Il mondo giovanile, in particolare, ritiene di dovere reagire con sempre maggiore
durezza alla crisi dello stato sociale, teorizzata come necessaria proprio da quel mondo
dell’alta finanza che attraverso spericolate speculazioni ha prodotto il dissesto economico.
Crea reazioni sempre più rabbiose il fatto che coloro i quali attraverso la speculazione
finanziaria hanno messo in ginocchio tanti Paesi in occidente oggi drenino risorse che
potrebbero essere destinate allo sviluppo, al finanziamento delle imprese, al sostegno delle
famiglie in difficoltà, alla garanzia del diritto al lavoro o al mantenimento di un efficiente
sistema di ammortizzatori sociali.
I giovani e gli altri “esclusi” ritengono, non a torto, che il neoliberismo sia la causa
principale di questo inarrestabile processo di impoverimento dei Paesi occidentali e ritengono
altresì che i governi abbiano subito passivamente i diktat dei mercati senza fare nulla per
mettere sotto controllo le transazioni economiche. E’ questa la ragione di quel furto di futuro
denunciato dagli indignados, che ovunque attaccano con crescente violenza i simboli del
potere finanziario.
La difesa della moneta europea, in assenza di una politica sociale che comporti una
difesa dei diritti, rischia di produrre una vera e propria guerra tra le generazioni che si riflette
anche nella vita delle famiglie.
Com'è stato giustamente osservato da tanti, il neoliberismo, dopo aver generato la crisi,
oggi pretende di esserne il rimedio e, con l’assenso dei governi europei, pretende di teorizzare
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la dittatura del mercato come l'ultima grande ideologia dell’occidente. Si fa sempre più strada
l’idea della necessità di una divisione, all'interno dell'Unione europea, tra Paesi ricchi che
devono guidare e Paesi poveri che devono subire decisioni spesso oggettivamente ingiuste.
I temi della giustizia sociale che negli anni della prosperità europea sembravano essere
un punto obbligato nell'agenda dei governi, che miravano a superare il modello della
cosiddetta società dei due terzi per potere assistere anche quel terzo di società degli esclusi,
paiono oggi travolti dalle polemiche contro l’assistenzialismo nemico dello sviluppo. E ciò
pur essendo in presenza di nuove frange di povertà che colpiscono anche coloro che si
ritenevano ormai da anni al sicuro.
Di fronte al deperimento di quel sistema di diritti individuali e collettivi che hanno
costituito il vanto dello stato sociale europeo, il cittadino vive l'Unione europea come la causa
del peggioramento delle sue condizioni di vita e teme che la “cessione” di altre quote di
sovranità possa ulteriormente indebolire il sistema delle garanzie.
Di fronte a questa percezione di abbandono, l'Europa dei mercati si configura come
un'entità lontana e astratta che ha interferito con il patto tra capitale, lavoro e welfare e che
oggi intralcia il consolidamento del processo democratico. Il mercato così vissuto è il
protagonista della grande asimmetria democratica che si è realizzata tra decisori e destinatari
delle decisioni e il suo potere d'imperio privo di contrappesi democratici rischia di far saltare
quel tavolo di compensazione dei conflitti che ha consentito di far convivere (in una società
ben ordinata) classi deboli, ceto medio e classi dominanti sulla base di un patto che attraverso
la mobilità sociale garantiva ad un numero sempre più alto di persone di potere accedere al
mondo del benessere.
Il rischio è che avendo come unico obiettivo quello di salvare una moneta unica che è
divenuta il solo baluardo del processo di integrazione non si garantisce l'unità politica del
continente europeo e, mettendo a dura prova la coesione sociale degli Stati, si creino le
condizioni perché l'Europa sia sempre più disunita.
L'Europa comunitaria non ha vissuto mai momenti così difficili come quello attuale,
perché mai ha rischiato di perdere concretamente di vista quell'obiettivo di un'unità funzionale
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alla realizzazione di una vera giustizia sociale che possa creare solidarietà tra gli Stati
prevenendo controversie e conflitti.
E se l'Europa appare lontana e ostile ai suoi cittadini è del tutto comprensibile che
questi, sentendosi meglio garantiti dal proprio Stato, si mostrino sempre più disinteressati ai
destini del processo di integrazione e sempre più legati allo Stato nazionale anziché ad
un'Unione europea che non fa nulla perché essi siano cittadini europei optimo iure.
E, d’altra parte, l'Europa ha fatto poco o nulla per assicurare una dimensione sociale al
processo di integrazione e per dare un senso allo status di cittadino europeo. In tale ottica,
pesa anche l’assenza di partiti europei che si possano fare carico del problema agendo
autonomamente rispetto ai partiti nazionali.
L'Europa che doveva diventare più grande ed unita negli anni in cui fu guidata da una
grande personalità politica come Delors, appare oggi più divisa e più stretta, se si considera
che emergono all'interno di essa una parte dominante ed una parte dominata; una parte che
giudica un peso insostenibile le politiche solidaristiche e un'altra che ritiene la solidarietà
essenziale perché il processo di integrazione prima o poi possa riprendere il suo corso.
La divisione che di fronte alla crisi si registra, però, è una divisione che non può solo
spiegarsi sulla base dei livelli di ricchezza prodotti e quindi redistribuiti, perché riguarda la
stessa filosofia dello stare insieme. L'Europa non è più unita nella diversità, ma è disunita a
causa di essa, soprattutto in considerazione del diverso status che alcuni Paesi membri
vorrebbero imporre. E siccome i diritti costano, prescrivere, da un lato, standard ineludibili in
materia di funzionamento ottimale dello Stato di diritto e di svolgimento del processo
democratico, e poi, dall’altro, non fare in concreto nulla per farsi carico delle sfavorevoli
eredità storiche lasciate in alcuni Paesi dai vecchi regimi negatori di ogni libertà, costituisce
un atto di intollerabile ipocrisia.
L'Europa è più divisa che mai su questioni di fondo perché c’è chi ritiene - e non sono
pochi - che con la crisi i tempi sono divenuti maturi per definire un nuovo assetto dell'Unione
basato su un nucleo di Stati che decidono attraverso un direttorio ad hoc, considerando gli
altri Paesi come Paesi satelliti che eseguono. La funzionalità dell’Unione dovrebbe insomma
essere assicurata dal principio di diseguaglianza tra gli Stati.
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Non è questa l'Europa unita nella diversità sognata dai padri e così definita nel
TUE.
La
diseguaglianza sarebbe il primo passo verso la paralisi del processo di integrazione che
dovrebbe portare l'Europa ad assumere tutti i connotati di una vera entità politica.
Sta accadendo che la divisione sempre più profonda che si viene a verificare tra
un'Europa tutt'altro che solidale ed una Europa più debole (che chiede comprensione e tempi
adeguati per rientrare nei canoni previsti dai custodi del rigore economico) produce conflitti
che non scaturiscono solo dal diverso potere economico degli Stati, ma anche dal diverso
modello di sviluppo che si vuole perseguire. Il fatto che la Germania e altri Paesi del Nord
Europa promuovano una campagna contro greci, spagnoli, italiani e altri paesi del Sud,
considerati la rovina dell'Unione europea perché incapaci di attuare politiche di rigore in
grado di difendere la forza dell’euro, dimostra che la moneta unica in molti casi è solo il
pretesto per spaccare il continente. Vi sono ragioni culturali che stanno alla base del conflitto.
La forza dell'Europa non può venire dal fatto che essa si divida in gruppi omogenei a secondo
dell'ammontare del
PIL
nazionale, ma dalla capacità di fondere queste diverse realtà tenuto
conto che le responsabilità della crisi non sono soltanto dei Paesi del Sud fiscalmente
irresponsabili, ma sono anche dei Paesi del Nord che a suo tempo hanno aggirato le regole
comunitarie rompendo nel 2003 il patto di stabilità e crescita.
Si è trattato di scelte politiche che gli altri Stati europei sono stati costretti a subire.
L'attuale crisi è figlia anche di questi strappi. Adesso alcuni studiosi e osservatori politici, per
giustificare la irreversibile rottura dell'Europa così come è, si sono spinti persino a spiegare
che le differenze tra i Paesi europei “sono quasi disegnate dallo spartiacque tra
protestantesimo e cattolicesimo”; si tratta dello stesso criterio usato da HUNTNIGTON che
individuava nella religione il fattore chiave che avrebbe creato nuovi conflitti di civiltà su
scala mondiale. Secondo questo punto di vista, le crisi di questi Paesi derivano dal fatto che il
Sud è rimasto alieno all’etica protestante del lavoro nel senso weberiano del termine1.
Insomma, siamo di fronte a una sorta di “ellenizzazione” del discorso economico
(KRUGMAN), quasi che il rispetto delle regole fissate a Maastricht sia in grado di prevenire
qualunque crisi economica, ovunque essa si produca e qualunque frattura essa determini. Ad
1
Per una efficace critica queste di queste teorie, si veda KUNDNAMI, Scontro di civiltà in Europa, in Limes,
2012, 3, pp. 9 - 16.
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aver prodotto la crisi, però, non è solo il peso di un’Europa meridionale che ha infranto le
regole di Maastricht (già fatte a pezzi da francesi e tedeschi), ma è stato il rifiuto dei Paesi del
Nord ad accettare fino in fondo lo spirito dell'Unione europea e la scelta di curare lo stato di
salute dell'Europa monetaria senza perseguire l'obiettivo di realizzare gradualmente l'Europa
politica.
Sino alla crisi economica di questi anni, che ha rivelato la debolezza dell'euro di fronte
ad una speculazione finanziaria organizzata da ambienti che puntano molto sul fallimento
dell'Europa politica, le differenze in Europa riuscivano a coesistere e le differenze non erano
un problema per il futuro del processo di integrazione. Ma il rimedio a questi problemi non
può venire da analisi affrettate che insistono sulle differenze culturali, bensì risolvendo nodi
economici che hanno molto a che fare con il completamento del processo di integrazione. Si
tratta non solo di adottare meccanismi di aggiustamento della bilancia dei pagamenti, ma di
mettere a punto meccanismi di protezione dell'euro che riguardano un ripensamento delle
istituzioni comunitarie che non possono che passare attraverso il conseguimento di una
diversa identità politica dell'Unione europea.
La bagarre scatenata dalle misure imposte dall'Europa agli Stati membri per proteggere
l'euro, non ha nulla a che vedere con un conflitto di civiltà del tipo di quello teorizzato da
HUNTINGTON all'indomani della fine della guerra fredda.
C'è un'Europa che guarda allo stato di salute della finanza e che si vuole dissociare dai
Paesi che si dibattono nelle difficoltà dell'economia reale per uscire dalla crisi. C'è insomma
nel continente un duro conflitto tra chi si preoccupa della protezione dei mercati e che si batte
per la difesa dei diritti. Ebbene, l'Europa si limita a prendere atto delle tensioni esistenti senza
avere una strategia per venire a capo di essi.
E’ un'Europa, quella attuale, che arretra di fronte alle grandi sfide che una crisi
economica così difficile e prolungata impone e che non pare in grado di mettere in
discussione il proprio modello di sviluppo. È un’Europa spaventata, nella quale si
moltiplicano sempre più numerose le ossessioni securitarie. Essa non riesce a affrontare la
crisi ripensando il rapporto tra i Paesi del Nord e centro Europa ed i Paesi del Sud, così come
non riesce a far sentire la propria voce di fronte ai preoccupanti segnali che emergono da
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alcuni Paesi in cui il rifiuto ad accettare i vincoli della democrazia comporta rischi di
involuzioni autoritarie. L'Europa prende atto per esempio delle riforme costituzionali che
stanno stravolgendo il tessuto democratico di Paesi come l'Ungheria e Romania che, pur a suo
tempo avendo accettato le regole del confronto democratico, adesso stracciano
disinvoltamente gli impegni sottoscritti.
Anche di fronte a questi problemi l'Europa, per paura, è costretta a fare di necessità virtù
dimostrando di non essere, in tempi di crisi, la casa della democrazia e dei diritti. Ben altra
reazione si è avuta negli anni scorsi di fronte alle provocazioni di HAIDER, governatore della
Carinzia. Insomma, si parla di unità politica dell’Europa, ma concretamente ogni giorno si
possono misurare gli arretramenti che si compiono sul piano della cultura dei diritti e della
pratica democratica.
Ma l'Europa dimostra tutta la propria debolezza, tutta la propria impotenza anche in
politica estera.
L'Europa vent'anni fa, all'indomani della caduta del muro, inseguiva il sogno di
diventare attore globale, forte della conseguita unità tedesca e dell'allargamento dei suoi
confini verso i paesi dell'Europa dell'est.
Si candidava ad essere il laboratorio di un modello di “governance parziale” della
globalizzazione, in quanto macroregione in grado di fare coesistere diverse identità nazionali
all’interno di una organizzazione di Stati che tendeva a divenire un vero e proprio Stato
federale. L’Europa di vent’anni fa, forte delle sue tradizioni di patria dei diritti, riteneva di
potere contaminare con la sua cultura costituzionale Paesi usciti da dittature durissime e
prolungate, riuscendo a conciliare libero mercato e tutela del lavoro, massima occupazione e
diritti dell’ambiente, stabilità politica e diritti della partecipazione democratica. Attraverso la
Commissione di Venezia ha assistito i Paesi dell’est che passavano dalla dittatura alla
democrazia senza assumere un piglio imperialista e senza pretendere forme di
assoggettamento politico dei nuovi regimi. E’ stato un momento magico questo per l’Europa.
Ogni traguardo sembrava a portata di mano.
Il grande contributo che essa dava ai Paesi dell’est che venivano a ricongiungersi
all’Europa, non pareva peraltro doverla distogliere dai doveri storici a cui riteneva di dovere
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adempiere verso i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, soprattutto da quando essa si era
allargata verso Sud con l’ingresso prima di Spagna e Portogallo e poi della Grecia, di Malta e
di Cipro. Gli accordi di associazione con Paesi come la Tunisia e poi l’avvio del processo di
europartenariato con la Conferenza di Barcellona (1995) sembravano peraltro gli atti concreti
di una politica mediterranea che assumeva i Paesi della sponda Sud come interlocutori
necessari (soprattutto in ragione dei forti storici legami da essi stabiliti con l’Europa) e non
dei normali partner da coinvolgere in un politica di vicinato che tendeva a coinvolgere Paesi
dell’est non candidati ad entrare nell’Unione europea. In questo senso l’avvio della istruttoria
per l’ammissione della Turchia nella
UE
costituiva un atto dal forte valore simbolico
indirizzato all’intero mondo musulmano.
L’attacco alle Due torri, la passiva condivisione delle politiche di Bush jr nelle guerre
per la democrazia, che dovevano rimanere atti di solidarietà verso popolazioni oppresse e non
guerre “imperiali” e infine la crisi economica hanno visto il prevalere dell’Europa della paura
sull’Europa del coraggio e della grande progettualità. L’Europa, sentendosi aggredita nelle
sue certezze, si è mossa rispondendo ad impulsi emotivi: la certezza di un benessere prodotto
da un capitalismo in grado di garantire processi di accumulazione inesauribili, la certezza di
una identità culturale in grado di assorbire le identità diverse delle comunità di immigrati che
sceglievano di vivere nei suoi territori e che adesso, al contrario, vengono vissute come una
minaccia, la certezza di potere usare i territori della sponda Sud come luoghi di sfruttamento
di materie prime acquisite a condizioni tali da consentire ai cittadini europei di vivere al di
sopra delle proprie possibilità.
L’Europa ha avuto paura di tante incertezze, di un destino oscuro, di tanti nemici
minacciosi che congiuravano contro la sua sicurezza dentro i propri confini e fuori di essi e,
come sempre le è capitato di fare nei momenti di difficoltà, si è chiusa al mondo esterno e al
mondo delle diversità che accoglie nel proprio seno, divenendo così culturalmente più povera,
mortificando le proprie tradizioni di libertà e facendo prevalere le tendenze razziste
provenienti da una destra politica che alimenta a fini elettoralistici l'allarme sociale prodotto
dalla società multietnica.
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La storia europea del secondo millennio insegna che proprio nei momenti di chiusura
l'Europa ha registrato una preoccupante decadenza creando le condizioni per l'emergere del
nazionalismo guerrafondaio e di una condizione di isolamento internazionale. I tempi di
splendore della civiltà europea sono invece legati alle aperture che si sono avute nel
continente nei confronti delle altre civiltà e che hanno consentito l'emergere di società
pluraliste, la coesistenza pacifica di diverse religioni, in grado di garantire il progresso
culturale e lo sviluppo economico.
È paradossale che l'Europa disconosca le tradizioni dello Stato sociale nato nel
continente proprio nel momento in cui gli Stati Uniti del presidente Obama rifiutano i miti di
un neoliberismo egoista e si preoccupano di iniziare a dare protezione a chi non ha mai potuto
sperimentare il senso di sicurezza che solo uno stato “compassionevole” può dare. Nella
campagna elettorale che l'ha visto opposto al liberista Romney, Obama ha spiegato che i
diritti sociali sono diritti fondamentali perché consentono all'individuo di realizzarsi non solo
nella sua relazione con gli altri esseri umani ma come membro di un gruppo sociale che va
salvaguardato nella sua articolazione; che i diritti sociali sono necessario complemento dei
diritti civili e delle libertà dal momento che nessuno può fruire di essi senza un minimo di
sicurezza sociale. Non c'è una vera libertà se si assume lo Stato come un antagonista che si
estranea dalla condizione umana, ma solo potendo contare sull'aiuto dello Stato.
Se l'austerità finanziaria dovesse essere fine a se stessa e non finalizzata alla crescita
economica nel contesto delle sistema europeo, il rischio è che via via si “rompano” non
soltanto i paesi che dalle agenzie di rating vengono giudicati come paesi deboli e inaffidabili
ma anche i paesi che hanno un rating da tripla AAA. E a poco vale, sul piano internazionale, il
rafforzamento della fiducia nell'euro se all'interno degli Stati europei prevale il disordine
sociale che inevitabilmente porta alla instabilità politica. Uno Stato sociale vitale è essenziale
per la crescita che non può venire soltanto dal rigore finanziario. La vitalità dello Stato sociale
che deve essere patrimonio comune di tutti i paesi europei costituisce un elemento, non
secondario, di impulso dello stesso processo di integrazione. Compito dell'Europa non è
quindi quello di deprimere gli sforzi che gli Stati fanno per conseguire questi risultati,
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imponendo tagli regionali ragioneristici alla spesa sociale, ma di fornire adeguati sostegni a
quanto gli Stati già fanno per garantire le politiche della solidarietà.
L’Europa nei decenni scorsi si candidava al ruolo di attore globale, in grado di influire
sulle decisioni da cui dipendevano la pace e l'ordine sociale del pianeta, e soprattutto a fare
ciò in primo luogo nella regione mediterranea .Oggi invece l'Europa nel Mediterraneo conta
poco pur in presenza di eventi che potrebbero avere conseguenze straordinarie sul futuro della
regione e del continente africano. Le rivolte per la libertà verificatisi nei paesi della sponda
sud via via paiono ignorate, sminuite nel loro significato da uno scetticismo che porta a
guardare quel mondo utilizzando stereotipi che avevano ragion d’essere ai tempi dei dittatori
amici dell’Occidente. Nel momento in cui sembra prevalere nei paesi delle rivolte una sincera
voglia di libertà e di apertura verso l'Occidente più vicino, l'Europa si chiude, non erige ponti
che possono favorire il dialogo ma cortine per blindare le frontiere all'emigrazione illegale e
di quella legale. Il ricatto della destra populista ha buon gioco nell'imporre una politica ostile
al confronto tra le culture e al riconoscimento della identità. Non si parla più di un'alternativa
mediterranea possibile al modello di sviluppo euroatlantico. L’Europa politica non è in vista,
mentre si realizza un'Europa preoccupata di garantire l'ordine pubblico alle proprie frontiere,
di limitare la libertà degli immigrati che sono diventati frattanto cittadini europei. La società
europea ha paura di uno sviluppo dei paesi della sponda sud del Mediterraneo perché questo
sviluppo ci potrebbe rendere più poveri.
Di fronte a questi fenomeni abbiamo bisogno di una paziente opera di ripoliticizzazione
della società europea; da ciò dipende il futuro dell’Europa. Ma se l’Europa è soltanto una
potenza che da il meglio di se nella difesa di una moneta, è molto difficile che essa possa
divenire più sicura nell’esercizio del proprio ruolo planetario, e soprattutto che i diritti dei
propri cittadini possano essere difesi, in forme tali da farli sentire davvero cittadini europei.
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