Sicurezza o libertà? Mediatizzazione e uso politico dell'insicurezza diffusa
Giovanni Cocconi
1. I mercati
e le vite dei santi
Il ricettismo e la difficoltà di raccontare
la grande crisi
conversazione con Dario Di Vico
a cura di Giovanni Cocconi
M ai avrei pensato che dalle vite dei santi potesse arrivare una
lezione di giornalismo. Forse nemmeno Dario Di Vico lo
sospettava prima di inciampare in un libro di Carlos Ruiz
Zàfon, Il gioco dell’’angelo. Se è così difficile raccontare la Gran-
de crisi che cambierà per sempre il nostro paese è perché do-
vremmo prendere sul serio Zàfon.
«Da un po’’ di tempo mi sto interrogando sull’’antropologia della
crisi» mi spiega Di Vico nel suo ufficio al «Corriere della Sera», di
cui è inviato speciale dopo essere stato vicedirettore durante le
direzioni Folli e Mieli dal 2004 al 2009. In questi anni il suo
racconto della società italiana ha prodotto molte pagine impor-
tanti e due libri fondamentali, Profondo Italia (Bur, 2004) e Pic-
coli. La pancia del paese (Marsilio, 2010), un’’espressione entrata
anche nel lessico della politica. Sociologo per formazione univer-
sitaria, con una solida esperienza sindacale alle spalle, Di Vico
non è un giornalista economico in senso tradizionale: con le sue
inchieste ha allargato il paesaggio sociale presente sulla stampa
dando voce anche a pezzi di territorio italiano che tradizional-
mente non trovano spazio.
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Problemi dell’’informazione / a. XXXVII, n. 2, agosto 2012
2. il lavoro dei giornalisti/2
Sui giornali abbondano gli articoli-ricetta: ti dico cosa si deve
fare per superare la situazione in cui ci troviamo. Ma avviene
tutto in verticale e per di più con strumenti vecchi. Quando sento
parlare di ritorno a Keynes o di riscoperta di von Hayek mi vie-
ne l’’orticaria: ma cosa ne potevano sapere quelli della Cina o
della finanza globalizzata?!.
Siamo arrivati al punto più drammatico della tensione tra verti-
cale e orizzontale: l’’Europa e il governo dei tecnici da una parte,
dall’’altra la società italiana sempre più spaesata che si vede im-
porre ricette dall’’alto.
Le élite europee si trovano in una situazione inedita, devono af-
frontare problemi nuovi rispetto al passato in società che, anche
per effetti della crisi, stanno cambiando vorticosamente. La stru-
mentazione che hanno ricevuto in dote dai padri dell’’euro non
regge più: se oggi li mettessimo intorno a un tavolo non rifareb-
bero gli stessi errori. La scelta dell’’euro era giusta ma com’’è pos-
sibile che nel medio periodo possa esistere una sola moneta e
nessun coordinamento delle politiche economiche?
I giornali italiani in dieci mesi sono cambiati moltissimo: il retro-
scena ha lasciato il posto a paginate di dossier, approfondimenti,
analisi. Il presidente dell’’Istat Enrico Giovannini («la Repubbli-
ca», 12 luglio 2012) ha detto che «in Italia siamo passati dal
retroscena alla scena, a un’’informazione più accurata, di livello
europeo». Non so se sia vero ma è come se ci fosse stata una ces-
sione di sovranità anche nei giornali. In questo senso il tuo punto
di vista è interessante perché tu non sei definibile semplicemente
come un giornalista economico, ma ti sforzi di incrociare politica,
economia e società.
Non so se sia nata una vera nuova formula di fare i giornali. Si
tratta di approssimazioni successive, adattamenti a un contesto
che è cambiato. Per quindici anni tutti i giornali italiani hanno
ruotato attorno a Berlusconi, con l’’arrivo di Monti è cambiato
tutto. Giornalisticamente parlando è un momento straordinario:
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3. I mercati e le vite dei santi
la società italiana è chiamata ad adattarsi a un vestito nuovo,
e quindi il racconto servirà, ma la strumentazione giornalistica
va ancora trovata. Non basta il ricettismo.
Ma i giornali erano fatti meglio prima o sono meglio adesso?
I giornali italiani si rivolgono sia al Primo popolo che al Secon-
do popolo, per dirla con Giuseppe De Rita, partecipano alla
«agenda setting» e poi svolgono una funzione universalistica che
è quella di informare il lettore comune. E non è vero che il lettore
comune voglia sapere solo delle aliquote Imu o come investire i
suoi risparmi; chiede anche il racconto di come sta cambiando
la politica italiana, se siamo entrati in una repubblica presiden-
ziale di fatto, eccetera. Non si può pensare di offrire i retroscena
alle élite e le tabelle al lettore comune. Le due cose viaggiano in-
sieme: un buon retroscena ha un valore aggiunto importante, an-
che se negli ultimi anni ci sono stati degli eccessi: dobbiamo evi-
tare il cattivo retroscena e la cattiva tabella.
Però c’’è un pezzo di racconto della crisi che manca completa-
mente: il racconto dei mercati.
Sì, è vero, per una forma di pigrizia abbiamo accettato l’’idea dei
mercati senza volto, degli algoritmi. In realtà i mercati sono fat-
ti di persone, con le loro ideologie, percezioni, aspettative, cultu-
re, contraddizioni. Mario Monti è il primo a saperlo ed è molto
attento al pressing verso gli uomini di mercati. Quando indossa
il cappello della London School of Economics, ad esempio, man-
da un messaggio preciso a tanti operatori senza volto che ma-
gari hanno studiato lì.
Tu hai iniziato a raccontare la crisi del ceto medio già nel 2003-
2004 con l’’inchiesta di Profondo Italia.
Quell’’inchiesta disse semplicemente che il re era nudo, che i pro-
blemi del passaggio all’’euro erano stati sottovalutati, che le élite
avevano commesso un clamoroso errore. Una tesi allora difficile
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4. il lavoro dei giornalisti/2
da accettare da parte della classe politica. «Il Foglio» pubblicò
un’’intera pagina con un comunicato di Forza Italia per contesta-
re la tesi dell’’impoverimento del ceto medio. Ma quell’’inchiesta
era ancora di tipo top-down.
Invece il lavoro dei Piccoli su artigiani, commercianti, partite Iva,
microimprese è stato bottom-up...
L’’idea iniziale è stata di Ferruccio De Bortoli, che cito nei rin-
graziamenti, dove rendo omaggio anche a una pagina di Carlos
Ruiz Zàfon. Nel romanzo «Il gioco dell’’angelo» l’’enigmatico edi-
tore francese Andrea Corelli propone al protagonista, un giorna-
lista del quotidiano della sera, di scrivere un libro che diventi il
testo sacro per una nuova religione. Alle perplessità del protago-
nista Corelli risponde spiegandogli che la forza delle religioni
non sono i corpus dottrinari, ma le vite dei santi, il coinvolgi-
mento in una storia. Quella pagina mi ha aperto un mondo, è
una fantastica lezione di giornalismo: si aderisce a una tesi non
per un editoriale, ma per il racconto, e il racconto, rispetto al-
l’’editoriale, sconta anche le contraddizioni. I santi sono spesso
dei peccatori pentiti. I Piccoli hanno le contraddizioni, mentre i
Grandi sanno nasconderle.
Prima dei Piccoli anche tu «dipendevi» dallo schema concertati-
vo classico, la triangolazione governo-Confindustria-sindacati.
Sono stato il vicedirettore del «Corriere» e, per limiti di tempo,
non potevo scrivere dei Piccoli con la flessibilità mentale necessa-
ria e, soprattutto, lavorando sul campo. Però, attenzione: anche
quando dà voce al secondo popolo, quella del «Corriere» è una
voce che lo presenta come potenziale classe dirigente. Diceva
Napoleone che «ogni soldato porta nello zaino il bastone di
maresciallo»...
Con il tuo lavoro hai di fatto accelerato alcuni processi sociali di
concentrazione della rappresentanza dei Piccoli che in questi
anni ha dato vita a Rete Imprese Italia e alla Federazione delle
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5. I mercati e le vite dei santi
cooperative. Oggi i Piccoli sono entrati nella stanza dei bottoni?
Esiste un nuovo schema di concertazione?
Non credo di aver accelerato proprio niente. Stiamo parlando
nientemeno che della fine del collateralismo rosso e del collate-
ralismo bianco, processi storici che non possono essere influen-
zati da uno o più articoli di giornale. Piuttosto sono preoccupato
dall’’impasse del progetto di Rete Imprese Italia. Oggi sembra
una «Confindustria senza la cravatta» e invece dovrebbe essere
movimento. Rete dovrebbe stare accanto alle vedove degli artigia-
ni suicidi e non partecipare alla costruzione di nuovi partiti a
Todi o altrove. Comunque la strada che porta a un nuovo prota-
gonismo dei Piccoli è lunga, è fatta di tanti articoli e di tantis-
sime assemblee. Ancora oggi ricevo inviti per partecipare alla
media di due al giorno.
Qual è il prossimo passo?
Nel quinto anno della grande crisi noi giornalisti dovremmo es-
sere in grado di dare qualcosa di più ai nostri lettori. Personal-
mente non ho ancora trovato la strada, ma la cerco. Vorrei sfrut-
tare anche alcuni strumenti della psicologia. Aldo Bonomi ha
scritto un libro sulla depressione. Richard Sennett, nel suo
«Uomo flessibile», ha ragionato sulle conseguenze della precariz-
zazione sul carattere dell’’individuo.
Che cos’’è il web per uno che racconta la società italiana? Al con-
vegno di «Problemi dell’’informazione», l’’anno scorso a Milano,
dicesti che «ormai leggo più Twitter che le agenzie».
«La nuvola del lavoro», il blog che ho creato su Corriere.it, è uno
strumento collettivo, si narrano storie e lo fanno tanti giovani
colleghi. Twitter, invece, risponde alla necessità personale di fare
i conti con uno strumento nuovo. Devo dire però che in parte mi
sta deludendo: c’’è poca ironia e molto ricettismo. Le idee più
belle vengono ancora dalla carta stampata. Twitter raramente
riesce a mettere in agenda un tema. Resta importante per il con-
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6. il lavoro dei giornalisti/2
fronto delle idee e per sprovincializzarci, ma dovrebbe essere un
luogo di incontro e non di certezze esibite.
Il «Corriere della Sera» è ancora il più importante quotidiano
italiano? La proprietà editoriale multipla è un vantaggio o uno
svantaggio? I pesi dei singoli azionisti si annullano a vicenda?
La proprietà multipla rende il processo decisionale più lungo,
per i nostri diretti concorrenti tutto è più semplice. Però il «Cor-
riere» resta il giornale di chi, al di là delle appartenenze politi-
che, si sente classe dirigente e per questo è ancora un oggetto
unico, nonostante tutti gli errori che possiamo avere commesso
negli anni. Oggi essere classe dirigente significa porsi il tema
delle soluzioni per il Paese e il «Corriere» è il posto migliore dal
quale proporle.
Tu eri in trincea al «Corriere» durante l’’estate dei «furbetti»
quando Stefano Ricucci tentò la scalata a via Solferino. A distan-
za di sette anni sei ancora convinto che fosse in atto un attacco
«politico» al giornale per condizionarne l’’indipendenza?
So che ha preso piede una piccola ma robusta corrente revisioni-
sta, ma Ricucci era un veicolo per una modifica di assetti auspi-
cata da una parte del mondo politico e da una parte del mondo
economico-finanziario. Non credo che i piani del «break up» di
Rcs li abbia fatti lui... Per fortuna il tentativo è stato rintuzzato.
C’’è chi dice che il lavoro giornalistico in questi anni si è proleta-
rizzato. È così?
Proletarizzato è una semplificazione. Diciamo che i corpi reda-
zionali si sono ulteriormente segmentati e passare da un seg-
mento all’’altro è più difficile oggi di ieri. Pensavamo che la tec-
nologia avrebbe ridotto la quantità di lavoro, e invece non è così:
nei grandi giornali il desk è molto importante, ha un relativo
potere, una sua cultura. Peccato nessun sociologo abbia raccon-
tato come sono cambiati i quotidiani in questi anni.
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