2. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene
del mondo – il militarismo, il patriottismo, il
gesto distruttore dei libertari, le belle idee per
cui si muore e il disprezzo della donna.
(Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del futurismo, 1909)
5. “Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del
Testamento, Des Esseintes vedeva finalmente realizzata la Salomé
sovrumana e strana che aveva sognato.
Non era più soltanto la ballerina che, con una contorsione lasciva
delle reni, strappa a un vecchio un grido di desiderio e di foia; che
spezza l’energia, fiacca la volontà di un re con il turbinio dei seni, le
scosse del ventre, i brividi delle cosce; diventava in qualche modo la
divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale
Isteria, la Bellezza maledetta, eletta fra tutte dalla catalessi che le
irrigidisce le carni e indurisce i muscoli; la Bestia mostruosa,
indifferente, irresponsabile, insensibile, che come l’Elena antica
avvelena tutto ciò che l’avvicina, tutto ciò che la vede, tutto ciò che
tocca.”
(Joris Karl Huysmans, À rebours, 1884)
7. Eva, Pandora, Elena
Evelyn De Morgan,
Elena di Troia, (1898)
John Roddam Spencer Stanhope,
Eva tentata, (c. 1877)
John William Waterhouse
Pandora, (1896)
10. “Immaginate, in effetti, un artista che si innamora della sua figlia,
della sua opera, di un’Erodiade, di una Giuditta, di un’Elena, di una
Giovanna D’Arco, da lui descritta o dipinta, e che la evoca e che
finisce per possederla in sogno! – Ebbene, questo amore è peggio
dell’incesto normale. In quel peccato, in effetti, il colpevole può
commettere sempre e solo un mezzo crimine, perché sua figlia non è
nata soltanto dalla sua sostanza, ma anche da un’altra carne. C’è
dunque, logicamente, nell’incesto, un aspetto quasi naturali, una
parte estranea, quasi lecita, mentre nel Pigmalionismo il padre
violenta la figlia della sua anima, la sola che è realmente pura e che
gli appartiene davvero, la sola che egli ha potuto generare senza il
concorso di altro sangue. Il delitto è dunque intero e completo.”
(Joris Karl Huysmans, Laggiù, 1891)
11. Fosca,
di Igino Ugo Tarchetti
Valeria D’Obici in Passione d’amore,
di Ettore Scola (1981)
12. 1.
Igino Ugo Tarchetti,
Fosca (1869), dal cap. XV.
Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti
uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla
spicciolata) e mi trovai solo con essa.
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna!
Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze
che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per
difetti di natura, per disarmonia di fattezze, - ché anzi erano in parte regolari, -
quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide;
per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua
persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne
travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza
spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla
grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi,
quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la
sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati - occhi d’una beltà
sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata
bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto
della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua
persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di
quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita
distinta; i suoi modi erano cosí naturalmente dolci, cosí spontaneamente cortesi
che parevano attinti dalla natura piú che dall’educazione: vestiva colla massima
eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la
sua orribilità era nel suo viso.
Cfr. Memento
Cfr. cap. XXXIII
13. Igino Ugo Tarchetti,
Memento
[in Desjecta, 1879]
Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non poss'io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.
E nell'orrenda visione assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporgere le fredda ossa di un morto.
14. Igino Ugo Tarchetti,
Fosca (1869), cap. XXXIII
Una cosa sovratutto – e la noto qui come quella che può dar
ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era
impadronita di me – contribuiva ad accrescere il mio dolore: il
pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse
trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era
evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi,
avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi,
era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione
spaventevole.
15. Tigre reale,
di Giovanni Verga
Pina Menichelli in un fotogramma tratto
da Tigre reale , di Giovanni Pastrone,
1916
16. 2.
Giovanni Verga,
Tigre reale (1875), cap. II
Ignoro come e dove si fossero incontrati; certo è che si conoscevano da qualche
tempo, e s'erano cercati cogli occhi in mezzo alla folla delle Cascine e della Galleria
degli Uffizi. «Non saprei dirti se sia bella,» mi aveva detto Giorgio, «so che amo come
un pazzo cotesta donna di cui ignoro persino il nome, e che mi ha detto cogli occhi
che le piaccio.»
Vanità, curiosità, simpatia fisica, non importa, - c'era l'ignoto dentro - il gran dio.
La prima volta che seppe il suo nome, in un ballo a Pitti, seppe anche molte cose
di lei: era civetta, orgogliosa, egoista, marmo di Carrara dentro e fuori; tal quale si
vedeva, con quel sorriso glaciale, si diceva avesse spinto al suicidio il solo uomo che
avesse mai amato, e amato alla follia, un amore da leonessa - si chiamava Nata,
nome dolce come due note di musica.
[…]
Allorquando i due uomini si avvicinarono a lei, ella si era fermata dinanzi a un
camino; vedendoli venire, aggrottò le sopracciglia con un rapido movimento, e fissò
su di Giorgio, attraverso lo specchio, uno sguardo limpido e ghiacciato come il
cristallo che lo rifletteva; poi si voltò intieramente, e gli piantò gli occhi in viso per
due o tre secondi […]. La contessa accolse freddamente la presentazione, inchinò
leggermente il capo senza aprir bocca, senza guardare Giorgio, quasi senza badargli,
e si allontanò appena egli ebbe scritto il suo nome sul taccuino che gli presentò.
[…]
Cotesta donna avea tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le
impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raffinata - era boema,
cosacca e parigina - e nella pupilla felina corruscavano delle bramosie indefinite ed
ardenti. Anch'essa, come Giorgio, aveva strascinato la sua stanchezza irrequieta
dappertutto, in carrozza o in slitta, colla rapidità del vento che avea appassito le sue
guance e increspato non senza leggiadria le sue labbra. Tutti avevavano arso l'incenso
dinanzi all'idolo moderno, il marito che l'aveva sposata, gli uomini che tentavano
rubarla al marito, le donne che le invidivano le sue gemme e la sua avvenenza;
questa grande passione umana, in nome della quale ell'era diva, le turbinava ai piedi,
le ripeteva incessantemente lo stesso inno, glielo sbriciolava qua e là, al ballo, al
teatro, nelle visite, in frasi galanti e in occhiate sentimentali.
17. Ella, ritta sul piedestallo, s'annoiava, e provava delle curiosità pungenti. Una
volta, una volta sola, quel sentimento ignoto, quel trastullo, quella forma d'omaggio
universale, l'avea investita dai piedi alla testa come una fiamma, e le avea dato febbri
da leonessa. Più tardi, allorché s'erano veduti nelle feste, la sua fronte di marmo e i
suoi occhi asciutti, nessuno avrebbe potuto indovinare che ella soffocasse ruggiti di
spasimo, e di quel turbine che in un'ora avea solcato la sua anima, di quella caduta in
un istante, non rimanevano altre vestigia che il sorriso implacabile della sua
civetteria, e certa avidità scintillante dello sguardo che sembrava cercare qualche
cosa, un conforto, un ricordo o una rappresaglia - non più scettica, ma diffidente -
guardinga per sé, e spietatamente capricciosa cogli altri.
Dall'incontro di questi due prodotti malsani di una delle esuberanze patologiche
della civiltà, il dramma dovea scaturire naturalmente, dramma o farsa, come dall'urto
di due correnti elettriche. Giorgio effeminato, effeminato nel senso moderno ed
elegante, buon spadaccino all'occorenza, nel quarto d'ora, e tale da giuocare
noncurantemente la vita per un capriccio, ma solito ad esagerare il capriccio sino a
farne una passione, e solito ad esagerare l'idea della passione sino a renderla
realmente irresistibile; fiacco per non aver mai combattuto se stesso. - Quell'altra
con tutti gli impeti bruschi e violenti della passione inferma, vagabonda ed astratta,
però forte e risoluta, col cuore di ghiaccio e l'immaginazione ardente. Egli con tutte le
suscettibilità, con tutte le delicatezze, con tutte le debolezze muliebri; ella con tutte
le veemenze, tutte le energie, tutti i dispotismi virili.
Cfr. La lupa
18. Giovanni Verga,
La lupa
[in Vita dei campi, 1880]
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e
vigoroso da bruna - e pure non era più giovane -
era pallida come se avesse sempre addosso la
malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e
delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era
sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la
croce quando la vedevano passare, sola come
una cagnaccia, con quell'andare randagio e
sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i
loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio,
con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla
gonnella solamente a guardarli con quegli occhi
da satanasso, fossero stati davanti all'altare di
Santa Agrippina.
20. 3.
Gabriele D’Annunzio,
Il piacere (1889), III, 2
Chi era ella mai?
Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di
tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere
morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale,
per dir così, era l’imaginazione: una imaginazione romantica, nudrita di letture
diverse, direttamente dipendente dalla matrice, continuamente stimolata
dall’isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel
lusso d’una casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di
storia, ella erasi velata d’una vaga incipriatura estetica, aveva acquistato un
gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere della sua bellezza, ella
cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne la
spiritualità, irraggiando una capziosa luce d’ideale.
Ella portava quindi, nella comedia umana, elementi pericolosissimi; ed era
occasion di ruina e di disordine più che s’ella facesse publica professione
d’impudicizia.
Sotto l’ardore della imaginazione, ogni suo capriccio prendeva
un’apparenza patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendii
improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici della sua carne e
sapeva transformare in alto sentimento un basso appetito....
21. Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna un
tempo adorata. Procedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi d’innanzi
ad alcun ricordo più vivo. In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione dell’amor
d’Elena trovava l’artifizio, lo studio, l’abilità, la mirabile disinvoltura nell’eseguire
un tema di fantasia, nel recitare una parte dramatica, nel combinare una scena
straordinaria. Egli non lasciò intatto alcuno de’ più memorabili episodii: nè il
primo incontro al pranzo di casa Ateleta, nè la vendita del cardinale Immenraet,
nè il ballo del’Ambasciata di Francia, nè la dedizione improvvisa nella stanza
rossa del palazzo Barberini, nè il congedo su la via Nomentana nel tramonto di
marzo. Quel magico vino che prima lo aveva inebriato ora gli pareva una
mistura perfida.
Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se, penetrando
nell’anima della donna, egli penetrasse nell’anima sua propria e ritrovasse la sua
propria falsità nella falsità di lei; tanta era l’affinità delle due nature. E a poco a
poco il disprezzo gli si mutò in una indulgenza ironica, poichè egli comprendeva.
Comprendeva tutto ciò che ritrovava in sè medesimo.
22. 4.
Gabriele D’Annunzio,
Il piacere (1889), III, 3
Allora, sempre guardando se l’altra venisse, egli si abbandonò al sogno che
gli suggerivano le apparenze delle cose.
Era un sogno poetico, quasi mistico. Egli aspettava Maria. Maria aveva
eletta quella notte di soprannaturale bianchezza per immolar la sua propria
bianchezza al desiderio di lui. Tutte le cose bianche intorno, consapevoli della
grande immolazione, aspettavano per dire ave ed amen al passaggio della
sorella. Il silenzio viveva.
“Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem. È avvolta nell’ermellino;
porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è più leggero della
sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave.
“Un’ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l’accompagna.
I gigli enormi e difformi non s’inchinano, poichè il gelo li ha irrigiditi, poichè il
gelo li ha fatti simili agli asfodilli che illuminavano i sentieri dell’Ade. Ben però,
come quelli de’ paradisi cristiani, hanno una voce; dicono: ― Amen.
23. “Così sia. L’adorata va ad immolarsi. Così sia. Ella è già presso l’aspettante;
fredda e muta, ma con occhi ardenti ed eloquenti. Ed egli prima le mani, le care
mani che chiudono le piaghe e schiudono i sogni, bacia. Così sia.
“Di qua, di là, si dileguano le Chiese alte su colonne a cui la neve illustra di
volute e d’acanti magici il fastigio. Si dileguano i Fòri profondi, sepolti sotto la
neve, immersi in un chiarore azzurro, onde sorgono gli avanzi dei portici e degli
archi verso la luna più inconsistenti delle lor medesime ombre. Si dileguano le
fontane, scolpite in rocce di cristallo, che versano non acqua ma luce.
“Ed egli poi le labbra, le care labbra che non sanno le false parole, bacia.
Così sia. Fuor della fascia discinta si effondono i capelli come un gran flutto
oscuro, ove tutte sembran raccolte le tenebre notturne fugate dalla neve e dalla
luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit. Amen.„
E l’altra non veniva! Nel silenzio e nella poesia cadevano di nuovo le ore
degli uomini scoccate dalle torri e dai campanili di Roma.
25. 5.
Italo Svevo, Senilità
(1898), dal cap. I.
Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva
compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioé a un dipresso così: -
T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto
cauti. - La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore
altrui, e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: - Mi piaci molto, ma
nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho
altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia.
La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né
moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più
vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il giovane;
ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva
a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava
sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli
traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il
godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama
insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel
cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere,
invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.
26. La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si
componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di
poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro
di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di
una riputazioncella, - soddisfazione di vanità più che d’ambizione - non gli
rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver
pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto
nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era
ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era
stato detto soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato
come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio
artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta.
Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera,
egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell’arte, egli
credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi
nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione,
non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa non paziente, di qualche
cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli
di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non
fosse tramontata.
27. Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e
flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa
da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come
piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni
passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire
un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: -
Strano - timidamente guardandolo sottecchi. - Nessuno mi ha mai parlato così. -
Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a
lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne
ebbe l’aspetto di fraternamente dolce.
Fatte quelle premesse, l’altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto
alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei
lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso
le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al
calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non
aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un
sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano,
indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e
bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di
desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo,
non avrebbe compromesso.
28. 5.
Italo Svevo, Senilità
(1898), dal cap. XIV.
Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati
per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col
sentimento di colui cui é stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto
però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e
la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio.
Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più
importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù.
Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò
inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei
una seconda volta. Divenne triste, sconsolantemente inerte, ed ebbe l’occhio limpido
ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del
pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore é ammirazione e desiderio. Ella
rappresentava tutto quello di nobile ch’egli in quel periodo avesse pensato od
osservato.
Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa
parte, l’orizzonte, l’avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla
sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L’immagine concretava il sogno
ch’egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva
compreso.
Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante,
sempre però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se
le fosse stato spiegato il segreto dell’universo e della propria esistenza; piange come
se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque.
30. 9.
Sibilla Aleramo, Una
donna (1906), dal cap. III.
Una volta ancora tornò l’estate. Io compivo i quindici anni. Alla spiaggia
dove la colonia bagnante si riuniva e invitava talora a’ suoi passatempi, mi
vedevo osservata con curiosità da tutti, guardata con insistenza da uomini di
varia età, e un giovane prima, malaticcio e motteggiatore, poi un altro quasi
ancora adolescente, dal corpo forte ed agile e dalla testa ricciuta che mi
ricordava certi bronzi visti nei musei, mi occuparono per qualche settimana la
fantasia senza farmi battere il cuore né destarmi istinti di civetteria. A me stessa
ridendo chiedevo: “M’innamorerei?...” e il giuoco mi piaceva, pareva dare un
sapor nuovo alla vita che vivevo con tanta foga. Facendomi cullare dall’onda per
ore ed ore sotto il sole ardente, sfidando il pericolo coll’allontanarmi a nuoto
dalla riva e non esser più visibile, io mi unificavo con la natura e sfogavo insieme
l’esuberanza del mio organismo. Ero una persona, una piccola persona libera e
forte; lo sentivo, e mi sentivo gonfiare il petto d’una gioia indistinta.
[…]
Che cos’era quella forza oscura che mi si rivelava così d’un tratto,
quell’amore di cui le mie letture m’avevan dato un concetto chimerico? Era
dunque una cosa nefasta, degradante, e pur formidabile se aveva potuto
vincere ed avvilire mio padre!
E la vita, che ignoravo, ma in cui avevo sempre creduto fosse riposto un fine
di bontà e di bellezza, m’appariva incomprensibile, deforme…
31. Quanti giorni vissi con l’atroce tumulto nell’anima? Non so più. So soltanto
che negli istanti di depressione succedenti al parossismo, una voce calda e
giovanile, insistente, al mio fianco, mi sussurrava parole di ammirazione sempre
meno velate. In certi momenti mi sentivo àtona, istupidita, e quell’unica voce
continuava, m’investiva con l’accento della passione.
[…]
Così, sorridendo puerilmente, accanto allo stipite di una porta che divideva
lo studio del babbo dall’ufficio comune, un mattino fui sorpresa da un abbraccio
insolito, brutale, due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il
mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si
divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in urlo, quando l’uomo
premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo fuggire e sbattersi
l’uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo laboratorio in fondo allo studio.
Tentavo di ricompormi, mentre mi sentivo mancare le forze; ma un sospetto
acuto mi affiorò. Slanciatami fuor dalla stanza, vidi colui, che m’interrogava in
silenzio, smarrito, ansante. Dovevo esprimere un immenso orrore, poiché una
paura folle gli apparì sul volto, mentre avanzava verso di me le mani congiunte
in atto supplichevole…
32. 10.
Sibilla Aleramo, Una
donna (1906), dal cap. XX.
E una lettera mi fermò il respiro. Datava da Milano: era scritta a matita, in
modo quasi illeggibile, di notte. La mamma annunziava a suo padre il suo arrivo
per il dì dopo; diceva di aver già pronto il baule colle poche cose sue, di essere
già stata nella camera dei figliuoli a baciarli per l'ultima volta...
"Debbo partire... qui impazzisco... lui non mi ama più... Ed io soffro tanto
che non so più voler bene ai bambini... debbo andarmene, andarmene... Poveri
figli miei, forse è meglio per loro!..."
La lettera non era finita: certo non era stata rifatta né spedita. La sventurata
non aveva avuto il coraggio di compiere il proposito impostosi in un'ora di
lucida disperazione. Aveva forse pensato che suo padre non avrebbe voluto o
potuto accoglierla; che la miseria l'attendeva; che il suo cuore si sarebbe
spezzato lungi dalle sue creature e da colui che aveva avuta tutta la sua
gioventù. Ella l'aveva amato! L'amava ancora? Per noi sopra tutto era rimasta:
per dovere, per il timore di sentirsi dire un giorno: "Ci hai abbandonati!...".
Non avevo mai sospettato che mia madre si fosse trovata un momento in
una simile situazione. La mia intelligenza precoce non aveva potuto, a Milano,
penetrar nulla. Avessi avuto qualche anno di più, mentre ella era in possesso di
tutta la sua ragione, e ancora in lei la vita reclamava i suoi diritti contro la fatale
seduzione del sacrificio! Avessi potuto sorprenderla in quella notte, sentire,
dalla sua bocca, la domanda: "Che devo fare, figlia mia?" e rispondere anche a
nome dei fratelli: 'Va', mamma, va'!".
Sì, questo le avrei risposto; le avrei detto: "Ubbidisci al comando della tua
coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana,
nella vita, lavorando, lottando. Conservati da lontano a noi; sapremo valutare il
tuo strazio d'oggi: risparmiaci lo spettacolo della tua lenta disfatta qui, di questa
agonia che senti inevitabile
33. Ahimè! Eravamo noi, suoi figli, noi inconsci che l'avevamo lasciata
impazzire. S'ella fosse andata via, se nostro padre non ci avesse permesso di
raggiungerla, ebbene, noi l'avremmo nondimeno saputa viva, e dopo dieci,
vent'anni, ancora avremmo potuto ricevere da lei i benefizi del suo spirito
liberato e temprato...
Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa
inumana idea dell'immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si
tramanda il servaggio.
È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la
coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il
rimorso di non aver compensato adeguatamente l'olocausto della persona
diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri,
rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di
annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre
non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un
esempio di dignità? Allora si incomincerebbe a comprendere che il dovere dei
genitori s'inizia ben prima della nascita dei figli, e che la loro responsabilità va
sentita innanzi, appunto allora che più la vita egoistica urge imperiosa,
seduttrice. Quando nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere
tutti gli elementi necessari alla creazione d'un nuovo essere integro, forte,
degno di vivere, da quel momento, se un debitore v'ha da essere, non sarebbe
questi il figlio?
Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in
essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente
suscitati dal nulla, rinunziamo all'essere noi stessi...
34. In realtà la donna è una cosa che esiste solo nella
fantasia degli uomini: ci sono delle donne, ecco tutto.
(Rina Faccio)
Notas del editor
Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato, AL, 1839 – Milano, 1869). Poeta fra i più rappresentativi delle inquietudine e della sensibilità “malata” propria di molti degli esponenti di quel fenomeno letterario chiamato Scapigliatura.
Fosca è la storia, narrata in prima persona dal protagonista cinque anni dopo i fatti, di Giorgio, giovane ufficiale che prima conosce Clara, donna sposata serena, positiva, bella e allegra, con la quale intrattiene una relazione. Spedito poi in una cittadina di provincia, conosce Fosca, la sorella del proprio superiore, una donna malata e dalla “bruttezza orrenda”, ma intelligente e sensibilissima. Fosca si innamora di Giorgio, che cerca di sfuggirle (continuando la relazione con Clara), ma poi, un po’ per pietà e un po’ per una incomprensibile suggestione, pian piano cede a questo amore malato e distruttivo. Finirà che il colonnello sfiderà a duello Giorgio, il quale, la notte prima del duello, vivrà una notte d’amore con Fosca, che tre giorno dopo morità “felice, illusa, soddisfatta”; mentre Giorgio vedrà acuirsi i segni dell’oscuro male che Fosca sembra avergli trasmesso.
Il romanzo nasce da una esperienza autobiografica, e questo rende plausibile una prima chiave di lettura: Fosca rappresenta un amore geloso e possessivo che ha rovinato la relazione del sensibile ufficiale (Tarchetti stesso) con una bella dama sana e serena, portando lo stesso autore alla disperazione.
Ma una analisi un po’ più approfondita permetterà, vedremo, di leggere il romanzo in una chiave psicologica ben più articolata: Fosca, in realtà, possiamo dire che è Tarchetti stesso: un uomo e uno scrittore che, come tanti nella sua epoca, ha una sensibilità estrema, patologica, che corteggia la morte, ne è ossessionato (cfr. Memento).
Tarchetti morirà giovanissimo, di tifo, dopo essere stato indebolito fino allo stremo dalla tisi. La donna che ha ispirato il personaggio di Fosca (Carolina o Angiolina), continuerà ogni primo novembre a mandare fiori sulla sua tomba.
Sembra quasi, in questo passo, che vi sia una sostanziale irresolutezza nel giudicare l’aspetto di Fosca: è brutta, orribile, ma ha anche qualcosa di bello, di attraente.
Questo si spiega col fatto che, sostanzialmente, Fosca è la Morte: orribile ma anche, per Tarchetti, dotata di una irresistibile forza attrattiva, come gli occhi della Medusa.
L’attrazione per la morte è in Giorgio una malattia, è la malattia. Il romanzo è il riconoscimento di essere portatore di questa malattia.
La riflessione sull’onomastica è interessante anche nel caso della produzione romanzesca pre-verista di Verga, non molto nota ma davvero interessante: ci sono Narcisa (Una peccatrice), Eva (nel romanzo omonimo), Valleda (Eros; Valleda è il nome di una profetessa e guerrira germanica che guidò i Batavi contro l’impero romano, protagonista de I martiri di Chateaubriand), Maria (Storia di una capinera). Resta fuori Natasha, protagonista di Tigre reale, ma qui la lettura simbolica del personaggio è affidata (fin dal titolo) alla metafora animale. Tigre Reale, ultimo dei romanzi preveristi di Verga, narra la storia di Giorgio La Ferlita, figura di giovane diplomatico inetto diviso fra l’amore per l’aristocratica russa Nata malata di tisi e la “familiare” e sicilianissima Erminia (nome tassesco, anche questo non casuale). Leggiamo un brano dal secondo capitolo.
Giorgio La Ferlita, un giovane di carattere debole e volubile, conosce a Firenze, durante un ballo a Pitti, una contessa russa malata di tisi, Nata, e ne rimane attratto. Nata lo contraccambia e i due iniziano a frequentarsi con assiduità mantenendo però la loro relazione entro i limiti di una intensa amicizia.
La storia viene interrotta dall'annuncio della partenza di Giorgio per Lisbona e dall'arrivo del marito di Nata che la raggiunge per riportarla a casa. Nata scrive a Giorgio una lettera e gli promette che quando sentirà la morte vicina verrà a morire presso di lui e che nel frattempo vivrà nel suo amore.
Trascorso un po' di tempo Giorgio si sposa con Erminia e durante la festa per celebrare la nascita del suo primo figlio viene a sapere dal dottor Rendona che Nada è ritornata e che i suoi giorni sono ormai contati. Giorgio, senza che la moglie ne sia a conoscenza, riprende a frequentare la contessa malata ma nel frattempo arriva Carlo, un cugino di Erminia, che un tempo era innamorato della donna e ne era ricambiato e i due rimangono nuovamente attratti l'un verso l'altro. Giorgio intanto continua ad assentarsi per andare a trovare la contessa e Carlo rimane molto vicino a Erminia che in lui trova conforto. Ma una notte il bambino di Giorgio ed Erminia rischia di morire e Carlo, mentre Giorgio è da Nada, conforta la cugina. Quando Giorgio fa rientro a casa si rende conto che la situazione stava diventando grave e decide di non allontanarsi più né dalla moglie né dal figlio. Erminia prega Carlo di partire e dal dispiacere si ammala. Fortunatamente la crisi passa e la famiglia riunita e serena si reca un giorno a fare un viaggio in treno dal quale assistono al trasporto funebre di Nata che il marito riporta in patria.
Qui – a differenza che in Tarchetti, dove la distanza fra io narrante e autore è ridotta al minimo, e dove il protagonista proietta in maniera quasi ingenua la sua attrazione per la morte sulla figura di Fosca – la situazione è già più complessa: la storia è raccontata da un personaggio-testimone, un amico del protagonista che agisce pochissimo nella storia; Verga usa gli occhi di questo personaggio per farci vedere la storia con sguardo esterno e distaccato (quasi una anticipazione, in tutt’altro contesto, delle tecniche veristiche dell’estraniamento e dell’oggettività).
In Verga, che è, al di là di tutto, un grande moralista, un moralista conservatore e pessimista, c’è anche la volontà di dare una chiara lettura dei fatti. Il moralista ci dice che l’unica àncora (la morale dell’ostrica in chiave altoborghese) è la fedeltà ai doveri familiari, infine accettati da Giorgio e Erminia. Il pessimista ci dice già che siamo tutti vinti, nella fiumana della vita, e che inseguire i nostri obiettivi, giusti o sbagliati che siano, ci renderà tutti dei “vinti”. Anche Nata, alla fine, più che una femme fatale, ci sembrerà piuttosto una eroina tragica sopraffatta dal dolore e dalla malattia mortale. L’ultima immagine del romanzo sarà quella del carro funebre che la riporta in Russia…
La donna-animale, qui tigre o leonessa, avrà una memorabile incarnazione anche nella stagione verista di Verga in La lupa, notissima novella di Vita dei campi (1880).
La donna vampiro, dunque, o meglio “cannibale” (“labbra fresche e rosee, che vi mangiavano”, “ella si spolpava i loro figliuoli”), con espliciti riferimenti al diabolico (“occhi da satanasso”). Il tutto visto attraverso la regressione ad un narratore anonimo popolare in questo caso femminile, che parla con le parole della gelosia, della rabbia, e avvertiamo la presenza di un mondo di istinti primordiali, feroci e animaleschi, che non sono solo della Lupa, ma di tutte le donne del paese.
Gabriele D’Annunzio (1863-1938).
Riassunto dell’opera.
II conte Andrea Sperelli Fieschi d'Ugenta, ultimo discendente di una nobile famiglia, attende a palazzo Zuccari dove vive presso Trinità de'Monti l'affascinante duchessa Elena Muti. Sono trascorsi due anni dall'ultimo incontro, quando Elena aveva improvvisamente deciso di interrompere la loro intensa e tormentata relazione e di partire da Roma. Andrea ha cercato invano di dimenticarla gettandosi nella vita mondana e passando da un'avventura erotica all'altra. Ferito in un duello il giovane conte ha trascorso nella villa di una cugina a Schifanoja una lunga convalescenza, durante la quale gli è sembrato di ritrovare se stesso nella poesia e nell'arte. Qui ha conosciuto Maria Ferres, moglie di un diplomatico guatemalteco, sensibile e pura, con la quale s'è illuso di poter vivere un amore finalmente sano. Rientrato a Roma, l'esasperata sensualità lo ha portato però a rituffarsi nella ricerca del piacere e ora che Elena è tornata, anche se sposata con Lord Heatfield, si riaccende la passione per lei. Durante il loro incontro Elena si dice disposta all'amicizia ma non più all'amore. Andrea esasperato pensa di trovare conforto nell'amore di Maria. Da questo momento nei pensieri e desideri di Andrea le immagini delle due donne si sovrappongono morbosamente fino a non riuscire più a separarle. La situazione precipita quando Elena sta per concedersi ad un altro e Maria, coinvolta nella rovina del marito sorpreso a barare al gioco, è costretta a lasciare Roma. Nell'ultimo incontro con lei Andrea nel trasporto della passione si lascia sfuggire il nome di Elena. Maria fugge sconvolta. Rimasto solo Andrea si reca in casa Ferres e smarrito si aggira per le stanze dove vengono venduti all'asta i mobili.
Note
Il Piacere raccontando le vicende dell’esteta Andrea Sperilli (anche qui un alter ego del D’Annunzio nella sua fase “romana”) racconta anche i limiti dell’estetismo stesso e – di fatto – è la narrazione di una sconfitta esistenziale: la sconfitta di chi facendo della propria vita un’opera d’arte si è in realtà svuotato e isterilito. La crisi trova il suo banco di prova nel rapporto con la donna. Andrea è diviso nell’amore fra due donne: Elena Muti, donna fatale che incarna l’erotismo lussurioso, e Maria Ferrer, donna pura che rappresenta l’occasione di un riscatto, di una elevazione spirituale, ma che nei fatti sarà solo l’oggetto di un gioco erotico più sottile e perverso, fungendo da sostituto di Elena.
Siamo nel terzo libro, forse il più interessante, in cui Andrea Sperelli, dopo il duello, dopo la convalescenza e l’incontro con Maria, torna a Roma, e “d’un balzo” “si rituffò nel piacere”.
C’è, prima di questa, una intensa pagina che spiega la crisi dell’esteta (“della menzogna s’era fatto nella vita un abito”) che deve decidere se crescere, dedicarsi a qualcosa di più alto, a vanificare la sua vita nel tentativo di mordere qualche piacere momentaneo.
Ma la menzogna è ormai davvero l’abito di Andrea, non se ne può liberare. E la menzogna è la chiave di questa pagina: chi mente, qui? Andrea, Gabriele, entrambi?
E in che rapporto sarà D’Annunzio narratore e D’Annunzio uomo, e come si rileggerà? Il gioco degli specchi è inestricabile, probabilmente lo stesso D’Annunzio c’è rimasto imbrigliato, sia nella vita, sia nell’arte.
Non sarà un caso che, da questa pagina, con una certa logica cinica, nascerà il piano di riconquistare, freddamente, e solo per il piacere di degradarla, la bella Elena. Ma anche questa si rivelerà una menzogna che Andrea dice a sé stesso.
Dice, poche righe prima: “Dalla sovrana purità delle cose nasceva l’imagine dell’amante pura, simbolicamente”.
Antefatto: ormai Andrea gioca su due tavoli, è attratto maggiormente da Maria, ma non riesce a dimenticare l’attrazione carnale per Elena. Elena gli manda un biglietto: fatti trovare sotto il mio palazzo, se non mi vedi entro mezzanotte, non verrò.
Andrea passa la serata ad aspettare Elena, ma fantasticando la venuta di Maria. Elena non viene, alla fine se ne va indispettito, e butta il mazzo di rose bianche (originariamente per Elena) sulla neve, davanti casa di Maria. Maria le vede e…
Anche qui il gioco narrativo è interessante: Andrea fa un discorso diretto, ma in terza persona. Uno sdoppiamento del personaggio, nel sogno-fantasia.
Italo Svevo (186-1928)
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Concludiamo con lo straordinario romanzo autobiografico di Sibilla Aleramo, Una donna (1906). Il romanzo racconta, sotto una labile cortina romanzesca, i primi 25 anni circa della vita di Rina Faccio: la gioventù a Porto Civitanova Marche, il lavoro nella fabbrica di cui l’amatissimo e ammiratissimo padre era direttore, la fragilità della madre, la scoperta traumatica dei tradimenti del padre, e poi lo stupro da parte di un collega, il tentato suicidio della madre, il matrimonio riparatore, l’aborto, il figlio, il tentato suicidio suo, il tradimento del marito (la storia della madre che si ripete), la pazzia della madre. Sembra un drammone ottocentesco, se non fosse che ciò che è raccontato è tutto vero, quasi a dire che i drammoni ottocenteschi sono usciti dai libri e dai palchi dei teatri e sono entrati nel mondo reale. E allora, quando ne sei protagonista, non basta più raccontarli. Allora il romanzo diventa la storia di una rivolta, di un riscatto, di una ri-nascita. Una rinascita che avviene sotto il segno della rinuncia ad una maternità reale per diventare madre della scrittura – e quindi madre di tutti. Rina, la protagonista senza nome, Sibilla, rinuncia alla vita con l’amatissimo figlio e – per non fare la fine della madre – va via di casa, diventa scrittrice, diventa Sibilla Aleramo.
Il romanzo è anche e soprattutto una storia di maternità, una maternità rifiutata, o quantomeno “superata”. A p. 69 si dice: “In me la madre non s’integrava con la donna”. A p. 91 (dopo aver “virtualmente” tradito il marito e essere picchiata da lui, e tenta il suicidio): “La donna ch’io ero stata fino a quella notte doveva morire”. Poi arriva la scrittura (p. 116): “ Un occulto ardore correva per quei fogli, che io cominciavo ad amare come qualcosa di migliore di me, quasi mi rendessero la mia imagine già purificata e mi convincessero ch’io poteva vivere intensamente e utilmente. Vivere! Ormai lo volevo, non più solo per mio figlio, ma per me, per tutti”.
Il romanzo diventa anch’esso un percorso per la realizzazione di un ideale di donna: libera, emancipata, capace di esprimere la sua ricchezza interiore nella scrittura. Una donna che possa essere modello per l’emancipazione di tutte le altre. Anche qui, come si vede, c’è un’opera di proiezione, di creazione di un modello ideale. La differenza, non piccola, è che Rina-Sibilla l’ha costruito dolorosamente sul suo corpo di donna. Non è una differenza da poco.
Concludiamo con la lettura della pagina chiave del romanzo, quella in cui la protagonista trova una lettera, mai spedita, della madre. In questa lettera la madre di Rina, Ernesta Cottino Faccio, confessava al padre la sua disperazione e progettava una fuga, un ritorno alla casa paterna e l’abbandono dei figli. La lettera non fu mai spedita, Ernesta rimase coi figli e con il marito fedifrago, e nel giro di pochi anni impazzì, fu rinchiusa nel manicomio di Santa Croce di Macerata e non ne uscì più. Rina capisce che non può fare la stessa fine, che deve diventare Sibilla Aleramo.