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Introduzione
Castiglione Street View
Da cosa è delimitato un territorio? Quali sono i segni
che indicano la nostra presenza in un qui, diverso da
un altrove? I “confini” non sono delle linee dritte, ma
dei gradienti che i sensi percepiscono e analizzano.
Dall’abitato del paese, fortemente connotato, alla
dimensione della campagna, si snoda un percorso fatto
di esplorazioni e derive lungo i bordi.
Del concetto di confine
Manifesto del terzo paesaggio
Walkscapes
La flâneurie come pratica artistica. Lo strumento in
grado di modificare il nostro sguardo, e di conseguenza
il nostro pensiero e le nostre azioni, sul territorio nel
quale scegliamo di perderci. Ma anche lo sforzo fisico del
camminamento, che rimanda ad un passato rurale in cui
lunghi erano i percorsi quotidiani da compiere.
pp. 7—8
pp. 9—24
p. 10
p. 22
pp. 25—32
Un dialogo con (parte I)
Sara Alberani — Giovanna Fersini
Sara Alberani — Augusto Caloro —
Crocefissa Colluto
Appunti per un’estetica del vernacolare
Il contesto in cui si sviluppa il Parco Comune dei Frutti
Minori è fonte di riflessioni e critiche all’attuale modello
“abitativo”, che accostano al “come vogliamo vivere”
un ulteriore quesito: dove vogliamo vivere?
Ezio Sanapo
Elogio al bianco della calce
La casa rurale in Puglia
Le origini di un popolo sono testimoniate dai luoghi che ha
abitato e le tracce lasciate in un habitat ne rappresentano
il genius loci, profondamente radicato. Esse devono trovare
la giusta connessione con lo strato più acerbo di un
territorio, costituito dalla sua contemporaneità.
Un dialogo con (parte II)
Mauro Bubbico — Gigi Schiavano
Sara Alberani — Donato (detto Donatuccio)
Diversi fatti di vita contadina
Un’inversione di tendenza rispetto al sistema di
mercificazione delle nostre esistenze non può non avvenire
sotto gli auspici di una tradizione “opponente”, costellata
da episodi di lotta e ribaltamento degli schemi sociali
consolidati.
Piccola cronologia del Novecento
Due diari sul Parco Comune dei Frutti Minori
Un confronto diretto tra due visioni dell’esperienza
castiglionese, annotazioni didascaliche che diventano
flussi di pensiero, interferiscono e si arrichiscono
in maniera vicendevole.
pp. 33—44
p. 33
p. 40
pp. 45—64
p. 46
p. 47
pp. 65—80
pp. 81—100
p. 81
p. 92
pp. 101—124
p. 102
pp. 125—156
7
Frutti dimenticati
Il Parco Comune dei Frutti Minori nasce anche con
l’obiettivo di recuperare la bellezza, le tradizioni e
il valore della terra. I frutti minori, raccontati come
persone di un mondo dimenticato, sono frutti locali, che
nascono spontaneamente e che hanno svariate peculiarità,
custodite all’interno della cultura popolare.
Begin forwarded message
Inizio messaggio inoltrato:
>>
Da:
Oggetto:
Data: 		  :
A:
pp. 157—172
pp. 173—188
Il parco comune dei frutti minori è un progetto di rigenerazione di terreni
pubblici nelle aree rurali di Castiglione d’Otranto, attivato dalla comunità
locale in collaborazione con artisti, pensatori e agricoltori radicali, al fine
di ridare dignità ad aree pubbliche abbandonate e meta di discariche di
rifiuti e materiali inerti, spesso dannosi alla salute, per convertirle in bene
comune. Il parco nasce su terreni bonificati da cui sono stati rimossi i
rifiuti, per lasciare spazio al patrimonio frutticolo salentino: le molteplici
varietà di fichi, il giuggiolo, la cornula, il sorbo, i gelsi e tanti altre specie
autoctone da proteggere e gustare.
Oltre ad essere giardino didattico in continua espansione, dove
ospitare laboratori e seminari sulle questioni agricole e ambientali,
il parco è anche viviterium, luogo della memoria e dello spirito.
Chi partecipa alla sua costruzione, adotta simbolicamente un albero
dedicandolo ad una persona cara, viva o morta, o ad una figura distintasi
nella lotta ambientale, culturale e per i diritti del lavoro.
Le aree rurali sono luoghi di relazione fra le persone e con la natura,
occasioni di scambio di conoscenze tra generazioni e saperi diversi; non
piu’ zone marginali e abbandonate, ma territori centrali in cui esercitare
e rafforzare i vincoli di comunità, lo sviluppo sociale e forme di economia
sostenibili. Il Parco Comune dei Frutti Minori è un percorso insieme di
recupero della tradizione e rinascita futura che si innesta sulle pratiche
da tempo attivate nell’area di Castiglione per l’utilizzo delle terre incolte,
pubbliche o private, oggi coltivate in modo naturale, con varietà antiche
di cereali e in via sperimentale con la canapa come coltura di rotazione.
***
Casa delle Agriculture “Tullia e Gino”
Comitato Notte Verde AgriCultura & Sviluppo Sostenibile
Associazione nata a Castiglione per ridare vita ai terreni abbandonati,
ripopolare le campagne, generare economia sostenibile e rafforzare
i vincoli di comunità. Progetti attivati in questa direzione: “La Notte
Verde”, appuntamento divenuto imprescindibile per tutti coloro che si
interessano alle pratiche di agricoltura naturale; “Chi semina utopia
raccoglie realtà”: semina collettiva di antiche varietà di cereali, “La
Primavera della Canapa”, “Lo spirito del Grano”.
Free Home University
Progetto artistico e pedagogico che nasce in Salento nel 2013, che
intende generare nuove modalità di creazione e circolazione dei saperi.
È supportato dalla fondazione canadese Musagetes e dall’associazione
culturale Loop House (Lecce) nel quadro di un protocollo di intesa con
Regione Puglia, Provincia di Lecce e Comune di Lecce.
A cura di Alessandra Pomarico, Luigi Negro e Alissa Firth Eagland,
con la collaborazione degli artisti René Gabri e Ayreen Anastas,
Lu Cafausu, Adrian Paci.
9
Castiglione
StreetView
Delconcettodiconfine
PIEROZANINI
GILLESCLÉMENT
Manifestodelterzopaesaggio
9——24
Questo libro nasce dall’esperienza vissuta insieme con altri
volontari a Castiglione d’Otranto (Le), durante i lavori di
creazione e apertura del Parco Comune dei Frutti Minori.
Il parco è un progetto di collaborazione tra
Casa delle Agriculture “Tullia e Gino”
e Free Home University,
su un’idea dell’artista Luigi Coppola.
La nostra volontà non è quella di restituire una fotografia
oggettiva degli avvenimenti, ma piuttosto raccogliere in
un’unica pubblicazione riflessioni diverse, generate dagli
stimoli ricevuti nelle giornate castiglionesi.
Riflessioni che ruotano intorno ad un perno comune,
costituito dal quesito che ha animato il progetto
di Free Home University:
COME VOGLIAMO VIVERE?
Più che risposte, questo libro si propone di fornire ulteriori
e particolari considerazioni. In che “paesaggio” viviamo?
Con quale memoria collettiva ci confrontiamo,
nella quotidianità dei nostri gesti?
Può esistere una connessione tra arte e lavoro,
tra l’astrazione della bellezza e la pragmaticità
della nostra esistenza?
10 11
Machecos’èunconfine?Comefunziona?
Perchéauncertopuntoqualcunodecidedi
stabilireunconfine?Comevienevissutoun
confine?
Quellochevorremmoprovareafarecon
questolavoroèdescrivereunpercorsoat-
traversoilconfine,luogomisteriosoenon
abbastanzafrequentato.Luogocheincon-
triamomoltevolteneinostrispostamenti,
luogodoveèfacileimbattersinell’imprevi-
stoemuoversi,spessoatentoni,nellascomo-
dità.Vorremmocioècominciareaosservare
quellostranospaziochesitrova“tra”lecose,
quellochemettendoincontattosepara,o,
forse,separandometteincontatto,persone,
cose,culture,identità,spazitralorodiffe-
renti.Lospaziodiconfinequindi,maanche
(almenoquestaèunadelleipotesi)ilconfine
comespazio.Spaziochepuòavereunmar-
gineesterno,quellodovel’uomoabita,ama,
lavora,simuoveesidiverte,quellodallear-
chitetturepiùconcreteedevidenti,maan-
cheunmargineinterno,interiore,intimo,
legaloainostristatid’animo,allesperanze
ealleutopiecheliaccompagnano.Margini
chedifficilmenteriusciamoaosservarechia-
ramente,anchesespessoneaffermiamocon
certezzal’esistenza.
Informeemodidifferenti,confiniefron-
tierehannoentrambiachevedereconla
modificazionedelnostropaesaggioreale,
trasformandoilterritoriochefisicamente
occupiamoeabitiamo.Allostessotempo,in-
fluisconoinmanieraprofondaconiluoghie
glispazichesegnanoedannoformaainostri
orizzontimentali,allenostreidentità,piùo
menoautentiche.Einfatti,comescriveClau-
dioMagris,
iconfinimuoionoerisorgono,sisposta-
no,sicancellanoeriappaionoinaspetta-
ti.Segnanol’esperienza,illinguaggio,lo
spaziodell’abitare,ilcorpoconIasuasa-
luteelesuemalattie,lapsicheconlesue
scissionieisuoiriassestamenti,lapoliti-
caconlasuaspessoassurdacartografia,
l’ioconlapluralitàdeisuoiframmentie
lelorofaticosericomposizioni,lasocietà
conlesuedivisioni,l’economiaconlesue
invasionielesueritirate,ilpensierocon
lesuemappedell’ordine.(a)
L’uomotendeavivereall’internodiuno
spaziochiuso,limitato.Habisognodiavere
attornoaséunabarrierachedelimitilospa-
ziochehaoccupato,loseparieloprotegga
daunqualcosachenelmomentostessoin
cuivienetracciatoilconfinediventa“altro”,
“diverso”.Quantooggistaaccadendonel
mondodimostraampiamenteche«essereal-
loggiatisignificacominciareadessere».(b)
[...]Sulterrenoilconfineindividuadifre-
quenteunospazioasé,unluogoconisuoi
abitanti(le“gentidiconfine”)cheinqualche
modolousano,edacuispessopartonose-
gnalidicambiamento«inprocessisocio-po-
liticirilevantipermoltepersonealdilàdel
lorocontestolocaleeaddiritturadelloro
stato».(c) [...]Unadellepossibilistradeda
percorrereèalloraquellacheprovaariat-
tivare,forsearicomporre,queglispaziche
finoaoggisonostatiusatiprevalentemente
comeostacolitraleculture.Ilconfine,quin-
di,comespaziodovetutteleidentitàchesi
incontranosonoallostessomodocostitutive
erappresentative,edoveogniidentitàesi-
steproprioinquantoconfermatadallealtre.
(d) Creandoaltrispazi,necessariamentedi
confine,chepermettanodiavererapportial
dilàdellapropriaidentitàedellapropria
diversità;oalmenosenzagenerarenecessa-
riamenteostilitàversol’altro.(e) Sempre
più,infatti,lanostrasembra«esserel’epoca
dellospazio.Siamonell’etàdelsimultaneo,
dellagiustapposizione,delvicinoedellon-
tano,delfiancoafiancoedeldisperso».(f)
Eillimite,ilconfine,èproprioilluogodove
queste“giustapposizioni”,questeantinomie,
simanifestanoconcretamenteesirivelano
completamente.Perquesto,quicercheremo
diguardarealconfinecomeaunospazio,e
nonsoloalla“linea”cheloistituisce.Ilconfi-
necomeunluogodotatodiunasuamisura,
diunasuadimensione,conlesuestorieei
suoiabitanti.Unospazio,quellodelconfine,
cheha«lacuriosaproprietàdiessereinrap-
portocontuttiglialtri,mainmodotaleda
sospendere,neutralizzare,oinvertirel’insie-
medeirapportidalorostessidesignati,ri-
flessi,orispecchiati»,(g)diventandoilluogo
dell’obiettività.Trasformareunconfineche
separaspazidifferenti,chelicaratterizzaat-
traversociòcheincludeociòcheesclude,ciò
cheaffermaociòchenega,inun“altrospa-
zio”puòallorapermetterci,forse,diridurre
lasuarigiditàeilsuopotere.Questospazio
siavvicineràcosìallafrontiera,aqualcosa
cioècheaccettapiùfacilmentelapossibilità
diesseremodificato,aqualcosachemantie-
nedentrodisédueopiùideediverse,l’una
chenonescludel’altra.Cercandodiannul-
larneperò,allostessotempo,ilsuotrattopiù
ostileeaggressivo,quellodi“fronte”.
Andareversoilmargine,viverelalimina-
rità,staresulconfine,richiedeaciascunodi
noiladisponibilitàelavolontàdicompiere
un’esperienzadiapprendimento(h)oltre
leabitudini,aldilàdelleconvenzioniedei
preconcetticheciascunodinoipuòavere.
Proprioperilsuoapprossimarsiaunlimi-
te,anchemorale,questaesperienzapotrà
rivelarsiallostessotempoestremamentevio-
lenta,paradossale,emozionante.Provareil
confineelesuecontraddizioni,maanchela
suasconfinatavivacità,vuoldireesercitarsi
nellapraticadellatolleranza,dellaconvi-
venza,dellostarefiancoafiancomalgradole
rispettiveparticolarità.Vuoldireanchecer-
carediavereunosguardopiùallargatosulle
cose,ingradodicomprendereaspettidiversi
(anchesemoltolontanitraloro)diunastes-
sarealtàcomepartidiunasolacomplessità.
Delconcettodiconfine*
PIEROZANINI
* Il testo è tratto dall’introduzione
al libro di Piero Zanini,
SIGNIFICATI DEL CONFINE.
I LIMITI NATURALI, STORICI,
MENTALI, Bruno Mondadori,
Milano 1997.
***
(a)  C. Magris, COME I PESCI IL
MARE… in Aa.Vv., FRONTIERE,
supplemento a “Nuovi Argomenti”,
1991, n. 38, p. 12
(b)  F. Braudel, L’IDENTITÀ
DELLA FRANCIA. SPAZIO E
STORIA, il Saggiatore, Milano
1988, p. 301
(c)  H. Donnan, T. M. Wilson,
IDENTITÀ E CULTURA SULLE
FRONTIERE INTERNAZIONALI,
in “Ossimori”, 1995, n. 6, p. 50
(d)  D. Karahasan, ELOGIO
DELLA FRONTIERA, in
“Micromega”, 1995, n. 5, pp.
149–158
(e)  Un tentativo in questo senso
sembra essere, per esempio, quello
compiuto negli stati baltici con un
esperimento–pilota di “psicologia
etnica”; con la costituzione di
“gruppi di incontro” tra etnie
diverse si cerca di superare
la conflittualità tra le diverse
identità in campo. Cfr. A. Oliverio,
LA MEMORIA COLLETTIVA
ALIMENTA LE GUERRE
ETNICHE, in “Il Corriere della
Sera”, 14 maggio 1995
(f)  M. Foucault, SPAZI ALTRI.
I PRINCIPI DELL’ETEROTOPIA,
in “Lotus International”, 1985–86,
n. 48–49, pp. 9–17
(g)  Ivi, p. 11. Questi spazi si
dividono secondo la classificazione
di Foucault in utopie, irreali,
e eterotopie che al contrario,
pur essendo «luoghi fuori da
lutti i luoghi», sono comunque
localizzabili
(h)  V. Turner, IL PROCESSO
RITUALE. STRUTTURA E
ANTISTRUTTURA, Morcelliana,
Brescia 1972
12 13
b
a
14 15
16 17
c
d
18 19
20 21
e
f
22 23
Manifestodelterzopaesaggio*
GILLESCLÉMENT
Ognunadellefrasicheseguonopuòessere
voltainformainterrogativa:
1.Istruirelospiritodelnonfarecomesi
istruiscelospiritodelfare.
2.Elevarel’indecisionefinoaconferirle
dignitàpolitica.Porlainequilibriocolpote-
re.
3.Immaginareilprogettocomeunospa-
ziochecomprenderiserve,domandedapor-
re.
4.Considerarelanonorganizzazione
comeunprincipiovitalegraziealqualeogni
organizzazionesilasciaattraversaredailam-
pidellavita.
5.Avvicinarsialladiversitàconstupore.
ESTENSIONE
1.Condiderarelacrescitadeglispazidi
Tpderivantidall’organizzazionedelterri-
toriocomeunnecessariocontrappuntodi
quest’ultima.
2.Prevedereunaccostamentotrairesi-
duieriservepercostruireterritoridiconti-
nuitàbiologica.
3.FacilitarelacreazionedispazidiTpdi
grandedimensionecosìdapotercoprirel’e-
stensionedellespeciecapacidiviverviedi
riprodurvisi.
CARATTERE
1.Considerarelamescolanzaplanetaria,
meccanicainerentealTp,comeunmotore
dell’evoluzione.
2.Insegnareimotoridell’evoluzionecome
siinsegnanolelingue,lescienze,learti.
3.Fornireachiusaunambientelepre-
cauzioninecessarieallamanipolazioneeallo
sfruttamentodegliesseridacuidipende.La
fragilitàdelsistemaèlegataallanaturadelle
praticheealnumero.
STATUTO
1.Considerareladimensioneplanetaria.
2.Difenderel’assenzadiregolamentazio-
nemorale,socialeepoliticadelTp.
3.PresentareilTp,frammentoindeciso
delGiardinoplanetario,noncomeunbene
patrimoniale,macomeunospaziocomune
delfuturo.
SFIDE
1.Conservareofarcrescereladiversità
attraversopraticheconsentitedinonorga-
nizzazione.
2.Avviareunprocessodiriqualificazione
deisubstratifondamentaliperlavita,modi-
ficandolepraticheperifericheaglispazidel
Tp,perrenderepossibileunasuainfluenza.
4.Fissareunapoliticaterritorialeche
puntianondiminuireleporzionidiTpesi-
stenti,senonadaumentarle.
EVOLUZIONE
1.Facilitareledinamichediscambiotra
gliambientiantropizzatieilTp.
2.Orientareilgiocodegliscambifondia-
ri,delriutilizzodeisuoliedeidispositividi
collegamentotraipolidiattività.Disegnare
un’organizzazionedelterritoriopermaglie
largheepermeabili.
3.Crearetanteportequanteneservono
allacomunicazionetraframmenti.
SCALA
1.Renderedisponibiliglistrumentine-
cessariperl’osservazionedelTp.
2.Rendereaccessibilileimmaginiottenu-
teconisatelliti,conimicroscopi.
3.FacilitareilriconoscimentodelTpalla
scalaabitualedellosguardo.Imparareano-
minaregliesseri.
LIMITI
1.Pensareillimiticomeunospessoree
noncomeuntratto.
2.Pensarealmarginecomeaunterri-
toriodiricercasullericchezzechenascono
dall’incontrodiambienti.
3.Sperimentarel’imprecisioneelapro-
fonditàcomemodidirappresentazionedel
Tp.
TEMPO
1.Ignorarelescadenzeamministrative,
politiche,digestionedelterritorio.
2.Nonaspettare:osservareognigiorno.
3.OffrirealTplapossibilitàdidispiegar-
sisecondounprocessoevolutivoincostante,
attraversounareinterpretazionequotidiana
dellemutevolicondizionidell’ambiente.
SOCIETÀ
1.Elevarel’improduttivitàfinoaconferir-
ledignitàpolitica.
2.Valorizzarelacrescitaelosviluppo
biologici,inopposizioneallacrescitaelo
sviluppoeconomici.
3.Proteggereisititoccatidacredenze
comeunterritorioindispensabileperl’erra-
redellospirito.
CULTURA
1.Rovesciarelosguardorivoltoalpaesag-
gioinOccidente.
2.ConferirealTpilruolodimatricediun
paesaggioglobaleindivenire.
3.DichiarareilterritoriodelTpluogo
privilegiatodell’intelligenzabiologica:pre-
disposizioneareinventarsicostantemente.
IX—Rappresentazione e limiti
1. La rappresentazione del Tp dipende
dalla possibilità di stabilirne i limiti
geografici.
2. I limiti diventano visibili alle frontiere
tra i residui e i territori sottoposti a
sfruttamento.
3. I limiti situati tra i residui recenti e
quelli più antichi restano indistinti. Dal punto
di vista del Tp essi non esistono.
4. Un residuo evolve verso la foresta. I
suoi limiti possono essere confusi con quelli
di una foresta gestita dall'uomo. Dal punto di
vista del Tp, questi non esistono.
5. Una foresta cresciuta su un residuo
presenta sempre una diversità superiore
rispetto a una foresta gestita dall'uomo.
6. Una foresta cresciuta su un residuo
appartiene al Tp.
7. La foresta con vegetazione climax, gli
insiemi primari, i residui che evolvono verso
la foresta e i residui giovani possono essere
cartografati e rappresentati allo stesso modo,
in quanto territori rifugio per la diversità.
8. La contiguità tra insiemi primari e
residui offre alla diversità una continuità
territoriale.
9. La continuità territoriale appare
in modo cospicuo nel caso di riserve ben
costituite o nel caso di una continuità tra i
residui e riserve o insiemi primari. Altrove,
appare sotto forma di linee: siepi, bordi delle
strade, foreste fluviali
o sottoforma di isole.
10. La dimensione di un territorio in grado
di accogliere la diversità è un fattore che
contribuisce a limitare il numero delle specie.
11. I limiti costituiscono in sè spessori
biologici. La loro ricchezza è spesso superiore
a quella degli ambienti che separano.
12. La rappresentazione dei limiti del
Tp non può tradurre oggettivamente il loro
spessore biologico, ma può evocarlo.
* Il testo è tratto da Gilles Clément, LE TIERS
PAYSAGE, 2004. Traduzione resa disponibile
da Luca Napoli. Copyright © 2004, Gilles
Clément. Copyleft : l’opera è libera e può
essere redistribuita e/o modificata secondo
i termini della Licenza Art Libre (http://
artlibre.org)
24
W
a
b
c
d
e
f
a.murodiabitazioneprivata
b.murodiabitazioneprivata
c.sottopassoferroviario(“l’arco”)
d.muroasecco,privato
e.terrenoprivato
f.terrenoprivato
attraversare
aprire
riconoscere
scoprire
attribuire
comprendere
inventare
assegnare
scendere
salire
tracciare
disegnare
calpestare
abitare
visitare
raccontare
percorrere
percepire
guidare
osservare
ascoltare
celebrare
navigare
annusare
accedere
incontrare
ospitare
misurare
captare
popolare
costruire
trovare
prendere
non prendere
pedinare
inseguire
entrare
interagire
scavalcare
investigare
seguire
lasciare
non lasciare
un territorio
un sentiero
un luogo
vocazioni
valori estetici
valori simbolici
una geografia
i toponimi
un burrone
una montagna
una forma
un punto
una linea
un cerchio
una pietra
una città
una mappa
i suoni
gli odori
le spine
le buche
i pericoli
un deserto
una foresta
un continente
un arcipelago
un’avventura
una discarica
altrove
sensazioni
relazioni
oggetti
frasi
corpi
persone
animali
un buco
un grigliato
un muro
un recinto
un istinto
un binario
tracce
camminare
orientarsi
perdersi
errare
immergersi
vagare
inoltrarsi
andare avanti
A
L
K
S
C
A
P
E
S
25 32
26 27
28 29
30 31
[...] Comunque tu Donato N. lo conosci, no?
Sì, l’ho conosciuto in questi giorni
Eh, è pure mio cugino, figlio di mia cugina, e quindi noi
abbiamo dato tre ettari di terra a lui e hanno seminato un po’
di tutto, il farro, l’orzo, il grano, il grano cappello e quindi
abbiamo dato a lui, proprio per questo, perché le terre sono
incolte e non c’è nessuno... Mia madre con sette figli, perché
mio padre riusciva a mantenere una famiglia di nove persone,
e quindi c’era questa questa possibilità di tirare avanti anche
se servivano pure i soldi, però i soldi non si raccoglievano
nello stesso tempo, giornalmente, come fanno adesso magari,
perché uno va alla giornata, lavora sei ore, otto ore e poi
magari si guadagna 50 euro per esempio no? Invece allora
si lavorava, quando finivano tutti i frutti, per esempio la
coltivazione del tabacco, alla conclusione della consegna di
questo tabacco, riuscivi ad avere tre milioni, per esempio.
Allora con tre milioni, si faceva veramente tante cose. Io per
esempio questa casa con tre milioni l’ho costruita
L’avete costruita voi la casa? Cioè uno
la casa se la poteva costruire da solo?
Sara Alberani
Giovanna Fersini
(detta Giovanna a Rosanunna)
Un dialogo
con
Quelle elencate a pag. 25 sono una serie di azioni
che si possono leggere e agire intrecciando a piacere
le parole delle tre colonne verticali. Azioni che solo re-
centemente sono entrate a far parte della storia dell’ar-
te e che possono rivelarsi un utile strumento estetico
con cui esplorare e trasformare gli spazi nomadi della
città contemporanea. Prima di innalzare il menhir — in
egiziano “benben”, «la prima pietra che emerse dal
caos» — l’uomo possedeva una forma simbolica con
cui trasformare il paesaggio. Questa forma era il cam-
minare, un’azione imparata con fatica nei primi mesi
della vita per poi diventare un’azione non più cosciente
ma naturale, automatica. È camminando che l’uomo
ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo
circondava. È camminando che nell’ultimo secolo si
sono formate alcune categorie con cui interpretare i
paesaggi urbani che ci circondano.
K
L
A
W
S
E
P
A
C
S
34 35
Poi è iniziato ad esserci il problema
dell’abbandono di queste terre, perché
a un certo punto forse alcune generazioni...
Essì poi da quando hanno incominciato a evolversi i tempi,
magari una persona non gli andava più di lavorare la terra e la
lira ha incominciato a scarseggiare nel senso che c’erano delle
leggi che non si poteva fare più il tabacco, perché era nocivo
alla salute, quindi niente tabacco, non si poteva fare. E c’erano
tante famiglie [che lavoravano il tabacco, ndr]! Le famiglie
partivano di qua per sei mesi all’anno, per andare a lavorare a
Ginosa, Taranto, Brindisi, Foggia, tutte le parti... Io son stata
pure là, verso Metaponto, in Basilicata, in Puglia
In che anni più o meno è successo?
Io sono del... diciamo... ero fidanzata, mi sono fidanzata un
po’ prima quindi... sessanta... cinque, ‘70. Poi ho continuato
fino al ‘76. Al ‘76 mi sono sposata, e quindi poi quando mi son
sposata mia madre ha continuato per un po’ però i figli hanno
incominciato ad avere problemi nel senso che non gli piaceva la
campagna, perchè bisognava lavorare veramente...
È faticoso!
È faticoso per chi non lo sa... Però a quei tempi, perchè poi
c’è anche il problema dell’irrigazione qua! Quindi non è che
tu facevi, chessò, una coltivazione e ti andava bene... Magari
verso Ginosa, verso Taranto, c’era l’irrigazione. Fiumi,
compagnia bella... Invece qua non essendo niente, allora una
persona doveva farsi il pozzo, doveva avere i soldi per farsi
il pozzo, se non avevi la possibilità di farti il pozzo... Che
faceva? Doveva trovare qualche altra soluzione per poter
innaffiare le piante che coltivava. Magari anche pomodori per
esempio. Noi per esempio — quando me ne sono venuta da Bari
— abbiamo coltivato dei pomodori che veramente... la terra ti
dava dei pomodori grandi così, buonissimi! Che poi il primo
anno per dispetto la gente è andata e li ha spiantati
Perché?
Vandali, no? Vandalismo... Anche a quell’epoca. Dovevi stare
sul chi va là. Poi le persone hanno iniziato a non voler lavorare,
hanno cominciato ad avere problemi e hanno cercato di avere
uno stipendio. Allora che cosa si può fare per avere uno
stipendio? Specialmente chi non ha studiato? Che all’epoca,
non c’era neanche tanta scuola perché se andavi a scuola, i
genitori è vero che ti ci mandavano, ma è vero pure che certi
ragazzi andavano a passeggio, non gli andava neanche di
studiare. Chi era andato a scuola ma magari non rendeva,
faceva domanda di bidello, faceva domanda di infermiere, nei
militari, per avere lo stipendio. Tu metti a lavorare la terra, a
zappare, e metti ad avere uno stipendio... Mio padre, anche
con tanti sacrifici, le coltivava lui... [...] Perché poi mi ricordo
Eh sì, cioè con tre milioni voglio dire... Anche se mio marito
aveva lo stipendio, però con cento euro, cento venti al mese,
riusciva a mettersi 50 euro, 50.000 Lire da parte per costruire
questa casa, invece adesso...
Senza andare neanche in banca a chiedere
un prestito, un mutuo... con i risparmi
Ma non penso che si faceva neanche il prestito, non c’era
neanche l’idea di andare a chiedere dei soldi in prestito
Quindi anche della sua famiglia,
tutti andavano a lavorare la terra?
Dato che mia madre aveva sette figli, allora è normale che per
poterli mantenere dovevamo coltivarla insieme, lavoravamo
insieme, quindi io mi ricordo, perché mia madre faceva il
tabacco, io da piccolina e mia sorella era neonata, che stava
in campagna insieme a noi, poi specialmente d’estate, in una
cesta lei dormiva e noi lavoravamo, alle quattro di mattina.
C’era questa, questa...
Quest’usanza che si tramandava...
Sì infatti, si faceva questo, però giustamente lavorando
tutti i figli, eh... Non c’era bisogno neanche di manodopera
perché tutti si lavorava, eh io mi ricordo che ero pure veloce a
raccogliere il tabacco, o a infilarlo...
La famiglia numerosa, che oggi è un
problema, allora era utile perché diventava
una specie di impresa e poteva portare avanti
un lavoro con la forza lavoro dei figli
Sì, poi magari c’era anche la possibilità di crescere degli
animali, e quindi sovvenzionare la famiglia anche con...
chessò, se avevi la mucca c’era del latte disponibile, se avevi
conigli c’era la carne disponibile, se avevi le galline facevano
le uova... Quindi si mangiava di tutto, e roba genuina, perchè
galline, conigli stavano nei giardini. Mia madre per esempio
aveva un giardino e aveva una casa proprio per... O magari
se c’era la possibilità proprio di far crescere, chessò, un
maiale allora era la ricchezza di quella famiglia perché la
sovvenzionava in tutte le...
36 37
quindi si coltivava, c’era una soddisfazione enorme, perché tu
vedevi crescere queste piante dal seme, no?
È una cosa bellissima vedere, come si dice,
il frutto del lavoro
Perché io ho seminato questo seme, e l’ho messo in questa
terra. Specialmente se vedi che la pianta viene su rigogliosa,
che vuol dire? Vuol dire che il seme ha trovato il terreno giusto.
E quindi sono tutte cose che uno deve conoscere per fare,
anche l’esperienza si fa mano mano [...]
Adesso poi abbiamo lasciato, ché mio marito è venuto a
mancare e quindi ho lasciato tutto, perché io spendevo dei
soldi solo a pulire la terra, e non facevo niente più, perché non
c’era nessuno, i miei figli se ne sono andati...
Quindi li avete venduti i terreni?
No, no, no ce li abbiamo ancora. Spendevamo soldi solo per
pulirle, ma non per coltivarle, fruttificare queste terre. I miei
figli, ognuno ha preso la sua strada, però... se avessi la forza
adesso, dico ai miei figli... forse dobbiamo stare attenti perchè
arriveranno dei tempi che non sono come questi, chissà se
un giorno, anche se mio figlio è insegnante di musica, si deve
mettere un po’ a zappare la terra forse, e allora io non la
venderò mai questa terra... Perchè è una cosa che mi rimane
E adesso l’ha data in uso...
Allora adesso sì, infatti ce l’ha Donato, e hanno piantato.
Quest’anno ancora non hanno piantato niente, non so dopo
se faranno anche dei pomodori, non so. Perché poi il tempo
pure è incerto, questo tempo qua. Quindi ci vuole il tempo per
arare, ci vuole il tempo per coltivarla. Se ci permette il tempo
di fare qualcosa, non lo so, altrimenti si pulisce e basta.
Si ricollega un po’ al lavoro che stiamo
facendo noi con loro, sicuramente prima una
pulizia. Perché purtroppo le terre sono anche
inquinate, e non soltanto dai rifiuti che si
una volta in un campo c’erano delle olive, c’era del grano,
un incendio ha divampato tutto... E allora, da ragazzini noi,
con mio padre, portavamo l’acqua con le... noi le chiamiamo
“capase”, erano dei contenitori con un orecchio, che si
prendeva l’acqua e si trasportava, no? E quindi mio padre ha
ripiantato tutti gli alberi di olivo, che mò sono pure grandi però
non proprio secolari diciamo no... Lui voleva che questa terra
doveva esserci, in una famiglia, eppure dato che aveva sette
figli, da noi c’era questa usanza che si doveva dare ai figli pure,
come proprietà, un pezzettino di terra. Allora dato che uno
c’ha sette figli, che fa... almeno sette pezzi, possibilmente il
più grande possibile, per poi ricostruirsi una famiglia anche
loro... Pure mio marito si è dedicato alla campagna. Si è
comprato il trattore, la fresa, il tagliaerba, la motosega, cioè
tutte le cose che servono. Lui dedicava molto tempo, dopo
il lavoro il pomeriggio fino a quest’ora stava in campagna,
piantava la cipolla, il pomodoro, la zucchina, la patata, con più
amici, due tre famiglie, ci siamo uniti... Perché non puoi tu da
solo lavorare in campagna! Ci vuole un aiuto, ci vuole forza...
L’unione fa la forza...
Eh l’unione fa la forza! Questa forza l’avevamo trovata
con alcuni amici disponibili quindi erano tre famiglie che
collaboravamo insieme, allora chi metteva una cosa chi metteva
il lavoro, anche se mio marito la spesa l’aveva fatta con i suoi
mezzi, per coltivare sta terra. Eh però, dopo tutto questo,
certe annate andavano bene, certe annate andavano un po’
male, però il mangiare non ci mancava... Quando ti sedevi
a tavola c’era la roba tua, la roba coltivata, anche se un po’
di meno, un po’ discreta... Perché noi non è che siamo nati
contadini, i genitori nostri sono nati contadini, noi avevamo
avuto questa possibilità di adattarci subito dopo di loro, quindi
adesso io posso insegnare ai miei figli no? Però i miei figli non
ci sono...
Non ci sono, perchè non hanno voluto
continuare a coltivare la terra?
A questo figlio mio, che sta a Bologna, lui fa l’autista di
pullmann, gli piacerebbe... Mi dice: “mamma, se avessi
un pezzettino di terra, io me lo coltiverei, e mi pianterei
tutto quello che...” [...] Prima i miei genitori facevano con i
semi, seminavano e facevano dei quadrati che noi chiamamo
“ruddhre”, li concimavano, mettevano il letame, quelle cose lì
naturali, quindi gli animali li tenevano anche per questo
In questo modo si rimetteva tutto in circolo...
Roba organica diciamo no? E allora il seme veniva bene,
c’erano i pomodori, il tabacco, quello che sia... E allora questi
pomodori venivano trapiantati alla terra già coltivata, magari
si arava un paio di volte per poi ripiantare queste piantine, e
38 39
vedono, ma sono quelli che non si vedono
anche molto pericolosi, e anche chi continua
a fare un tipo di agricoltura intensiva con
forti elementi chimici, perché... i costi sono
alti, bisogna fare in fretta, bisogna fare una
super produzione! E adesso si è arrivati a quel
limite, quella soglia che non tiene più perché
la roba è una schifezza, piena di componenti
chimiche e ci rendiamo conto che ci sono
le malattie, bisogna avere riguardo, perché
altrimenti che siamo qua a fare
Beh quando una terra è ammalata, ce ne vorrà del tempo prima
che si disintossica, però non ci saremo neanche noi forse, tutto
questo tempo, nell’arco di questi anni, da quando coltivava mio
padre... quello era un periodo diverso, perchè lui arava la terra
e quindi la metteva in funzione, con la falce, che non c’erano
tagliaerbe, con la falce si tagliava l’erba! Non c’erano pesticidi,
non c’era niente
Era tutto manuale, ci voleva tanto tempo,
tanta forza fisica, manodopera
Quando invece sono tornata io, quindi negli anni novanta,
fino ad oggi — adesso stanno un pochettino cambiando — però
dal novanta, quasi trent’anni, che le persone erano contente
perché vedevano il terreno pulito, ma quando vedevano il
terreno pulito vuol dire che avevano buttato i pesticidi, seccava
l’erba, “uuh! che bello pulito!”, anche io l’ho fatto, anche noi
l’abbiamo fatto, perché era pulito. Non conoscendo però dove
andavo incontro, perché pensavo che così facevano tutti, e lo
faccio pure io, ma da ignorante però... Magari adesso che le so
le cose, dico forse mio padre faceva meglio di me. E allora non
posso dire adesso che cosa devo fare? Che cosa manca? Però
intanto forse è troppo tardi
La terra si è ammalata, prima che torni
pulita ce ne vuole...
Ci lamentiamo dei prodotti che fanno male, ci lamentiamo
delle olive che si ammalano, forse è la natura, forse è
l’evoluzione naturale?
La natura comunque una risposta prima
o poi la da sempre
La risposta del male che abbiamo fatto noi!
La natura ce lo restituisce indietro...
Magari lo espelle da sola, però anche quello è
un nostro problema perché ovviamente tutti
facciamo parte di questo sistema
Io dico questo anche perché ho notato [un cambiamento, ndr],
quando abitavo a Bari nel giardino ogni anno puntuale vedevo
l’albero fiorire, vedevo la vite che germogliava, e quindi era
una puntualità che io mi rallegravo a vederla, perché poi la
primavera porta proprio gioia, allegria... Invece, da quando sto
qui, anche se ho un bel giardino qui dietro con alberi di arance,
mandarini, prugne... Io ho visto l’albero di prugne fiorire a
gennaio!
Che è strano...
Che è strano! Ma come mai, dico io, fiorisce a gennaio, quando
dovrebbe fiorire a febbraio, marzo? È la natura che mette la
sua parte, l’evoluzione naturale terrestre, non lo so... Mi spiego
fino a un certo punto, però poi non so darmi una risposta. Per
esempio certi alberi di aranci che adesso stanno fiorendo, tra
aprile e maggio, a maggio fiori d’arancio... Io ho visto i fiori
d’arancio fiorire a gennaio, a febbraio, che faceva un caldo da
morire... La natura ha risentito. Però quei fiori non servono
a niente, perchè frutti non ne escono mai! Allora osserva la
natura e impara [ride]
[...] Voi questo lavoro fate?
Sì, un po’ di archivio, di storie, anche per
quello che stiamo facendo qui, perché noi
siamo venuti qui in terre degli altri, cioè in
una comunità, un paese... Cercando di capire
anche quali sono i problemi, i punti di vista,
e di prenderli come esempio per cercare
di trasmetterli fuori, di farli anche in altri
ambiti... Davvero però, con persone concrete,
stare con i piedi per terra e sapere cosa c’è da
fare. Non tanti fronzoli, ecco
Non lo so se è stato utile quello che ho detto [ride]
Per noi è tutto di utilità, è un’esperienza
comunque preziosa
Le esperienze mie non sono quelle di un’altra... Più o meno!
40 41
Com’era la vita nella campagna?
Come si lavorava?
Vent’anni fa sono andato a fare le barbabietole…
Ah, quindi fuori?
Faccio la mossa come facevano lì [fa un gesto per far capire come avveniva
la raccolta], con un oggetto come un bastone e una tinella tanto larga che
insomma 50 gr in tutto non andavano. E tu dovevi fare così tutto il giorno,
camminare e lasciare una bietola ogni trenta centimetri e lavoravi diciassette,
diciotto ore al giorno perché lavoravamo per conto nostro da contratto. Avevi
setto, otto, nove ettari e dovevi finirli quanto più presto finivi, più presto te ne
andavi. Ci pensavano da soli.
Ora invece la vita è cambiata, io ricordo la vita di prima…
Io tengo 82 anni, allora ecco la vita di cinquantanni fa, allora la vita era molto
diversa, le persone erano pure diverse, forse più unite, mo invece chi va di qua,
chi va dillà, da una parte all’altra, tutti abbiamo molto da fare, più di prima.
Perché prima era la campagna e basta, mo vuoi che si esce a tutto.
Adesso il problema è anche a livello di tutto questo inquinamento che c’è, tutti
i soldi che non ci sono e per comprare da mangiare delle cose non sane, invece
prima sicuramente non c’erano soldi…
Non c’erano tante esigenze anche…
Però si mangiava bene…
Certo non eravamo a digiuno…
Però si mangiava solo un piatto…
Si mangiavano molto i legumi e la pasta pure si mangiava, però
non mangiavamo la pasta con la carne. La carne la mangiavano
i meglio…
Noi la mangiavamo due tre volte all’anno…. Pasqua, Natale e Capodanno… Poi
alle fiere allora si andava a fare la visita al santo e allora compravi qualcosa
così: mezzo chilo, un chilo di carne.
Si era un’altra cosa, era un po’ meno allora… mo invece la
carne, durante la settimana due volte, oppure di domenica,
è diverso il modo di mangiare e di vivere, le esigenze pure di
tante cose, che per esempio allora non c’erano.
Allevavano un maiale e poi arrivava il momento che lo si ammazzava, no? Ma
quando hanno iniziato a cambiare i tempi…
Quando è stato il cambiamento? Perché lei ha
iniziato a lavorare per qualcuno…
Beh sì, è cambiato il tempo quando è andato all’estero…
All’estero ci siamo andati nel 1957, è stata proprio un’infornata… perché da
questo paese nel 1956 sono andate via quattro persone: lo zio di Marta che
è morto il giorno che è morto Moro e poi altri tre e quando sono tornati da
li avevano fatto i soldi, allora nel 1957 tutti sono partiti, a Castiglione erano
rimasti pochi giovani, tutti via sono andati.
Insomma è cambiato poi, non c’è stato più il soldo da
mangiare..
Infatti poi ci sono andato anche io.
Il soldo prima era poco poi…
Nel 57 sono andato anche io, con contratto da tre mesi… poi stando li, dato che
nel 58 ci dovevamo sposare e dovevamo aggiustare la casa, servivano i soldi…
ho rinnovato il contratto e ci sono stato sette mesi, e quando sono venuto ho
portato un po’ di soldi…
In francia si guadagnava di quei tempi…
Portai 450.000 lire, e in quei tempi chi li conosceva prima di quei tempi…
E da allora poi il soldo ti ha fatto cambiare la vita, potevi
andare a comprare, avevi, ti potevi fare la casa.
Allora la gente spariva da qui per guadagnare, e poi ognuno s’è fatto la casa,
bella pure.
Quindi questa casa l’avete costruita voi?
Sì sì, suo papà insieme con te no?…
Mio padre aveva queste due stanze (indica la camera da letto e la cucina)
quando si è sposato nel 1925. Poi nel 34 c’era spazio ancora, del terreno, e
allora ha costruito un’altra casa, io avevo 3, 4 anni, io sono del 30. Dopo poi
qui c’era un’altro giardino che mio padre ha venduto perché non voleva più
costruire, allora noi abbiamo costruito questa nel 1949.
E comunque continuava a lavorare in
campagna?
Sì sì, sempre sempre, nei vigneti. Loro avevano dei vigneti in
affitto…
A metà, c’erano i grossisti, i capitalisti con tante terre. Allora davano un fondo e
tu ci piantavi la vigna e si faceva tutto a metà quando era il momento.
Sara Alberani
Crocefissa Colluto
Augusto Caloro
42 43
E loro pagavano in soldi?
Sì sì, loro poi facevano a metà.
No noi… che si menava il grano? ( si piantava il grano per esempio) facevi la
raccoltà a metà. prima si raccoglieva la semina che faceva circa mezzo quintale,
un quintale... si tirava quella prima e poi l’altro si faceva metà. Il proprietario
non voleva perdere niente.
Quanto ha continuato a lavorare nella
campagna?
Io? Ho finito la quinta elementare a 10 anni e mio padre mi ha portato al
monte degli ulivi in campagna, e di la una cosa dopo l’altra e ho lavorato
continuamente e ancora adesso lavoro…
Ancora adesso ci piace piantare i pomodori, delle zucchine,
i fagioli, tutta questa roba. Io prima, quindici anni fa, facevo
la sarta, adesso vedo poco e ho lasciato e vado in campagna
con loro, mi piace andare in campagna, sì è molto bello…
La campagna è bella, a me piace tanto e delle volta chiedo io
stessa a mio marito “andiamo a piantare i pomodori? Andiamo
a piantare i fagioli?” È un lavoro bello, che ti rilassa, certo ti
stanchi anche...
I vostri figli non hanno continuato a lavorare
la campagna come voi?!
No, perché abbiamo quattro figli: tre femmine e un maschio…Il maschio si trova
a Milano, si è spostato e vive lì. La grande delle tre ragazza è andata a Tricase e
insegna alle scuole medie, sì, la seconda e la terza media. Un’altra delle nostre
figlie sta a Padova, sta in segreteria in Veneto e il maschio lavora con la moglie
in provincia di Cremona in un supermercato. L’altra poi vive a Spongano e fa
l’infermiera a Tricase...
Quindi dopo di voi chi lavorerà la terra?
Eh, si arrangiano da soli poi…
Tutti adesso se ne vanno e i fondi restano così, intatti.
Noi i fondi li abbiamo dati ai nostri figli, e però sono tutti
lontani e qualcosa la facciamo noi, però poi...
Poi loro fanno quello che vogliono, se trovano da vendere, ma non c’è da
vendere.
Non comprano perché non ci sono i soldi…
Ma oltre i soldi, i giovani non vogliono lavorare, e quelli che sono più grandi
non hanno più la possibilità di coltivare la terra e allora resta tutto così… Non
appena muore qualcuno i fondi diventano abbandonati.
E vi dispiace naturalmente?
Beh certo, a me dispiace...
E quelli comprati non è che funzionino veramente...
E adesso è bello vivere e lavorare.
Beh direi che abbiamo finito..
Finito?
Abbiamo parlato alla maniera nostra.
A noi interessa solo la vostra storia… niente
di pensato o programmato.
Ma dove state lavorando adesso, siete arrivati proprio alla fine del comune di
Andrano o pensate di proseguire ancora per molto?
Per ora ci siamo fermati, perché è solo lungo
la strada, poi stiamo piantando degli alberi di
fico perché così tutti possono andarci.
E dove li state piantando?
Lungo la strada...
State attenti, quanti ne abbiamo avuti di fichi, che poi li vendevano a quintali,
quelli più marci. Passava uno che li comprava, poi gli altri, quelli scelti
li portavano al forno dove si faceva il pane e le facevano friggere e poi le
conservavano dentro i contenitori di creta. Poi quando ero più piccolo io, ti
lavavano i piedi, ti davano un paio di calzettini entravi in questi contenitori e
pestavi i fichi. Quando si zappava la terra per coltivare i piselli, il grano, un
po’ di tutto, d’estate verso le due e mezza, tre di notte, i papà ci chiamavano e
andavamo in campagna, al buio. Se c’era la luna vedevi qualcosa, altrimenti non
vedevi niente e si zappava fino alle nove e mezza, dieci, tutti quanti.
I figli dovevano andare ad aiutare
a lavorare quindi?
Sì ma adesso non ci vanno più, perché le scuole continuano
dopo le elementari, le medie, le superiori e poi non c’è il lavoro
per loro, perché si prendono il diploma, si prendono la laurea e
stanno così…
A quei tempi poi non è che ognuno aveva la propria proprietà in campagna,
erano pochi quelli che avevano una proprietà, tutti la affittavano e facevano a
metà.
Noi, per esempio facciamo l’olio con le campagne nostre,
abbiamo parecchi alberi di ulivo.
Un anno abbiamo fatto diciassette quintali di olio, era un carico molto
abbondante insomma…
45
Appunti per
un’estetica del
vernacolare
pp.
45—
64
46 47
Ezio Sanapo fa l’imbian-
chino da quando ha circa
otto anni. Ha imparato a
distinguere un pennello
fatto con la coda di un
cavallo di razza da quel-
lo fatto con la coda di un
cavallo meno pregiato o
di un asinello. L’ha impa-
rato andando a comprare
le code dei cavalli in macelleria, come facevano tutti
gli imbianchini. Ha imparato a dipingere le pareti del-
le case con la calce e a distinguere quella buona “che
non sfarina” da quella di cattiva qualità, troppo cotta o
fatta con le pietre sbagliate.
Ha imparato da solo il suo mestiere, e l’ha nobilita-
to trasformandosi in pittore. Ha passione per l’arte del
colore, è un cultore della bellezza, a cui ha dedicato la
vita, insieme con il recupero nelle terre desolate del
sud, perché la bellezza può riportare valore e ricchezza
nei luoghi in cui ha vissuto.
Ezio Sanapo parla di linguaggio, di codice visivo.
Parla di quando le case dei contadini erano tutte bian-
che, splendenti e uniformi. Il colore testimoniava la
purezza di questo ceto sociale, la sua umiltà e il suo
rispetto per gli occhi, ma soprattutto il rispetto per il
ceto sociale aristocratico, che poteva permettersi di
dipingere la facciata della propria abitazione con colori
diversi, sempre delicati, ma non di bianco. Quello era
il colore dei poveri. Era una forma di comunicazione e
di rispetto reciproco, un modo per intendersi pacifica-
mente e convivere nello stesso luogo avendone rispet-
to. L’armonia tra le colorazioni delle case non è solo
una manifestazione di buon gusto e cura per l’architet-
tura ma una dimostrazione di coesione culturale tra le
classi sociali che le abitano. Una sorta di dichiarazione
di forza e unione.
Porta con sé una serie di fotografie che ha fatto nel
paese in cui è nato e vive da tutta la vita. Sono foto di
case moderne, dai colori
accesi, vivaci e pacchia-
ni. Si infervora definendo
questo tipo di atteggia-
mento offensivo, pre-
varicante e prepotente.
Ricorda con nostalgia la
bellezza del paese quan-
do le case erano per lo
più tutte bianche e si po-
tevano dipingere i colori della natura senza mescolarli
a quelli dell’uomo, che con molta umiltà si asteneva dal
prendere una posizione cromatica, attraverso l’uso del
bianco.
Sanapo è un convinto comunista, ammiratore del-
la classe operaia e contadina, delle quali esalta i va-
lori e la solidità. Negli anni ottanta inizia a dipingere
quadri naive, nei quali ritrae paesaggi bucolici dai toni
delicatissimi, leggeri. I ritratti sono fiabeschi, le donne
sempre scalze e vestite in maniera povera; le abitazio-
ni bianche, come quelle di un tempo sono immerse in
sfondi sfumati e indefiniti. Il bianco predomina nelle
sue opere e si mescola delicatamente a tonalità pa-
stello. I suoi quadri sono puri, genuini, come la classe
contadina degli anni quaranta, ma portano con loro la
problematica della terra, del lavoro nei campi, della vita
nel Mezzogiorno.
ELOGIO AL BIANCO DELLA CALCE
Riflessioni di E. S.
I. SULL’ARMONIA DEL PAESAGGIO VISIVO
[...] Ho trovato uno scarto di libri di una biblioteca e c’era un libro che parlava di arte e
lavoro nella provincia di Lecce, che era la provincia tra Otranto e Leuca, una provincia
di circa cento comuni, quei comuni stabilivano delle regole riguardo la lavorazione
dell’edilizia delle case, dell’aspetto architettonico e coloristico. C’erano tutte le regole
alle quali attenersi. […] Sono tante singole case che formano un paesaggio, ma ognuna
per conto suo, ognuna a modo suo, senza regole, perché accanto alla tua casa, io formo
un paesaggio, o io guasto la tua visione della casa o tu guasti la mia, se ci mettiamo
d’accordo io e te insieme possiamo formare una veduta paesaggistica accettabile,
armonica. Ci mettiamo d’accordo, cerchiamo di contrastare il colore della mia casa ma
senza offendere nessuno, tu fai un celestino, io uso un rosa ma non acceso, non vivace,
lo spegnamo un po’, usiamo un colore che sembra un celestino, un beige che sembra
rosa. Come si faceva una volta, sui palazzi i rosa erano appena accennati. Il celeste non
era proprio un celeste, c’erano colori caldi e freddi.
[...] Singole facciate che io fotografavo e pubblicavo su Facebook senza
dichiarare il luogo o il proprietario. Alla fine non mi interessava chi l’ha fatto, tanto io
sto rappresentando quello che è un paese, una comunità che non è unita, il paesaggio
è l’espressione di una comunità individualistica. Siamo in una fase di individualismo
esagerato, così come sono i colori. È un comportamento che va da se, senza magari
essere spiegato, o senza che ce ne rendiamo conto. Noi stiamo solo rappresentando il
nostro io nella sua solitudine. E dico solitudine perché è una forma di malessere anche
quella no? Tu fai qualcosa di molto appariscente e vistoso perché vuoi mettere in rilievo
quello che tu presumi che non si veda bene. Perché non sei più niente, culturalmente
parlando, e allora inventi qualcosa per emergere un po’ rispetto al resto che ti circonda.
Ti consideri senza più identità e hai bisogno di essere visto, allora magari l’adulto lo fa
con la facciata, il giovane lo fa scrivendo una frase dolce su di un muro, rivolta ad una
ragazza. Faccio un po’ di ironia.
II. SULL’IRONIA COME STRUMENTO DI IDENTITÀ
E a proposito di ironia, dicevo prima a Mauro, quando la gente è molto consapevole
della propria identità, l’ironia è una forma di reazione e di difesa contro qualcosa di
oppressivo. Quando c’è qualcosa di opprimente e quello che ti opprime è molto superiore
a te e non puoi affrontarlo ad armi pari, tu usi l’ironia che è una forma pacifica, non
fa male però dissacra, e la gente, i salentini, la usavano questa forma di ironia per
difendersi dall’oppressione dal Cinquecento in poi.
Io penso che tutta la storia del Salento sia una storia di emarginazione, dalla
fine del Cinquecento in poi. Dopo il concilio di Trento, c’è stata una forma dura di
governo della società dovuta alla condizione clericale e spagnola, qui da noi almeno. Il
Andrea
Mantovano,
Arte e lavoro.
Teoria e pratica
nell’edilizia di
Terra d’Otranto
fra Otto e
Novecento,
Congedo Editore
2003
E Z I O S A N A P O
48 49
Mezzogiorno d’Italia, il Portogallo e la Spagna erano proprio il triangolo duro, quello
dominato dalla chiesa e dalla gente benestante, dal clero, che era oppressivo. E poi è
nata questa forma di letteratura che era raccontare le vicende della storia comune, che
non si era mai fatto prima, da cui emergeva la verità della gente. Questo discorso si è
fatto in molti paesi, nel Salento si utilizzava la figura di Papa Galeazzo, che raccontava
le vicende della gente comune attraverso il personaggio di un prete: una figura nata
dopo il Concilio di Trento, una forma di difesa dall’oppressione della Chiesa, che era
oppressiva anche dal punto di vista sessuale, ed è per questo che la tendenza alla
sessualità nel gergo salentino è una regola oggi.
Parlare degli organi sessuali nel parlare comune è normale, lo fanno anche
le donne anziane che vanno in chiesa, è un linguaggio che è venuto fuori per protesta
e poi è diventato consuetudine, come la bestemmia. La bestemmia è stata oggetto di
studio sul come fare per fronteggiarla o impedirla. Tempo fa trovai un manifesto piegato
in quattro in un libro del Cinquecento all’interno della Biblioteca Provinciale di Lecce,
era un manifesto da mettere in pubblico ed elencava le penalità per chi bestemmiava. Si
parlava di un tappo in bocca, la cosiddetta mordicchia.
[…] Quindi parlavamo della produzione di oggetti di terracotta, tipo i
carabinieri che stanno sempre in coppia. È un souvenir del salento la statuetta del
carabiniere con il pennacchio, com’erano nell’Ottocento, quando sono arrivati giù, calati
dall’alto. Sapete benissimo che quando una cosa è calata dall’alto e non è richiesta, c’è
sempre il rigetto, allora ecco che subentra l’ironia, ecco che nasce il fischietto sul sedere
del carabiniere. Una forma di dissacrazione della figura del carabiniere, come il Papa
Galeazzo. Questo succede quando la gente è molto consapevole della propria identità
culturale, quando questa si perde diventa molto indifesa e ha bisogno di apparire in tutti
i modi possibili.
III. SULL’ARMONIA DEL PAESAGGIO VISIVO (2)
La facciata è una forma di apparizione esagerata. Combattere questa cosa qua non è
facile. Io pensavo che modificare il paesaggio fosse facile. Basterebbe imbiancare come
dice il regolamento del 1889. Elogio al bianco della calce è il nome della mostra che
faccio. In una lettera al ministro Bray dico che hanno distrutto molte case con la volta
a stella, per motivi tecnici, per ingrandire la casa in verticale. Motivi tecnici a danno di
quelli culturali. Io parlo del salentino di oggi, del meridionale di oggi come individuo, il
suo stato di conservazione dopo questo sfacelo di realtà consumistica, che ha cambiato
la vita a tutti. Io sto denunciando il fatto che c’è stato un eccessivo ricorso alla pietra a
vista, perché è intesa come l’elemento dell’edilizia derivato dalle cornici dei palazzi in
stile classico, ora lo fanno anche le case dei contadini ma le trasformano in tanti modi,
le usano in tanti modi senza tenere conto della necessità di usarla. Ho visto un’insegna
di un negozio di abbigliamento intimo e sulla lastra di pietra leccese era scolpita una
donna con un tanga a pois. C’è questa esagerazione, questo bisogno spasmodico di
apparire perché abbiamo perso identità. Se l’avessimo conservata non ce ne sarebbe
stato bisogno.
[...] Io sto cercando di suscitare un po’ d’interesse in qualcuno che possa
aiutarmi a fare qualcosa per salvare il paesaggio, stavo dicendo prima, sembrava una
cosa da niente ma non lo è, ho capito che il motivo principale è che non ci sono più
regole in un paese ma anche nella società. Non ci sono più regole, c’è un distacco tra una
generazione e l’altra, dovuta ad una mancanza di lascito tra una generazione e l’altra,
un consegnare qualcosa, che erano le regole, i valori, i principii di una comunità, di una
famiglia. Non c’è più un collante tra una generazione e l’altra, già questo è un problema
di fondo.
[...] Allora è nato il voto di scambio. “Io sono diventato sindaco grazie al tuo
appoggio, alla tua famiglia, ai tuoi amici. Come faccio quindi a proibirti di colorare la tua
cosa in maniera così vistosa? Io non vedo, non so niente, non mi hai chiesto niente, non
me ne sono accorto”: questo discorso di complicità è andato avanti per troppo tempo.
Non c’è più memoria dei luoghi, dei principii e delle regole che conservavano la società
nei decenni e tutto ciò è stato un danno procurato dal consumismo. Comprando tutto ciò
che ci hanno proposto di comprare, abbiamo venduto l’anima.
[...] La Sovrintendenza alle Belle Arti, in quanto portata a tutelare i beni
architettonici, si è interessata solo di quelli classici, palazzi e chiese, non dei centri
storici abitati dal ceto popolare; infatti il mio è andato distrutto. Si è sparpagliato
quel ceto, è andato frantumato e disperso all’estero, le loro dimore erano il patrimonio
storico, centenario, della loro presenza. È stato abbandonato e distrutto con i colori che
vediamo oggi. Anche dalla Sovrintendenza alle Belle Arti. Io ho denunciato al ministro
questa mancanza di competenze, ho denunciato il fatto di non essersi occupati della
tutela dei centri storici. Purtroppo nessuno mi ha risposto.
IV. SULLA GIUSTA RESPONSABILITÀ
Una volta si imbiancava per disinfettare la casa, per rinfrescarla ogni anno a primavera.
La si usava nell’agricoltura in molti modi, la calce veniva venduta dagli ambulanti ai
privati. Nel garage, nel sottoscala, tutti avevano il Caucinaru, usato per farci bollire la
calce in acqua, che sciogliendosi diventa pasta omogenea e compatta. L’imbianchino
andava a casa della gente, l’abitante gli mostrava la sua calce, l’imbianchino la scioglieva
nell’acqua, la setacciava e imbiancava, con lo stesso materiale del proprietario della
casa. Se la calce non era buona era colpa del proprietario, non dell’imbianchino — quindi
mia —, se spolverava non era colpa mia, voleva dire che era bruciata. Quando un sasso
di calce duro viene messo nell’acqua a bollire deve essere coperto di acqua, se durante
la cottura la pietra si gonfia ed emerge dall’acqua si spappola a secco e diventa debole.
L’acqua la rinforza, così invece diventa granulosa e si spolvera. E non è molto aderente al
muro, ecco.
Mi ricordo il gesto, di più di una signora quando ero ragazzino, mi ricordo
che mi chiedevano: “puoi darmi una mano a spostare l’armadio?”. Una volta c’erano
questi armadi pesanti con i piedi deboli, a furia di spostarli ogni anno si indebolivano,
rischiavano di spezzarsi e poi magari cadevano. La signora era accanto a me e
nascondeva dietro di sé la scopa e, non appena spostavo l’armadio, con un gesto rapido
puliva il muro, il fondale dell’armadio e per terra, che ne so... gomitoli, scarafaggi, tutto
veniva raccolto in un baleno e tu non vedevi niente, se lo portava via e tu non vedevi
nulla. Tutto pulito. Lo faceva perché si vergognava a far vedere che magari c’erano
ragnatele o sporcizia.
Walter Mazzotta
(a cura di),
I racconti di
Papa Galeazzo,
Ediprogram
50 51
Il Mediterraneo è il centro della nostra
civiltà. Nei Paesi che vi si affacciano si è
sviluppata un’identità artistica che merita
analisi e valutazioni approfondite, proprio
per soddisfare il desiderio di consolidarne
i caratteri, di renderli distinti dall’“interna-
zionalismo” che tutto uniforma e appiatti-
sce. Finora, l’attenzione a questo argomen-
to è quasi sempre stata rivolta velocemente,
con superficialità, e si è rivelata incapace di
evidenziare in modo sostanziale — al di là
dei sensi e delle forme di un certo folclori-
smo — aspetti, funzioni, tecnologie, imma-
gini in grado di valorizzare il Mediterraneo
e, addirittura, proiettarne l’immagine in
ogni parte del mondo.
In tale contesto, anche l’architettura medi-
terranea non è da ritenersi solo un “segno
stilistico”, appartenente a epoche o, per lo
meno, ad anni del passato. È certamente
riduttivo cercare di definirla attraverso la
monumentalità, la grandiosità, lo sviluppo
di materiali e sistemi di avanzata tecnolo-
gia; essa rappresenta, nella sostanza, uno
specifico modo di porsi di fronte al proble-
ma costruttivo, una tendenza, un
atteggiamento, sicuramente una
soluzione. È così simbolo di uno
stile alternativo, semplice e affida-
bile, al dilagare di progetti che sono
frutto di una fantasia sfrenata, che
propongono le forme più strane, le
tecnologie più esasperate, gli stri-
dori più spinti e dimostrano indif-
ferenza totale verso il paesaggio, la
storia, la tradizione, la consuetudi-
ne.
[...] Quali definizioni per l’architet-
tura mediterranea? Quali caratteri
la distinguono? Pochi sono i suoi
modelli abitativi, poiché essa conforma
il territorio secondo semplici percorsi di
razionalità e geometria. [...] Si adatta alle
accidentalità del terreno; si ripete linear-
mente negli insediamenti a schiera lungo le
coste marine, o lungo le direttrici stradali
di regioni interne; si esprime in costruzioni
isolate che identificano punti di osserva-
zione ed emergenze paesaggistiche. Si con-
figura in tipologie volumetriche elementari
che si compongono di parti distinguibili
funzionalmente: il tetto a terrazza o a fal-
da semplice; il patio, il fronte di affaccio;
l’intonacatura a colori tenui, per favorire
la riflessione del calore o l’identificazione
della superficie.
[...] Le costruzioni nell’area mediterranea
dimostrano in questo modo che l’architet-
tura è soprattutto un’arte collettiva, poi-
ché accetta e affronta, con il contributo di
diverse componenti tecniche, gli aspetti,
le ideologie, le problematiche della realtà
e dello sviluppo sociale. Di sicuro, l’archi-
tettura del Mediterraneo offre interessanti
e alternativi punti di analisi e valutazione
della tecnologia costruttiva e pone a con-
fronto i criteri di semplicità con quelli di
più avanzata tecnologia, quelli basati sulla
tradizione con quelli rivolti alla sperimen-
tazione; rende validi i principi dell’isola-
mento e dell’inerzia termica, offrendo al
progettista una varietà di soluzioni razio-
nali, affidabili ed efficaci nel lungo perio-
do. [...]
RobertoGamba,ArchitetturadelMediterraneo,editoriale
diCostruireinlaterizio133,gennaio/febbraio2010
V. SULLA PRATICA ARTISTICA COME IMPEGNO
Io sto portando avanti questa lotta da quando ho cominciato a prendere coscienze della
realtà della mia terra, del Salento. Quando tornai dalla Svizzera negli anni Settanta e
andava di moda fare politica, impegnarsi nei sindacati. Poi c’era anche un ritorno alla
cultura popolare negli anni Settanta, un ritorno molto sentito, anche nel nord. Nei film,
ad esempio con Novecento di Bertolucci, e nella letteratura con Fontamara di Silone,
che parlavano di un ritorno del ceto contadino, che è stato perso e ripreso verso la fine
degli anni Ottanta, ma più come una moda ed è un peccato tutto ciò. Negli anni Settanta
era più sentito, era “un prendere coscienza” della propria identità. E io cominciavo
a dipingere, ad usare il linguaggio della pittura, partecipavo a delle mostre e questo
suscitava molto interesse, dipingevo anche se era problematico.
Nei primi Novanta c’è stato un ritorno al proprio habitat, al proprio privato,
c’è stato il tentativo di persuadere la gente a tornare nel privato attraverso la strategia
della tensione, le stragi, gli attentati, facendo credere che tutto ciò che è fuori non è
più sicuro. Tu passeggi ma non ti senti sicuro, tutto ad un tratto ti scoppia una bomba
accanto, oppure in stazione. Insomma, una strategia per far tornare la gente nelle
proprie case, fino a disinteressarsi dei problemi sociali, non far più delle manifestazioni,
o andare a combattere per le riforme per le leggi, come l’aborto, la reversibilità, che
erano temi caldi del periodo. Facendo frantumare tutto, si frantuma la comunità e si
ha una società di singoli individui che non comunicano tra loro e che non rivendicano
niente singolarmente. Io me ne accorgevo perché, quando esponevo negli anni Novanta
e qualcuno si fermava in galleria, si teneva ad una certa distanza dai quadri. Allora
gli si diceva che poteva avvicinarsi, ma c’era qualcosa che indisponeva gli spettatori e
fondamentalmente era la vista di una problematica, quella che io esponevo attraverso i
quadri. Un invito ad impegnarsi un po’, ma nessuno si voleva davvero impegnare.
[...] L’artista non è un titolo, è uno stato d’animo, l’arte è un modo di leggere
le cose e le persone, e capirle meglio, capirle e rispettarle. La realtà non è piatta come la
vediamo ad occhio nudo. Tutte le cose hanno un’anima, io sono credente ma in termini
religiosi si dice “hanno un’anima” e io dico “c’è poesia nelle persone”, la poesia è l’anima
delle cose. L’arte è una forma di comunicazione, non è una forma di mercato, non serve
ad altro. Ormai si è confuso tutto ultimamente, tutto è mercato quindi anche l’arte.
Insegnare ai ragazzi cos’è l’arte è un buon inizio, perché gli adulti sono già indisposti.
Si presume che in quanto adulto, si rechi ad una mostra solo per comprare, ma non è
vero, l’arte serve per comunicare, per trasmettere dei valori. Gli adulti hanno bisogno
dei ragazzi. C’è bisogno di unire le generazioni e creare un collante con il quale legarle:
le regole, i valori. L’arte è una provocazione, deve essere anche quello, non è solo una
forma poetica, deve essere ironica. Quando uno ci mette buona volontà tutti possiamo
essere artisti, io sono un autodidatta. Ho la quinta elementare perciò ho imparato da
solo a leggere e a scrivere correttamente.
[…] C’era un rapporto di complicità con tutto quello che ci circonda. Tutti i
mestieri che ho fatto, l’imbianchino, il decoratore... sono una reazione del mio carattere,
un modo che ho sviluppato per amare il prossimo e tutto ciò che mi circonda, la realtà la
società, la mia terra. Sono più sensibile e ne soffro di più e sento di dover fare qualcosa
per richiamare l’attenzione verso coloro che non se ne accorgono. Occorre essere un po’
sensibili, un po’ emotivi per leggere le cose.
52 53
La storia
dell’architettura,
com’é scritta e insegnata nel mondo occidentale,
si occupa solo di poche culture selezionate.
Considera solo una piccola parte del globo —
l’Europa e segmenti dell’Egitto e dell’Anatolia.
	 Inoltre l’evoluzione dell’architettura è
studiata solo nelle sue ultime fasi. Sorvolando
i primi cinquanta secoli, i cronisti ci presentano
un apparato di architettura “formale”, un modo
arbitrario di introdurci all’arte del costruire,
come sarebbe quello di datare la nascita della
musica con l’avvento dell’orchestra sinfonica.
Questo approccio discriminativo degli storici
è dovuto al loro parrocchialismo.
	 Ci sono poi i pregiudizi sociali. la storia
dell’architettura che ci viene propinata ammonta
a poco più di un “chi è?” di architetti che
celebrano il potere e la ricchezza, un’antologia
di edifici di, da e per privilegiati.
Bernard Rudofsky, Architecture without architects.
A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture,
The Museum of Modern Art, New York, 1965
54 55
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Consiglio Nazionale Delle Ricerche
RICERCHE SULLE DIMORE
RURALI IN ITALIA
Vol. 28
CARMELO COLAMONICO
La casa rurale
nella Puglia
con contributi di
Osvaldo Baldacci, Andrea A. Bissanti,
Luigi Ranieri E Benito Spano
FIRENZE
LEO S. OLSCHKI EDITORE
MCMLXX
65—80
66 67
grafiche diverse. Da qui, le sue peculiari caratteristi-
che etniche e dialettali, geneticamente riconducibili
alla stessa posizione geografica della penisola e alla
sua anzidetta protensione nel mare verso altri cen-
tri d’irradiazione culturale. Le dibattute influenze
che le vicende immigratorie e i conseguenti apporti
di cultura esogena di provenienza orientale avreb-
bero esercitato anche nella sua tradizione edilizia
non sono chiaramente determinate. È un fatto però
inoppugnabile che il Salento rappresenta, con la vi-
cina Murgia dei Trulli, il paese in cui l’architettura
a strobilo ha la massima diffusione e le più variate
applicazioni, e incontrovertibile altresì la circostan-
za — chiaramente rilevata dalla presente indagine
— che non va oltre il confine meridionale della pia-
na messapica l’areale del caseggiato a corti, affatto
sconosciuto nella forma agglomerata agli altri centri
pugliesi, quanto comune a diverse altre “province”
culturali del mondo mediterraneo.
	2. Forme e caratteri della casa di paese. — La
scarsa rilevanza dell’insediamento rurale disperso
attribuisce anche qui un interesse preminente all’e-
same delle caratteristiche della dimora paesana e
delle forme dei ripari campestri che ne rappresen-
tano il necessario complemento. Anche calcolando
il nuovo apporto al decentramento agricolo determi-
nato di recente dall’attuazione della riforma agro–
fondiaria, in nessun Comune della regione il numero
degli abitanti permanentemente stanziati in campa-
gna raggiunge l’aliquota del 10% della popolazione
totale. Dei nove e più abitanti su dieci, accentrati nel
villaggio, quelli appartenenti al ceto rurale devono,
al solito, dividere la loro vita tra il domicilio in pa-
ese e il casolare o il ricovero di campagna, sottopo-
nendosi a spostamenti giornalieri anche su distanze
notevoli. La sistemazione in paese raramente è oggi
nei limiti di una dimora elementare, formata di un
solo ambiente d’uso indifferenziato e promiscuo.
Ciò vale specialmente per i centri della parte istmide
della penisola, dove non esiste, o vi è presente ecce-
zionalmente, il caseggiato a corte che caratterizza
invece quelli del Salento leccese. Nelle dimore pa-
esane del Salento tarantino e brindisino il massimo
grado di elementarità strutturale consiste già nello
schema di un’abitazione monocellulare sovrapposta
a un seminterrato di varia utilità, oppure, più cor-
rentemente, nelle linee già note di un gran vano uni-
tario internamente suddiviso, mediante separatori
orizzontali e verticali, nel quadruplice spartito della
sala-cucina (corrispondente al semivano anteriore),
dell’alcova, della camerina e del magazzino sotto
volta. Non è comunque in quest’ordine di struttu-
re e dimensioni che l’edilizia salentina può ancora
prospettarci, rispetto alle subregioni vicine, una sua
propria tipologia. Motivi nuovi e originali non com-
paiono che al livello delle abitazioni maggiori con
ambienti disposti l’un dietro l’altro, secondo lo sche-
ma della cosiddetta casa a correduru. L’espressione
definisce propriamente una dimora composta di al-
meno tre vani, uno anteriore, più ampio (camera de
nanzi o de nanti, con funzione di soggiorno e locale
per ricevere), e gli altri due, aventi un lato in comune
ma senza comunicazione diretta fra loro, entrambi
addossati alla parete di fondo del primo. Il correduru
o correturu, ricavato in quello dei due vani minori in
cui è per solito allogata la cucina, è in sostanza l’an-
dito di attraversamento della metà posteriore dell’a-
bitazione (della sua parte centrale, nel caso di una
struttura più complessa). Allungato lateralmente al
divisorio interno e compreso fra le due porte per le
quali si accede dalla stanza anteriore all’ortale (op-
pure al vano più interno di successiva edificazione),
il corridoio risulta delimitato superiormente da un
assito di tavole (‘ntaulatu) o nei tipi modificati da
una soletta di cemento (soglia) che serve come ripo-
stiglio e dispensa (maazzenu, malanzenu, tramenza-
nu, ma anche paiaru e paiera quando ha l’accesso
dalla stalla attigua o viene comunque utlizzato pre-
cipuamente per contenervi una partita di foraggi).
	La casa a correduru, già frequente nei pae-
si dell’Albania salentina — dove pure si arricchisce
della cantina vinaria (lu ciddharu) localmente il più
comune accessorio della dimora accentrata —, è più
tipica e diffusa nei centri della piana messapica,
dentro un’area che abbraccia quasi tutto l’entroterra
brindisino, fra le Murge di Taranto, i primi gradoni
dell’altopiano continentale e la strozzatura media-
na della penisola. Su questa terza fronte rivolta al
Salento leccese, il tipo della casa con disimpegno a
corridoio e mezzanino sovrastante dirada assai ra-
pidamente per cedere posto e importanza ad altre
forme più specifiche della subregione delle Serre.
Differiscono sensibilmente al di qua del collo di tor-
	 1. Premessa. — La depressione occupata dal
Mar Piccolo e il lungo solco d’impluvio del Canale
Reale, svolgentesi alla base della terrazzata zolla
murgiana, segnano sul terreno il passaggio dalla Pu-
glia continentale alla sua estrema propaggine penin-
sulare, storicamente individuata come stanza delle
genti salentine.
	 Nell’unità geografica della regione pugliese
— affermata fondamentalmente dalla natura comu-
ne della roccia madre e da una monotona tematica
morfologica a larghissima predominanza di superfi-
ci tabulari — questa ultima contrada del paese, am-
pia da sola circa il doppio delle due subregioni prima
esaminate, si inscrive con una propria interpretazio-
ne delle strutture comuni e con motivi, da fisici a
umani e culturali, di più o meno chiara originalità.
Ha importanza anzitutto la sua stessa posizione
all’estremo sud della regione, già notevolmente al-
lungata nel senso della latitudine, e anche di più, in
quanto primo fattore d’individuazione geografica, la
sua configurazione a penisola slanciata a ponte fra
due mari in direzione dell’oriente mediterraneo. Nel-
la struttura del rilievo, codesta entità peninsulare, in
parte, riprende il tipo morfologico della Puglia piana
settentrionale; in parte, svolge ampiamente il nuovo
motivo plastico delle lunghe dorsali a statura colli-
nare, disposte secondo l’asse della penisola o margi-
nalmente alle sue fronti litorali e infine convergenti
con queste alla cuspide spartiacque del Capo di Leu-
ca. Se, pertanto, la pianura messapica rappresenta
semplicemente una replica, al di qua dell’altopiano
centrale, del Tavoliere di Foggia (una replica peral-
tro minore e idrograficamente impoverita, ma pure
fasciata da tutt’altro rivestimento agrario), la ner-
vatura delle “serre”, già nettamente profilata nella
sezione istmide del paese (con quel primo fascio di
corrugamenti che prende il nome di “Serre della Ma-
rina” o di “Murge Tarantine”), conferisce lineamenti
orografici propri al territorio salentino. Sul fondo di
tale caratterizzazione fisica, insorgono pure mode-
rati mutamenti, rispetto alle attigue subregioni d’al-
topiano e di anfiteatro marginale, in ordine ai fatti di
geografia umana.
	 Nel determinare il trapasso a un paese di
bassure appena sollevate nelle ondulazioni serra-
ne, la “soglia messapica” segna anche la scomparsa
quasi perentoria dell’insediamento umano disperso
(caratteristico delle Murge Basse e dei loro piatti
scaglioni premessapici), mentre rimpicciolisce il
modulo di quello accentrato. Si esprime cioè altri-
menti, in forma più attenuata, in quest’ultimo lembo
di terra pugliese, il fenomeno comune a quasi tut-
ta la Puglia continentale dell’agglomeramento delle
popolazioni contadine in grossi centri di dimensioni
urbane. Più precisamente, grossi agglomerati com-
patti caratterizzano ancora il popolamento della
pianura messapica, ma nel Salento tarantino e poi,
a sud della strozzatura mediana della penisola, in
quasi tutto il Salento leccese l’insediamento uma-
no si distribuisce in centri di minore entità della
media regionale e piuttosto ravvicinati fra loro. Se
perciò l’“accentramento agricolo” raggiunge local-
mente valori anche più elevati che in altre contrade
pugliesi, le conseguenze del fenomeno, nei riguardi
dell’economia agraria, vi sono temperate da codesto
frazionamento della coperta umana. Alla maggiore
densità di sedi accentrate corrisponde in effetti un
più compatto rivestimento agricolo costituito dalla
normale trilogia di vite, olivo e tabacco.
	 Infine, scendendo dall’altopiano si avverte
anche un sensibile cambiamento in ordine ai fatti
culturali. La parte peninsulare della vecchia Terra
d’Otranto, essa sola costituente l’autentico paese
dei salentini, ha espletato realmente nel corso dei
tempi, da quelli preclassici al periodo attuale, attive
funzioni di tramite nei rapporti umani tra aree geo-
Capitolo IX
LA PENISOLA SALENTINA
Benito Spano
68 69
sostituzione. Fanno le spese di questa volontà pia-
nificatrice soprattutto le grandi corti, per lo spazio
che ciascuna di esse racchiude. Si accentua perciò
ogni anno di più la preponderanza numerica delle
piccole corti per poche famiglie e accanto ad esse la
frequenza delle “corti singole” contenenti una sola
abitazione, ma abitate da rurali di condizione supe-
riore alla media.
	 Nel passaggio dall’area delle corti — sostan-
zialmente corrispondente ai vecchi ambiti murati —
alle zone di espansione fuori borgo, il caseggiato di
paese si distende in schiere longitudinali, ogni abi-
tazione disponendosi con affaccio diretto sulla via.
Rispetto alle case occupate da famiglie di altra con-
dizione, rivelano in ogni schiera la loro caratterizza-
zione rurale quelle che affiancano nel prospetto una
porta e un portone: la porta mette nella camera prin-
cipale che fa pure da disimpegno per tutti i vani suc-
cessivi fino alla cucina; il portone introduce invece
nella rimessa (sampuertu o simportu), abbastanza
capace per contenere la stalluccia della giumenta
(appartata sul fondo mediante un divisorio di muro o
di tavole tirato sino a metà altezza del vano), il carro
agricolo e l’aratro nella parte anteriore; il fienile e
i telai del tabacco nell’ammezzato di tavole sopra-
stante. Pareti e volta del vano, che è sempre il mag-
giore della casa, si presentano al solito variamente
tappezzate di filze di prodotti agricoli da conservare
o in essiccazione. È questo il tipo normale della casa
con rimessa, che altri amplia costruendo la stalla
nella superficie dell’ortale (sciardinu, perché più
grande della ssuta) onde riservare la rimessa a locale
di essiccazione del tabacco, a cellaio e alle funzioni
di magazzino agricolo (la rimessa si trasforma in an-
drone laterale, ma ha sempre uno spazio riservato al
carro). […]
	4. Le altre dimore di campagna e la varietà
dei ripari sparsi sui fondi. — Entro un certo raggio
all’interno di ogni centro abitato, là dove più si com-
plica e infittisce il mosaico particellare del suolo
produttivo e più intenso è il rigoglio delle coltiva-
zioni, l’antico insediamento a masserie ha ceduto
il predominio ad altre forme di abitazioni rurali. Le
tracce residue e raramente vitali del vecchio modo di
abitato quasi scompaiono, attraverso codesti spazi
irregolarmente circolari, in mezzo a una più o meno
fitta disseminazione di costruzioni minori e più mo-
derne, le quali, assieme all’accresciuta intensità e
varietà delle colture agrarie, avvertono della perma-
nenza del lavoro contadino sui fondi.
	 A ciascuna unità fondiaria, costituita nella
media normalità da poche parcelle tenute a colture
ortive (irrigate con acqua di pozzi), a tabacco, a viti
e a fruttiferi, corrisponde un nucleo edile composto
di abitazione (o abitazioni) e di annessi rustici, che
i locali definiscono con nomi diversi, tratti dalla lin-
gua e dal dialetto: “giardino”, “casa”, “casina”, “tor-
re”, “casino”, “villino” e “villa”. Tale nomenclatura,
ben più differenziata di quanto non richieda la reale
varietà dei tipi edilizi e delle strutture agrarie, com-
prende peraltro definizioni equivalenti. L’abitazione
0 8 m
camera
cuc. camera camera
cuc. camera
soggiorno
cuc. mag. stalla
camera
porc.
iazzo orto
camera
mag.
cuc.
orto
ortocucinacamera
dep. granaglie
dep.
granaglie
dep.
granaglie
cisterna
fig.126—Martano.
Una“corteplurifamiliare”
sione della penisola anche l’impianto del vecchio
caseggiato paesano, al vicinato del vicolo sostituen-
dosi quello della corte comune a più abitazioni.
	 Per tale nuova disposizione, comune a tutti
i centri dell’area peninsulare leccese, le abitazioni
paesane non prospettano direttamente sulle strade
del borgo. Ne sono separate da un cortile di varia
forma e grandezza, che limita sulla via o con un sem-
plice muro tirato fino all’altezza media di una casa
a terreno o con la stessa parete di fondo delle abita-
zioni che, volgendo le spalle alla strada, definiscono
il lato esterno del perimetro.
	 Nel suo aspetto originario ogni scorcio stra-
dale si caratterizza pertanto dal riscontro di due
cortine murali parallele, a tratti in fabbricato grezzo
o bianche d’intonaco, che espongono, come uniche
aperture, séguiti irregolari di portoni e di ingres-
si comuni ai cortili interni. Le case di ogni gruppo,
raramente disposte in altro modo che su fronti ret-
tilinee convergenti ad angolo retto, non sempre oc-
cupano e determinano coi loro allineamenti tutti e
quattro i lati del cortile. Sono anzi frequentissime
le schiere semplici o articolate a squadra (su due lati
contigui), soprattutto comuni nei cortili di forma
stretta e allungata, il cui rettangolo sia perpendi-
colare alla strada. Cortili stretti e allungati in senso
parallelo alla via contengono più spesso due schiere
di abitazioni, quella di fondo alquanto più lungo del-
la dirimpettaia, essendo questa interrotta dal por-
tico dell’ingresso. Una schiera più lunga di un’altra
comprende anche un maggior numero di abitazioni.
La regola è infatti che tutte le case si affaccino sul
cortile con un prospetto non maggiore di un lato del
vano d’ingresso e che gli altri ambienti siano costru-
iti uno dietro l’altro (eccezionalmente sopra quelli a
terreno) e accresciuti eventualmente con dipenden-
ze tecniche appartate nell’ortale che ne completi la
pianta sul fondo. Ogni unità di abitazione impegna
dunque del circuito della corte, o della lunghezza
complessiva dei lati abitati, quel breve tratto che è
necessario per collocarvi l’entrata ed eventualmente
una finestra, ricavata come apertura sussidiaria del-
lo stesso vano anteriore.
	 Vario è il numero di abitazioni contenute nel-
la “corte” salentina. Vi sono cortili occupati da due–
tre famiglie e cortili con dieci–dodici abitazioni, i
più grandi con un numero anche maggiore. L’esem-
plare in pianta, rilevato nel vecchio abitato “a corte”
di Martano, è un tipico cortile collettivo di medie
dimensioni, con pozzo centrale e tre grandi botole
granarie un tempo adoperate dalla piccola comunità
per conservare provvigioni e scorte agricole. Com-
prende sette abitazioni, tutte occupate da rurali (del
ceto contadino) e formate, eccetto le due più piccole,
da almeno un paio di ambienti (cucina–soggiorno e
letto–ripostiglio). Una dimora della schiera laterale
è fornita di cantina seminterrata; le tre costituenti
l’asse di prospetto, danno sul retro in piccoli ortali
tenuti a verziere e giardino. Riflettono una comune
normalità le dimensioni, la disposizione ambientale
e le strutture delle abitazioni (ancora del tipo con
copertura a pioventi), ed è normale altresì l’assen-
za di piani superiori al terraneo o al rilevato, così
comuni viceversa nelle corti plurifamiliari della re-
gione partenopea e della pianura lombarda. La fre-
quenza delle piccole e delle grandi corti appare oggi
nel Salento fortemente alterata in ogni centro abita-
to dallo sviluppo preso dappertutto dalla edilizia di
soggiorno
corridoio
camera cucina orto
stalla
fienile
cisterna
accesso cantina
0 4 m
fig.124—Una“casa
acorreturu”nelcentro
diRoccaforzata.
70 71
secco. I passaggi all’architettura tutta di pietra sono
peraltro mediati da fasce o zone particolari a preva-
lenza di forme miste, di pietre e vegetali. I pagliai
(pagghiari, ancora, e pagghiaruni, i più grandi) del-
le contrade periferiche alla pianura messapica sono
sempre dei ripari di questo tipo. Risalendo la gra-
dinata murgiana, tra Francavilla e Carovigno, essi
arrivano a mescolarsi superiormente con le forme
tipiche della Murgia dei Trulli o, localmente, con
quelle secondarie della casedda ostunese; verso le
Murge Tarantine e le Serre mandano incastri nelle
aree specifiche dei ripari troncoconici già di forme
tipicamente meridionali.
	 Sui rilievi delle “murge” a sudest di Taranto,
le costruzioni tutte di pietre a secco sono nella gran-
de maggioranza di proporzioni rilevanti. Si tratta
di grossi ripari gradonati, a due, tre e fino a cinque
ordini di ripiani circolari, vale a dire formati da due,
tre, cinque tronchi di cono sovrapposti, ciascuno af-
fiancato da un segmento della scala elicoidale che
porta sulla spianata in sommità. Ed è pure rimar-
chevole che appare qui, per la prima volta, come
autenticamente indigena la voce truddu (o troddulu)
per designare queste espressioni dell’architettura
“a tholos”. Le popolazioni di Lizzano e di Maruggio
pronunciano truddu; ad Avetrana si dice tròddulu;
al plurale le flessioni corrispondenti sono truddi e
tròdduri o tròdduli. Con la loro disseminazione, i
trulli delle Murge Tarantine individuano dunque una
prima area di costruzioni a secco di tipo più schiet-
tamente peninsulare e di dimensioni giganti, quali
non ritroveremo prima di giungere a sud di Gallipoli.
In genere, diradano nelle piaghe olivetano, dove si
vedono pure gli esemplari più arcaici (e fra questi
parecchi già decrepiti e in rovina); mentre si affit-
tiscono sui terreni a vigneto. È connesso comunque
alla espansione della viticoltura il continuo molti-
plicarsi dei trulli: se ne costruiscono tuttora, con
preferenza per le forme a più terrazze, associando
a ciascuna costruzione i truogoli per le soluzioni an-
ticrittogamiche, nonché uno o due ripuesti, capaci
vasche seminterrate costruite in sito, con “fette” di
tufo e piano di cemento inclinato verso un pezzetto
d’angolo, per depositarvi provvisoriamente il raccol-
to del vigneto durante le operazioni di vendemmia.
	 Appartiene a questa prima area di grossi ripa-
ri in pietre a secco una forma tutt’affatto particolare
di costruzione rustica (pure associata normalmente
alla coltura della vite) che fa a metà tra il trullo gra-
donato e la casetta in muratura. A Sava, che ne rap-
presenta il principale centro di dispersione, prende
il nome di “casile”: lo chiamerò pertanto “casile sa-
vese”. Il suo aspetto è appunto quello di una casupo-
la monovano, costruita senza fondazioni ma raffor-
zata su tre lati da un robusto contrafforte di pietre a
secco, dello spesso da uno a un metro e mezzo e alto
poco meno di due metri. Dalla formazione di questo
rincalzo prende inizio la sua costruzione, che solo
nella seconda fase prevede l’innalzamento dei muri
a calce dell’abitacolo. Negli esemplari meglio rifini-
ti, la volta del casile è a botte, la copertura esterna,
un lastricato di chianche, il piano di calpestio, una
0 3 m
camera
camerasoggiorno stalla
depositocuc.
fig.133—Dimoracontadina
permanentenell’areadei“casini”
intornoaLecce
del giardino (lu sciardinu) non è sostanzialmente di-
versa dalla comune casa di una qualsiasi altra pro-
prietà contadina. Entrambe consistono normalmen-
te in costruzioni del tipo unitario e a piano terra,
internamente suddivise in due o più ambienti abi-
tabili ed eventualmente affiancate da un accessorio
destinato a ricovero per l’animale da lavoro, oppure
a ripostiglio di attrezzi e magazzino provvisorio (ar-
còa, rimessa, suppuertu a seconda delle zone). [...]
	 Mi pare, in definitiva, di poter fissare per
queste forme di abitato le normali dissomiglianze
accennate dalla nomenclatura nelle seguenti co-
stanti: la “casa” di fondo a colture intensive e quella
del “giardino”, sono per lo più l’abitazione stessa a
carattere permanente del proprietario diretto–col-
tivatore; la “casina” può anche essere soltanto l’a-
bitazione a carattere stagionale del proprietario–
coltivatore il quale vi si trasferisce dal paese con la
famiglia nei mesi in cui si “fa l’orto” o si raccoglie
e lavora il tabacco; il “casino” e la torre di villeg-
giatura o il villino sono determinati dall’unione di
due abitazioni, quella temporanea del padrone del
fondo e quella permanente del colono; la “villa agri-
cola”, infine, denota una condizione come quella del
casino ma spesso, nei paraggi immediati dei centri
abitati, risulta dall’unione di due abitazioni perma-
nenti, quando anche la famiglia del proprietario ha
stabile domicilio nella casa di campagna.
	 Appena fuori da queste aree particolari di
abitazioni sparse e di coltivazioni intensive riappa-
re il dominio caratteristico dell’abitato a carattere
temporaneo e dei ripari campestri. Tutti i contadini
della piana messapica e delle depressioni fra le Serre
sono abili costruttori di capanne vegetali. Ne costru-
iscono di forme e grandezze assai diverse, come an-
nessi alle case sparse (di tipo tradizionale e nuovo) e
come ripari e rustici isolati. Dove l’aratro e la vanga
portano in superficie quantità di pietre sufficienti, si
dà alla pagghiara un carattere di maggiore stabilità,
componendo su basi di pietre a secco le strutture ve-
getali; altrimenti si procura di assicurare al manufat-
to pagliaceo una migliore tenuta con l’accuratezza
degli incastri e la solidità complessiva del telaio. Si
vedono grosse capanne isolate o a coppia (una per
gli uomini e gli strumenti di lavoro, l’altra per la giu-
menta e il carro o usata come magazzino provvisorio
del raccolto) costruite per durare molti anni, appena
rinnovandosi nel fasciame pagliaceo; altre invece,
più piccole e di fattura meno curata, destinate a vita
più effimera. Tali sono, in ogni caso, i ripari vegetali
formati da due pioventi direttamente poggianti sul
terreno (umbracchiu) che costruiscono i tabacchicol-
tori del Capo su terreni presi in fitto per una coltiva-
zione, e che essi stessi solitamente distruggono alla
fine della campagna.
	 Anche nel corredo rustico delle case sparse
vi sono normalmente tettoie e capanne di assai varia
dimensione e funzionalità, che ne esaltano l’ambien-
tamento in un quadro di terre basse e relativamente
povere di pietrame. Di tali complementi, interamen-
te o in massima parte formati con frasche, ramaglie
di ulivi, canne palustri e paglia di cereali, sono spes-
so dotate anche le nuove costruzioni insorte nelle
aree di riforma, per ogni altro carattere tutt’affatto
estranee alla tradizione edilizia indigena. Le forme
di codesto abitato colonico, distribuite peraltro in
contrade particolari lungo le due facciate costiere
della penisola già dominate dall’incolto e vuote o
quasi vuote di insediamenti fissi, ripropongono con
maggior insistenza il modulo di una abitazione a
piano terra, composta di tre o quattro vani princi-
pali (compresi il magazzino delle scorte e la cucina)
un portico a due archi o una tettoia e corredata di un
gruppo di dipendenze rustiche imperniato sulla stal-
la e sul forno; oppure — localmente e come espres-
sione di una fase costruttiva più recente — il tipo del-
la casa unitaria disposta su due piani, con in più e di
diverso, rispetto allo schema precedente, una terza
stanza per dormire e i rustici incorporati (nei vani
terranei). Per la prima forma, di gran lunga la più
diffusa, sia nella versione con tetto a pioventi, sia in
quella con copertura a terrazza, si potrebbe parlare
di costruzioni “tipo Arneo”, rispettivamente, e “tipo
Serranova”, dal nome delle contrade che ne risultano
massimamente impegnate; per l’altra di un impianto
“tipo Cerano” certamente il più evoluto, funzionale
ed esteticamente curato fra quanti ne ha espresso
nell’intera regione questa edilizia eterodossa legata
alla recente riforma agricola.
	 Come i territori piani definiscono nel loro
complesso la grande area delle capanne vegetali, le
plaghe rilevate (terrazzamento perimurgiano, Murge
Tarantine e Serre) formano il dominio degli annes-
si e dei ripari isolati costruiti solo con pietrame a
72 73
murge baresi
murge tarantine
strozzatura istmide
areale degli uliveti
areale dei vigneti
“le serre”
74 75
salentina (paiaru) i nomi di cali o calavaci o chipùru,
quest’ultimo segnalato come più propriamente ma-
gliese. Una diversità originaria di funzioni, fra gli
elementi destinati precipuamente a pagliai e riposti-
gli e quelli adibiti più segnatamente a ricoveri per
l’uomo, riscaldabili col fuoco, od anche ad essiccatoi
per i fichi.
	 Furni dei ficheti o paiari dei seminativi, le co-
struzioni a trullo forniscono comunque, attualmen-
te, un confortevole rifugio al contadino sia per l’am-
piezza dell’abitacolo, sia per il relativo isolamento
che la grossezza dei muri e della volta vi consente
dalle temperature esterne. Nelle giornate più fredde
lasciano la possibilità di accendervi dei fuochi, come
rivelano molte volte ceneri e sterpi ammucchiati en-
tro un circolo di sassi, come la parete attigua anne-
riti dalla fuliggine. Ve ne sono anche di dimensioni
assai rilevanti, paragonabili ai trulli plurigradonati
delle Murge tarantine: gli esemplari più grandi, a
tre, quattro, cinque gradoni si rinvengono più par-
ticolarmente dentro un’area che insiste sulla serra
di Ugento, ma che ha già i suoi avamposti presso la
costa gallipolina, da un lato (Torre del Pizzo), e ne-
gli uliveti tra Morciano e Salve, dall’altro. In uno di
questi esemplari situati più a sud ho misurato (in una
costruzione a tre tronchi di cono sovrapposti e alta
al culmine intorno ai 14 m) uno spessore murario alla
base di oltre quattro metri. Nell’ampio abitacolo era-
no custodite numerose scale di legno, di quelle che
si adoperano localmente per la rimonda degli ulivi,
altrove per cogliere le olive pendenti. Il vasto piano
di terra battuta era altrimenti ingombro di cataste
di ramaglie, ivi accumulate come scorta di legna da
ardere per l’inverno.
	 Ma oltre ad essersi perfezionata sino ad
esprime edifici di queste dimensioni, l’architettura
della pietra ha segnato qui anche una evoluzione in-
teressante verso forme le più adatte ad essere tra-
sformate in dimore di campagna. Affiancando due o
più trulli a base quadrata e sostituendo la copertura
“a tholos” con la volta “a lamia”, il muratore lapici-
da ha realizzato la forma rettangolare anche molto
allungata del vecchio riparo; una forma detta ap-
punto dalla struttura del tetto lamia (da Otranto a
Tricase), liama nell’Ugentino, e lamione (quella più
grande). Forniti di focolare, intonacati e provvisti di
infissi alle aperture, lamie e lamioni costituiscono
attualmente le più caratteristiche dimore staglionali
sparse dell’estremo Salento, soprattutto frequenti
nel basso Ugentino, tra la serra e il mare; intorno al
Capo di Leuca e nei Comuni a sud di Otranto. […]
	 Non tutta la provincia di Lecce è ugualmente
costellata di edicole in pietre a secco. Nelle parti pia-
neggianti o depresse tra una serra e l’altra, dove pure
diminuisce relativamente la disponibilità di materia-
li lapidei alla superficie del terreno, l’architettura di
pietra non cementata cede il posto a una prevalenza
di case monocellulari, fabbricate a calce e coperte
di laterizi (casa te l’imbreci, casa a dettu, casipula,
casiceddha ecc.). Costruite a coppia per ricavarne
una unità bicellulare (un elemento per l’uomo, l’altro
per la stalla o magazzino), oppure corredate di un
annesso laterale ad unico piovente (suppinna o vetto-
glia), esse definiscono il tipo dell’abitazione stagio-
nale di tutta un’area centrale che va da San Cesario
a Ruffano. Spesso presentano pure una tettoia sopra
l’ingresso che ha la funzione di riparare dal sole (e
detta perciò ‘mbracchiu), ma che, con qualche adat-
tamento, può venire utilizzata per la cucina estiva.
Sorgono per lo più su piccole proprietà contadine,
derivanti da vecchie lottizzazioni enfiteutiche di
grossi patrimoni fondiari, tenute a ortaggi, a tabac-
co e a colture permanenti di tipo legnoso (vigneto e
fruttiferi). La famiglia vi si trasferisce nei mesi da
maggio a ottobre, per attendere alle operazioni col-
turali del tabacco, alla coltivazione dell’orto e infine
alla vendemmia. Per il resto dell’anno le vettoglie o
case con suppinna ridivengono dei semplici ricoveri
diurni per il lavoratore, che vi ritorna quotidiana-
mente dal paese, e dei depositi di attrezzi.
	 In tutte le dimore di campagna ricordate sino
a questo momento, dalla lamia alla casa con suppin-
na fino al casino, alla masseria e alla villa agricola,
raramente l’abitatore non ha a che fare con la col-
tivazione dei tabacchi orientali. Una parte benché
modesta dello spazio messo al riparo di un tetto
vi è sempre riservata ai bisogni di questa coltura
che, nonostante un recente declino (manifestatosi
come conseguenza dello sviluppo della emigrazione
all’estero), rappresenta sempre una delle più adatte
all’ambiente e delle più redditizie. È in funzione di
questa coltura la trasformazione avvenuta nell’ulti-
mo mezzo secolo nell’edilizia rurale dell’estrema pe-
nisola salentina. […]
stesa di cemento, utile anche per depositarvi l’uva
appena raccolta: in questo caso si conferisce al pavi-
mento una lieve inclinazione verso una “conchetta”
d’angolo, destinata a raccogliere il mosto. Ma anche
nei tipi più rudimentali (che intanto provano l’anti-
chità di questo modo di costruire il riparo sui fondi)
è quasi sempre un manufatto fornito di focolare a
muro, di infissi all’uscio e di due o più pisuli, menso-
le tufacee di varia utilità sporgenti sia all’interno el
vano, sia all’esterno, ai due lati dell’ingresso. […]
	 Forme ibride, di compromesso tra la comune
fabbrica muraria e il manufatto a secco, sono pure
variamente presenti in tutta la subregione delle Ser-
re, senza però dar luogo a tipi chiaramente definiti
per strutture e funzioni, come avviene per il casile
savese, né a prevalenze zonali od anche locali ben
determinate. Esse appaiono piuttosto, nella loro di-
spersione frammezzo alle versioni normali di un’ar-
chitettura rustica minore interamente realizzata in
pietre a secco, come tante e dissimili interpretazioni
episodiche e aberranti del modo di ricavare il con-
sueto riparo di campagna dallo spietramento del ter-
reno. La vera caratteristica di questa parte della pe-
nisola salentina rimane pertanto quella di costituire
unitariamente una compatta area di diffusione delle
forme a trullo, le più tipiche, evolute e rappresen-
tative, accanto a quelle con tetto coneggiante delle
basse murge, d’una tradizione edile schiettamente
contadina che riguarda e investe, con la sua dupli-
ce linea di sviluppo, tutta quanta la Puglia pietrosa.
Specialmente in corrispondenza delle Serre, le cam-
pagne vi appaiono costellate di innumerevoli edico-
le trulliformi, dai contadini usate sia come rustici,
sia come ricoveri giornalieri od occasionali. Sono
costruite con le pietre raccolte sul terreno, o tra le
macerie di trulli in rovina, oppure, ancora, ricavate
dalla terra dissodata. Indifferentemente alla loro de-
stinazione agricola, vi sono plaghe nelle quali ogni
parcella di terreno possiede il suo trullo e perfino
i suoi trulli, tanto che in certi addensamenti zona-
li si raggiungono densità medie di 70-80 manufatti
per kmq. Le forme sono fondamentalmente due: a
tronco cono, e, meno spesso, a tronco di piramide,
ma la denominazione è quasi sempre unica, in ogni
contrada, per entrambe. A base quadrata o circola-
re, i ripari di pietra a secco sono sempre dei furni (o
furnieddhi) per le popolazioni di tutta un’area che
va da Veglie a Ugento, lungo il litorale jonico, spin-
gendosi all’interno della penisola fino ad abbrac-
ciare i Comuni centrali entro la linea definita dalle
posizioni di Collepasso e Cutrofiano; sono invece
pagghiari (con le varianti fonetiche di paiari, paiare
e, per i maggiori, paiaruni) per le popolazioni dell’e-
stremo sud della penisola e di tutta la sua sezione
orientale, dove pure divengono più frequenti le for-
me derivate, a base quadrilatera e alzato troncopi-
ramidale. A queste due grandi sezioni territoriali,
all’ingrosso corrispondenti al dominio della vite e,
rispettivamente, dell’olivo e delle colture seminati-
ve, si sovrappongono zone più particolari in cui la
costruzione riceve anche un secondo nome. La prin-
cipale di esse coincide approssimativamente con
l’estensione attuale dell’isola dialettale neogreca,
dove si adoperano come voci equivalenti alla forma
0 3 m
fig.138—Ricoverocampeste,con
recintoannessoperlebestie,deltipo
apiantacircolareealzatotroncoconico
recinto
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Ldb Rural in Action_Coppola 02

  • 1.
  • 2. Introduzione Castiglione Street View Da cosa è delimitato un territorio? Quali sono i segni che indicano la nostra presenza in un qui, diverso da un altrove? I “confini” non sono delle linee dritte, ma dei gradienti che i sensi percepiscono e analizzano. Dall’abitato del paese, fortemente connotato, alla dimensione della campagna, si snoda un percorso fatto di esplorazioni e derive lungo i bordi. Del concetto di confine Manifesto del terzo paesaggio Walkscapes La flâneurie come pratica artistica. Lo strumento in grado di modificare il nostro sguardo, e di conseguenza il nostro pensiero e le nostre azioni, sul territorio nel quale scegliamo di perderci. Ma anche lo sforzo fisico del camminamento, che rimanda ad un passato rurale in cui lunghi erano i percorsi quotidiani da compiere. pp. 7—8 pp. 9—24 p. 10 p. 22 pp. 25—32
  • 3. Un dialogo con (parte I) Sara Alberani — Giovanna Fersini Sara Alberani — Augusto Caloro — Crocefissa Colluto Appunti per un’estetica del vernacolare Il contesto in cui si sviluppa il Parco Comune dei Frutti Minori è fonte di riflessioni e critiche all’attuale modello “abitativo”, che accostano al “come vogliamo vivere” un ulteriore quesito: dove vogliamo vivere? Ezio Sanapo Elogio al bianco della calce La casa rurale in Puglia Le origini di un popolo sono testimoniate dai luoghi che ha abitato e le tracce lasciate in un habitat ne rappresentano il genius loci, profondamente radicato. Esse devono trovare la giusta connessione con lo strato più acerbo di un territorio, costituito dalla sua contemporaneità. Un dialogo con (parte II) Mauro Bubbico — Gigi Schiavano Sara Alberani — Donato (detto Donatuccio) Diversi fatti di vita contadina Un’inversione di tendenza rispetto al sistema di mercificazione delle nostre esistenze non può non avvenire sotto gli auspici di una tradizione “opponente”, costellata da episodi di lotta e ribaltamento degli schemi sociali consolidati. Piccola cronologia del Novecento Due diari sul Parco Comune dei Frutti Minori Un confronto diretto tra due visioni dell’esperienza castiglionese, annotazioni didascaliche che diventano flussi di pensiero, interferiscono e si arrichiscono in maniera vicendevole. pp. 33—44 p. 33 p. 40 pp. 45—64 p. 46 p. 47 pp. 65—80 pp. 81—100 p. 81 p. 92 pp. 101—124 p. 102 pp. 125—156
  • 4. 7 Frutti dimenticati Il Parco Comune dei Frutti Minori nasce anche con l’obiettivo di recuperare la bellezza, le tradizioni e il valore della terra. I frutti minori, raccontati come persone di un mondo dimenticato, sono frutti locali, che nascono spontaneamente e che hanno svariate peculiarità, custodite all’interno della cultura popolare. Begin forwarded message Inizio messaggio inoltrato: >> Da: Oggetto: Data:   : A: pp. 157—172 pp. 173—188 Il parco comune dei frutti minori è un progetto di rigenerazione di terreni pubblici nelle aree rurali di Castiglione d’Otranto, attivato dalla comunità locale in collaborazione con artisti, pensatori e agricoltori radicali, al fine di ridare dignità ad aree pubbliche abbandonate e meta di discariche di rifiuti e materiali inerti, spesso dannosi alla salute, per convertirle in bene comune. Il parco nasce su terreni bonificati da cui sono stati rimossi i rifiuti, per lasciare spazio al patrimonio frutticolo salentino: le molteplici varietà di fichi, il giuggiolo, la cornula, il sorbo, i gelsi e tanti altre specie autoctone da proteggere e gustare. Oltre ad essere giardino didattico in continua espansione, dove ospitare laboratori e seminari sulle questioni agricole e ambientali, il parco è anche viviterium, luogo della memoria e dello spirito. Chi partecipa alla sua costruzione, adotta simbolicamente un albero dedicandolo ad una persona cara, viva o morta, o ad una figura distintasi nella lotta ambientale, culturale e per i diritti del lavoro. Le aree rurali sono luoghi di relazione fra le persone e con la natura, occasioni di scambio di conoscenze tra generazioni e saperi diversi; non piu’ zone marginali e abbandonate, ma territori centrali in cui esercitare e rafforzare i vincoli di comunità, lo sviluppo sociale e forme di economia sostenibili. Il Parco Comune dei Frutti Minori è un percorso insieme di recupero della tradizione e rinascita futura che si innesta sulle pratiche da tempo attivate nell’area di Castiglione per l’utilizzo delle terre incolte, pubbliche o private, oggi coltivate in modo naturale, con varietà antiche di cereali e in via sperimentale con la canapa come coltura di rotazione. *** Casa delle Agriculture “Tullia e Gino” Comitato Notte Verde AgriCultura & Sviluppo Sostenibile Associazione nata a Castiglione per ridare vita ai terreni abbandonati, ripopolare le campagne, generare economia sostenibile e rafforzare i vincoli di comunità. Progetti attivati in questa direzione: “La Notte Verde”, appuntamento divenuto imprescindibile per tutti coloro che si interessano alle pratiche di agricoltura naturale; “Chi semina utopia raccoglie realtà”: semina collettiva di antiche varietà di cereali, “La Primavera della Canapa”, “Lo spirito del Grano”. Free Home University Progetto artistico e pedagogico che nasce in Salento nel 2013, che intende generare nuove modalità di creazione e circolazione dei saperi. È supportato dalla fondazione canadese Musagetes e dall’associazione culturale Loop House (Lecce) nel quadro di un protocollo di intesa con Regione Puglia, Provincia di Lecce e Comune di Lecce. A cura di Alessandra Pomarico, Luigi Negro e Alissa Firth Eagland, con la collaborazione degli artisti René Gabri e Ayreen Anastas, Lu Cafausu, Adrian Paci.
  • 5. 9 Castiglione StreetView Delconcettodiconfine PIEROZANINI GILLESCLÉMENT Manifestodelterzopaesaggio 9——24 Questo libro nasce dall’esperienza vissuta insieme con altri volontari a Castiglione d’Otranto (Le), durante i lavori di creazione e apertura del Parco Comune dei Frutti Minori. Il parco è un progetto di collaborazione tra Casa delle Agriculture “Tullia e Gino” e Free Home University, su un’idea dell’artista Luigi Coppola. La nostra volontà non è quella di restituire una fotografia oggettiva degli avvenimenti, ma piuttosto raccogliere in un’unica pubblicazione riflessioni diverse, generate dagli stimoli ricevuti nelle giornate castiglionesi. Riflessioni che ruotano intorno ad un perno comune, costituito dal quesito che ha animato il progetto di Free Home University: COME VOGLIAMO VIVERE? Più che risposte, questo libro si propone di fornire ulteriori e particolari considerazioni. In che “paesaggio” viviamo? Con quale memoria collettiva ci confrontiamo, nella quotidianità dei nostri gesti? Può esistere una connessione tra arte e lavoro, tra l’astrazione della bellezza e la pragmaticità della nostra esistenza?
  • 6. 10 11 Machecos’èunconfine?Comefunziona? Perchéauncertopuntoqualcunodecidedi stabilireunconfine?Comevienevissutoun confine? Quellochevorremmoprovareafarecon questolavoroèdescrivereunpercorsoat- traversoilconfine,luogomisteriosoenon abbastanzafrequentato.Luogocheincon- triamomoltevolteneinostrispostamenti, luogodoveèfacileimbattersinell’imprevi- stoemuoversi,spessoatentoni,nellascomo- dità.Vorremmocioècominciareaosservare quellostranospaziochesitrova“tra”lecose, quellochemettendoincontattosepara,o, forse,separandometteincontatto,persone, cose,culture,identità,spazitralorodiffe- renti.Lospaziodiconfinequindi,maanche (almenoquestaèunadelleipotesi)ilconfine comespazio.Spaziochepuòavereunmar- gineesterno,quellodovel’uomoabita,ama, lavora,simuoveesidiverte,quellodallear- chitetturepiùconcreteedevidenti,maan- cheunmargineinterno,interiore,intimo, legaloainostristatid’animo,allesperanze ealleutopiecheliaccompagnano.Margini chedifficilmenteriusciamoaosservarechia- ramente,anchesespessoneaffermiamocon certezzal’esistenza. Informeemodidifferenti,confiniefron- tierehannoentrambiachevedereconla modificazionedelnostropaesaggioreale, trasformandoilterritoriochefisicamente occupiamoeabitiamo.Allostessotempo,in- fluisconoinmanieraprofondaconiluoghie glispazichesegnanoedannoformaainostri orizzontimentali,allenostreidentità,piùo menoautentiche.Einfatti,comescriveClau- dioMagris, iconfinimuoionoerisorgono,sisposta- no,sicancellanoeriappaionoinaspetta- ti.Segnanol’esperienza,illinguaggio,lo spaziodell’abitare,ilcorpoconIasuasa- luteelesuemalattie,lapsicheconlesue scissionieisuoiriassestamenti,lapoliti- caconlasuaspessoassurdacartografia, l’ioconlapluralitàdeisuoiframmentie lelorofaticosericomposizioni,lasocietà conlesuedivisioni,l’economiaconlesue invasionielesueritirate,ilpensierocon lesuemappedell’ordine.(a) L’uomotendeavivereall’internodiuno spaziochiuso,limitato.Habisognodiavere attornoaséunabarrierachedelimitilospa- ziochehaoccupato,loseparieloprotegga daunqualcosachenelmomentostessoin cuivienetracciatoilconfinediventa“altro”, “diverso”.Quantooggistaaccadendonel mondodimostraampiamenteche«essereal- loggiatisignificacominciareadessere».(b) [...]Sulterrenoilconfineindividuadifre- quenteunospazioasé,unluogoconisuoi abitanti(le“gentidiconfine”)cheinqualche modolousano,edacuispessopartonose- gnalidicambiamento«inprocessisocio-po- liticirilevantipermoltepersonealdilàdel lorocontestolocaleeaddiritturadelloro stato».(c) [...]Unadellepossibilistradeda percorrereèalloraquellacheprovaariat- tivare,forsearicomporre,queglispaziche finoaoggisonostatiusatiprevalentemente comeostacolitraleculture.Ilconfine,quin- di,comespaziodovetutteleidentitàchesi incontranosonoallostessomodocostitutive erappresentative,edoveogniidentitàesi- steproprioinquantoconfermatadallealtre. (d) Creandoaltrispazi,necessariamentedi confine,chepermettanodiavererapportial dilàdellapropriaidentitàedellapropria diversità;oalmenosenzagenerarenecessa- riamenteostilitàversol’altro.(e) Sempre più,infatti,lanostrasembra«esserel’epoca dellospazio.Siamonell’etàdelsimultaneo, dellagiustapposizione,delvicinoedellon- tano,delfiancoafiancoedeldisperso».(f) Eillimite,ilconfine,èproprioilluogodove queste“giustapposizioni”,questeantinomie, simanifestanoconcretamenteesirivelano completamente.Perquesto,quicercheremo diguardarealconfinecomeaunospazio,e nonsoloalla“linea”cheloistituisce.Ilconfi- necomeunluogodotatodiunasuamisura, diunasuadimensione,conlesuestorieei suoiabitanti.Unospazio,quellodelconfine, cheha«lacuriosaproprietàdiessereinrap- portocontuttiglialtri,mainmodotaleda sospendere,neutralizzare,oinvertirel’insie- medeirapportidalorostessidesignati,ri- flessi,orispecchiati»,(g)diventandoilluogo dell’obiettività.Trasformareunconfineche separaspazidifferenti,chelicaratterizzaat- traversociòcheincludeociòcheesclude,ciò cheaffermaociòchenega,inun“altrospa- zio”puòallorapermetterci,forse,diridurre lasuarigiditàeilsuopotere.Questospazio siavvicineràcosìallafrontiera,aqualcosa cioècheaccettapiùfacilmentelapossibilità diesseremodificato,aqualcosachemantie- nedentrodisédueopiùideediverse,l’una chenonescludel’altra.Cercandodiannul- larneperò,allostessotempo,ilsuotrattopiù ostileeaggressivo,quellodi“fronte”. Andareversoilmargine,viverelalimina- rità,staresulconfine,richiedeaciascunodi noiladisponibilitàelavolontàdicompiere un’esperienzadiapprendimento(h)oltre leabitudini,aldilàdelleconvenzioniedei preconcetticheciascunodinoipuòavere. Proprioperilsuoapprossimarsiaunlimi- te,anchemorale,questaesperienzapotrà rivelarsiallostessotempoestremamentevio- lenta,paradossale,emozionante.Provareil confineelesuecontraddizioni,maanchela suasconfinatavivacità,vuoldireesercitarsi nellapraticadellatolleranza,dellaconvi- venza,dellostarefiancoafiancomalgradole rispettiveparticolarità.Vuoldireanchecer- carediavereunosguardopiùallargatosulle cose,ingradodicomprendereaspettidiversi (anchesemoltolontanitraloro)diunastes- sarealtàcomepartidiunasolacomplessità. Delconcettodiconfine* PIEROZANINI * Il testo è tratto dall’introduzione al libro di Piero Zanini, SIGNIFICATI DEL CONFINE. I LIMITI NATURALI, STORICI, MENTALI, Bruno Mondadori, Milano 1997. *** (a)  C. Magris, COME I PESCI IL MARE… in Aa.Vv., FRONTIERE, supplemento a “Nuovi Argomenti”, 1991, n. 38, p. 12 (b)  F. Braudel, L’IDENTITÀ DELLA FRANCIA. SPAZIO E STORIA, il Saggiatore, Milano 1988, p. 301 (c)  H. Donnan, T. M. Wilson, IDENTITÀ E CULTURA SULLE FRONTIERE INTERNAZIONALI, in “Ossimori”, 1995, n. 6, p. 50 (d)  D. Karahasan, ELOGIO DELLA FRONTIERA, in “Micromega”, 1995, n. 5, pp. 149–158 (e)  Un tentativo in questo senso sembra essere, per esempio, quello compiuto negli stati baltici con un esperimento–pilota di “psicologia etnica”; con la costituzione di “gruppi di incontro” tra etnie diverse si cerca di superare la conflittualità tra le diverse identità in campo. Cfr. A. Oliverio, LA MEMORIA COLLETTIVA ALIMENTA LE GUERRE ETNICHE, in “Il Corriere della Sera”, 14 maggio 1995 (f)  M. Foucault, SPAZI ALTRI. I PRINCIPI DELL’ETEROTOPIA, in “Lotus International”, 1985–86, n. 48–49, pp. 9–17 (g)  Ivi, p. 11. Questi spazi si dividono secondo la classificazione di Foucault in utopie, irreali, e eterotopie che al contrario, pur essendo «luoghi fuori da lutti i luoghi», sono comunque localizzabili (h)  V. Turner, IL PROCESSO RITUALE. STRUTTURA E ANTISTRUTTURA, Morcelliana, Brescia 1972
  • 10. 18 19
  • 12. 22 23 Manifestodelterzopaesaggio* GILLESCLÉMENT Ognunadellefrasicheseguonopuòessere voltainformainterrogativa: 1.Istruirelospiritodelnonfarecomesi istruiscelospiritodelfare. 2.Elevarel’indecisionefinoaconferirle dignitàpolitica.Porlainequilibriocolpote- re. 3.Immaginareilprogettocomeunospa- ziochecomprenderiserve,domandedapor- re. 4.Considerarelanonorganizzazione comeunprincipiovitalegraziealqualeogni organizzazionesilasciaattraversaredailam- pidellavita. 5.Avvicinarsialladiversitàconstupore. ESTENSIONE 1.Condiderarelacrescitadeglispazidi Tpderivantidall’organizzazionedelterri- toriocomeunnecessariocontrappuntodi quest’ultima. 2.Prevedereunaccostamentotrairesi- duieriservepercostruireterritoridiconti- nuitàbiologica. 3.FacilitarelacreazionedispazidiTpdi grandedimensionecosìdapotercoprirel’e- stensionedellespeciecapacidiviverviedi riprodurvisi. CARATTERE 1.Considerarelamescolanzaplanetaria, meccanicainerentealTp,comeunmotore dell’evoluzione. 2.Insegnareimotoridell’evoluzionecome siinsegnanolelingue,lescienze,learti. 3.Fornireachiusaunambientelepre- cauzioninecessarieallamanipolazioneeallo sfruttamentodegliesseridacuidipende.La fragilitàdelsistemaèlegataallanaturadelle praticheealnumero. STATUTO 1.Considerareladimensioneplanetaria. 2.Difenderel’assenzadiregolamentazio- nemorale,socialeepoliticadelTp. 3.PresentareilTp,frammentoindeciso delGiardinoplanetario,noncomeunbene patrimoniale,macomeunospaziocomune delfuturo. SFIDE 1.Conservareofarcrescereladiversità attraversopraticheconsentitedinonorga- nizzazione. 2.Avviareunprocessodiriqualificazione deisubstratifondamentaliperlavita,modi- ficandolepraticheperifericheaglispazidel Tp,perrenderepossibileunasuainfluenza. 4.Fissareunapoliticaterritorialeche puntianondiminuireleporzionidiTpesi- stenti,senonadaumentarle. EVOLUZIONE 1.Facilitareledinamichediscambiotra gliambientiantropizzatieilTp. 2.Orientareilgiocodegliscambifondia- ri,delriutilizzodeisuoliedeidispositividi collegamentotraipolidiattività.Disegnare un’organizzazionedelterritoriopermaglie largheepermeabili. 3.Crearetanteportequanteneservono allacomunicazionetraframmenti. SCALA 1.Renderedisponibiliglistrumentine- cessariperl’osservazionedelTp. 2.Rendereaccessibilileimmaginiottenu- teconisatelliti,conimicroscopi. 3.FacilitareilriconoscimentodelTpalla scalaabitualedellosguardo.Imparareano- minaregliesseri. LIMITI 1.Pensareillimiticomeunospessoree noncomeuntratto. 2.Pensarealmarginecomeaunterri- toriodiricercasullericchezzechenascono dall’incontrodiambienti. 3.Sperimentarel’imprecisioneelapro- fonditàcomemodidirappresentazionedel Tp. TEMPO 1.Ignorarelescadenzeamministrative, politiche,digestionedelterritorio. 2.Nonaspettare:osservareognigiorno. 3.OffrirealTplapossibilitàdidispiegar- sisecondounprocessoevolutivoincostante, attraversounareinterpretazionequotidiana dellemutevolicondizionidell’ambiente. SOCIETÀ 1.Elevarel’improduttivitàfinoaconferir- ledignitàpolitica. 2.Valorizzarelacrescitaelosviluppo biologici,inopposizioneallacrescitaelo sviluppoeconomici. 3.Proteggereisititoccatidacredenze comeunterritorioindispensabileperl’erra- redellospirito. CULTURA 1.Rovesciarelosguardorivoltoalpaesag- gioinOccidente. 2.ConferirealTpilruolodimatricediun paesaggioglobaleindivenire. 3.DichiarareilterritoriodelTpluogo privilegiatodell’intelligenzabiologica:pre- disposizioneareinventarsicostantemente. IX—Rappresentazione e limiti 1. La rappresentazione del Tp dipende dalla possibilità di stabilirne i limiti geografici. 2. I limiti diventano visibili alle frontiere tra i residui e i territori sottoposti a sfruttamento. 3. I limiti situati tra i residui recenti e quelli più antichi restano indistinti. Dal punto di vista del Tp essi non esistono. 4. Un residuo evolve verso la foresta. I suoi limiti possono essere confusi con quelli di una foresta gestita dall'uomo. Dal punto di vista del Tp, questi non esistono. 5. Una foresta cresciuta su un residuo presenta sempre una diversità superiore rispetto a una foresta gestita dall'uomo. 6. Una foresta cresciuta su un residuo appartiene al Tp. 7. La foresta con vegetazione climax, gli insiemi primari, i residui che evolvono verso la foresta e i residui giovani possono essere cartografati e rappresentati allo stesso modo, in quanto territori rifugio per la diversità. 8. La contiguità tra insiemi primari e residui offre alla diversità una continuità territoriale. 9. La continuità territoriale appare in modo cospicuo nel caso di riserve ben costituite o nel caso di una continuità tra i residui e riserve o insiemi primari. Altrove, appare sotto forma di linee: siepi, bordi delle strade, foreste fluviali o sottoforma di isole. 10. La dimensione di un territorio in grado di accogliere la diversità è un fattore che contribuisce a limitare il numero delle specie. 11. I limiti costituiscono in sè spessori biologici. La loro ricchezza è spesso superiore a quella degli ambienti che separano. 12. La rappresentazione dei limiti del Tp non può tradurre oggettivamente il loro spessore biologico, ma può evocarlo. * Il testo è tratto da Gilles Clément, LE TIERS PAYSAGE, 2004. Traduzione resa disponibile da Luca Napoli. Copyright © 2004, Gilles Clément. Copyleft : l’opera è libera e può essere redistribuita e/o modificata secondo i termini della Licenza Art Libre (http:// artlibre.org)
  • 13. 24 W a b c d e f a.murodiabitazioneprivata b.murodiabitazioneprivata c.sottopassoferroviario(“l’arco”) d.muroasecco,privato e.terrenoprivato f.terrenoprivato attraversare aprire riconoscere scoprire attribuire comprendere inventare assegnare scendere salire tracciare disegnare calpestare abitare visitare raccontare percorrere percepire guidare osservare ascoltare celebrare navigare annusare accedere incontrare ospitare misurare captare popolare costruire trovare prendere non prendere pedinare inseguire entrare interagire scavalcare investigare seguire lasciare non lasciare un territorio un sentiero un luogo vocazioni valori estetici valori simbolici una geografia i toponimi un burrone una montagna una forma un punto una linea un cerchio una pietra una città una mappa i suoni gli odori le spine le buche i pericoli un deserto una foresta un continente un arcipelago un’avventura una discarica altrove sensazioni relazioni oggetti frasi corpi persone animali un buco un grigliato un muro un recinto un istinto un binario tracce camminare orientarsi perdersi errare immergersi vagare inoltrarsi andare avanti A L K S C A P E S 25 32
  • 14. 26 27
  • 15. 28 29
  • 16. 30 31
  • 17. [...] Comunque tu Donato N. lo conosci, no? Sì, l’ho conosciuto in questi giorni Eh, è pure mio cugino, figlio di mia cugina, e quindi noi abbiamo dato tre ettari di terra a lui e hanno seminato un po’ di tutto, il farro, l’orzo, il grano, il grano cappello e quindi abbiamo dato a lui, proprio per questo, perché le terre sono incolte e non c’è nessuno... Mia madre con sette figli, perché mio padre riusciva a mantenere una famiglia di nove persone, e quindi c’era questa questa possibilità di tirare avanti anche se servivano pure i soldi, però i soldi non si raccoglievano nello stesso tempo, giornalmente, come fanno adesso magari, perché uno va alla giornata, lavora sei ore, otto ore e poi magari si guadagna 50 euro per esempio no? Invece allora si lavorava, quando finivano tutti i frutti, per esempio la coltivazione del tabacco, alla conclusione della consegna di questo tabacco, riuscivi ad avere tre milioni, per esempio. Allora con tre milioni, si faceva veramente tante cose. Io per esempio questa casa con tre milioni l’ho costruita L’avete costruita voi la casa? Cioè uno la casa se la poteva costruire da solo? Sara Alberani Giovanna Fersini (detta Giovanna a Rosanunna) Un dialogo con Quelle elencate a pag. 25 sono una serie di azioni che si possono leggere e agire intrecciando a piacere le parole delle tre colonne verticali. Azioni che solo re- centemente sono entrate a far parte della storia dell’ar- te e che possono rivelarsi un utile strumento estetico con cui esplorare e trasformare gli spazi nomadi della città contemporanea. Prima di innalzare il menhir — in egiziano “benben”, «la prima pietra che emerse dal caos» — l’uomo possedeva una forma simbolica con cui trasformare il paesaggio. Questa forma era il cam- minare, un’azione imparata con fatica nei primi mesi della vita per poi diventare un’azione non più cosciente ma naturale, automatica. È camminando che l’uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo circondava. È camminando che nell’ultimo secolo si sono formate alcune categorie con cui interpretare i paesaggi urbani che ci circondano. K L A W S E P A C S
  • 18. 34 35 Poi è iniziato ad esserci il problema dell’abbandono di queste terre, perché a un certo punto forse alcune generazioni... Essì poi da quando hanno incominciato a evolversi i tempi, magari una persona non gli andava più di lavorare la terra e la lira ha incominciato a scarseggiare nel senso che c’erano delle leggi che non si poteva fare più il tabacco, perché era nocivo alla salute, quindi niente tabacco, non si poteva fare. E c’erano tante famiglie [che lavoravano il tabacco, ndr]! Le famiglie partivano di qua per sei mesi all’anno, per andare a lavorare a Ginosa, Taranto, Brindisi, Foggia, tutte le parti... Io son stata pure là, verso Metaponto, in Basilicata, in Puglia In che anni più o meno è successo? Io sono del... diciamo... ero fidanzata, mi sono fidanzata un po’ prima quindi... sessanta... cinque, ‘70. Poi ho continuato fino al ‘76. Al ‘76 mi sono sposata, e quindi poi quando mi son sposata mia madre ha continuato per un po’ però i figli hanno incominciato ad avere problemi nel senso che non gli piaceva la campagna, perchè bisognava lavorare veramente... È faticoso! È faticoso per chi non lo sa... Però a quei tempi, perchè poi c’è anche il problema dell’irrigazione qua! Quindi non è che tu facevi, chessò, una coltivazione e ti andava bene... Magari verso Ginosa, verso Taranto, c’era l’irrigazione. Fiumi, compagnia bella... Invece qua non essendo niente, allora una persona doveva farsi il pozzo, doveva avere i soldi per farsi il pozzo, se non avevi la possibilità di farti il pozzo... Che faceva? Doveva trovare qualche altra soluzione per poter innaffiare le piante che coltivava. Magari anche pomodori per esempio. Noi per esempio — quando me ne sono venuta da Bari — abbiamo coltivato dei pomodori che veramente... la terra ti dava dei pomodori grandi così, buonissimi! Che poi il primo anno per dispetto la gente è andata e li ha spiantati Perché? Vandali, no? Vandalismo... Anche a quell’epoca. Dovevi stare sul chi va là. Poi le persone hanno iniziato a non voler lavorare, hanno cominciato ad avere problemi e hanno cercato di avere uno stipendio. Allora che cosa si può fare per avere uno stipendio? Specialmente chi non ha studiato? Che all’epoca, non c’era neanche tanta scuola perché se andavi a scuola, i genitori è vero che ti ci mandavano, ma è vero pure che certi ragazzi andavano a passeggio, non gli andava neanche di studiare. Chi era andato a scuola ma magari non rendeva, faceva domanda di bidello, faceva domanda di infermiere, nei militari, per avere lo stipendio. Tu metti a lavorare la terra, a zappare, e metti ad avere uno stipendio... Mio padre, anche con tanti sacrifici, le coltivava lui... [...] Perché poi mi ricordo Eh sì, cioè con tre milioni voglio dire... Anche se mio marito aveva lo stipendio, però con cento euro, cento venti al mese, riusciva a mettersi 50 euro, 50.000 Lire da parte per costruire questa casa, invece adesso... Senza andare neanche in banca a chiedere un prestito, un mutuo... con i risparmi Ma non penso che si faceva neanche il prestito, non c’era neanche l’idea di andare a chiedere dei soldi in prestito Quindi anche della sua famiglia, tutti andavano a lavorare la terra? Dato che mia madre aveva sette figli, allora è normale che per poterli mantenere dovevamo coltivarla insieme, lavoravamo insieme, quindi io mi ricordo, perché mia madre faceva il tabacco, io da piccolina e mia sorella era neonata, che stava in campagna insieme a noi, poi specialmente d’estate, in una cesta lei dormiva e noi lavoravamo, alle quattro di mattina. C’era questa, questa... Quest’usanza che si tramandava... Sì infatti, si faceva questo, però giustamente lavorando tutti i figli, eh... Non c’era bisogno neanche di manodopera perché tutti si lavorava, eh io mi ricordo che ero pure veloce a raccogliere il tabacco, o a infilarlo... La famiglia numerosa, che oggi è un problema, allora era utile perché diventava una specie di impresa e poteva portare avanti un lavoro con la forza lavoro dei figli Sì, poi magari c’era anche la possibilità di crescere degli animali, e quindi sovvenzionare la famiglia anche con... chessò, se avevi la mucca c’era del latte disponibile, se avevi conigli c’era la carne disponibile, se avevi le galline facevano le uova... Quindi si mangiava di tutto, e roba genuina, perchè galline, conigli stavano nei giardini. Mia madre per esempio aveva un giardino e aveva una casa proprio per... O magari se c’era la possibilità proprio di far crescere, chessò, un maiale allora era la ricchezza di quella famiglia perché la sovvenzionava in tutte le...
  • 19. 36 37 quindi si coltivava, c’era una soddisfazione enorme, perché tu vedevi crescere queste piante dal seme, no? È una cosa bellissima vedere, come si dice, il frutto del lavoro Perché io ho seminato questo seme, e l’ho messo in questa terra. Specialmente se vedi che la pianta viene su rigogliosa, che vuol dire? Vuol dire che il seme ha trovato il terreno giusto. E quindi sono tutte cose che uno deve conoscere per fare, anche l’esperienza si fa mano mano [...] Adesso poi abbiamo lasciato, ché mio marito è venuto a mancare e quindi ho lasciato tutto, perché io spendevo dei soldi solo a pulire la terra, e non facevo niente più, perché non c’era nessuno, i miei figli se ne sono andati... Quindi li avete venduti i terreni? No, no, no ce li abbiamo ancora. Spendevamo soldi solo per pulirle, ma non per coltivarle, fruttificare queste terre. I miei figli, ognuno ha preso la sua strada, però... se avessi la forza adesso, dico ai miei figli... forse dobbiamo stare attenti perchè arriveranno dei tempi che non sono come questi, chissà se un giorno, anche se mio figlio è insegnante di musica, si deve mettere un po’ a zappare la terra forse, e allora io non la venderò mai questa terra... Perchè è una cosa che mi rimane E adesso l’ha data in uso... Allora adesso sì, infatti ce l’ha Donato, e hanno piantato. Quest’anno ancora non hanno piantato niente, non so dopo se faranno anche dei pomodori, non so. Perché poi il tempo pure è incerto, questo tempo qua. Quindi ci vuole il tempo per arare, ci vuole il tempo per coltivarla. Se ci permette il tempo di fare qualcosa, non lo so, altrimenti si pulisce e basta. Si ricollega un po’ al lavoro che stiamo facendo noi con loro, sicuramente prima una pulizia. Perché purtroppo le terre sono anche inquinate, e non soltanto dai rifiuti che si una volta in un campo c’erano delle olive, c’era del grano, un incendio ha divampato tutto... E allora, da ragazzini noi, con mio padre, portavamo l’acqua con le... noi le chiamiamo “capase”, erano dei contenitori con un orecchio, che si prendeva l’acqua e si trasportava, no? E quindi mio padre ha ripiantato tutti gli alberi di olivo, che mò sono pure grandi però non proprio secolari diciamo no... Lui voleva che questa terra doveva esserci, in una famiglia, eppure dato che aveva sette figli, da noi c’era questa usanza che si doveva dare ai figli pure, come proprietà, un pezzettino di terra. Allora dato che uno c’ha sette figli, che fa... almeno sette pezzi, possibilmente il più grande possibile, per poi ricostruirsi una famiglia anche loro... Pure mio marito si è dedicato alla campagna. Si è comprato il trattore, la fresa, il tagliaerba, la motosega, cioè tutte le cose che servono. Lui dedicava molto tempo, dopo il lavoro il pomeriggio fino a quest’ora stava in campagna, piantava la cipolla, il pomodoro, la zucchina, la patata, con più amici, due tre famiglie, ci siamo uniti... Perché non puoi tu da solo lavorare in campagna! Ci vuole un aiuto, ci vuole forza... L’unione fa la forza... Eh l’unione fa la forza! Questa forza l’avevamo trovata con alcuni amici disponibili quindi erano tre famiglie che collaboravamo insieme, allora chi metteva una cosa chi metteva il lavoro, anche se mio marito la spesa l’aveva fatta con i suoi mezzi, per coltivare sta terra. Eh però, dopo tutto questo, certe annate andavano bene, certe annate andavano un po’ male, però il mangiare non ci mancava... Quando ti sedevi a tavola c’era la roba tua, la roba coltivata, anche se un po’ di meno, un po’ discreta... Perché noi non è che siamo nati contadini, i genitori nostri sono nati contadini, noi avevamo avuto questa possibilità di adattarci subito dopo di loro, quindi adesso io posso insegnare ai miei figli no? Però i miei figli non ci sono... Non ci sono, perchè non hanno voluto continuare a coltivare la terra? A questo figlio mio, che sta a Bologna, lui fa l’autista di pullmann, gli piacerebbe... Mi dice: “mamma, se avessi un pezzettino di terra, io me lo coltiverei, e mi pianterei tutto quello che...” [...] Prima i miei genitori facevano con i semi, seminavano e facevano dei quadrati che noi chiamamo “ruddhre”, li concimavano, mettevano il letame, quelle cose lì naturali, quindi gli animali li tenevano anche per questo In questo modo si rimetteva tutto in circolo... Roba organica diciamo no? E allora il seme veniva bene, c’erano i pomodori, il tabacco, quello che sia... E allora questi pomodori venivano trapiantati alla terra già coltivata, magari si arava un paio di volte per poi ripiantare queste piantine, e
  • 20. 38 39 vedono, ma sono quelli che non si vedono anche molto pericolosi, e anche chi continua a fare un tipo di agricoltura intensiva con forti elementi chimici, perché... i costi sono alti, bisogna fare in fretta, bisogna fare una super produzione! E adesso si è arrivati a quel limite, quella soglia che non tiene più perché la roba è una schifezza, piena di componenti chimiche e ci rendiamo conto che ci sono le malattie, bisogna avere riguardo, perché altrimenti che siamo qua a fare Beh quando una terra è ammalata, ce ne vorrà del tempo prima che si disintossica, però non ci saremo neanche noi forse, tutto questo tempo, nell’arco di questi anni, da quando coltivava mio padre... quello era un periodo diverso, perchè lui arava la terra e quindi la metteva in funzione, con la falce, che non c’erano tagliaerbe, con la falce si tagliava l’erba! Non c’erano pesticidi, non c’era niente Era tutto manuale, ci voleva tanto tempo, tanta forza fisica, manodopera Quando invece sono tornata io, quindi negli anni novanta, fino ad oggi — adesso stanno un pochettino cambiando — però dal novanta, quasi trent’anni, che le persone erano contente perché vedevano il terreno pulito, ma quando vedevano il terreno pulito vuol dire che avevano buttato i pesticidi, seccava l’erba, “uuh! che bello pulito!”, anche io l’ho fatto, anche noi l’abbiamo fatto, perché era pulito. Non conoscendo però dove andavo incontro, perché pensavo che così facevano tutti, e lo faccio pure io, ma da ignorante però... Magari adesso che le so le cose, dico forse mio padre faceva meglio di me. E allora non posso dire adesso che cosa devo fare? Che cosa manca? Però intanto forse è troppo tardi La terra si è ammalata, prima che torni pulita ce ne vuole... Ci lamentiamo dei prodotti che fanno male, ci lamentiamo delle olive che si ammalano, forse è la natura, forse è l’evoluzione naturale? La natura comunque una risposta prima o poi la da sempre La risposta del male che abbiamo fatto noi! La natura ce lo restituisce indietro... Magari lo espelle da sola, però anche quello è un nostro problema perché ovviamente tutti facciamo parte di questo sistema Io dico questo anche perché ho notato [un cambiamento, ndr], quando abitavo a Bari nel giardino ogni anno puntuale vedevo l’albero fiorire, vedevo la vite che germogliava, e quindi era una puntualità che io mi rallegravo a vederla, perché poi la primavera porta proprio gioia, allegria... Invece, da quando sto qui, anche se ho un bel giardino qui dietro con alberi di arance, mandarini, prugne... Io ho visto l’albero di prugne fiorire a gennaio! Che è strano... Che è strano! Ma come mai, dico io, fiorisce a gennaio, quando dovrebbe fiorire a febbraio, marzo? È la natura che mette la sua parte, l’evoluzione naturale terrestre, non lo so... Mi spiego fino a un certo punto, però poi non so darmi una risposta. Per esempio certi alberi di aranci che adesso stanno fiorendo, tra aprile e maggio, a maggio fiori d’arancio... Io ho visto i fiori d’arancio fiorire a gennaio, a febbraio, che faceva un caldo da morire... La natura ha risentito. Però quei fiori non servono a niente, perchè frutti non ne escono mai! Allora osserva la natura e impara [ride] [...] Voi questo lavoro fate? Sì, un po’ di archivio, di storie, anche per quello che stiamo facendo qui, perché noi siamo venuti qui in terre degli altri, cioè in una comunità, un paese... Cercando di capire anche quali sono i problemi, i punti di vista, e di prenderli come esempio per cercare di trasmetterli fuori, di farli anche in altri ambiti... Davvero però, con persone concrete, stare con i piedi per terra e sapere cosa c’è da fare. Non tanti fronzoli, ecco Non lo so se è stato utile quello che ho detto [ride] Per noi è tutto di utilità, è un’esperienza comunque preziosa Le esperienze mie non sono quelle di un’altra... Più o meno!
  • 21. 40 41 Com’era la vita nella campagna? Come si lavorava? Vent’anni fa sono andato a fare le barbabietole… Ah, quindi fuori? Faccio la mossa come facevano lì [fa un gesto per far capire come avveniva la raccolta], con un oggetto come un bastone e una tinella tanto larga che insomma 50 gr in tutto non andavano. E tu dovevi fare così tutto il giorno, camminare e lasciare una bietola ogni trenta centimetri e lavoravi diciassette, diciotto ore al giorno perché lavoravamo per conto nostro da contratto. Avevi setto, otto, nove ettari e dovevi finirli quanto più presto finivi, più presto te ne andavi. Ci pensavano da soli. Ora invece la vita è cambiata, io ricordo la vita di prima… Io tengo 82 anni, allora ecco la vita di cinquantanni fa, allora la vita era molto diversa, le persone erano pure diverse, forse più unite, mo invece chi va di qua, chi va dillà, da una parte all’altra, tutti abbiamo molto da fare, più di prima. Perché prima era la campagna e basta, mo vuoi che si esce a tutto. Adesso il problema è anche a livello di tutto questo inquinamento che c’è, tutti i soldi che non ci sono e per comprare da mangiare delle cose non sane, invece prima sicuramente non c’erano soldi… Non c’erano tante esigenze anche… Però si mangiava bene… Certo non eravamo a digiuno… Però si mangiava solo un piatto… Si mangiavano molto i legumi e la pasta pure si mangiava, però non mangiavamo la pasta con la carne. La carne la mangiavano i meglio… Noi la mangiavamo due tre volte all’anno…. Pasqua, Natale e Capodanno… Poi alle fiere allora si andava a fare la visita al santo e allora compravi qualcosa così: mezzo chilo, un chilo di carne. Si era un’altra cosa, era un po’ meno allora… mo invece la carne, durante la settimana due volte, oppure di domenica, è diverso il modo di mangiare e di vivere, le esigenze pure di tante cose, che per esempio allora non c’erano. Allevavano un maiale e poi arrivava il momento che lo si ammazzava, no? Ma quando hanno iniziato a cambiare i tempi… Quando è stato il cambiamento? Perché lei ha iniziato a lavorare per qualcuno… Beh sì, è cambiato il tempo quando è andato all’estero… All’estero ci siamo andati nel 1957, è stata proprio un’infornata… perché da questo paese nel 1956 sono andate via quattro persone: lo zio di Marta che è morto il giorno che è morto Moro e poi altri tre e quando sono tornati da li avevano fatto i soldi, allora nel 1957 tutti sono partiti, a Castiglione erano rimasti pochi giovani, tutti via sono andati. Insomma è cambiato poi, non c’è stato più il soldo da mangiare.. Infatti poi ci sono andato anche io. Il soldo prima era poco poi… Nel 57 sono andato anche io, con contratto da tre mesi… poi stando li, dato che nel 58 ci dovevamo sposare e dovevamo aggiustare la casa, servivano i soldi… ho rinnovato il contratto e ci sono stato sette mesi, e quando sono venuto ho portato un po’ di soldi… In francia si guadagnava di quei tempi… Portai 450.000 lire, e in quei tempi chi li conosceva prima di quei tempi… E da allora poi il soldo ti ha fatto cambiare la vita, potevi andare a comprare, avevi, ti potevi fare la casa. Allora la gente spariva da qui per guadagnare, e poi ognuno s’è fatto la casa, bella pure. Quindi questa casa l’avete costruita voi? Sì sì, suo papà insieme con te no?… Mio padre aveva queste due stanze (indica la camera da letto e la cucina) quando si è sposato nel 1925. Poi nel 34 c’era spazio ancora, del terreno, e allora ha costruito un’altra casa, io avevo 3, 4 anni, io sono del 30. Dopo poi qui c’era un’altro giardino che mio padre ha venduto perché non voleva più costruire, allora noi abbiamo costruito questa nel 1949. E comunque continuava a lavorare in campagna? Sì sì, sempre sempre, nei vigneti. Loro avevano dei vigneti in affitto… A metà, c’erano i grossisti, i capitalisti con tante terre. Allora davano un fondo e tu ci piantavi la vigna e si faceva tutto a metà quando era il momento. Sara Alberani Crocefissa Colluto Augusto Caloro
  • 22. 42 43 E loro pagavano in soldi? Sì sì, loro poi facevano a metà. No noi… che si menava il grano? ( si piantava il grano per esempio) facevi la raccoltà a metà. prima si raccoglieva la semina che faceva circa mezzo quintale, un quintale... si tirava quella prima e poi l’altro si faceva metà. Il proprietario non voleva perdere niente. Quanto ha continuato a lavorare nella campagna? Io? Ho finito la quinta elementare a 10 anni e mio padre mi ha portato al monte degli ulivi in campagna, e di la una cosa dopo l’altra e ho lavorato continuamente e ancora adesso lavoro… Ancora adesso ci piace piantare i pomodori, delle zucchine, i fagioli, tutta questa roba. Io prima, quindici anni fa, facevo la sarta, adesso vedo poco e ho lasciato e vado in campagna con loro, mi piace andare in campagna, sì è molto bello… La campagna è bella, a me piace tanto e delle volta chiedo io stessa a mio marito “andiamo a piantare i pomodori? Andiamo a piantare i fagioli?” È un lavoro bello, che ti rilassa, certo ti stanchi anche... I vostri figli non hanno continuato a lavorare la campagna come voi?! No, perché abbiamo quattro figli: tre femmine e un maschio…Il maschio si trova a Milano, si è spostato e vive lì. La grande delle tre ragazza è andata a Tricase e insegna alle scuole medie, sì, la seconda e la terza media. Un’altra delle nostre figlie sta a Padova, sta in segreteria in Veneto e il maschio lavora con la moglie in provincia di Cremona in un supermercato. L’altra poi vive a Spongano e fa l’infermiera a Tricase... Quindi dopo di voi chi lavorerà la terra? Eh, si arrangiano da soli poi… Tutti adesso se ne vanno e i fondi restano così, intatti. Noi i fondi li abbiamo dati ai nostri figli, e però sono tutti lontani e qualcosa la facciamo noi, però poi... Poi loro fanno quello che vogliono, se trovano da vendere, ma non c’è da vendere. Non comprano perché non ci sono i soldi… Ma oltre i soldi, i giovani non vogliono lavorare, e quelli che sono più grandi non hanno più la possibilità di coltivare la terra e allora resta tutto così… Non appena muore qualcuno i fondi diventano abbandonati. E vi dispiace naturalmente? Beh certo, a me dispiace... E quelli comprati non è che funzionino veramente... E adesso è bello vivere e lavorare. Beh direi che abbiamo finito.. Finito? Abbiamo parlato alla maniera nostra. A noi interessa solo la vostra storia… niente di pensato o programmato. Ma dove state lavorando adesso, siete arrivati proprio alla fine del comune di Andrano o pensate di proseguire ancora per molto? Per ora ci siamo fermati, perché è solo lungo la strada, poi stiamo piantando degli alberi di fico perché così tutti possono andarci. E dove li state piantando? Lungo la strada... State attenti, quanti ne abbiamo avuti di fichi, che poi li vendevano a quintali, quelli più marci. Passava uno che li comprava, poi gli altri, quelli scelti li portavano al forno dove si faceva il pane e le facevano friggere e poi le conservavano dentro i contenitori di creta. Poi quando ero più piccolo io, ti lavavano i piedi, ti davano un paio di calzettini entravi in questi contenitori e pestavi i fichi. Quando si zappava la terra per coltivare i piselli, il grano, un po’ di tutto, d’estate verso le due e mezza, tre di notte, i papà ci chiamavano e andavamo in campagna, al buio. Se c’era la luna vedevi qualcosa, altrimenti non vedevi niente e si zappava fino alle nove e mezza, dieci, tutti quanti. I figli dovevano andare ad aiutare a lavorare quindi? Sì ma adesso non ci vanno più, perché le scuole continuano dopo le elementari, le medie, le superiori e poi non c’è il lavoro per loro, perché si prendono il diploma, si prendono la laurea e stanno così… A quei tempi poi non è che ognuno aveva la propria proprietà in campagna, erano pochi quelli che avevano una proprietà, tutti la affittavano e facevano a metà. Noi, per esempio facciamo l’olio con le campagne nostre, abbiamo parecchi alberi di ulivo. Un anno abbiamo fatto diciassette quintali di olio, era un carico molto abbondante insomma…
  • 24. 46 47 Ezio Sanapo fa l’imbian- chino da quando ha circa otto anni. Ha imparato a distinguere un pennello fatto con la coda di un cavallo di razza da quel- lo fatto con la coda di un cavallo meno pregiato o di un asinello. L’ha impa- rato andando a comprare le code dei cavalli in macelleria, come facevano tutti gli imbianchini. Ha imparato a dipingere le pareti del- le case con la calce e a distinguere quella buona “che non sfarina” da quella di cattiva qualità, troppo cotta o fatta con le pietre sbagliate. Ha imparato da solo il suo mestiere, e l’ha nobilita- to trasformandosi in pittore. Ha passione per l’arte del colore, è un cultore della bellezza, a cui ha dedicato la vita, insieme con il recupero nelle terre desolate del sud, perché la bellezza può riportare valore e ricchezza nei luoghi in cui ha vissuto. Ezio Sanapo parla di linguaggio, di codice visivo. Parla di quando le case dei contadini erano tutte bian- che, splendenti e uniformi. Il colore testimoniava la purezza di questo ceto sociale, la sua umiltà e il suo rispetto per gli occhi, ma soprattutto il rispetto per il ceto sociale aristocratico, che poteva permettersi di dipingere la facciata della propria abitazione con colori diversi, sempre delicati, ma non di bianco. Quello era il colore dei poveri. Era una forma di comunicazione e di rispetto reciproco, un modo per intendersi pacifica- mente e convivere nello stesso luogo avendone rispet- to. L’armonia tra le colorazioni delle case non è solo una manifestazione di buon gusto e cura per l’architet- tura ma una dimostrazione di coesione culturale tra le classi sociali che le abitano. Una sorta di dichiarazione di forza e unione. Porta con sé una serie di fotografie che ha fatto nel paese in cui è nato e vive da tutta la vita. Sono foto di case moderne, dai colori accesi, vivaci e pacchia- ni. Si infervora definendo questo tipo di atteggia- mento offensivo, pre- varicante e prepotente. Ricorda con nostalgia la bellezza del paese quan- do le case erano per lo più tutte bianche e si po- tevano dipingere i colori della natura senza mescolarli a quelli dell’uomo, che con molta umiltà si asteneva dal prendere una posizione cromatica, attraverso l’uso del bianco. Sanapo è un convinto comunista, ammiratore del- la classe operaia e contadina, delle quali esalta i va- lori e la solidità. Negli anni ottanta inizia a dipingere quadri naive, nei quali ritrae paesaggi bucolici dai toni delicatissimi, leggeri. I ritratti sono fiabeschi, le donne sempre scalze e vestite in maniera povera; le abitazio- ni bianche, come quelle di un tempo sono immerse in sfondi sfumati e indefiniti. Il bianco predomina nelle sue opere e si mescola delicatamente a tonalità pa- stello. I suoi quadri sono puri, genuini, come la classe contadina degli anni quaranta, ma portano con loro la problematica della terra, del lavoro nei campi, della vita nel Mezzogiorno. ELOGIO AL BIANCO DELLA CALCE Riflessioni di E. S. I. SULL’ARMONIA DEL PAESAGGIO VISIVO [...] Ho trovato uno scarto di libri di una biblioteca e c’era un libro che parlava di arte e lavoro nella provincia di Lecce, che era la provincia tra Otranto e Leuca, una provincia di circa cento comuni, quei comuni stabilivano delle regole riguardo la lavorazione dell’edilizia delle case, dell’aspetto architettonico e coloristico. C’erano tutte le regole alle quali attenersi. […] Sono tante singole case che formano un paesaggio, ma ognuna per conto suo, ognuna a modo suo, senza regole, perché accanto alla tua casa, io formo un paesaggio, o io guasto la tua visione della casa o tu guasti la mia, se ci mettiamo d’accordo io e te insieme possiamo formare una veduta paesaggistica accettabile, armonica. Ci mettiamo d’accordo, cerchiamo di contrastare il colore della mia casa ma senza offendere nessuno, tu fai un celestino, io uso un rosa ma non acceso, non vivace, lo spegnamo un po’, usiamo un colore che sembra un celestino, un beige che sembra rosa. Come si faceva una volta, sui palazzi i rosa erano appena accennati. Il celeste non era proprio un celeste, c’erano colori caldi e freddi. [...] Singole facciate che io fotografavo e pubblicavo su Facebook senza dichiarare il luogo o il proprietario. Alla fine non mi interessava chi l’ha fatto, tanto io sto rappresentando quello che è un paese, una comunità che non è unita, il paesaggio è l’espressione di una comunità individualistica. Siamo in una fase di individualismo esagerato, così come sono i colori. È un comportamento che va da se, senza magari essere spiegato, o senza che ce ne rendiamo conto. Noi stiamo solo rappresentando il nostro io nella sua solitudine. E dico solitudine perché è una forma di malessere anche quella no? Tu fai qualcosa di molto appariscente e vistoso perché vuoi mettere in rilievo quello che tu presumi che non si veda bene. Perché non sei più niente, culturalmente parlando, e allora inventi qualcosa per emergere un po’ rispetto al resto che ti circonda. Ti consideri senza più identità e hai bisogno di essere visto, allora magari l’adulto lo fa con la facciata, il giovane lo fa scrivendo una frase dolce su di un muro, rivolta ad una ragazza. Faccio un po’ di ironia. II. SULL’IRONIA COME STRUMENTO DI IDENTITÀ E a proposito di ironia, dicevo prima a Mauro, quando la gente è molto consapevole della propria identità, l’ironia è una forma di reazione e di difesa contro qualcosa di oppressivo. Quando c’è qualcosa di opprimente e quello che ti opprime è molto superiore a te e non puoi affrontarlo ad armi pari, tu usi l’ironia che è una forma pacifica, non fa male però dissacra, e la gente, i salentini, la usavano questa forma di ironia per difendersi dall’oppressione dal Cinquecento in poi. Io penso che tutta la storia del Salento sia una storia di emarginazione, dalla fine del Cinquecento in poi. Dopo il concilio di Trento, c’è stata una forma dura di governo della società dovuta alla condizione clericale e spagnola, qui da noi almeno. Il Andrea Mantovano, Arte e lavoro. Teoria e pratica nell’edilizia di Terra d’Otranto fra Otto e Novecento, Congedo Editore 2003 E Z I O S A N A P O
  • 25. 48 49 Mezzogiorno d’Italia, il Portogallo e la Spagna erano proprio il triangolo duro, quello dominato dalla chiesa e dalla gente benestante, dal clero, che era oppressivo. E poi è nata questa forma di letteratura che era raccontare le vicende della storia comune, che non si era mai fatto prima, da cui emergeva la verità della gente. Questo discorso si è fatto in molti paesi, nel Salento si utilizzava la figura di Papa Galeazzo, che raccontava le vicende della gente comune attraverso il personaggio di un prete: una figura nata dopo il Concilio di Trento, una forma di difesa dall’oppressione della Chiesa, che era oppressiva anche dal punto di vista sessuale, ed è per questo che la tendenza alla sessualità nel gergo salentino è una regola oggi. Parlare degli organi sessuali nel parlare comune è normale, lo fanno anche le donne anziane che vanno in chiesa, è un linguaggio che è venuto fuori per protesta e poi è diventato consuetudine, come la bestemmia. La bestemmia è stata oggetto di studio sul come fare per fronteggiarla o impedirla. Tempo fa trovai un manifesto piegato in quattro in un libro del Cinquecento all’interno della Biblioteca Provinciale di Lecce, era un manifesto da mettere in pubblico ed elencava le penalità per chi bestemmiava. Si parlava di un tappo in bocca, la cosiddetta mordicchia. […] Quindi parlavamo della produzione di oggetti di terracotta, tipo i carabinieri che stanno sempre in coppia. È un souvenir del salento la statuetta del carabiniere con il pennacchio, com’erano nell’Ottocento, quando sono arrivati giù, calati dall’alto. Sapete benissimo che quando una cosa è calata dall’alto e non è richiesta, c’è sempre il rigetto, allora ecco che subentra l’ironia, ecco che nasce il fischietto sul sedere del carabiniere. Una forma di dissacrazione della figura del carabiniere, come il Papa Galeazzo. Questo succede quando la gente è molto consapevole della propria identità culturale, quando questa si perde diventa molto indifesa e ha bisogno di apparire in tutti i modi possibili. III. SULL’ARMONIA DEL PAESAGGIO VISIVO (2) La facciata è una forma di apparizione esagerata. Combattere questa cosa qua non è facile. Io pensavo che modificare il paesaggio fosse facile. Basterebbe imbiancare come dice il regolamento del 1889. Elogio al bianco della calce è il nome della mostra che faccio. In una lettera al ministro Bray dico che hanno distrutto molte case con la volta a stella, per motivi tecnici, per ingrandire la casa in verticale. Motivi tecnici a danno di quelli culturali. Io parlo del salentino di oggi, del meridionale di oggi come individuo, il suo stato di conservazione dopo questo sfacelo di realtà consumistica, che ha cambiato la vita a tutti. Io sto denunciando il fatto che c’è stato un eccessivo ricorso alla pietra a vista, perché è intesa come l’elemento dell’edilizia derivato dalle cornici dei palazzi in stile classico, ora lo fanno anche le case dei contadini ma le trasformano in tanti modi, le usano in tanti modi senza tenere conto della necessità di usarla. Ho visto un’insegna di un negozio di abbigliamento intimo e sulla lastra di pietra leccese era scolpita una donna con un tanga a pois. C’è questa esagerazione, questo bisogno spasmodico di apparire perché abbiamo perso identità. Se l’avessimo conservata non ce ne sarebbe stato bisogno. [...] Io sto cercando di suscitare un po’ d’interesse in qualcuno che possa aiutarmi a fare qualcosa per salvare il paesaggio, stavo dicendo prima, sembrava una cosa da niente ma non lo è, ho capito che il motivo principale è che non ci sono più regole in un paese ma anche nella società. Non ci sono più regole, c’è un distacco tra una generazione e l’altra, dovuta ad una mancanza di lascito tra una generazione e l’altra, un consegnare qualcosa, che erano le regole, i valori, i principii di una comunità, di una famiglia. Non c’è più un collante tra una generazione e l’altra, già questo è un problema di fondo. [...] Allora è nato il voto di scambio. “Io sono diventato sindaco grazie al tuo appoggio, alla tua famiglia, ai tuoi amici. Come faccio quindi a proibirti di colorare la tua cosa in maniera così vistosa? Io non vedo, non so niente, non mi hai chiesto niente, non me ne sono accorto”: questo discorso di complicità è andato avanti per troppo tempo. Non c’è più memoria dei luoghi, dei principii e delle regole che conservavano la società nei decenni e tutto ciò è stato un danno procurato dal consumismo. Comprando tutto ciò che ci hanno proposto di comprare, abbiamo venduto l’anima. [...] La Sovrintendenza alle Belle Arti, in quanto portata a tutelare i beni architettonici, si è interessata solo di quelli classici, palazzi e chiese, non dei centri storici abitati dal ceto popolare; infatti il mio è andato distrutto. Si è sparpagliato quel ceto, è andato frantumato e disperso all’estero, le loro dimore erano il patrimonio storico, centenario, della loro presenza. È stato abbandonato e distrutto con i colori che vediamo oggi. Anche dalla Sovrintendenza alle Belle Arti. Io ho denunciato al ministro questa mancanza di competenze, ho denunciato il fatto di non essersi occupati della tutela dei centri storici. Purtroppo nessuno mi ha risposto. IV. SULLA GIUSTA RESPONSABILITÀ Una volta si imbiancava per disinfettare la casa, per rinfrescarla ogni anno a primavera. La si usava nell’agricoltura in molti modi, la calce veniva venduta dagli ambulanti ai privati. Nel garage, nel sottoscala, tutti avevano il Caucinaru, usato per farci bollire la calce in acqua, che sciogliendosi diventa pasta omogenea e compatta. L’imbianchino andava a casa della gente, l’abitante gli mostrava la sua calce, l’imbianchino la scioglieva nell’acqua, la setacciava e imbiancava, con lo stesso materiale del proprietario della casa. Se la calce non era buona era colpa del proprietario, non dell’imbianchino — quindi mia —, se spolverava non era colpa mia, voleva dire che era bruciata. Quando un sasso di calce duro viene messo nell’acqua a bollire deve essere coperto di acqua, se durante la cottura la pietra si gonfia ed emerge dall’acqua si spappola a secco e diventa debole. L’acqua la rinforza, così invece diventa granulosa e si spolvera. E non è molto aderente al muro, ecco. Mi ricordo il gesto, di più di una signora quando ero ragazzino, mi ricordo che mi chiedevano: “puoi darmi una mano a spostare l’armadio?”. Una volta c’erano questi armadi pesanti con i piedi deboli, a furia di spostarli ogni anno si indebolivano, rischiavano di spezzarsi e poi magari cadevano. La signora era accanto a me e nascondeva dietro di sé la scopa e, non appena spostavo l’armadio, con un gesto rapido puliva il muro, il fondale dell’armadio e per terra, che ne so... gomitoli, scarafaggi, tutto veniva raccolto in un baleno e tu non vedevi niente, se lo portava via e tu non vedevi nulla. Tutto pulito. Lo faceva perché si vergognava a far vedere che magari c’erano ragnatele o sporcizia. Walter Mazzotta (a cura di), I racconti di Papa Galeazzo, Ediprogram
  • 26. 50 51 Il Mediterraneo è il centro della nostra civiltà. Nei Paesi che vi si affacciano si è sviluppata un’identità artistica che merita analisi e valutazioni approfondite, proprio per soddisfare il desiderio di consolidarne i caratteri, di renderli distinti dall’“interna- zionalismo” che tutto uniforma e appiatti- sce. Finora, l’attenzione a questo argomen- to è quasi sempre stata rivolta velocemente, con superficialità, e si è rivelata incapace di evidenziare in modo sostanziale — al di là dei sensi e delle forme di un certo folclori- smo — aspetti, funzioni, tecnologie, imma- gini in grado di valorizzare il Mediterraneo e, addirittura, proiettarne l’immagine in ogni parte del mondo. In tale contesto, anche l’architettura medi- terranea non è da ritenersi solo un “segno stilistico”, appartenente a epoche o, per lo meno, ad anni del passato. È certamente riduttivo cercare di definirla attraverso la monumentalità, la grandiosità, lo sviluppo di materiali e sistemi di avanzata tecnolo- gia; essa rappresenta, nella sostanza, uno specifico modo di porsi di fronte al proble- ma costruttivo, una tendenza, un atteggiamento, sicuramente una soluzione. È così simbolo di uno stile alternativo, semplice e affida- bile, al dilagare di progetti che sono frutto di una fantasia sfrenata, che propongono le forme più strane, le tecnologie più esasperate, gli stri- dori più spinti e dimostrano indif- ferenza totale verso il paesaggio, la storia, la tradizione, la consuetudi- ne. [...] Quali definizioni per l’architet- tura mediterranea? Quali caratteri la distinguono? Pochi sono i suoi modelli abitativi, poiché essa conforma il territorio secondo semplici percorsi di razionalità e geometria. [...] Si adatta alle accidentalità del terreno; si ripete linear- mente negli insediamenti a schiera lungo le coste marine, o lungo le direttrici stradali di regioni interne; si esprime in costruzioni isolate che identificano punti di osserva- zione ed emergenze paesaggistiche. Si con- figura in tipologie volumetriche elementari che si compongono di parti distinguibili funzionalmente: il tetto a terrazza o a fal- da semplice; il patio, il fronte di affaccio; l’intonacatura a colori tenui, per favorire la riflessione del calore o l’identificazione della superficie. [...] Le costruzioni nell’area mediterranea dimostrano in questo modo che l’architet- tura è soprattutto un’arte collettiva, poi- ché accetta e affronta, con il contributo di diverse componenti tecniche, gli aspetti, le ideologie, le problematiche della realtà e dello sviluppo sociale. Di sicuro, l’archi- tettura del Mediterraneo offre interessanti e alternativi punti di analisi e valutazione della tecnologia costruttiva e pone a con- fronto i criteri di semplicità con quelli di più avanzata tecnologia, quelli basati sulla tradizione con quelli rivolti alla sperimen- tazione; rende validi i principi dell’isola- mento e dell’inerzia termica, offrendo al progettista una varietà di soluzioni razio- nali, affidabili ed efficaci nel lungo perio- do. [...] RobertoGamba,ArchitetturadelMediterraneo,editoriale diCostruireinlaterizio133,gennaio/febbraio2010 V. SULLA PRATICA ARTISTICA COME IMPEGNO Io sto portando avanti questa lotta da quando ho cominciato a prendere coscienze della realtà della mia terra, del Salento. Quando tornai dalla Svizzera negli anni Settanta e andava di moda fare politica, impegnarsi nei sindacati. Poi c’era anche un ritorno alla cultura popolare negli anni Settanta, un ritorno molto sentito, anche nel nord. Nei film, ad esempio con Novecento di Bertolucci, e nella letteratura con Fontamara di Silone, che parlavano di un ritorno del ceto contadino, che è stato perso e ripreso verso la fine degli anni Ottanta, ma più come una moda ed è un peccato tutto ciò. Negli anni Settanta era più sentito, era “un prendere coscienza” della propria identità. E io cominciavo a dipingere, ad usare il linguaggio della pittura, partecipavo a delle mostre e questo suscitava molto interesse, dipingevo anche se era problematico. Nei primi Novanta c’è stato un ritorno al proprio habitat, al proprio privato, c’è stato il tentativo di persuadere la gente a tornare nel privato attraverso la strategia della tensione, le stragi, gli attentati, facendo credere che tutto ciò che è fuori non è più sicuro. Tu passeggi ma non ti senti sicuro, tutto ad un tratto ti scoppia una bomba accanto, oppure in stazione. Insomma, una strategia per far tornare la gente nelle proprie case, fino a disinteressarsi dei problemi sociali, non far più delle manifestazioni, o andare a combattere per le riforme per le leggi, come l’aborto, la reversibilità, che erano temi caldi del periodo. Facendo frantumare tutto, si frantuma la comunità e si ha una società di singoli individui che non comunicano tra loro e che non rivendicano niente singolarmente. Io me ne accorgevo perché, quando esponevo negli anni Novanta e qualcuno si fermava in galleria, si teneva ad una certa distanza dai quadri. Allora gli si diceva che poteva avvicinarsi, ma c’era qualcosa che indisponeva gli spettatori e fondamentalmente era la vista di una problematica, quella che io esponevo attraverso i quadri. Un invito ad impegnarsi un po’, ma nessuno si voleva davvero impegnare. [...] L’artista non è un titolo, è uno stato d’animo, l’arte è un modo di leggere le cose e le persone, e capirle meglio, capirle e rispettarle. La realtà non è piatta come la vediamo ad occhio nudo. Tutte le cose hanno un’anima, io sono credente ma in termini religiosi si dice “hanno un’anima” e io dico “c’è poesia nelle persone”, la poesia è l’anima delle cose. L’arte è una forma di comunicazione, non è una forma di mercato, non serve ad altro. Ormai si è confuso tutto ultimamente, tutto è mercato quindi anche l’arte. Insegnare ai ragazzi cos’è l’arte è un buon inizio, perché gli adulti sono già indisposti. Si presume che in quanto adulto, si rechi ad una mostra solo per comprare, ma non è vero, l’arte serve per comunicare, per trasmettere dei valori. Gli adulti hanno bisogno dei ragazzi. C’è bisogno di unire le generazioni e creare un collante con il quale legarle: le regole, i valori. L’arte è una provocazione, deve essere anche quello, non è solo una forma poetica, deve essere ironica. Quando uno ci mette buona volontà tutti possiamo essere artisti, io sono un autodidatta. Ho la quinta elementare perciò ho imparato da solo a leggere e a scrivere correttamente. […] C’era un rapporto di complicità con tutto quello che ci circonda. Tutti i mestieri che ho fatto, l’imbianchino, il decoratore... sono una reazione del mio carattere, un modo che ho sviluppato per amare il prossimo e tutto ciò che mi circonda, la realtà la società, la mia terra. Sono più sensibile e ne soffro di più e sento di dover fare qualcosa per richiamare l’attenzione verso coloro che non se ne accorgono. Occorre essere un po’ sensibili, un po’ emotivi per leggere le cose.
  • 27. 52 53 La storia dell’architettura, com’é scritta e insegnata nel mondo occidentale, si occupa solo di poche culture selezionate. Considera solo una piccola parte del globo — l’Europa e segmenti dell’Egitto e dell’Anatolia. Inoltre l’evoluzione dell’architettura è studiata solo nelle sue ultime fasi. Sorvolando i primi cinquanta secoli, i cronisti ci presentano un apparato di architettura “formale”, un modo arbitrario di introdurci all’arte del costruire, come sarebbe quello di datare la nascita della musica con l’avvento dell’orchestra sinfonica. Questo approccio discriminativo degli storici è dovuto al loro parrocchialismo. Ci sono poi i pregiudizi sociali. la storia dell’architettura che ci viene propinata ammonta a poco più di un “chi è?” di architetti che celebrano il potere e la ricchezza, un’antologia di edifici di, da e per privilegiati. Bernard Rudofsky, Architecture without architects. A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture, The Museum of Modern Art, New York, 1965
  • 28. 54 55
  • 29. 56 57
  • 30. 58 59
  • 31. 60 61
  • 32. 62 63
  • 33. Consiglio Nazionale Delle Ricerche RICERCHE SULLE DIMORE RURALI IN ITALIA Vol. 28 CARMELO COLAMONICO La casa rurale nella Puglia con contributi di Osvaldo Baldacci, Andrea A. Bissanti, Luigi Ranieri E Benito Spano FIRENZE LEO S. OLSCHKI EDITORE MCMLXX 65—80
  • 34. 66 67 grafiche diverse. Da qui, le sue peculiari caratteristi- che etniche e dialettali, geneticamente riconducibili alla stessa posizione geografica della penisola e alla sua anzidetta protensione nel mare verso altri cen- tri d’irradiazione culturale. Le dibattute influenze che le vicende immigratorie e i conseguenti apporti di cultura esogena di provenienza orientale avreb- bero esercitato anche nella sua tradizione edilizia non sono chiaramente determinate. È un fatto però inoppugnabile che il Salento rappresenta, con la vi- cina Murgia dei Trulli, il paese in cui l’architettura a strobilo ha la massima diffusione e le più variate applicazioni, e incontrovertibile altresì la circostan- za — chiaramente rilevata dalla presente indagine — che non va oltre il confine meridionale della pia- na messapica l’areale del caseggiato a corti, affatto sconosciuto nella forma agglomerata agli altri centri pugliesi, quanto comune a diverse altre “province” culturali del mondo mediterraneo. 2. Forme e caratteri della casa di paese. — La scarsa rilevanza dell’insediamento rurale disperso attribuisce anche qui un interesse preminente all’e- same delle caratteristiche della dimora paesana e delle forme dei ripari campestri che ne rappresen- tano il necessario complemento. Anche calcolando il nuovo apporto al decentramento agricolo determi- nato di recente dall’attuazione della riforma agro– fondiaria, in nessun Comune della regione il numero degli abitanti permanentemente stanziati in campa- gna raggiunge l’aliquota del 10% della popolazione totale. Dei nove e più abitanti su dieci, accentrati nel villaggio, quelli appartenenti al ceto rurale devono, al solito, dividere la loro vita tra il domicilio in pa- ese e il casolare o il ricovero di campagna, sottopo- nendosi a spostamenti giornalieri anche su distanze notevoli. La sistemazione in paese raramente è oggi nei limiti di una dimora elementare, formata di un solo ambiente d’uso indifferenziato e promiscuo. Ciò vale specialmente per i centri della parte istmide della penisola, dove non esiste, o vi è presente ecce- zionalmente, il caseggiato a corte che caratterizza invece quelli del Salento leccese. Nelle dimore pa- esane del Salento tarantino e brindisino il massimo grado di elementarità strutturale consiste già nello schema di un’abitazione monocellulare sovrapposta a un seminterrato di varia utilità, oppure, più cor- rentemente, nelle linee già note di un gran vano uni- tario internamente suddiviso, mediante separatori orizzontali e verticali, nel quadruplice spartito della sala-cucina (corrispondente al semivano anteriore), dell’alcova, della camerina e del magazzino sotto volta. Non è comunque in quest’ordine di struttu- re e dimensioni che l’edilizia salentina può ancora prospettarci, rispetto alle subregioni vicine, una sua propria tipologia. Motivi nuovi e originali non com- paiono che al livello delle abitazioni maggiori con ambienti disposti l’un dietro l’altro, secondo lo sche- ma della cosiddetta casa a correduru. L’espressione definisce propriamente una dimora composta di al- meno tre vani, uno anteriore, più ampio (camera de nanzi o de nanti, con funzione di soggiorno e locale per ricevere), e gli altri due, aventi un lato in comune ma senza comunicazione diretta fra loro, entrambi addossati alla parete di fondo del primo. Il correduru o correturu, ricavato in quello dei due vani minori in cui è per solito allogata la cucina, è in sostanza l’an- dito di attraversamento della metà posteriore dell’a- bitazione (della sua parte centrale, nel caso di una struttura più complessa). Allungato lateralmente al divisorio interno e compreso fra le due porte per le quali si accede dalla stanza anteriore all’ortale (op- pure al vano più interno di successiva edificazione), il corridoio risulta delimitato superiormente da un assito di tavole (‘ntaulatu) o nei tipi modificati da una soletta di cemento (soglia) che serve come ripo- stiglio e dispensa (maazzenu, malanzenu, tramenza- nu, ma anche paiaru e paiera quando ha l’accesso dalla stalla attigua o viene comunque utlizzato pre- cipuamente per contenervi una partita di foraggi). La casa a correduru, già frequente nei pae- si dell’Albania salentina — dove pure si arricchisce della cantina vinaria (lu ciddharu) localmente il più comune accessorio della dimora accentrata —, è più tipica e diffusa nei centri della piana messapica, dentro un’area che abbraccia quasi tutto l’entroterra brindisino, fra le Murge di Taranto, i primi gradoni dell’altopiano continentale e la strozzatura media- na della penisola. Su questa terza fronte rivolta al Salento leccese, il tipo della casa con disimpegno a corridoio e mezzanino sovrastante dirada assai ra- pidamente per cedere posto e importanza ad altre forme più specifiche della subregione delle Serre. Differiscono sensibilmente al di qua del collo di tor- 1. Premessa. — La depressione occupata dal Mar Piccolo e il lungo solco d’impluvio del Canale Reale, svolgentesi alla base della terrazzata zolla murgiana, segnano sul terreno il passaggio dalla Pu- glia continentale alla sua estrema propaggine penin- sulare, storicamente individuata come stanza delle genti salentine. Nell’unità geografica della regione pugliese — affermata fondamentalmente dalla natura comu- ne della roccia madre e da una monotona tematica morfologica a larghissima predominanza di superfi- ci tabulari — questa ultima contrada del paese, am- pia da sola circa il doppio delle due subregioni prima esaminate, si inscrive con una propria interpretazio- ne delle strutture comuni e con motivi, da fisici a umani e culturali, di più o meno chiara originalità. Ha importanza anzitutto la sua stessa posizione all’estremo sud della regione, già notevolmente al- lungata nel senso della latitudine, e anche di più, in quanto primo fattore d’individuazione geografica, la sua configurazione a penisola slanciata a ponte fra due mari in direzione dell’oriente mediterraneo. Nel- la struttura del rilievo, codesta entità peninsulare, in parte, riprende il tipo morfologico della Puglia piana settentrionale; in parte, svolge ampiamente il nuovo motivo plastico delle lunghe dorsali a statura colli- nare, disposte secondo l’asse della penisola o margi- nalmente alle sue fronti litorali e infine convergenti con queste alla cuspide spartiacque del Capo di Leu- ca. Se, pertanto, la pianura messapica rappresenta semplicemente una replica, al di qua dell’altopiano centrale, del Tavoliere di Foggia (una replica peral- tro minore e idrograficamente impoverita, ma pure fasciata da tutt’altro rivestimento agrario), la ner- vatura delle “serre”, già nettamente profilata nella sezione istmide del paese (con quel primo fascio di corrugamenti che prende il nome di “Serre della Ma- rina” o di “Murge Tarantine”), conferisce lineamenti orografici propri al territorio salentino. Sul fondo di tale caratterizzazione fisica, insorgono pure mode- rati mutamenti, rispetto alle attigue subregioni d’al- topiano e di anfiteatro marginale, in ordine ai fatti di geografia umana. Nel determinare il trapasso a un paese di bassure appena sollevate nelle ondulazioni serra- ne, la “soglia messapica” segna anche la scomparsa quasi perentoria dell’insediamento umano disperso (caratteristico delle Murge Basse e dei loro piatti scaglioni premessapici), mentre rimpicciolisce il modulo di quello accentrato. Si esprime cioè altri- menti, in forma più attenuata, in quest’ultimo lembo di terra pugliese, il fenomeno comune a quasi tut- ta la Puglia continentale dell’agglomeramento delle popolazioni contadine in grossi centri di dimensioni urbane. Più precisamente, grossi agglomerati com- patti caratterizzano ancora il popolamento della pianura messapica, ma nel Salento tarantino e poi, a sud della strozzatura mediana della penisola, in quasi tutto il Salento leccese l’insediamento uma- no si distribuisce in centri di minore entità della media regionale e piuttosto ravvicinati fra loro. Se perciò l’“accentramento agricolo” raggiunge local- mente valori anche più elevati che in altre contrade pugliesi, le conseguenze del fenomeno, nei riguardi dell’economia agraria, vi sono temperate da codesto frazionamento della coperta umana. Alla maggiore densità di sedi accentrate corrisponde in effetti un più compatto rivestimento agricolo costituito dalla normale trilogia di vite, olivo e tabacco. Infine, scendendo dall’altopiano si avverte anche un sensibile cambiamento in ordine ai fatti culturali. La parte peninsulare della vecchia Terra d’Otranto, essa sola costituente l’autentico paese dei salentini, ha espletato realmente nel corso dei tempi, da quelli preclassici al periodo attuale, attive funzioni di tramite nei rapporti umani tra aree geo- Capitolo IX LA PENISOLA SALENTINA Benito Spano
  • 35. 68 69 sostituzione. Fanno le spese di questa volontà pia- nificatrice soprattutto le grandi corti, per lo spazio che ciascuna di esse racchiude. Si accentua perciò ogni anno di più la preponderanza numerica delle piccole corti per poche famiglie e accanto ad esse la frequenza delle “corti singole” contenenti una sola abitazione, ma abitate da rurali di condizione supe- riore alla media. Nel passaggio dall’area delle corti — sostan- zialmente corrispondente ai vecchi ambiti murati — alle zone di espansione fuori borgo, il caseggiato di paese si distende in schiere longitudinali, ogni abi- tazione disponendosi con affaccio diretto sulla via. Rispetto alle case occupate da famiglie di altra con- dizione, rivelano in ogni schiera la loro caratterizza- zione rurale quelle che affiancano nel prospetto una porta e un portone: la porta mette nella camera prin- cipale che fa pure da disimpegno per tutti i vani suc- cessivi fino alla cucina; il portone introduce invece nella rimessa (sampuertu o simportu), abbastanza capace per contenere la stalluccia della giumenta (appartata sul fondo mediante un divisorio di muro o di tavole tirato sino a metà altezza del vano), il carro agricolo e l’aratro nella parte anteriore; il fienile e i telai del tabacco nell’ammezzato di tavole sopra- stante. Pareti e volta del vano, che è sempre il mag- giore della casa, si presentano al solito variamente tappezzate di filze di prodotti agricoli da conservare o in essiccazione. È questo il tipo normale della casa con rimessa, che altri amplia costruendo la stalla nella superficie dell’ortale (sciardinu, perché più grande della ssuta) onde riservare la rimessa a locale di essiccazione del tabacco, a cellaio e alle funzioni di magazzino agricolo (la rimessa si trasforma in an- drone laterale, ma ha sempre uno spazio riservato al carro). […] 4. Le altre dimore di campagna e la varietà dei ripari sparsi sui fondi. — Entro un certo raggio all’interno di ogni centro abitato, là dove più si com- plica e infittisce il mosaico particellare del suolo produttivo e più intenso è il rigoglio delle coltiva- zioni, l’antico insediamento a masserie ha ceduto il predominio ad altre forme di abitazioni rurali. Le tracce residue e raramente vitali del vecchio modo di abitato quasi scompaiono, attraverso codesti spazi irregolarmente circolari, in mezzo a una più o meno fitta disseminazione di costruzioni minori e più mo- derne, le quali, assieme all’accresciuta intensità e varietà delle colture agrarie, avvertono della perma- nenza del lavoro contadino sui fondi. A ciascuna unità fondiaria, costituita nella media normalità da poche parcelle tenute a colture ortive (irrigate con acqua di pozzi), a tabacco, a viti e a fruttiferi, corrisponde un nucleo edile composto di abitazione (o abitazioni) e di annessi rustici, che i locali definiscono con nomi diversi, tratti dalla lin- gua e dal dialetto: “giardino”, “casa”, “casina”, “tor- re”, “casino”, “villino” e “villa”. Tale nomenclatura, ben più differenziata di quanto non richieda la reale varietà dei tipi edilizi e delle strutture agrarie, com- prende peraltro definizioni equivalenti. L’abitazione 0 8 m camera cuc. camera camera cuc. camera soggiorno cuc. mag. stalla camera porc. iazzo orto camera mag. cuc. orto ortocucinacamera dep. granaglie dep. granaglie dep. granaglie cisterna fig.126—Martano. Una“corteplurifamiliare” sione della penisola anche l’impianto del vecchio caseggiato paesano, al vicinato del vicolo sostituen- dosi quello della corte comune a più abitazioni. Per tale nuova disposizione, comune a tutti i centri dell’area peninsulare leccese, le abitazioni paesane non prospettano direttamente sulle strade del borgo. Ne sono separate da un cortile di varia forma e grandezza, che limita sulla via o con un sem- plice muro tirato fino all’altezza media di una casa a terreno o con la stessa parete di fondo delle abita- zioni che, volgendo le spalle alla strada, definiscono il lato esterno del perimetro. Nel suo aspetto originario ogni scorcio stra- dale si caratterizza pertanto dal riscontro di due cortine murali parallele, a tratti in fabbricato grezzo o bianche d’intonaco, che espongono, come uniche aperture, séguiti irregolari di portoni e di ingres- si comuni ai cortili interni. Le case di ogni gruppo, raramente disposte in altro modo che su fronti ret- tilinee convergenti ad angolo retto, non sempre oc- cupano e determinano coi loro allineamenti tutti e quattro i lati del cortile. Sono anzi frequentissime le schiere semplici o articolate a squadra (su due lati contigui), soprattutto comuni nei cortili di forma stretta e allungata, il cui rettangolo sia perpendi- colare alla strada. Cortili stretti e allungati in senso parallelo alla via contengono più spesso due schiere di abitazioni, quella di fondo alquanto più lungo del- la dirimpettaia, essendo questa interrotta dal por- tico dell’ingresso. Una schiera più lunga di un’altra comprende anche un maggior numero di abitazioni. La regola è infatti che tutte le case si affaccino sul cortile con un prospetto non maggiore di un lato del vano d’ingresso e che gli altri ambienti siano costru- iti uno dietro l’altro (eccezionalmente sopra quelli a terreno) e accresciuti eventualmente con dipenden- ze tecniche appartate nell’ortale che ne completi la pianta sul fondo. Ogni unità di abitazione impegna dunque del circuito della corte, o della lunghezza complessiva dei lati abitati, quel breve tratto che è necessario per collocarvi l’entrata ed eventualmente una finestra, ricavata come apertura sussidiaria del- lo stesso vano anteriore. Vario è il numero di abitazioni contenute nel- la “corte” salentina. Vi sono cortili occupati da due– tre famiglie e cortili con dieci–dodici abitazioni, i più grandi con un numero anche maggiore. L’esem- plare in pianta, rilevato nel vecchio abitato “a corte” di Martano, è un tipico cortile collettivo di medie dimensioni, con pozzo centrale e tre grandi botole granarie un tempo adoperate dalla piccola comunità per conservare provvigioni e scorte agricole. Com- prende sette abitazioni, tutte occupate da rurali (del ceto contadino) e formate, eccetto le due più piccole, da almeno un paio di ambienti (cucina–soggiorno e letto–ripostiglio). Una dimora della schiera laterale è fornita di cantina seminterrata; le tre costituenti l’asse di prospetto, danno sul retro in piccoli ortali tenuti a verziere e giardino. Riflettono una comune normalità le dimensioni, la disposizione ambientale e le strutture delle abitazioni (ancora del tipo con copertura a pioventi), ed è normale altresì l’assen- za di piani superiori al terraneo o al rilevato, così comuni viceversa nelle corti plurifamiliari della re- gione partenopea e della pianura lombarda. La fre- quenza delle piccole e delle grandi corti appare oggi nel Salento fortemente alterata in ogni centro abita- to dallo sviluppo preso dappertutto dalla edilizia di soggiorno corridoio camera cucina orto stalla fienile cisterna accesso cantina 0 4 m fig.124—Una“casa acorreturu”nelcentro diRoccaforzata.
  • 36. 70 71 secco. I passaggi all’architettura tutta di pietra sono peraltro mediati da fasce o zone particolari a preva- lenza di forme miste, di pietre e vegetali. I pagliai (pagghiari, ancora, e pagghiaruni, i più grandi) del- le contrade periferiche alla pianura messapica sono sempre dei ripari di questo tipo. Risalendo la gra- dinata murgiana, tra Francavilla e Carovigno, essi arrivano a mescolarsi superiormente con le forme tipiche della Murgia dei Trulli o, localmente, con quelle secondarie della casedda ostunese; verso le Murge Tarantine e le Serre mandano incastri nelle aree specifiche dei ripari troncoconici già di forme tipicamente meridionali. Sui rilievi delle “murge” a sudest di Taranto, le costruzioni tutte di pietre a secco sono nella gran- de maggioranza di proporzioni rilevanti. Si tratta di grossi ripari gradonati, a due, tre e fino a cinque ordini di ripiani circolari, vale a dire formati da due, tre, cinque tronchi di cono sovrapposti, ciascuno af- fiancato da un segmento della scala elicoidale che porta sulla spianata in sommità. Ed è pure rimar- chevole che appare qui, per la prima volta, come autenticamente indigena la voce truddu (o troddulu) per designare queste espressioni dell’architettura “a tholos”. Le popolazioni di Lizzano e di Maruggio pronunciano truddu; ad Avetrana si dice tròddulu; al plurale le flessioni corrispondenti sono truddi e tròdduri o tròdduli. Con la loro disseminazione, i trulli delle Murge Tarantine individuano dunque una prima area di costruzioni a secco di tipo più schiet- tamente peninsulare e di dimensioni giganti, quali non ritroveremo prima di giungere a sud di Gallipoli. In genere, diradano nelle piaghe olivetano, dove si vedono pure gli esemplari più arcaici (e fra questi parecchi già decrepiti e in rovina); mentre si affit- tiscono sui terreni a vigneto. È connesso comunque alla espansione della viticoltura il continuo molti- plicarsi dei trulli: se ne costruiscono tuttora, con preferenza per le forme a più terrazze, associando a ciascuna costruzione i truogoli per le soluzioni an- ticrittogamiche, nonché uno o due ripuesti, capaci vasche seminterrate costruite in sito, con “fette” di tufo e piano di cemento inclinato verso un pezzetto d’angolo, per depositarvi provvisoriamente il raccol- to del vigneto durante le operazioni di vendemmia. Appartiene a questa prima area di grossi ripa- ri in pietre a secco una forma tutt’affatto particolare di costruzione rustica (pure associata normalmente alla coltura della vite) che fa a metà tra il trullo gra- donato e la casetta in muratura. A Sava, che ne rap- presenta il principale centro di dispersione, prende il nome di “casile”: lo chiamerò pertanto “casile sa- vese”. Il suo aspetto è appunto quello di una casupo- la monovano, costruita senza fondazioni ma raffor- zata su tre lati da un robusto contrafforte di pietre a secco, dello spesso da uno a un metro e mezzo e alto poco meno di due metri. Dalla formazione di questo rincalzo prende inizio la sua costruzione, che solo nella seconda fase prevede l’innalzamento dei muri a calce dell’abitacolo. Negli esemplari meglio rifini- ti, la volta del casile è a botte, la copertura esterna, un lastricato di chianche, il piano di calpestio, una 0 3 m camera camerasoggiorno stalla depositocuc. fig.133—Dimoracontadina permanentenell’areadei“casini” intornoaLecce del giardino (lu sciardinu) non è sostanzialmente di- versa dalla comune casa di una qualsiasi altra pro- prietà contadina. Entrambe consistono normalmen- te in costruzioni del tipo unitario e a piano terra, internamente suddivise in due o più ambienti abi- tabili ed eventualmente affiancate da un accessorio destinato a ricovero per l’animale da lavoro, oppure a ripostiglio di attrezzi e magazzino provvisorio (ar- còa, rimessa, suppuertu a seconda delle zone). [...] Mi pare, in definitiva, di poter fissare per queste forme di abitato le normali dissomiglianze accennate dalla nomenclatura nelle seguenti co- stanti: la “casa” di fondo a colture intensive e quella del “giardino”, sono per lo più l’abitazione stessa a carattere permanente del proprietario diretto–col- tivatore; la “casina” può anche essere soltanto l’a- bitazione a carattere stagionale del proprietario– coltivatore il quale vi si trasferisce dal paese con la famiglia nei mesi in cui si “fa l’orto” o si raccoglie e lavora il tabacco; il “casino” e la torre di villeg- giatura o il villino sono determinati dall’unione di due abitazioni, quella temporanea del padrone del fondo e quella permanente del colono; la “villa agri- cola”, infine, denota una condizione come quella del casino ma spesso, nei paraggi immediati dei centri abitati, risulta dall’unione di due abitazioni perma- nenti, quando anche la famiglia del proprietario ha stabile domicilio nella casa di campagna. Appena fuori da queste aree particolari di abitazioni sparse e di coltivazioni intensive riappa- re il dominio caratteristico dell’abitato a carattere temporaneo e dei ripari campestri. Tutti i contadini della piana messapica e delle depressioni fra le Serre sono abili costruttori di capanne vegetali. Ne costru- iscono di forme e grandezze assai diverse, come an- nessi alle case sparse (di tipo tradizionale e nuovo) e come ripari e rustici isolati. Dove l’aratro e la vanga portano in superficie quantità di pietre sufficienti, si dà alla pagghiara un carattere di maggiore stabilità, componendo su basi di pietre a secco le strutture ve- getali; altrimenti si procura di assicurare al manufat- to pagliaceo una migliore tenuta con l’accuratezza degli incastri e la solidità complessiva del telaio. Si vedono grosse capanne isolate o a coppia (una per gli uomini e gli strumenti di lavoro, l’altra per la giu- menta e il carro o usata come magazzino provvisorio del raccolto) costruite per durare molti anni, appena rinnovandosi nel fasciame pagliaceo; altre invece, più piccole e di fattura meno curata, destinate a vita più effimera. Tali sono, in ogni caso, i ripari vegetali formati da due pioventi direttamente poggianti sul terreno (umbracchiu) che costruiscono i tabacchicol- tori del Capo su terreni presi in fitto per una coltiva- zione, e che essi stessi solitamente distruggono alla fine della campagna. Anche nel corredo rustico delle case sparse vi sono normalmente tettoie e capanne di assai varia dimensione e funzionalità, che ne esaltano l’ambien- tamento in un quadro di terre basse e relativamente povere di pietrame. Di tali complementi, interamen- te o in massima parte formati con frasche, ramaglie di ulivi, canne palustri e paglia di cereali, sono spes- so dotate anche le nuove costruzioni insorte nelle aree di riforma, per ogni altro carattere tutt’affatto estranee alla tradizione edilizia indigena. Le forme di codesto abitato colonico, distribuite peraltro in contrade particolari lungo le due facciate costiere della penisola già dominate dall’incolto e vuote o quasi vuote di insediamenti fissi, ripropongono con maggior insistenza il modulo di una abitazione a piano terra, composta di tre o quattro vani princi- pali (compresi il magazzino delle scorte e la cucina) un portico a due archi o una tettoia e corredata di un gruppo di dipendenze rustiche imperniato sulla stal- la e sul forno; oppure — localmente e come espres- sione di una fase costruttiva più recente — il tipo del- la casa unitaria disposta su due piani, con in più e di diverso, rispetto allo schema precedente, una terza stanza per dormire e i rustici incorporati (nei vani terranei). Per la prima forma, di gran lunga la più diffusa, sia nella versione con tetto a pioventi, sia in quella con copertura a terrazza, si potrebbe parlare di costruzioni “tipo Arneo”, rispettivamente, e “tipo Serranova”, dal nome delle contrade che ne risultano massimamente impegnate; per l’altra di un impianto “tipo Cerano” certamente il più evoluto, funzionale ed esteticamente curato fra quanti ne ha espresso nell’intera regione questa edilizia eterodossa legata alla recente riforma agricola. Come i territori piani definiscono nel loro complesso la grande area delle capanne vegetali, le plaghe rilevate (terrazzamento perimurgiano, Murge Tarantine e Serre) formano il dominio degli annes- si e dei ripari isolati costruiti solo con pietrame a
  • 37. 72 73 murge baresi murge tarantine strozzatura istmide areale degli uliveti areale dei vigneti “le serre”
  • 38. 74 75 salentina (paiaru) i nomi di cali o calavaci o chipùru, quest’ultimo segnalato come più propriamente ma- gliese. Una diversità originaria di funzioni, fra gli elementi destinati precipuamente a pagliai e riposti- gli e quelli adibiti più segnatamente a ricoveri per l’uomo, riscaldabili col fuoco, od anche ad essiccatoi per i fichi. Furni dei ficheti o paiari dei seminativi, le co- struzioni a trullo forniscono comunque, attualmen- te, un confortevole rifugio al contadino sia per l’am- piezza dell’abitacolo, sia per il relativo isolamento che la grossezza dei muri e della volta vi consente dalle temperature esterne. Nelle giornate più fredde lasciano la possibilità di accendervi dei fuochi, come rivelano molte volte ceneri e sterpi ammucchiati en- tro un circolo di sassi, come la parete attigua anne- riti dalla fuliggine. Ve ne sono anche di dimensioni assai rilevanti, paragonabili ai trulli plurigradonati delle Murge tarantine: gli esemplari più grandi, a tre, quattro, cinque gradoni si rinvengono più par- ticolarmente dentro un’area che insiste sulla serra di Ugento, ma che ha già i suoi avamposti presso la costa gallipolina, da un lato (Torre del Pizzo), e ne- gli uliveti tra Morciano e Salve, dall’altro. In uno di questi esemplari situati più a sud ho misurato (in una costruzione a tre tronchi di cono sovrapposti e alta al culmine intorno ai 14 m) uno spessore murario alla base di oltre quattro metri. Nell’ampio abitacolo era- no custodite numerose scale di legno, di quelle che si adoperano localmente per la rimonda degli ulivi, altrove per cogliere le olive pendenti. Il vasto piano di terra battuta era altrimenti ingombro di cataste di ramaglie, ivi accumulate come scorta di legna da ardere per l’inverno. Ma oltre ad essersi perfezionata sino ad esprime edifici di queste dimensioni, l’architettura della pietra ha segnato qui anche una evoluzione in- teressante verso forme le più adatte ad essere tra- sformate in dimore di campagna. Affiancando due o più trulli a base quadrata e sostituendo la copertura “a tholos” con la volta “a lamia”, il muratore lapici- da ha realizzato la forma rettangolare anche molto allungata del vecchio riparo; una forma detta ap- punto dalla struttura del tetto lamia (da Otranto a Tricase), liama nell’Ugentino, e lamione (quella più grande). Forniti di focolare, intonacati e provvisti di infissi alle aperture, lamie e lamioni costituiscono attualmente le più caratteristiche dimore staglionali sparse dell’estremo Salento, soprattutto frequenti nel basso Ugentino, tra la serra e il mare; intorno al Capo di Leuca e nei Comuni a sud di Otranto. […] Non tutta la provincia di Lecce è ugualmente costellata di edicole in pietre a secco. Nelle parti pia- neggianti o depresse tra una serra e l’altra, dove pure diminuisce relativamente la disponibilità di materia- li lapidei alla superficie del terreno, l’architettura di pietra non cementata cede il posto a una prevalenza di case monocellulari, fabbricate a calce e coperte di laterizi (casa te l’imbreci, casa a dettu, casipula, casiceddha ecc.). Costruite a coppia per ricavarne una unità bicellulare (un elemento per l’uomo, l’altro per la stalla o magazzino), oppure corredate di un annesso laterale ad unico piovente (suppinna o vetto- glia), esse definiscono il tipo dell’abitazione stagio- nale di tutta un’area centrale che va da San Cesario a Ruffano. Spesso presentano pure una tettoia sopra l’ingresso che ha la funzione di riparare dal sole (e detta perciò ‘mbracchiu), ma che, con qualche adat- tamento, può venire utilizzata per la cucina estiva. Sorgono per lo più su piccole proprietà contadine, derivanti da vecchie lottizzazioni enfiteutiche di grossi patrimoni fondiari, tenute a ortaggi, a tabac- co e a colture permanenti di tipo legnoso (vigneto e fruttiferi). La famiglia vi si trasferisce nei mesi da maggio a ottobre, per attendere alle operazioni col- turali del tabacco, alla coltivazione dell’orto e infine alla vendemmia. Per il resto dell’anno le vettoglie o case con suppinna ridivengono dei semplici ricoveri diurni per il lavoratore, che vi ritorna quotidiana- mente dal paese, e dei depositi di attrezzi. In tutte le dimore di campagna ricordate sino a questo momento, dalla lamia alla casa con suppin- na fino al casino, alla masseria e alla villa agricola, raramente l’abitatore non ha a che fare con la col- tivazione dei tabacchi orientali. Una parte benché modesta dello spazio messo al riparo di un tetto vi è sempre riservata ai bisogni di questa coltura che, nonostante un recente declino (manifestatosi come conseguenza dello sviluppo della emigrazione all’estero), rappresenta sempre una delle più adatte all’ambiente e delle più redditizie. È in funzione di questa coltura la trasformazione avvenuta nell’ulti- mo mezzo secolo nell’edilizia rurale dell’estrema pe- nisola salentina. […] stesa di cemento, utile anche per depositarvi l’uva appena raccolta: in questo caso si conferisce al pavi- mento una lieve inclinazione verso una “conchetta” d’angolo, destinata a raccogliere il mosto. Ma anche nei tipi più rudimentali (che intanto provano l’anti- chità di questo modo di costruire il riparo sui fondi) è quasi sempre un manufatto fornito di focolare a muro, di infissi all’uscio e di due o più pisuli, menso- le tufacee di varia utilità sporgenti sia all’interno el vano, sia all’esterno, ai due lati dell’ingresso. […] Forme ibride, di compromesso tra la comune fabbrica muraria e il manufatto a secco, sono pure variamente presenti in tutta la subregione delle Ser- re, senza però dar luogo a tipi chiaramente definiti per strutture e funzioni, come avviene per il casile savese, né a prevalenze zonali od anche locali ben determinate. Esse appaiono piuttosto, nella loro di- spersione frammezzo alle versioni normali di un’ar- chitettura rustica minore interamente realizzata in pietre a secco, come tante e dissimili interpretazioni episodiche e aberranti del modo di ricavare il con- sueto riparo di campagna dallo spietramento del ter- reno. La vera caratteristica di questa parte della pe- nisola salentina rimane pertanto quella di costituire unitariamente una compatta area di diffusione delle forme a trullo, le più tipiche, evolute e rappresen- tative, accanto a quelle con tetto coneggiante delle basse murge, d’una tradizione edile schiettamente contadina che riguarda e investe, con la sua dupli- ce linea di sviluppo, tutta quanta la Puglia pietrosa. Specialmente in corrispondenza delle Serre, le cam- pagne vi appaiono costellate di innumerevoli edico- le trulliformi, dai contadini usate sia come rustici, sia come ricoveri giornalieri od occasionali. Sono costruite con le pietre raccolte sul terreno, o tra le macerie di trulli in rovina, oppure, ancora, ricavate dalla terra dissodata. Indifferentemente alla loro de- stinazione agricola, vi sono plaghe nelle quali ogni parcella di terreno possiede il suo trullo e perfino i suoi trulli, tanto che in certi addensamenti zona- li si raggiungono densità medie di 70-80 manufatti per kmq. Le forme sono fondamentalmente due: a tronco cono, e, meno spesso, a tronco di piramide, ma la denominazione è quasi sempre unica, in ogni contrada, per entrambe. A base quadrata o circola- re, i ripari di pietra a secco sono sempre dei furni (o furnieddhi) per le popolazioni di tutta un’area che va da Veglie a Ugento, lungo il litorale jonico, spin- gendosi all’interno della penisola fino ad abbrac- ciare i Comuni centrali entro la linea definita dalle posizioni di Collepasso e Cutrofiano; sono invece pagghiari (con le varianti fonetiche di paiari, paiare e, per i maggiori, paiaruni) per le popolazioni dell’e- stremo sud della penisola e di tutta la sua sezione orientale, dove pure divengono più frequenti le for- me derivate, a base quadrilatera e alzato troncopi- ramidale. A queste due grandi sezioni territoriali, all’ingrosso corrispondenti al dominio della vite e, rispettivamente, dell’olivo e delle colture seminati- ve, si sovrappongono zone più particolari in cui la costruzione riceve anche un secondo nome. La prin- cipale di esse coincide approssimativamente con l’estensione attuale dell’isola dialettale neogreca, dove si adoperano come voci equivalenti alla forma 0 3 m fig.138—Ricoverocampeste,con recintoannessoperlebestie,deltipo apiantacircolareealzatotroncoconico recinto