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PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/2

6

Noi siamo già morti
perché per esserlo
ci basterebbe un gesto.
Piero Ciampi

PRIMO PIANO

I (cine) mondi
perduti di
Davide Manuli

S
di DOMENICO
MONETTI

Il precedente
Speciale Nuovo
Cinema Italiano,
apparso sul
numero scorso,
è stato dedicato a:
De Serio,
Di Costanzo,
Frammartino,
Giovannesi,
Marcello,
Quatriglio,
Segre

Come se fossero fatti non di pellicola ma di sangue, sudore e lacrime, i film di
Davide Manuli non raccontano semplici vicende di vita ma una specie di
radiografia ingrandita di un malessere generalizzato, rappresentabile solo con
l’humour di Beckett e con un’overdose di disperazione. Un autore visionario ed
estremo che vive il cinema come esperienza irripetibile.
i potrebbe almeno per una volta
cominciare a descrivere l’autore
Davide Manuli e un certo panorama
socio-politico, per arrivare poi al suo
“cinema”. Perché – caso più unico
che raro! – la sua fisiognomica, così
come l’attuale panorama desertificato del sociale e del culturale corrispondono attraverso una lente anamorfica ai suoi film. Un film nel
film. Come se le sue opere fossero
fatte non di pellicola ma di sangue,
sudore e lacrime. E ciò che si vede
poi sullo schermo non sono delle
semplici vicende ma delle radiografie ingrandite di una smorfia che ha
deciso di balbettare il proprio de
profundis con l’humour di beckettiana memoria. Forse perché per essere
semplicemente poeti bisogna disporre di una non comune overdose di
disperazione. La difficoltà a stare al
mondo - in “questo” mondo! – appare già un’impresa titanica. Filmare
l’esistente diventa una missione
impossibile. In un paese come

l’Italia diventa tutto ancora più
avvilente, una sorta di joint venture
suicida. Il sistema politico/economico/sociale è diventato un anello di
Möbius, nel quale sono tutti vittime
e complici allo stesso tempo. Un
mostro che capovolge i dati della
liberazione sociale. Una falsa onda
liberatrice ha fatto in modo di rifilare a noi sudditi il fantasma del potere e della libertà. Siamo tutti complici di un potere che non esiste più.
Tutti si raccontano la commedia del
potere, del sociale o della cultura.
Dopo la mobilitazione del lavoratore, del cittadino nel suffragio universale, ecco giunta ma ormai già collassata quella del consumatore. Si
estorce il bisogno, la spesa come un
obbligo sociale, dopo avere loro
estorto la parola, il voto, il sesso, la
felicità. L’economico e il politico
sono implosi uno dentro l’altro per
mutarsi in una economia politica
della deiezione, intenta nell’abiezione di “rigenerarsi” attraverso la ripu-
7

litura a secco della Storia in una
prospettiva vittimistica, come se si
avesse a che fare con una catastrofe
già in atto, già compiuta del genere
umano. Tutto accade come se ci
fosse una strategia (il potere stesso
che si mette in posizione vittimista),
ma in realtà non c’è alcuna volontà
politica. C’è una specie d’illusione
feroce e di profonda idiozia a ostinarsi nel buon senso nel cambiare le
cose quando non esiste senso, a
voler cambiare la forma dell’equazione quando questa è uguale allo
zero. La politica non è più la spiegazione della Storia. La Storia non è
più la spiegazione delle nostre azioni. La politica che si gioca oggi è soltanto un ricatto alla Storia e alla
Ragione storica. Il destino ineluttabile anche del cinema come dell’arte in generale è di reclinare nel-

l’epoca della volontà debole.
Caduto in disgrazia Lenin (Post
Marxismo), l’Occidente (Post
Liberismo), il moderno (Post
Moderno) siamo ormai nel post
mortem. In tale contesto Davide
Manuli appare un parossista solo
apparentemente indifferente, un
clandestino del cinema (non solo)
italiano, una sorta di incrocio tra lo
sperimentalismo del new waver
Faust(o), alias Fausto Rossi e la rabbia caustica ma lirica di un Piero
Ciampi, volto a “suonare” una mise
en abyme del post-apocalisse.
Dipingendola con svariati bianco e
neri. In un contesto paesaggistico di
anime morte (il deserto), noi spettatori ci riflettiamo come oggetti feticcio di un pensiero che non è più il
nostro, o che ne è l’eccedenza
incontrollabile. L’umano si è estinto

Davide Manuli.
Nato a Milano
nel 1967,
ha studiato
recitazione a
New York e ha
collaborato con
Al Pacino, Mike
Newell e Abel
Ferrara. Autore
di numerosi
corti ha
esordito nel
lungometraggio
nel 2006 con
“Girotondo,
giro intorno al
mondo”.
8

PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI

da un pezzo. Le storie nel cinema di
Davide Manuli diventano un recupero ed una riconfigurazione incessanti all’interno del museo dei suoni
campionati, di fantasmi che nella
musica tornano a essere corpi, a
danzare, a straniarsi, lasciando intravedere la definitiva estinzione di
tutti i referenti. Scrive Bruno Di
Marino: «Dopo l’esordio con
Girotondo, giro intorno al mondo
(1998), il regista giunge a definire
meglio il suo stile con il secondo
lungometraggio, Beket (2008),
ambientato sullo sfondo desertico
della Gallura, sublime scenario rarefatto, pre-istorico o post-atomico in
tutti i sensi, sul quale vengono inseriti, come decalcomanie, personaggi
ritagliati da altri immaginari; schegge letterarie, citazioni filmiche,
rimembranze musicali, reminescenze poetiche, derive iconografiche,
frantumate e ricostruite senza una
logica, se non – appunto – quella
beckettiana, per cui qualsiasi sequenza diventa metafora di qualcos’altro,
in una trama folle e ossessiva, fatta
di ripetizioni e inversioni continue,
sia verbali che visive». (1) Ma sarebbe un tragico errore rileggere il corpus filmografico di Manuli come
un’evoluzione o devoluzione. Sono
prima di tutto esperienze di vita irripetibili dove la macchina da presa è
testimone (in)discreto di “viaggi al
termine della notte” (Girotondo,
giro intorno al mondo), zone liminari sull’assurdità dell’esistere
(Beket) e della visione (La leggenda
di Kaspar Hauser). Scrive a tal proposito Maurizio Di Rienzo: «Un
girotondo attorno al mondo di
Manuli. Davide lo propone dal suo
primo film: giro anarchico in b/n,
tra overdose di deliri-dolori e scatti
di luce e musica. Strada e periferia=centro post-antropologico, solitudine distruttiva, salvezza a portata
di caduta. Davide mai regista pro-

vinciale, spazi interiori ed esteriori
(Inuit, Beket, Kaspar) sono ispirazione e meta, causa ed effetto, per
offrire cinema che sta a sé ma non
contro il mondo». (2)
Ma è davvero un territorio narrativo
la (non) carriera di Davide: dal 1987
al 1990 è attore all’Actors Studio e
al Lee Strasberg Institute di New
York. Diventa assistente di Al
Pacino e Charly Laughton per la
CHAL productions nel 1991. È
attore protagonista nel lungometraggio The Contenders prodotto
da Milos Forman per la Columbia
University. Nel 1993 recita nel film
L’incantevole aprile del regista
Mike Newell (3 candidature Oscar e
vincitore di 2 Golden Globes). Nel
1995 è finalista e Borsa di studio al
Premio Solinas con la sceneggiatura
di Girotondo, giro attorno al
mondo. Nel 1996 la pubblicazione
del libro poetico-fotografico dal
titolo altrettanto emblematico La
mia incapacità di stare al mondo con le
poesie di Davide e le fotografie di
Fabio Paleari.
Contestualmente realizza svariati
cortometraggi, lavorando spesso e
volentieri con materiali delicati
come l’8 mm e il Super 8: il kennethangeriano Mental Masturbation
(1990) girato a Santa Monica,
California, il cassavetesiano Oh
Peggy Oh!!!... Peggy YèYè (1989),
il jarmushiano A Pack of smockes
(1997), il seminale e profetico Entre
la chair et l’ongle, il y a la crasse
(1997), in Super 8 sonoro con la
presa diretta, che sarà acquistato da
Canal + France; il toccante e commovente Bombay: Arthur Road
Prison (1998), vincitore della Vela
d’Oro al Festival di Bellaria, storia di
due
sconfitti
dall’esistenza:
Gianluca, un giovane rinchiuso in
carcere in India e la sua amica Titti,
tossicodipendente. Un inesorabile e
doloroso piano sequenza sull’amica
9

Titti dentro l’abitacolo di un’auto
mentre la voce fuori campo lamentosa di Gianluca (Manuli stesso) le
racconta le sue disavventure. Da
questo momento in poi, Manuli passerà ai lungometraggi, senza mai
dimenticarsi però “la forma breve”
che riprenderà per raccontare il
contatto avuto con Abel Ferrara a
Roma nel 2004 del quale era assistente personale. E se Girotondo,
giro attorno al mondo viene salutato come uno degli esordi più originali del cinema italiano, Inauditi –
Inuit (2006) è un documentario
(im)possibile sugli Inuit eschimesi
residenti nel nord del Canada, a
ridosso del Polo Nord, che avrebbero dovuto partecipare a un progetto
di cura a distanza mai andato in
porto. È attore Nelle tue mani
(2008) di Peter Del Monte.

Parallelamente il suo progetto più
ambizioso Do???...Ping! non riesce a
concretizzarsi. Disperato ma mai
domo realizza Beket, per poi proseguire con La leggenda di Kaspar
Hauser. La parola ormai muore in
favore di un suono/immagine in cui
la musica tecno (Vitalic) diventa
prolungamento dell’occhio del regista. A tal proposito non si può che
essere d’accordo con le parole di
Giuseppe Genna: «La colonna
sonora di Vitalic, che satura le
immagini e distrugge i dialoghi, esalta in realtà le interpretazioni di
Gallo e di Gifuni (un prete cowboy
che ciancia davanti a Kaspar Hauser
dell’esistenza di un messia). Silvia
Calderoni dei Motus, adrenalinica e
autistica, è l’androgino Kaspar
Hauser, il ragazzo venuto da fuori
della civiltà e su cui essa tenta

Luciano Curreli
e Jerome
Duranteau in
“Beket” (2008),
film girato da
Manuli in
Gallura, sullo
sfondo di uno
scenario
rarefatto e
post-atomico.
10

PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI

eliminato la comunicazione. Tra
l’attore e lo spettatore non si comunica più. L’interiorità dell’attore si
precipita nell’interiorità dello spettatore. A questo stadio, la rappresentazione, le parole come volontà,
Dio, la grammatica, l’anima, lo spirito, non esistono più. Sono il maidetto, il non-detto, che parlano
all’interiorità. Siamo nella sensazione. E infine è il corpo che scompare”. Questa precisa descrizione dell’opera di Manuli è stata enunciata
da Carmelo Bene, in un’intervista a
Thierry Lounas, sui Cahiers du
Cinéma, nel 1998, l’anno in cui usciva il primo film di Davide Manuli,
Girotondo, giro intorno al mondo.
Era un passaggio di staffetta, nemmeno ideale». (3) Per entrare dunque
nei (cine)mondi di Manuli bisogna
lasciare che i morti seppelliscano i
vivi.

Abel Ferrara.
Tra i progetti di
Manuli c’è
anche un film
da realizzare in
collaborazione
con il regista
americano,
amico e
ispiratore.

un’opera innaturale di corruzione e
di espulsione dal corpo sociale,
attraverso il bando dell’esclusione
definitiva – la morte stessa. Una
vicenda che si snoda per capitoli
molto lineari, sottolineati con titoli
da film muto: l’arrivo di Kaspar
Hauser, l’educazione di Kaspar
Hauser, la sua uccisione… Chi scrive è in una posizione di oggettività
partecipativa, poiché è autore di un
frammento della sceneggiatura.
[…]Siamo di fronte, insomma, a un
regista dal talento non comune, che
ci espone a una scelta radicale:
dimenticare il film ed esperire il
cinema. […]Qualcuno di antico ha
descritto in anticipo quest’opera
d’arte che è La leggenda di Kaspar
Hauser: “Ecco l’equivalente del
suono così come io lo intendo.
L’attore non esiste più, il sé manca,
siamo nell’abbandono, nella morte
della significazione. L’interiorità ha

Intervista
Davide Manuli:
«La parola è troppo aerea perché
possa avere un senso»
Mi vuoi spiegare meglio questo dittico
che hai realizzato, ovvero Beket
(2008) e La leggenda di Kaspar
Hauser (2012)… il primo mi sembra
più basato sull’assurdo d’esistere, il
secondo sulla mancanza di senso…
Beket è stato progettato come un
film piccolo e grazie a Dio è filato
tutto liscio a livello di lavorazione:
in dieci giorni abbiamo girato e in
due settimane abbiamo montato, in
tempo per iscriversi alla selezione
del Festival di Locarno. Una settimana dopo che l’avevamo montato
il film è stato presentato al Festival
(vincendo il Premio della Critica
Indipendente, n.d.r.). Il film è stato
11

coprodotto dalla Blue Film e dalla
mia Shooting Hope. I produttori
della Blue Film mi hanno poi chiesto se avevo voglia di tornare in
Sardegna dove appunto avevo deciso di ambientare Beket, per girare
un altro film, grazie anche alle conoscenze che avevamo fatto. Dopo una
settimana mi è venuto in mente che
potevo finalmente realizzare un progetto che cullavo già da diversi anni:
una mia versione di Kaspar Hauser.
Ho pensato che sarebbe stata un’ottima occasione per ribaltare come
un calzino questo personaggio. Per
ciò che riguardava Beket mi era
dispiaciuto che non c’era stata una
vera uscita ufficiale del film. In teoria doveva andare alla Mostra del
Cinema di Venezia. Quando poi il
film è andato a Locarno, sempre in
teoria, doveva vincere il Pardino
d’Oro per la selezione Cineasti del
presente. Last but not least: mi aspettavo una maggiore visibilità del film.
Quindi dopo Beket, la frustrazione

era abbastanza grande. Sapendo che
pochi avevano visto il mio film, ho
voluto riprendere tutto il discorso
che avevo fatto in quell’occasione,
perché ero sicuro che quella mia
cifra stilistica sarebbe stata apprezzata. Non volevo però fare un remake,
ma realizzare semplicemente un
altro film. La vicenda di Kaspar
Hauser mi è sembrata un ottimo
pretesto. Come dicevo ho voluto
ribaltare tutto come un calzino
mantenendo la struttura, ma facendola vedere dal lato opposto. Kaspar
Hauser era un ragazzo piombato
improvvisamente nella società,
ottenendo una fama spettacolare
inimmaginabile e a sua insaputa:
milioni di persone che leggevano i
giornali e venivano a conoscenza
della sua storia. Tantissimi che lo
seguivano che lo volevano vicino,
senza che nessuno di questi volesse
realmente insegnargli qualcosa di
utile per lui. Sulla sua vicenda le
domande che noi tutti ci poniamo

In basso, Silvia
Calderoni in
“La leggenda di
Kaspar Hauser”
(2012).
La parola
svanisce a
favore del
suono e di una
adrenalinica
musica tecno,
intesa come
prolungamento
dello sguardo.

Note

1) Bruno Di Marino,
Sul confine. Le forme
della sperimentazione
in Italia, in Adriano
Aprà (a cura di),
Fuori norma. La via
sperimentale del cinema italiano, Marsilio,
Venezia, 2013, p. 70.
2)Davide
Manuli,
Gianluca Arcopinto,
Girotondo, giro attorno
al mondo. La storia
vera
(1994-2012),
auto editato, Roma,
2012, pp. 8-9.
3)http://www.giugenna.com/2012/05/30/s
u-lunita-circa-il-filmd i - m a n u l i - k a s p a rh a u s e r- e - a n c o r a sepolto/
12

PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI

Nella foto,
locandina di
“Beket”. Poco
meno di un
mese di
lavorazione, tra
riprese e
montaggio,
il film venne
presentato al
Festival di
Locarno dove
vinse il Premio
del Cinema
Indipendente.

sono le seguenti: perché non è riuscito a vivere a lungo? Perché lo
hanno ammazzato? Stava bene con
sé stesso? Kaspar Hauser è stato
aggredito da così tanti input sensoriali che il suo sistema nervoso non
ha retto. Non a caso aveva degli
attacchi epilettici. Avrebbero dovuto agire nei suoi confronti con molta
più pazienza, con molto più tatto e
con molta più calma. Kaspar Hauser
è stato aggredito in nome dell’educazione dalla cosiddetta buona

società: era morto ancor prima che i
suoi parenti lo uccidessero. Quello
che m’interessava era da una parte
continuare a usare gli stilemi di
Beket (le ottiche larghe, il bianco e
nero, il deserto, i pochi personaggi),
dall’altra raccontare questa vicenda,
che a mio avviso offriva una maggiore evoluzione rispetto ai miei film
precedenti. Su Beket tanti hanno
detto: «Ah che bello! Che carino…
tanto non c’è da capire nulla… è
Samuel Beckett». Hanno avuto un
13

appiglio già dal titolo e da due, tre
elementi del film in cui lo spettatore ha avuto di nuovo tempo di sedersi comodamente e di dire «Sì, bello,
tanto ma… ». In questo mio ultimo
film non c’è alcun appiglio. Si cade
direttamente giù dal burrone. Infatti
c’è chi lo ama e chi lo detesta proprio per questo motivo. Non c’è nessun paracadute per salvarsi. È un
atto di coraggio non solo mio ma
anche del pubblico che deve accettare questa visione senza appigli e
magari sempre senza appigli farsela
piacere.
Quando hai scritto la sceneggiatura di
Kaspar Hauser pensavi già all’attrice/performer Silvia Calderoni?
No. All’inizio avevo pensato solo a
Vincent Gallo e a Vitalic per le
musiche. Il cast dall’inizio a oggi è
cambiato molto... ci sono state
molte traversie. Inizialmente doveva esserci anche Charlotte
Rampling. Oggi si è arrivati a una
crisi tale che realizzare un film senza
delle star è veramente complicato.
L’anno prossimo spero di girare questo film con Abel Ferrara protagonista ed è l’unica cosa in cui mi ci dannerò l’anima per farla. Ma è inutile
nasconderlo: io con Abel ho un
ritorno che non ho con altri.
Il monologo recitato da Fabrizio Gifuni
in Kaspar Hauser è stato scritto da
Giuseppe Genna, uno scrittore che
amo molto. Com’è avvenuto questo
incontro?
Grazie a Fabrizio. Gifuni mi aveva
chiesto dopo Beket se io conoscevo
Genna. Risposi di no. Lui mi disse
che mi perdevo qualcosa di fondamentale e mi consigliò la lettura di
qualche suo libro. Lessi il Dies Irae.
Assolutamente incredibile. Lo volli
conoscere. Fabrizio mi presentò a

lui. A Genna era molto piaciuto
Beket e anche la sceneggiatura de
La leggenda di Kaspar Hauser. Mi
consegnò allora questo monologo.
Dalla sceneggiatura con il monologo
di Genna alla realizzazione del film
sono passati due-tre anni. Ho
cominciato a lavorare a questo film
dal 2009. La gestazione è stata piuttosto lunga.
In tutti e tre i tuoi lungometraggi dedichi un ruolo fondamentale alla musica,
paritetica all’immagine. Mi è venuto in
mente un’intervista in cui tu dicevi di
ambire a diventare ancora più iconoclasta dove il suono doveva prevaricare

La locandina di
“La leggenda di
Kaspar
Hauser”.
Alla
sceneggiatura
del film ha
collaborato
anche lo
scrittore
Giuseppe Genna.
14

PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI

l’immagine, diventando il protagonista
assoluto, forse il solo elemento… C’è
poi questo amore per la musica elettro-

nica e a certa new wave anche italiana
(penso a Freak Antoni, attore/performer per Beket).

Malgrado tutto l’impegno noi siamo
protagonisti e al contempo vittime
di un mondo che sta perdendo il
senso ogni giorno di più. Nel quotidiano niente ha più senso. Tutti
dicono una cosa per poi dire l’esatto
contrario due minuti dopo. Le promesse non vengono mai mantenute.
La comunicazione è nulla. Per
comunicazione intendo uno “scambio vero di energie che si toccano e
che si avvolgono tra di loro”. In tale
prospettiva comunicare via skype,
email, sms, è nulla. Proprio nulla.
Siamo tutti esseri viventi, soltanto
che l’essere umano è l’unica creatura terrena dotata di autocoscienza e
di autoanalisi. Oggi però l’uomo
vive senza più alcuna voglia di utilizzare la propria autocoscienza e
autoanalisi. Non ha più voglia di
comunicare nel quotidiano. Questo
pseudo uomo attuale che non comunica e che non ha più coscienza è
indifferente e distante da tutto e da
tutti. È variabile e mutevole di opinione. È cinico. In tale contesto
quotidiano – abbastanza miserrimo
– si va e si tira avanti ma non ha più
senso vivere.
Se con Girotondo, giro attorno al
mondo parti dall’assurdità dell’esistere
con una conclusione quasi zavattiniana
sull’amore… una speranza, nei due
film successivi Beket e La leggenda
di Kaspar Hauser l’unica salvezza
rimane questo humour nero e la musica, vista come unica valvola di sfogo e
di libertà in cui i personaggi possono
straniarsi dal contingente e dal quotidiano miserabili. Il ballo diventa così
una via di fuga.
In questa società del non senso, una
delle cose che perde maggiormente
il suo peso è la parola. Perché non
ha nessun valore. Non arriva più.
Troppo leggera per comunicare
amore o quant’altro. In questi anni
15

infatti è veramente noioso sentire
parlare tanto. Comunica molto di
più la musica, il suono, oggi. Citavi
la mia passione per la musica elettronica, ma in realtà tutto può funzionare con qualsiasi tipo di musica,
tranne la parola. Mi dicono che l’ultimo film di Kim Ki-duk sia muto.
Lo capisco perfettamente. Oggi
anche chi lotta per fare qualcosa di
diverso a un certo punto diventa
inevitabilmente e fatalmente nichilista. Un nichilismo intriso da un’indifferenza su tutto e per tutto, della
serie “non me frega più niente di
niente”. Questo pensiero è se non
altro abbastanza moderno. Nel
senso che è come una rete dove riesci a pescare un’audience impensabile e cioè quella dei diciottenni ma
anche dei trentenni annichiliti, dei
quarantenni arrabbiati, dei sessantenni delusi. La fascia dai sedicenni
ai venticinquenni è normalmente
perduta. Non andrà mai in sala a
vedere un qualsiasi film. E non è una
questione economica. Spendono
molto di più per degli aperitivi il
sabato sera o a un concerto di musica elettronica. Però se si comunica
attraverso i “vaffanculo” e i “non me
ne frega un cazzo” all’interno di una
struttura filmica fatta bene c’è una
maggiore speranza che dei giovani

tornino al cinema. È una questione
anche di comunicazione. Per la mia
esperienza coi giovani è meglio non
parlare. Meno parli e più sei dalla
loro parte. Oramai venti-trenta film
italiani all’anno sono solo specchietti per l’allodole, fumo agli
occhi di qualcosa che assolutamente
non c’è più. Non è una questione di
fare film strani o film commerciali.
Perché è tutto in crisi. L’intera filiera dal finanziamento alla distribuzione, alla sala, al festival, allo streaming non si regge più in piedi.
Questo tuo nuovo progetto con Abel
Ferrara attore sarà ancora basato sull’assurdo?
Sono due anni che questo progetto
purtroppo non riesce ad accedere ad
alcun finanziamento pubblico in
Italia. A questo punto “forse” lo riesco a fare comunque grazie a dei tax
credit esterni di privati, e lo giro in
dieci giorni. E non girandolo con
finanziamenti pubblici, non dovrei
avere alcuna restrizione di sorta
riguardo alla narrazione.
Sarà ancora in b/n?
No, a colori, ma dovrebbe essere
quasi tutto muto. E probabilmente

Davide Manuli
durante le
riprese di un
suo film. Nella
pagina accanto,
dall’alto, Elisa
Sednaoui in “La
leggenda di
Kaspar Hauser”
e Fabrizio
Gifuni in due
scene di
“Beket”.
16

PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI

Nella foto, Silvia
Calderoni e
Davide Manuli
al Festival di
Rotterdam,
per la
presentazione
del film
“La leggenda
di Kaspar
Hauser”.
I film di Manuli
hanno avuto
premi e
riconoscimenti
in numerosi
festival
internazionali.

ci sarà anche in questo caso molta
musica.
Mi vuoi raccontare le vicende di quel
progetto purtroppo mai realizzato chiamato Do???... Ping!?
Un vero peccato. È stato un trauma
esistenziale. Abbiamo passato due
anni al MIBAC facendo il record
per il numero di rinvii per approfondimenti istruttori e di audizioni
(cinque in due anni). Siamo stati
poi “approvati e non finanziati” con
un punteggio altissimo di 75 punti.
E siamo poi stati derubati del punteggio che ci permetteva il giudizio
“approvato e finanziato” da un giorno all’altro, con un consueto gioco
di carte tutto italiano. Poteva essere
un bel film duro, divertente ma
anche drammatico. Era anche commerciale perché raccontava il ritiro
in altura di una squadra semi professionista di ciclisti. Dopo una brevissima e iniziale apparenza di normalità si vedeva che questi ciclisti per
guadagnarsi da vivere erano drogati
marci, dopati fino all’inverosimile.
Tutto il film cercava di far capire la
linea di demarcazione sottilissima

tra il doping professionistico e la
tossicomania. La regola è abbastanza
semplice: doparsi costa tanto, è una
cosa per gli sportivi ricchi. Perché
bisogna pagarselo da soli e probabilmente in nero. Se si viene dopati in
maniera professionale, si vinceranno sicuramente i premi più ambiti e
importanti non prima che gli sponsor non abbiano fatto la loro parte.
Quando si è sportivi ma senza soldi,
si è costretti a doparsi nel peggiore
dei modi. Ci sono in quest’ultimo
caso ragazzini buttati al macello. In
questo progetto erano coinvolti la
Lucky Red e la Film Commission
del Piemonte. Secondo me non si è
voluto capire questo progetto. Era il
2006. Pantani era morto da pochi
anni. Poteva essere un film dalla
portata commerciale importante.
Gli attori avrebbero dovuto essere:
Paolo Rossi che interpretava il
direttore sportivo della squadra, Iva
Zanicchi nella parte di un’ex cantante in pensione, ora padrona dell’albergo dove andavano i ragazzi a
fare il ritiro. Altro attore sicuro era
Fabrizio Gifuni.
Ho scritto la sceneggiatura insieme
a Erwann Menthéour (che correva il
17

Il cast di
“Beket”
riunito per una
presentazione
pubblica del
film. Da sinistra:
Jerome
Duranteau,
Simona
Caramelli,
Davide Manuli,
Luciano Curreli
e Roberto
Freak Antoni.

Giro d’Italia assieme a Richard
Virenque), l’autore del libro che ha
sconvolto il ciclismo: Il mio doping
(ed. Baldini e Castoldi). O meglio
ho realizzato delle lunghe interviste
sulla sua esperienza e sulla base di
questo materiale ho scritto la sceneggiatura. Ricordo ancora la sua
reazione quando gliela feci leggere.
Mi disse: «Sono sconvolto. Se riesci
a realizzarlo viene fuori uno scandalo che non finisce più!».
Con l’esperienza dell’oggi, come rivedi
la tua opera d’esordio Girotondo, giro
attorno al mondo?
La rivedo come un ricordo di vita.
Quel film racchiude un’esperienza
esistenziale. Quando qualcuno mi
dice «Beket è interessante, però
sarebbe
bello
che
rifacessi
Girotondo, giro attorno al mondo»,
io concludo amaramente dentro di
me che allora è proprio vero che chi
vede non ha cognizione che quello
che accade sullo schermo è solo la
superficie. Quando cominci a lavorare a un film senza sapere una deadline precisa, t’imbarchi in una cosa
gigantesca. È un film irripetibile.
Impossibile da rifare perché è stato

già un miracolo averlo realizzato.
Mi ha molto colpito il tuo documentario Inauditi-Inuit! (2006). Così
come mi ha incuriosito una recensione
in cui giudicava negativamente questo
tuo lavoro perché cominciava in un
modo, si sviluppava in un altro, per
chiudersi poi in un’altra variante.
Questo nomadismo strutturale invece
per me rappresenta un plus valore.
In realtà è accaduto proprio così. Il
documentario nasceva come un’inchiesta su Telemedicina. Doveva
essere un documentario scientifico,
dal taglio molto tecnico su certe
macchine costosissime presenti in
questo laboratorio a Parigi. Avevo
letto poi un articolo che parlava di
come gli Inuit (il popolo eschimese
che vive nei territori del grande
Nord canadese) potessero usufruire
di assistenza sanitaria attraverso
computer e installazioni di telemedicina provenienti dagli ospedali del
continente, curandosi e operandosi
da soli attraverso la sola guida e
comunicazione telematica. Mi sembrava una bella idea non solo a livello documentaristico ma anche
sociale: la scienza che cerca di supe-
18

PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI

rare le difficoltà della natura (in
questo caso l’isolamento, il freddo
del Polo Nord) per salvare vite
umane. Insieme al mio amico e attore Jérôme Duranteau (al tempo stesso produttore del documentario per
la Francia) decidiamo d’intraprendere questo viaggio in Canada per
capire come i canadesi curino gli
Inuit del Polo Nord servendosi della
telemedicina. Arrivati a Ottawa,
intervistiamo l’inventore della telemedicina che doveva curare con le
macchine dal continente canadese
fino ai territori del Nunavut, la terra
degli Inuit. Arrivati in Nunavut per
la seconda parte del documentario,
troviamo con nostro sconcerto che
queste macchine sono praticamente
inutilizzate, seppellite da grandi teli,
nel completo disinteresse dei capi
reparto dell’ospedale. Trovandoci in
quella terra, decidiamo comunque di
andare avanti con le riprese cercando di far vedere come vivono e cosa
fanno gli eschimesi. Ma le condizioni climatiche sono terribili. Un freddo fuori dalla grazia di Dio (meno
20, meno 30), con un vento a 150
all’ora. È stato difficile pure quello
che abbiamo potuto fare in una
situazione del genere. Bisognava
sempre improvvisare, a seconda
delle condizioni climatiche. Un po’
come andare da una base lunare
all’altra. Le distanze che a noi sono
minime, lì diventavano abissali.
Secondo me abbiamo fatto un buon
lavoro, anzi talmente buono che
siamo andati in concorso al Festival
di Torino.
Sono rimasto poi colpito dal tuo backstage di Controvento (2000) di Peter
Del Monte… sembra tutto ripreso
dallo spioncino di una porta… un
perenne grandangolo con delle figure
ora ferme, ora mobili, con il regista che
discute e dirige…

Sono contento che ti sia piaciuto.
Andrea de Liberato, che produceva
il film all’epoca, mi chiamò chiedendomi se volevo fare un backstage. Accettai volentieri anche perché
Peter era un amico. A me è dispiaciuto che questo mio backstage poi
non sia entrato nel dvd del film
omonimo. La produzione non ha
voluto, mentre a Peter era piaciuto.
Il tuo futuro artistico…
Se mi guardo indietro c’è tutta una
carriera zigzagante, un saltare sempre gli ostacoli in un’industria del
cinema ormai morta. Lavoriamo per
un’arte che ha a che fare più con gli
zombie che con il presente. A questo punto mi preme realizzare il film
con Abel… anche perché siamo due
estremi che possono convergere
verso un punto di fuga… Mi dannerò per realizzare questo progetto perché oramai ogni progetto, potrebbe
essere l’ultimo film. Vale per tutti. E
se per caso fosse l’ultimo, potrei
comunque essere molto contento.
Avrei una filmografia di tutto rispetto composta da quattro lungometraggi di cui il penultimo interpretato da Vincent Gallo e da quello che
devo ancora fare con Abel Ferrara.
Ormai la crisi è tale che dietro le
facciate completamente paralizzate
delle istituzioni come Rai Cinema,
Luce, Mibac, Festival di Venezia,
Festival di Roma, ecc… non c’è più
un euro. Non c’è più niente. Si
chiude. Ci saranno sempre più case
di produzioni costrette a chiudere.
Così come le distribuzioni.
Fandango e Sacher Film sono degli
esempi eloquenti. Oggi è un bagno
di sangue distribuire un film. Non
c’è nessun guadagno.
Dei tuoi cortometraggi, quale ritieni il
più riuscito?
19

Sicuramente Entre la chair et l’ongle, il ya la crasse (1996), perché
più completo anche da un punto di
vista narrativo e produttivo.
Abbiamo fatto un lavoro eccellente
con il super 8 e il sonoro in presa
diretta. Girando in super 8 si perdono sempre dei fotogrammi rispetto
alla registrazione. Quando poi si è in
presa diretta i problemi tecnici si
complicano: si può andare facilmente fuori sync e allora in fase di montaggio bisogna tornare indietro, per
mettersi a posto con il labiale. Per
questi problemi tecnici non sono
tanti quelli che hanno realizzato il
super 8 in presa diretta. In quel cortometraggio ci sono delle scene di
cui vado orgoglioso, tipo l’incidente
in moto.
Del cinema italiano contemporaneo che
cosa apprezzi?
Per esempio, il cinema di Agostino
Ferrente, di Giovanni Piperno, di
Giovanni Columbu e di Salvatore
Mereu. L’imbalsamatore (2002) di
Matteo Garrone è un capolavoro
assoluto. Lo stesso cinema di
Sorrentino rivela delle sfaccettature
notevoli. L’Italia pecca non tanto di

lavori e di autori ma di uno stato
mentale e comportamentale terrificante, dettato da quello che io chiamo “l’infantilismo cronico”. Qui
cade tutto nello scherzo, nella pacca
sulla spalla, nella barzelletta dell’ultimo minuto. Quando si vede un
film straniero, si riconosce subito
una certa maturità che da noi purtroppo latita. Abbiamo purtroppo
una malattia che non fa crescere il
sistema. Il cinema è la forma d’arte
più onesta e sincera che ci sia. Tutte
le altre possono prenderti in giro,
tranne la Settima Arte che ha una
sincerità disarmante.
Un film è ontologicamente puro,
teologicamente santo. Perché un
film ci mette un nano secondo a
crollare. Per farti capire meglio: se
tu cazzeggi per anni tra scrittura,
produzione, casting e tutto il
resto…non puoi pensare che al
primo giorno di girato scenda dal
cielo la dea bandata per darti la concentrazione ed il rispetto di un set
come quello di Shine di Steve Mc
Queen. Impossibile.
Intervista a cura di
Domenico Monetti

Ancora Davide
Manuli, qui
invitato
all’edizione
2013 del
Festival del
Cinema
Indipendente,
Cinémondes di
Lille.

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  • 1. PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/2 6 Noi siamo già morti perché per esserlo ci basterebbe un gesto. Piero Ciampi PRIMO PIANO I (cine) mondi perduti di Davide Manuli S di DOMENICO MONETTI Il precedente Speciale Nuovo Cinema Italiano, apparso sul numero scorso, è stato dedicato a: De Serio, Di Costanzo, Frammartino, Giovannesi, Marcello, Quatriglio, Segre Come se fossero fatti non di pellicola ma di sangue, sudore e lacrime, i film di Davide Manuli non raccontano semplici vicende di vita ma una specie di radiografia ingrandita di un malessere generalizzato, rappresentabile solo con l’humour di Beckett e con un’overdose di disperazione. Un autore visionario ed estremo che vive il cinema come esperienza irripetibile. i potrebbe almeno per una volta cominciare a descrivere l’autore Davide Manuli e un certo panorama socio-politico, per arrivare poi al suo “cinema”. Perché – caso più unico che raro! – la sua fisiognomica, così come l’attuale panorama desertificato del sociale e del culturale corrispondono attraverso una lente anamorfica ai suoi film. Un film nel film. Come se le sue opere fossero fatte non di pellicola ma di sangue, sudore e lacrime. E ciò che si vede poi sullo schermo non sono delle semplici vicende ma delle radiografie ingrandite di una smorfia che ha deciso di balbettare il proprio de profundis con l’humour di beckettiana memoria. Forse perché per essere semplicemente poeti bisogna disporre di una non comune overdose di disperazione. La difficoltà a stare al mondo - in “questo” mondo! – appare già un’impresa titanica. Filmare l’esistente diventa una missione impossibile. In un paese come l’Italia diventa tutto ancora più avvilente, una sorta di joint venture suicida. Il sistema politico/economico/sociale è diventato un anello di Möbius, nel quale sono tutti vittime e complici allo stesso tempo. Un mostro che capovolge i dati della liberazione sociale. Una falsa onda liberatrice ha fatto in modo di rifilare a noi sudditi il fantasma del potere e della libertà. Siamo tutti complici di un potere che non esiste più. Tutti si raccontano la commedia del potere, del sociale o della cultura. Dopo la mobilitazione del lavoratore, del cittadino nel suffragio universale, ecco giunta ma ormai già collassata quella del consumatore. Si estorce il bisogno, la spesa come un obbligo sociale, dopo avere loro estorto la parola, il voto, il sesso, la felicità. L’economico e il politico sono implosi uno dentro l’altro per mutarsi in una economia politica della deiezione, intenta nell’abiezione di “rigenerarsi” attraverso la ripu-
  • 2. 7 litura a secco della Storia in una prospettiva vittimistica, come se si avesse a che fare con una catastrofe già in atto, già compiuta del genere umano. Tutto accade come se ci fosse una strategia (il potere stesso che si mette in posizione vittimista), ma in realtà non c’è alcuna volontà politica. C’è una specie d’illusione feroce e di profonda idiozia a ostinarsi nel buon senso nel cambiare le cose quando non esiste senso, a voler cambiare la forma dell’equazione quando questa è uguale allo zero. La politica non è più la spiegazione della Storia. La Storia non è più la spiegazione delle nostre azioni. La politica che si gioca oggi è soltanto un ricatto alla Storia e alla Ragione storica. Il destino ineluttabile anche del cinema come dell’arte in generale è di reclinare nel- l’epoca della volontà debole. Caduto in disgrazia Lenin (Post Marxismo), l’Occidente (Post Liberismo), il moderno (Post Moderno) siamo ormai nel post mortem. In tale contesto Davide Manuli appare un parossista solo apparentemente indifferente, un clandestino del cinema (non solo) italiano, una sorta di incrocio tra lo sperimentalismo del new waver Faust(o), alias Fausto Rossi e la rabbia caustica ma lirica di un Piero Ciampi, volto a “suonare” una mise en abyme del post-apocalisse. Dipingendola con svariati bianco e neri. In un contesto paesaggistico di anime morte (il deserto), noi spettatori ci riflettiamo come oggetti feticcio di un pensiero che non è più il nostro, o che ne è l’eccedenza incontrollabile. L’umano si è estinto Davide Manuli. Nato a Milano nel 1967, ha studiato recitazione a New York e ha collaborato con Al Pacino, Mike Newell e Abel Ferrara. Autore di numerosi corti ha esordito nel lungometraggio nel 2006 con “Girotondo, giro intorno al mondo”.
  • 3. 8 PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI da un pezzo. Le storie nel cinema di Davide Manuli diventano un recupero ed una riconfigurazione incessanti all’interno del museo dei suoni campionati, di fantasmi che nella musica tornano a essere corpi, a danzare, a straniarsi, lasciando intravedere la definitiva estinzione di tutti i referenti. Scrive Bruno Di Marino: «Dopo l’esordio con Girotondo, giro intorno al mondo (1998), il regista giunge a definire meglio il suo stile con il secondo lungometraggio, Beket (2008), ambientato sullo sfondo desertico della Gallura, sublime scenario rarefatto, pre-istorico o post-atomico in tutti i sensi, sul quale vengono inseriti, come decalcomanie, personaggi ritagliati da altri immaginari; schegge letterarie, citazioni filmiche, rimembranze musicali, reminescenze poetiche, derive iconografiche, frantumate e ricostruite senza una logica, se non – appunto – quella beckettiana, per cui qualsiasi sequenza diventa metafora di qualcos’altro, in una trama folle e ossessiva, fatta di ripetizioni e inversioni continue, sia verbali che visive». (1) Ma sarebbe un tragico errore rileggere il corpus filmografico di Manuli come un’evoluzione o devoluzione. Sono prima di tutto esperienze di vita irripetibili dove la macchina da presa è testimone (in)discreto di “viaggi al termine della notte” (Girotondo, giro intorno al mondo), zone liminari sull’assurdità dell’esistere (Beket) e della visione (La leggenda di Kaspar Hauser). Scrive a tal proposito Maurizio Di Rienzo: «Un girotondo attorno al mondo di Manuli. Davide lo propone dal suo primo film: giro anarchico in b/n, tra overdose di deliri-dolori e scatti di luce e musica. Strada e periferia=centro post-antropologico, solitudine distruttiva, salvezza a portata di caduta. Davide mai regista pro- vinciale, spazi interiori ed esteriori (Inuit, Beket, Kaspar) sono ispirazione e meta, causa ed effetto, per offrire cinema che sta a sé ma non contro il mondo». (2) Ma è davvero un territorio narrativo la (non) carriera di Davide: dal 1987 al 1990 è attore all’Actors Studio e al Lee Strasberg Institute di New York. Diventa assistente di Al Pacino e Charly Laughton per la CHAL productions nel 1991. È attore protagonista nel lungometraggio The Contenders prodotto da Milos Forman per la Columbia University. Nel 1993 recita nel film L’incantevole aprile del regista Mike Newell (3 candidature Oscar e vincitore di 2 Golden Globes). Nel 1995 è finalista e Borsa di studio al Premio Solinas con la sceneggiatura di Girotondo, giro attorno al mondo. Nel 1996 la pubblicazione del libro poetico-fotografico dal titolo altrettanto emblematico La mia incapacità di stare al mondo con le poesie di Davide e le fotografie di Fabio Paleari. Contestualmente realizza svariati cortometraggi, lavorando spesso e volentieri con materiali delicati come l’8 mm e il Super 8: il kennethangeriano Mental Masturbation (1990) girato a Santa Monica, California, il cassavetesiano Oh Peggy Oh!!!... Peggy YèYè (1989), il jarmushiano A Pack of smockes (1997), il seminale e profetico Entre la chair et l’ongle, il y a la crasse (1997), in Super 8 sonoro con la presa diretta, che sarà acquistato da Canal + France; il toccante e commovente Bombay: Arthur Road Prison (1998), vincitore della Vela d’Oro al Festival di Bellaria, storia di due sconfitti dall’esistenza: Gianluca, un giovane rinchiuso in carcere in India e la sua amica Titti, tossicodipendente. Un inesorabile e doloroso piano sequenza sull’amica
  • 4. 9 Titti dentro l’abitacolo di un’auto mentre la voce fuori campo lamentosa di Gianluca (Manuli stesso) le racconta le sue disavventure. Da questo momento in poi, Manuli passerà ai lungometraggi, senza mai dimenticarsi però “la forma breve” che riprenderà per raccontare il contatto avuto con Abel Ferrara a Roma nel 2004 del quale era assistente personale. E se Girotondo, giro attorno al mondo viene salutato come uno degli esordi più originali del cinema italiano, Inauditi – Inuit (2006) è un documentario (im)possibile sugli Inuit eschimesi residenti nel nord del Canada, a ridosso del Polo Nord, che avrebbero dovuto partecipare a un progetto di cura a distanza mai andato in porto. È attore Nelle tue mani (2008) di Peter Del Monte. Parallelamente il suo progetto più ambizioso Do???...Ping! non riesce a concretizzarsi. Disperato ma mai domo realizza Beket, per poi proseguire con La leggenda di Kaspar Hauser. La parola ormai muore in favore di un suono/immagine in cui la musica tecno (Vitalic) diventa prolungamento dell’occhio del regista. A tal proposito non si può che essere d’accordo con le parole di Giuseppe Genna: «La colonna sonora di Vitalic, che satura le immagini e distrugge i dialoghi, esalta in realtà le interpretazioni di Gallo e di Gifuni (un prete cowboy che ciancia davanti a Kaspar Hauser dell’esistenza di un messia). Silvia Calderoni dei Motus, adrenalinica e autistica, è l’androgino Kaspar Hauser, il ragazzo venuto da fuori della civiltà e su cui essa tenta Luciano Curreli e Jerome Duranteau in “Beket” (2008), film girato da Manuli in Gallura, sullo sfondo di uno scenario rarefatto e post-atomico.
  • 5. 10 PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI eliminato la comunicazione. Tra l’attore e lo spettatore non si comunica più. L’interiorità dell’attore si precipita nell’interiorità dello spettatore. A questo stadio, la rappresentazione, le parole come volontà, Dio, la grammatica, l’anima, lo spirito, non esistono più. Sono il maidetto, il non-detto, che parlano all’interiorità. Siamo nella sensazione. E infine è il corpo che scompare”. Questa precisa descrizione dell’opera di Manuli è stata enunciata da Carmelo Bene, in un’intervista a Thierry Lounas, sui Cahiers du Cinéma, nel 1998, l’anno in cui usciva il primo film di Davide Manuli, Girotondo, giro intorno al mondo. Era un passaggio di staffetta, nemmeno ideale». (3) Per entrare dunque nei (cine)mondi di Manuli bisogna lasciare che i morti seppelliscano i vivi. Abel Ferrara. Tra i progetti di Manuli c’è anche un film da realizzare in collaborazione con il regista americano, amico e ispiratore. un’opera innaturale di corruzione e di espulsione dal corpo sociale, attraverso il bando dell’esclusione definitiva – la morte stessa. Una vicenda che si snoda per capitoli molto lineari, sottolineati con titoli da film muto: l’arrivo di Kaspar Hauser, l’educazione di Kaspar Hauser, la sua uccisione… Chi scrive è in una posizione di oggettività partecipativa, poiché è autore di un frammento della sceneggiatura. […]Siamo di fronte, insomma, a un regista dal talento non comune, che ci espone a una scelta radicale: dimenticare il film ed esperire il cinema. […]Qualcuno di antico ha descritto in anticipo quest’opera d’arte che è La leggenda di Kaspar Hauser: “Ecco l’equivalente del suono così come io lo intendo. L’attore non esiste più, il sé manca, siamo nell’abbandono, nella morte della significazione. L’interiorità ha Intervista Davide Manuli: «La parola è troppo aerea perché possa avere un senso» Mi vuoi spiegare meglio questo dittico che hai realizzato, ovvero Beket (2008) e La leggenda di Kaspar Hauser (2012)… il primo mi sembra più basato sull’assurdo d’esistere, il secondo sulla mancanza di senso… Beket è stato progettato come un film piccolo e grazie a Dio è filato tutto liscio a livello di lavorazione: in dieci giorni abbiamo girato e in due settimane abbiamo montato, in tempo per iscriversi alla selezione del Festival di Locarno. Una settimana dopo che l’avevamo montato il film è stato presentato al Festival (vincendo il Premio della Critica Indipendente, n.d.r.). Il film è stato
  • 6. 11 coprodotto dalla Blue Film e dalla mia Shooting Hope. I produttori della Blue Film mi hanno poi chiesto se avevo voglia di tornare in Sardegna dove appunto avevo deciso di ambientare Beket, per girare un altro film, grazie anche alle conoscenze che avevamo fatto. Dopo una settimana mi è venuto in mente che potevo finalmente realizzare un progetto che cullavo già da diversi anni: una mia versione di Kaspar Hauser. Ho pensato che sarebbe stata un’ottima occasione per ribaltare come un calzino questo personaggio. Per ciò che riguardava Beket mi era dispiaciuto che non c’era stata una vera uscita ufficiale del film. In teoria doveva andare alla Mostra del Cinema di Venezia. Quando poi il film è andato a Locarno, sempre in teoria, doveva vincere il Pardino d’Oro per la selezione Cineasti del presente. Last but not least: mi aspettavo una maggiore visibilità del film. Quindi dopo Beket, la frustrazione era abbastanza grande. Sapendo che pochi avevano visto il mio film, ho voluto riprendere tutto il discorso che avevo fatto in quell’occasione, perché ero sicuro che quella mia cifra stilistica sarebbe stata apprezzata. Non volevo però fare un remake, ma realizzare semplicemente un altro film. La vicenda di Kaspar Hauser mi è sembrata un ottimo pretesto. Come dicevo ho voluto ribaltare tutto come un calzino mantenendo la struttura, ma facendola vedere dal lato opposto. Kaspar Hauser era un ragazzo piombato improvvisamente nella società, ottenendo una fama spettacolare inimmaginabile e a sua insaputa: milioni di persone che leggevano i giornali e venivano a conoscenza della sua storia. Tantissimi che lo seguivano che lo volevano vicino, senza che nessuno di questi volesse realmente insegnargli qualcosa di utile per lui. Sulla sua vicenda le domande che noi tutti ci poniamo In basso, Silvia Calderoni in “La leggenda di Kaspar Hauser” (2012). La parola svanisce a favore del suono e di una adrenalinica musica tecno, intesa come prolungamento dello sguardo. Note 1) Bruno Di Marino, Sul confine. Le forme della sperimentazione in Italia, in Adriano Aprà (a cura di), Fuori norma. La via sperimentale del cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2013, p. 70. 2)Davide Manuli, Gianluca Arcopinto, Girotondo, giro attorno al mondo. La storia vera (1994-2012), auto editato, Roma, 2012, pp. 8-9. 3)http://www.giugenna.com/2012/05/30/s u-lunita-circa-il-filmd i - m a n u l i - k a s p a rh a u s e r- e - a n c o r a sepolto/
  • 7. 12 PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI Nella foto, locandina di “Beket”. Poco meno di un mese di lavorazione, tra riprese e montaggio, il film venne presentato al Festival di Locarno dove vinse il Premio del Cinema Indipendente. sono le seguenti: perché non è riuscito a vivere a lungo? Perché lo hanno ammazzato? Stava bene con sé stesso? Kaspar Hauser è stato aggredito da così tanti input sensoriali che il suo sistema nervoso non ha retto. Non a caso aveva degli attacchi epilettici. Avrebbero dovuto agire nei suoi confronti con molta più pazienza, con molto più tatto e con molta più calma. Kaspar Hauser è stato aggredito in nome dell’educazione dalla cosiddetta buona società: era morto ancor prima che i suoi parenti lo uccidessero. Quello che m’interessava era da una parte continuare a usare gli stilemi di Beket (le ottiche larghe, il bianco e nero, il deserto, i pochi personaggi), dall’altra raccontare questa vicenda, che a mio avviso offriva una maggiore evoluzione rispetto ai miei film precedenti. Su Beket tanti hanno detto: «Ah che bello! Che carino… tanto non c’è da capire nulla… è Samuel Beckett». Hanno avuto un
  • 8. 13 appiglio già dal titolo e da due, tre elementi del film in cui lo spettatore ha avuto di nuovo tempo di sedersi comodamente e di dire «Sì, bello, tanto ma… ». In questo mio ultimo film non c’è alcun appiglio. Si cade direttamente giù dal burrone. Infatti c’è chi lo ama e chi lo detesta proprio per questo motivo. Non c’è nessun paracadute per salvarsi. È un atto di coraggio non solo mio ma anche del pubblico che deve accettare questa visione senza appigli e magari sempre senza appigli farsela piacere. Quando hai scritto la sceneggiatura di Kaspar Hauser pensavi già all’attrice/performer Silvia Calderoni? No. All’inizio avevo pensato solo a Vincent Gallo e a Vitalic per le musiche. Il cast dall’inizio a oggi è cambiato molto... ci sono state molte traversie. Inizialmente doveva esserci anche Charlotte Rampling. Oggi si è arrivati a una crisi tale che realizzare un film senza delle star è veramente complicato. L’anno prossimo spero di girare questo film con Abel Ferrara protagonista ed è l’unica cosa in cui mi ci dannerò l’anima per farla. Ma è inutile nasconderlo: io con Abel ho un ritorno che non ho con altri. Il monologo recitato da Fabrizio Gifuni in Kaspar Hauser è stato scritto da Giuseppe Genna, uno scrittore che amo molto. Com’è avvenuto questo incontro? Grazie a Fabrizio. Gifuni mi aveva chiesto dopo Beket se io conoscevo Genna. Risposi di no. Lui mi disse che mi perdevo qualcosa di fondamentale e mi consigliò la lettura di qualche suo libro. Lessi il Dies Irae. Assolutamente incredibile. Lo volli conoscere. Fabrizio mi presentò a lui. A Genna era molto piaciuto Beket e anche la sceneggiatura de La leggenda di Kaspar Hauser. Mi consegnò allora questo monologo. Dalla sceneggiatura con il monologo di Genna alla realizzazione del film sono passati due-tre anni. Ho cominciato a lavorare a questo film dal 2009. La gestazione è stata piuttosto lunga. In tutti e tre i tuoi lungometraggi dedichi un ruolo fondamentale alla musica, paritetica all’immagine. Mi è venuto in mente un’intervista in cui tu dicevi di ambire a diventare ancora più iconoclasta dove il suono doveva prevaricare La locandina di “La leggenda di Kaspar Hauser”. Alla sceneggiatura del film ha collaborato anche lo scrittore Giuseppe Genna.
  • 9. 14 PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI l’immagine, diventando il protagonista assoluto, forse il solo elemento… C’è poi questo amore per la musica elettro- nica e a certa new wave anche italiana (penso a Freak Antoni, attore/performer per Beket). Malgrado tutto l’impegno noi siamo protagonisti e al contempo vittime di un mondo che sta perdendo il senso ogni giorno di più. Nel quotidiano niente ha più senso. Tutti dicono una cosa per poi dire l’esatto contrario due minuti dopo. Le promesse non vengono mai mantenute. La comunicazione è nulla. Per comunicazione intendo uno “scambio vero di energie che si toccano e che si avvolgono tra di loro”. In tale prospettiva comunicare via skype, email, sms, è nulla. Proprio nulla. Siamo tutti esseri viventi, soltanto che l’essere umano è l’unica creatura terrena dotata di autocoscienza e di autoanalisi. Oggi però l’uomo vive senza più alcuna voglia di utilizzare la propria autocoscienza e autoanalisi. Non ha più voglia di comunicare nel quotidiano. Questo pseudo uomo attuale che non comunica e che non ha più coscienza è indifferente e distante da tutto e da tutti. È variabile e mutevole di opinione. È cinico. In tale contesto quotidiano – abbastanza miserrimo – si va e si tira avanti ma non ha più senso vivere. Se con Girotondo, giro attorno al mondo parti dall’assurdità dell’esistere con una conclusione quasi zavattiniana sull’amore… una speranza, nei due film successivi Beket e La leggenda di Kaspar Hauser l’unica salvezza rimane questo humour nero e la musica, vista come unica valvola di sfogo e di libertà in cui i personaggi possono straniarsi dal contingente e dal quotidiano miserabili. Il ballo diventa così una via di fuga. In questa società del non senso, una delle cose che perde maggiormente il suo peso è la parola. Perché non ha nessun valore. Non arriva più. Troppo leggera per comunicare amore o quant’altro. In questi anni
  • 10. 15 infatti è veramente noioso sentire parlare tanto. Comunica molto di più la musica, il suono, oggi. Citavi la mia passione per la musica elettronica, ma in realtà tutto può funzionare con qualsiasi tipo di musica, tranne la parola. Mi dicono che l’ultimo film di Kim Ki-duk sia muto. Lo capisco perfettamente. Oggi anche chi lotta per fare qualcosa di diverso a un certo punto diventa inevitabilmente e fatalmente nichilista. Un nichilismo intriso da un’indifferenza su tutto e per tutto, della serie “non me frega più niente di niente”. Questo pensiero è se non altro abbastanza moderno. Nel senso che è come una rete dove riesci a pescare un’audience impensabile e cioè quella dei diciottenni ma anche dei trentenni annichiliti, dei quarantenni arrabbiati, dei sessantenni delusi. La fascia dai sedicenni ai venticinquenni è normalmente perduta. Non andrà mai in sala a vedere un qualsiasi film. E non è una questione economica. Spendono molto di più per degli aperitivi il sabato sera o a un concerto di musica elettronica. Però se si comunica attraverso i “vaffanculo” e i “non me ne frega un cazzo” all’interno di una struttura filmica fatta bene c’è una maggiore speranza che dei giovani tornino al cinema. È una questione anche di comunicazione. Per la mia esperienza coi giovani è meglio non parlare. Meno parli e più sei dalla loro parte. Oramai venti-trenta film italiani all’anno sono solo specchietti per l’allodole, fumo agli occhi di qualcosa che assolutamente non c’è più. Non è una questione di fare film strani o film commerciali. Perché è tutto in crisi. L’intera filiera dal finanziamento alla distribuzione, alla sala, al festival, allo streaming non si regge più in piedi. Questo tuo nuovo progetto con Abel Ferrara attore sarà ancora basato sull’assurdo? Sono due anni che questo progetto purtroppo non riesce ad accedere ad alcun finanziamento pubblico in Italia. A questo punto “forse” lo riesco a fare comunque grazie a dei tax credit esterni di privati, e lo giro in dieci giorni. E non girandolo con finanziamenti pubblici, non dovrei avere alcuna restrizione di sorta riguardo alla narrazione. Sarà ancora in b/n? No, a colori, ma dovrebbe essere quasi tutto muto. E probabilmente Davide Manuli durante le riprese di un suo film. Nella pagina accanto, dall’alto, Elisa Sednaoui in “La leggenda di Kaspar Hauser” e Fabrizio Gifuni in due scene di “Beket”.
  • 11. 16 PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI Nella foto, Silvia Calderoni e Davide Manuli al Festival di Rotterdam, per la presentazione del film “La leggenda di Kaspar Hauser”. I film di Manuli hanno avuto premi e riconoscimenti in numerosi festival internazionali. ci sarà anche in questo caso molta musica. Mi vuoi raccontare le vicende di quel progetto purtroppo mai realizzato chiamato Do???... Ping!? Un vero peccato. È stato un trauma esistenziale. Abbiamo passato due anni al MIBAC facendo il record per il numero di rinvii per approfondimenti istruttori e di audizioni (cinque in due anni). Siamo stati poi “approvati e non finanziati” con un punteggio altissimo di 75 punti. E siamo poi stati derubati del punteggio che ci permetteva il giudizio “approvato e finanziato” da un giorno all’altro, con un consueto gioco di carte tutto italiano. Poteva essere un bel film duro, divertente ma anche drammatico. Era anche commerciale perché raccontava il ritiro in altura di una squadra semi professionista di ciclisti. Dopo una brevissima e iniziale apparenza di normalità si vedeva che questi ciclisti per guadagnarsi da vivere erano drogati marci, dopati fino all’inverosimile. Tutto il film cercava di far capire la linea di demarcazione sottilissima tra il doping professionistico e la tossicomania. La regola è abbastanza semplice: doparsi costa tanto, è una cosa per gli sportivi ricchi. Perché bisogna pagarselo da soli e probabilmente in nero. Se si viene dopati in maniera professionale, si vinceranno sicuramente i premi più ambiti e importanti non prima che gli sponsor non abbiano fatto la loro parte. Quando si è sportivi ma senza soldi, si è costretti a doparsi nel peggiore dei modi. Ci sono in quest’ultimo caso ragazzini buttati al macello. In questo progetto erano coinvolti la Lucky Red e la Film Commission del Piemonte. Secondo me non si è voluto capire questo progetto. Era il 2006. Pantani era morto da pochi anni. Poteva essere un film dalla portata commerciale importante. Gli attori avrebbero dovuto essere: Paolo Rossi che interpretava il direttore sportivo della squadra, Iva Zanicchi nella parte di un’ex cantante in pensione, ora padrona dell’albergo dove andavano i ragazzi a fare il ritiro. Altro attore sicuro era Fabrizio Gifuni. Ho scritto la sceneggiatura insieme a Erwann Menthéour (che correva il
  • 12. 17 Il cast di “Beket” riunito per una presentazione pubblica del film. Da sinistra: Jerome Duranteau, Simona Caramelli, Davide Manuli, Luciano Curreli e Roberto Freak Antoni. Giro d’Italia assieme a Richard Virenque), l’autore del libro che ha sconvolto il ciclismo: Il mio doping (ed. Baldini e Castoldi). O meglio ho realizzato delle lunghe interviste sulla sua esperienza e sulla base di questo materiale ho scritto la sceneggiatura. Ricordo ancora la sua reazione quando gliela feci leggere. Mi disse: «Sono sconvolto. Se riesci a realizzarlo viene fuori uno scandalo che non finisce più!». Con l’esperienza dell’oggi, come rivedi la tua opera d’esordio Girotondo, giro attorno al mondo? La rivedo come un ricordo di vita. Quel film racchiude un’esperienza esistenziale. Quando qualcuno mi dice «Beket è interessante, però sarebbe bello che rifacessi Girotondo, giro attorno al mondo», io concludo amaramente dentro di me che allora è proprio vero che chi vede non ha cognizione che quello che accade sullo schermo è solo la superficie. Quando cominci a lavorare a un film senza sapere una deadline precisa, t’imbarchi in una cosa gigantesca. È un film irripetibile. Impossibile da rifare perché è stato già un miracolo averlo realizzato. Mi ha molto colpito il tuo documentario Inauditi-Inuit! (2006). Così come mi ha incuriosito una recensione in cui giudicava negativamente questo tuo lavoro perché cominciava in un modo, si sviluppava in un altro, per chiudersi poi in un’altra variante. Questo nomadismo strutturale invece per me rappresenta un plus valore. In realtà è accaduto proprio così. Il documentario nasceva come un’inchiesta su Telemedicina. Doveva essere un documentario scientifico, dal taglio molto tecnico su certe macchine costosissime presenti in questo laboratorio a Parigi. Avevo letto poi un articolo che parlava di come gli Inuit (il popolo eschimese che vive nei territori del grande Nord canadese) potessero usufruire di assistenza sanitaria attraverso computer e installazioni di telemedicina provenienti dagli ospedali del continente, curandosi e operandosi da soli attraverso la sola guida e comunicazione telematica. Mi sembrava una bella idea non solo a livello documentaristico ma anche sociale: la scienza che cerca di supe-
  • 13. 18 PRIMO PIANO/NUOVO CINEMA ITALIANO/DAVIDE MANULI rare le difficoltà della natura (in questo caso l’isolamento, il freddo del Polo Nord) per salvare vite umane. Insieme al mio amico e attore Jérôme Duranteau (al tempo stesso produttore del documentario per la Francia) decidiamo d’intraprendere questo viaggio in Canada per capire come i canadesi curino gli Inuit del Polo Nord servendosi della telemedicina. Arrivati a Ottawa, intervistiamo l’inventore della telemedicina che doveva curare con le macchine dal continente canadese fino ai territori del Nunavut, la terra degli Inuit. Arrivati in Nunavut per la seconda parte del documentario, troviamo con nostro sconcerto che queste macchine sono praticamente inutilizzate, seppellite da grandi teli, nel completo disinteresse dei capi reparto dell’ospedale. Trovandoci in quella terra, decidiamo comunque di andare avanti con le riprese cercando di far vedere come vivono e cosa fanno gli eschimesi. Ma le condizioni climatiche sono terribili. Un freddo fuori dalla grazia di Dio (meno 20, meno 30), con un vento a 150 all’ora. È stato difficile pure quello che abbiamo potuto fare in una situazione del genere. Bisognava sempre improvvisare, a seconda delle condizioni climatiche. Un po’ come andare da una base lunare all’altra. Le distanze che a noi sono minime, lì diventavano abissali. Secondo me abbiamo fatto un buon lavoro, anzi talmente buono che siamo andati in concorso al Festival di Torino. Sono rimasto poi colpito dal tuo backstage di Controvento (2000) di Peter Del Monte… sembra tutto ripreso dallo spioncino di una porta… un perenne grandangolo con delle figure ora ferme, ora mobili, con il regista che discute e dirige… Sono contento che ti sia piaciuto. Andrea de Liberato, che produceva il film all’epoca, mi chiamò chiedendomi se volevo fare un backstage. Accettai volentieri anche perché Peter era un amico. A me è dispiaciuto che questo mio backstage poi non sia entrato nel dvd del film omonimo. La produzione non ha voluto, mentre a Peter era piaciuto. Il tuo futuro artistico… Se mi guardo indietro c’è tutta una carriera zigzagante, un saltare sempre gli ostacoli in un’industria del cinema ormai morta. Lavoriamo per un’arte che ha a che fare più con gli zombie che con il presente. A questo punto mi preme realizzare il film con Abel… anche perché siamo due estremi che possono convergere verso un punto di fuga… Mi dannerò per realizzare questo progetto perché oramai ogni progetto, potrebbe essere l’ultimo film. Vale per tutti. E se per caso fosse l’ultimo, potrei comunque essere molto contento. Avrei una filmografia di tutto rispetto composta da quattro lungometraggi di cui il penultimo interpretato da Vincent Gallo e da quello che devo ancora fare con Abel Ferrara. Ormai la crisi è tale che dietro le facciate completamente paralizzate delle istituzioni come Rai Cinema, Luce, Mibac, Festival di Venezia, Festival di Roma, ecc… non c’è più un euro. Non c’è più niente. Si chiude. Ci saranno sempre più case di produzioni costrette a chiudere. Così come le distribuzioni. Fandango e Sacher Film sono degli esempi eloquenti. Oggi è un bagno di sangue distribuire un film. Non c’è nessun guadagno. Dei tuoi cortometraggi, quale ritieni il più riuscito?
  • 14. 19 Sicuramente Entre la chair et l’ongle, il ya la crasse (1996), perché più completo anche da un punto di vista narrativo e produttivo. Abbiamo fatto un lavoro eccellente con il super 8 e il sonoro in presa diretta. Girando in super 8 si perdono sempre dei fotogrammi rispetto alla registrazione. Quando poi si è in presa diretta i problemi tecnici si complicano: si può andare facilmente fuori sync e allora in fase di montaggio bisogna tornare indietro, per mettersi a posto con il labiale. Per questi problemi tecnici non sono tanti quelli che hanno realizzato il super 8 in presa diretta. In quel cortometraggio ci sono delle scene di cui vado orgoglioso, tipo l’incidente in moto. Del cinema italiano contemporaneo che cosa apprezzi? Per esempio, il cinema di Agostino Ferrente, di Giovanni Piperno, di Giovanni Columbu e di Salvatore Mereu. L’imbalsamatore (2002) di Matteo Garrone è un capolavoro assoluto. Lo stesso cinema di Sorrentino rivela delle sfaccettature notevoli. L’Italia pecca non tanto di lavori e di autori ma di uno stato mentale e comportamentale terrificante, dettato da quello che io chiamo “l’infantilismo cronico”. Qui cade tutto nello scherzo, nella pacca sulla spalla, nella barzelletta dell’ultimo minuto. Quando si vede un film straniero, si riconosce subito una certa maturità che da noi purtroppo latita. Abbiamo purtroppo una malattia che non fa crescere il sistema. Il cinema è la forma d’arte più onesta e sincera che ci sia. Tutte le altre possono prenderti in giro, tranne la Settima Arte che ha una sincerità disarmante. Un film è ontologicamente puro, teologicamente santo. Perché un film ci mette un nano secondo a crollare. Per farti capire meglio: se tu cazzeggi per anni tra scrittura, produzione, casting e tutto il resto…non puoi pensare che al primo giorno di girato scenda dal cielo la dea bandata per darti la concentrazione ed il rispetto di un set come quello di Shine di Steve Mc Queen. Impossibile. Intervista a cura di Domenico Monetti Ancora Davide Manuli, qui invitato all’edizione 2013 del Festival del Cinema Indipendente, Cinémondes di Lille.