La monocultura turistica è la malattia di Venezia.
Mentre il dibattito continua a focalizzarsi sui possibili "antibiotici", Maurizio Busacca e Lucio Rubini provano a immaginare una terapia "probiotica". Per andare al cuore del problema.
da:
Abitare Venezia, PechaKucha Night, 20 images x 20 seconds
Venezia, Palazzo Michiel del Brusà, 11.03.2017
1. di Maurizio Busacca e Lucio Rubini
Abitare Venezia
PechaKucha Night, 20 images x 20 seconds
Venezia, Palazzo Michiel del Brusà
11.03.2017
2. Ogni volta che ci mettiamo a discutere di Venezia,
prima di partire dobbiamo capire se stiamo parlando
della stessa cosa. Su quale Venezia stiamo
ragionando? Perché esistono almeno quattro Venezia,
tutte altrettanto valide.
1. Stiamo parlando della Città Antica, quella formata
dalle 118 insule?
2. È la città-Laguna?
3. 3. O la “città funzionale”, composta dalle persone che
la fanno funzionare, quindi il complesso sistema
urbano che quotidianamente si muove a ridosso e per
la Città Antica?
4. Infine, stiamo parlando di un’area metropolitana al
cui interno esistono due grandi nodi infrastrutturali
(Porto e Aeroporto) che ne fanno un area accessibile a
livello globale?
Per questo nostro ragionamento, Venezia sarà la
numero “3”
4. La parte più facile, la conoscete già: Venezia ha perso
una base economica che non sia legata al turismo, che
tutto si prende e tutto di divora, unica (o quasi) fonte
di profitto o più spesso solo di rendita.
La malattia è a uno stato avanzato nella Città Antica.
Mestre e Marghera guardano, imparano e sperano di
arrivarci presto.
5. Almeno dagli anni ‘60 cerchiamo una soluzione al
“problema di Venezia”, che è il titolo di un importante
convegno alla Fondazione Cini del 1962.
Da allora di soluzioni ne abbiamo trovate e anche
testate tante. Ognuna di queste però ha agito come un
antibiotico: per uccidere i vari germi patogeni ha
colpito anche tutto ciò che stava loro intorno ed era
vivo. Lo stesso può succedere per placare la
monocultura turistica.
6. Nella continua definizione di un progetto di città,
abbiamo sempre cercato un medico per diagnosi e
cura ideali; una specie di architetto di Matrix per
capirci.
Ma fuori da Matrix quell’idea non funziona: non c’è
una relazione causale lineare tra diagnosi (come
conoscenza) e cura (come azione); quella che vediamo
è piuttosto il costruirsi quotidiano, nelle pratiche, della
città, che si fa giorno per giorno.
7. Sono “organismi vivi – anzi, come dice la parola stessa, a
favore della vita – che somministrati in quantità
adeguata, apportano un beneficio alla salute dell'ospite”.
Ve ne proponiamo 6 per Venezia.
8. Il primo probiotico l’abbiamo chiamato “la riserva dei
panda” e riguarda lo salvaguardia della civitas.
È la città del welfare urbano: qualità offerta alla
persone in termini di mobilità, istruzione, sanità,
residenza, tempo libero.
9. Il secondo probiotico è per Porto Marghera.
In questa visione, la città può afferrare la tendenza
globale “portocentrica” che guida i processi di
(ri)localizzazione dell’industria: un continuum di attività
manifatturiere, quasi manifatturiere e logistiche che
caratterizzano l’industria avanzata di oggi.
10. Significa riconoscere centralità al nuovo ente
metropolitano.
Come Bruxelles vent’anni fa, una città metropolitana
forte che migliora le relazioni funzionali al suo interno
(spostamenti casa-lavoro, attività economiche comuni)
tra una città-centro e i comuni limitrofi, e sfrutta sotto
il profilo organizzativo economie di scala e
complementarietà dei costi.
11. Venezia come Boston è uno slogan dell’attuale sindaco
Brugnaro; ma è almeno dagli anni ‘60 che si parla di
una Venezia città degli studi: se la fragilità di Venezia
non può reggere uno stabilimento industriale può
forse reggere la produzione di conoscenza, con
l’università come fabbrica.
Nuove tecnologie e humanities - immateriale ed
affettivo diventano i possibili asset di un’economia
ancora possibile.
12. Venezia è città creativa molto prima che Florida si
inventi l’idea di città creativa. In modo quasi
paradossale – e certamente ironico – l’immagine di
Venezia che molti propongono come innovazione
radicale è quella di una città di cultura diffusa, in
qualche modo simile a Barcellona.
Buon sogno, dal quale però rischiamo di svegliarci
come in un incubo, basti pensare alle attuali difficoltà
della capitale catalana…
13. E poi c’è sempre nell’aria, nelle osterie e nei campi
questa idea: Venezia dovrebbe tornare ad essere
com’era 30-40-50 anni fa, città turistica ma di un
turismo ricco, a modo.
Pochi turisti con portafogli belli capienti in grado di
spendere tanto: è la mitologia del turista americano
che sganciava mance da capogiro o che investiva il
reddito medio di un anno di un operaio per comprare
un lampadario di Murano.
14. Tutti queste visioni oggi si scontrano, letteralmente;
alla ricerca di quella giusta, che da sola può risolvere il
problema Venezia.
Ma se non fosse così? Se ognuna di quelle visioni, i
nostri probiotici, non fosse di per sé giusta isolata
come unica soluzione? ma se lo fosse affiancata alle
altre?
Se provassimo a pensare per aggregazione e non più
per sottrazione? Per sociodiversità e non più per
omologazione?
15. C’è però un prerequisito: la mobilità.
Dobbiamo metterci in testa che per mischiare le carte,
c’è bisogno di costruire una “rete di vene” per dare
l’opportunità alle persone, alle cose, ai progetti, alle
relazioni, di spostarsi su questo territorio.
C’è bisogno di una città che si dia una mossa, e non è
solo una questione di velocità.
16. Pensiamo quindi che il cuore della discussione sia
sostanzialmente una questione di metodo.
Abbiamo individuato tre parole: pratica, interazione,
apprendimento. Significa costruire opportunità per
ingaggiarsi a vicenda nell’ibridare le nostri visioni;
lavorare pensando che questo metodo possa esplorare
soluzioni come un gioco a somma positiva, perché
stabilisce rapporti che prima non esistevano, perché
allarga le visioni, mette in crisi le nostre convinzioni, ne
costruisce di nuove e inedite.
17. Questi meccanismi ci descrivono una città che
assomiglia molto ad un organismo vivente e il diritto di
esercizio dei corpi vivi è quanto di più simile oggi si
possa paragonare al diritto di Venezia di non essere
oggetto di diagnosi.
Come dice la Butler in Fare e disfare il genere “la
diagnosi esercita la propria pressione sociale”. La
diagnosi contrasta ogni forma di autonomia e libertà
della città.
18. Ci interessa forse di più una città cyberpunk, meticcia,
spuria, dove carne, metallo, pietra e bit si mescolano.
Il contrario di una smart city, la punk-city rifugge
drasticamente dalla precisione. Ibrida, ripete, simula,
relativizza, distopizza, aliena: una città che spiazza e
diventa unica, in uno scenario già unico.
19. Fare questo è forse la cosa più complicata perché
richiede di mobilitare intelligenze collettive, meno
razionali e più emotive ma non per questo meno
numerose.
Mobilitare intelligenze perché intelligente non è chi ha
la verità in tasca ma chi accetta di confrontare la
propria idea con altre, di progredire nell’interazione
invece di rimanere fermi nella propria convinzione.
20. C’è però da fare un patto.
Riconoscersi a vicenda con pari dignità giocatori di una
stessa partita: cittadini, istituzioni, partiti, tutti. Non
significa ignorare un possibile conflitto: questo sarà
inevitabile e funzionale.
Ma forse, è proprio così che si unisce, riconosce,
stimola e provoca una comunità collaborativa che si
mette al lavoro per la propria città.
O perlomeno, vale la pena provarci.