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INTRODUZIONE. 
È il 12 dicembre 1969, ore 16,37, Milano, piazza Fontana, salone della Banca Nazio- nale dell’Agricoltura: una bomba esplode uccidendo quattordici persone e ferendone novanta. La storia d’Italia ebbe il suo più cruento spartiacque da quando la guerra era finita: alle sue spalle un “prima” tormentato ma vissuto; davanti a sé un “dopo” magmatico e ancora da af- frontare. 
Questo lavoro propone una ricostruzione della strage di Milano attingendo in partico- lar modo alle fonti rappresentate dagli articoli apparsi sui giornali nei giorni successivi al 12 dicembre e dalle testimonianze, che con gli anni presero forma di libro, dei giornalisti che vis- sero in presa diretta quell’evento. Evento che sarà osservato dall’angolatura della carta stam- pata, analizzando gli articoli scritti in quel periodo ed esaminando l’operato di chi li firmò. 
Lo studio muove dalle coordinate storiche del biennio 1968 – 1969 in Italia: un peri- odo caratterizzato dalla forte frammentazione politica, sia a livello generale sia all’interno dei singoli partiti, che portò all’immobilismo e al susseguirsi di Governi d’attesa incapaci di ri- spondere a una società in fermento che chiedeva riforme atte a migliorare le condizioni di vita generali. Un fermento che ebbe il suo apice con le esperienze della contestazione studentesca nelle università e dell’autunno caldo nelle fabbriche: due momenti che portarono alcune mi- gliorie nel campo dell’istruzione ma ancor più in ambito lavorativo; due momenti che stavano indicando la strada di un cambiamento. Ma questa stagione fu interrotta dalla strage di Mila- no. 
Il secondo e il terzo capitolo dell’elaborato entrano nel vivo della questione: si ana- lizzano i resoconti apparsi sui giornali il 13 e il 14 dicembre concentrandosi sia sugli editoriali scritti dalle firme più autorevoli delle varie testate, sia sulle testimonianze raccolte dai cronisti fra i sopravvissuti alla strage e fra la gente comune che aveva vissuto di riflesso la tragedia, infine dando conto dei primi passi mossi dagli inquirenti nella ricerca degli autori
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dell’eccidio. Fin da subito si avverte il risvolto politico della vicenda: la maggior parte delle interpretazioni e delle opinioni sia dei giornalisti sia della gente prese forma da questa pro- spettiva; così si fece largo la tendenza a intuire la colorazione politica dei colpevoli. Altra ca- ratteristica che emerge è l’opacità che gravitò attorno ai fatti e alle indagini svolte. 
Il quarto capitolo avrà come oggetto il 15 dicembre 1969: il giorno dei funerali delle vittime innocenti della strage e della risposta spontanea e unitaria che Milano diede alla bom- ba, o meglio a chi l’aveva ordita. Ma il 15 dicembre registrò anche inquietanti colpi di scena: un anarchico in stato di fermo, Giuseppe Pinelli, nel corso di un interrogatorio volò dalla fine- stra di un ufficio al quarto piano della Questura di Milano; un altro anarchico, Pietro Valpre- da, presentatosi al Palazzo di Giustizia di Milano per rendere conto di un volantino anticleri- cale, alla fine dell’interrogatorio si vide portato via di peso da due agenti della squadra politi- ca: su di lui cadde l’accusa di reato di strage, sarebbe stato lui a uccidere. La chiave di volta la offrì un tassista milanese, Cornelio Rolandi, che sostenne di aver trasportato un cliente nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura poco prima dell’esplosione. Quel cliente sareb- be stato Pietro Valpreda. In questi tre episodi si possono scorgere tre elementi che accompa- gnarono la vicenda di Piazza Fontana: la voglia di reagire e di non cedere a tentazioni autori- tarie, il fitto mistero e l’illusione scaturita da un’apparente soluzione del caso. 
I giornalisti si trovarono a operare in un frenetico susseguirsi di eventi, dove non era agevole districarsi né distinguere tra realtà e menzogna. Ci fu una frattura all’interno della ca- tegoria: da un lato chi senza il minimo dubbio percorse la rassicurante strada delle versioni dei fatti proposte dalle autorità e non esitò a condannare gli anarchici, dall’altro chi viaggiò ostinatamente in direzione contraria tentando di demistificare artefatte spiegazioni dei fatti volte a occultare particolari segreti se non proprio indicibili. Questi giornalisti sfidarono la scrittura di una pagina di Storia a senso unico, la rivisitarono e inserirono delle correzioni.
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Infine il titolo. La frase: “io l’ho saputo dai giornalisti” è di Licia Rognini Pinelli e spiega come lei stessa scoprì la morte del marito. Il senso individuale di queste parole appar- tiene solo e soltanto alla signora Pinelli e alle sue due figlie Silvia e Claudia. Ma queste stesse parole racchiudono anche un senso collettivo: i giornalisti furono i primi narratori e i primi storici della strage di piazza Fontana, dalle loro penne nacquero le prime cronache e i primi commenti di quello che stava succedendo: furono per l’opinione pubblica la fonte principale delle notizie e delle interpretazioni. 
A quei giornalisti che raccontarono Piazza Fontana con il coraggio necessario ad an- dare controcorrente non perché mossi da ottuse prese di posizione ma perchè spinti dalla ri- cerca della verità attraverso l’indagine giornalistica, vorremmo dedicare una riflessione che testimonia come la loro lezione sia rimasta viva lungo l’incedere della Storia e abbia trovato cittadinanza alle più diverse latitudini; è quasi superfluo ricordare che rimase e rimane invisa a molti. “Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo” (Anna Politkovskaja).
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CAPITOLO 1. QUADRO STORICO. 
In Italia il biennio 1968 – 1969 fu caratterizzato da trasformazioni sociali e da cambia- menti politici, economici e culturali che attraversarono gran parte della società. I protagonisti di questa stagione furono gli studenti e gli operai: i due soggetti collettivi che più si batterono per un rinnovamento dell’istruzione, delle condizioni lavorative e, in generale, per un miglio- ramento della qualità della vita. Le rivendicazioni spesso portarono a violenti scontri con le forze dell’ordine, con le frange più conservatrici della popolazione e con una classe politica sospesa fra la necessità di attuare importanti riforme e l’esigenza di formare governi stabili per adempiere i doveri istituzionali. 
1.1 LA SITUAZIONE POLITICA.1 
Le elezioni politiche del 19 – 20 maggio 1968 fecero segnare i seguenti risultati alla Camera: Dc 39,1%, Pci 26,9%, Psu (Psdi e Psi unificati) 14,5%, Msi 4,4%, Pli 5,8%. Oltre al- la vittoria democristiana e al consolidamento del Pci, la sconfitta del Psu (Psdi e Psi unificati) è il dato che più influì sulla sesta legislatura in quanto “le elezioni del 1968 rendevano più dif- ficile il ritorno al centro – sinistra e ne turbavano gravemente gli equilibri originari”,2 prova ne sia che all’interno del Psu, in seguito all’esito elettorale, si formarono due correnti: l’una propensa a un ritorno al centro – sinistra, l’altra orientata su posizioni attendiste. Sarà quest’ultima linea – vista con favore anche da Giuseppe Saragat, colui che più di tutti si era speso per la fusione – a prevalere: il 31 maggio 1968 il Comitato centrale del Psu optò per il “disimpegno” governativo. 
1 Per lo svolgimento del paragrafo ci siamo avvalsi principalmente delle linee – guida presenti in G. Mammarel- la, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), Bologna, il Mulino, 1989. 
2 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.347.
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Quello appena eletto si rivelò un Governo monocolore d’attesa, che condusse il Paese fino al 19 novembre 1968 quando, come da programma, si dimise il Governo presieduto da Giovanni Leone. 
Il Presidente della Repubblica Saragat, dopo un turno di consultazioni, affidò a Sandro Pertini (Presidente della Camera) un mandato esplorativo, che avrà come esito il primo Go- verno presieduto da Mariano Rumor, insediatosi il 16 dicembre 1968 e formato da esponenti della Democrazia cristiana, del Partito socialista unitario e del Partito repubblicano. L’unica azione rilevante che il Governo riuscì a portare a termine fu la riforma delle pensioni: il clima sociale si stava sempre più inasprendo e anche le dinamiche politiche non favorivano uno svolgimento adeguato del programma legislativo. 
La primavera – estate 1969 sarà infatti caratterizzata dalla fine dell’unità del Psu, espe- rienza che era iniziata alle fine del 1965, e dalla conseguente scissione del partito in due cor- renti: una socialista e una socialdemocratica. Il 5 luglio – all’indomani della separazione fra le due componenti – con l’uscita dall’Esecutivo degli esponenti socialdemocratici, Rumor pre- senterà le dimissioni. Il Presidente della Repubblica affidò ancora l’incarico a Rumor “che tentò di riannodare le file del centro – sinistra, ma invano”;3 dopo una “missione esplorativa”4 condotta da Amintore Fanfani (Presidente del Senato) apparve chiaro come l’unica soluzione percorribile, già adottata anche nel recente passato,5 fosse un Governo monocolore democri- stiano: una nuova risoluzione temporanea, in attesa di poter tornare alla formula del centro – sinistra. 
La crisi dell’Esecutivo era accompagnata da una crisi dei partiti, minati al loro interno da “un inasprimento delle lotte per il potere”6 che portava all’immobilismo in una fase in cui 
3 Ivi, p.363. 
4 Ibidem. 
5 Nella primavera del 1960 Fernando Tambroni, non riuscendo a trovare un’intesa con i socialdemocratici e con i repubblicani, formò un Governo monocolore democristiano (per la costituzione del quale furono decisivi i voti del Movimento sociale). 
6 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.363.
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si sentiva sempre più urgente il bisogno di vedere attuate riforme soprattutto in ambito scola- stico, lavorativo e urbanistico. 
In questo contesto le difficoltà dei socialisti non rimasero un caso isolato: all’interno della Dc, a fine settembre 1969, in seguito all’alleanza fra i fanfaniani, il gruppo facente capo a Paolo Emilio Taviani e una parte della sinistra di Base si andò delineando sia una rottura in seno ai “dorotei”7 (all’interno dei quali si formò la corrente Andreotti – Colombo) sia una nuova maggioranza: l’on. Flaminio Piccoli, diventato segretario del partito dopo l’insediamento di Rumor a Primo ministro, verrà sostituito il 9 novembre 1969 dal fanfaniano Arnaldo Forlani. 
Il clima sociale, che si stava sempre più affermando nel Paese, minò gli equilibri anche del Pci. Il Partito comunista si trovò a confronto dapprima con un soggetto collettivo (gli stu- denti) che, pur muovendosi su un retroterra politico – ideologico a tratti molto simile, gli ri- volgeva l’accusa di essere “<<opposizione integrata>> incapace di combattere il sistema.”8 I dissidi più profondi all’interno del Pci si registrarono però in seguito alle agitazioni della clas- se operaia: situazione che poneva una riflessione agli esponenti comunisti riguardo alla linea da perseguire nei confronti di una categoria da sempre molto legata al partito. Inoltre espo- nenti comunisti emergenti criticarono la stessa gestione politica, affidata a Luigi Longo e a Enrico Berlinguer, “ritenuta eccessivamente possibilista verso il governo e la Dc.”9 In questa contingenza si tenne, a Bologna a metà febbraio 1969, il XII congresso del Pci ed emerse la presenza di una corrente autonoma10 all’interno del partito, che animò il periodico il Manife- sto, organo dal quale si argomentò la volontà di “un ritorno del Pci a un’azione politica rivo- 
7 È una corrente democristiana che nasce nel 1959 e si caratterizza per un cauto approccio al centro – sinistra e una particolare vicinanza alle dinamiche e agli interessi ecclesiastici e industriali. 
8 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996. Famiglia, società, Stato, Torino, Einaudi, 1998, p.366. 
9 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.364. 
10 I principali esponenti furono Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli e Lucio Magri: alcuni elementi di- rigenti della cosiddetta terza generazione.
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luzionaria e al suo tradizionale ruolo di rappresentanza delle forze operaie e proletarie.”11 Il gruppo fu radiato il 26 novembre 1969:12 era incolmabile la distanza che si era frapposta fra questi esponenti e la “politica gradualistica”13 del Pci per ipotizzare una soluzione alternativa alla scissione, la quale però avvenne per volontà dell’organo direttivo del partito “che trovava incompatibile con i principi del centralismo democratico l’esistenza di una dissidenza orga- nizzata all’interno del Pci.”14 
Un Esecutivo di ripiego e una classe politica fragile e frammentata si trovarono a fron- teggiare la contestazione studentesca prima, l’autunno caldo in seguito: fuori dalle sedi istitu- zionali c’era da misurarsi con nuovi interpreti che segneranno la storia italiana di questo peri- odo. 
1.2 LA CONTESTAZIONE STUDENTESCA.15 
Da un lato una classe dirigente inerte e imbrigliata nelle sue stesse logiche interne, dall’altro una protesta che andava crescendo nelle università. La contestazione prendeva le mosse dalle riforme scolastiche degli anni Sessanta: nel 1962 fu introdotta la scuola media dell’obbligo fino a quattordici anni, formando così un sistema di istruzione a livello di massa che, pur dando nuove possibilità a quanti provenivano dai ceti medi e dalla classe operaia, che spesso decidevano di iscriversi anche all’università, non era in grado di sostenere un cambia- mento di tale portata, considerando che “l’ultima seria riforma universitaria risaliva al 1923 e 
11 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.364. 
12 Il gruppo del Manifesto divenne il più autorevole di tutti quei gruppi e movimenti che, sorti all’estrema sinistra dello schieramento politico istituzionale, saranno conosciuti con l’appellativo di “gruppuscoli”. 
13 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.364. 
14 Ivi, p.365. 
15 Per lo svolgimento del paragrafo ci siamo avvalsi prevalentemente dei riferimenti presenti in P. Ginsborg, Sto- ria d’Italia 1943 – 1996.
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da allora si era fatto ben poco per rispondere ai bisogni di un numero quasi decuplicato di stu- denti”.16 
Si andava delineando un sistema d’istruzione liberalizzato, ma che dava vita a “una forma di selezione di tipo classista:”17 prova ne sia la bassa percentuale di studenti lavoratori, o comunque provenienti dalle classi sociali meno agiate, che riuscivano a conseguire la laurea (nel 1966 solo il 44% a fronte dell’81% di quanti, in possesso di licenza media superiore, si iscrissero all’università). Inoltre il titolo di studio non era garanzia di un posto di lavoro: “la “massificazione” produceva immediatamente la svalutazione del titolo accademico”.18 
Il Sessantotto si pose in contrapposizione ai valori introdotti dal “miracolo economico” nella società: il consumismo, l’individualismo, la famiglia e l’importanza attribuita alla tecno- logia. La rottura interessò quindi anche il versante ideologico, in primo luogo con una rivisi- tazione critica del pensiero cattolico e di quello comunista: le due teorie più importanti e se- guite in Italia. “L’attenzione era rivolta, assai più che in passato, alla necessità di una maggio- re giustizia sociale e alla formazione di comunità di base fondate su un forte senso di colletti- vità e solidarietà.”19 Inoltre si andò a riscoprire il pensiero marxista, che si intersecò con un sempre maggiore interesse verso le dinamiche in atto nella classe operaia. 
La matrice ideologica comune a tutte le componenti di questa stagione poggiava sull’azione collettiva, sulla solidarietà e sulla contrapposizione a ogni forma di ingiustizia so- ciale. Il Sessantotto varcò quindi l’ambito studentesco e, secondo lo storico Paul Ginsborg, assunse i caratteri di “una rivolta etica”,20 corroborata, su scala internazionale, dalla tensione emotiva e politica suscitata dalla guerra in Vietnam e dalla Rivoluzione culturale cinese. 
I prodromi del Sessantotto italiano risalgono al biennio 1965 – 1966. Il 1965 fu attraver- sato dai malumori per la proposta di riforma universitaria avanzata dal ministro della Pubblica 
16 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.359. 
17 Ivi, p.360. 
18 M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2009, p.25. 
19 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.361. 
20 Ivi, p.362.
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istruzione Luigi Gui;21 nel 1966, per la prima volta, fu occupata la facoltà di Sociologia di Trento e, nel corso della primavera, a Roma, perse la vita lo studente socialista Paolo Rossi, aggredito da un gruppo neofascista nel periodo delle elezioni degli organi rappresentativi ac- cademici. L’accaduto inasprì il clima in tutto il Paese e portò alle prime occupazioni anche nella Capitale. 
La prima svolta maturò nel febbraio 1967, quando si registrò l’occupazione dell’Università di Pisa; nell’autunno – inverno seguirono altre importanti occupazioni: di nuovo Sociologia a Trento; a metà novembre l’Università Cattolica di Milano in seguito a un aumento delle tasse. Il 27 novembre 1967 fu la volta dell’ateneo di Torino: “dal dicembre 1967 al febbraio 1968 il movimento si diffuse per tutto il paese.”22 
Un nuovo momento decisivo si ebbe il 1° marzo 1968 in quella che viene ricordata co- me “la battaglia di Valle Giulia” ovvero il tentativo, da parte degli studenti, di rioccupare la Facoltà di architettura di Roma sgombrata in precedenza dalla polizia. Da questo momento in poi aumentò sempre più il livello di violenza nel corso delle dimostrazioni. 
La primavera 1968 segnò il punto più alto della contestazione; di lì a poco, pur non e- saurendosi, iniziò il declino. Un nuovo “soggetto – rivoluzionario”, così indicato dagli stessi studenti, stava ponendosi all’attenzione nel contesto italiano: la classe operaia. 
1.3 L’AUTUNNO CALDO. 
La protesta all’interno dell’università stava scemando, ma i contestatori guardavano con interesse ad altre realtà per espandere in vari strati sociali le istanze di trasformazione. Una prima interazione si ebbe fra gli studenti e i promotori delle riviste operaiste (come Quaderni 
21 Filo conduttore della contestazione studentesca, il disegno di legge n.2314 prevedeva, come punti salienti, la pianificazione degli interventi su ricerca, didattica ed edilizia, portando a un sistema di iscrizioni a numero chiu- so. Il disegno di legge contemplava inoltre la formazione di dipartimenti mediante l’accorpamento di insegna- menti e l’istituzione di tre livelli di laurea. 
22P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.364.
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rossi e Classe operaia) così denominate “perchè sottolineavano la centralità della classe ope- raia nel conflitto di classe e il suo bisogno di una organizzazione autonoma”.23 
Le collaborazioni del 1968 – 1969 tra studenti e operaisti portarono “all’emergere delle organizzazioni della Nuova Sinistra: da Avanguardia operaia a Potere Operaio e a Lotta Con- tinua.”24 
L’uscita dall’università era avvenuta e aveva portato a un contatto più diretto con le ri- vendicazioni del movimento operaio. Se il 1968 era stato l’anno degli studenti, il 1969 si sa- rebbe caratterizzato come quello degli operai. Come accadde per la contestazione studentesca, anche le rivendicazioni operaie di fine anni Sessanta ebbero un principio: a Torino, tra il 6 e il 10 luglio 1962, i metalmeccanici della Fiat scioperarono in piazza Statuto contro l’accordo a- ziendale stipulato dai sindacati (Cgil, Cisl e Uil) riguardo al rinnovo del contratto nazionale di categoria; nel corso delle giornate di mobilitazione si verificarono violenti scontri con le forze dell’ordine con numerosi feriti, fermi e arresti . Un dato si pone all’attenzione: “l’esistenza di fasce di lavoratori che non si riconoscevano nelle organizzazioni sindacali e che dunque non si sentivano da queste rappresentati”.25 
Il periodo che separa il 1962 dalla fine del decennio non portò migliorie per gli operai: le dinamiche sviluppatesi avevano anzi acuito “il conflitto di classe.”26 Una prima questione è legata alla ripresa, nel 1967, dell’emigrazione dal Sud verso le mete industriali del centro – nord della Penisola, fenomeno che aveva subito una flessione nel biennio precedente. Questo secondo flusso migratorio dovette far fronte a un’integrazione ancor più difficile rispetto al primo (1958 – ’63) sia per le precarie condizioni abitative in cui i nuovi arrivati venivano ac- colti nelle grandi città (aspetto che rimase costante da fine anni Cinquanta – primi anni Ses- 
23 D. Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960 – 1995, Bari, Laterza, 1996, p.24. 
24 Ibidem. 
25 M. Tolomelli, Il Sessantotto, op. cit., p.76. 
26 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.371.
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santa) sia perché, nonostante la ripresa economica del 1966,27 l’offerta lavorativa rappresenta- ta dagli operai provenienti dal Mezzogiorno non poteva essere assorbita per intero da un mer- cato che si andava sempre più frammentando e che sperimentava, per la prima volta, gli effetti di un sistema scolastico di massa: da un lato escluse dalla fabbrica un numero più elevato di giovani rispetto al passato, “accentuando così la rigidità dell’offerta in questo segmento di mercato;”28 dall’altro portando – per mezzo dei nuovi assunti – una base culturale nuova e più solida, acuì la consapevolezza riguardo alla realtà in cui si era inseriti. Non è improprio ravvi- sare “un legame – come afferma Ginsborg – tra l’aumento dell’istruzione e le agitazioni dell’<<autunno caldo>>.”29 
A seguito del biennio 1964 – 1965 le condizioni di lavoro in fabbrica subirono modifi- che non favorevoli per gli operai: aumento della meccanizzazione, incremento dei ritmi lavo- rativi, diffusione del cottimo quale principale sistema di retribuzione, mancanza di tempo li- bero,30 un crescente autoritarismo da parte dei vertici aziendali e casi di discriminazione verso soggetti politicamente attivi. Proprio nell’anti-autoritarismo si può ravvisare un’importante comunanza fra lavoratori e studenti già a partire dalla primavera del 1968. 
Lo stesso periodo fu indicativo anche per quel che riguarda il rapporto tra operai comuni e sindacati di base, in quanto molti lavoratori continuavano a non sentirsi rappresentati da Cgil, Cisl e Uil e, di conseguenza, diedero vita a una protesta spontanea “attraverso l’azione dei comitati unitari di base”:31 questa iniziativa rappresentò il principale punto d’incontro con gli studenti, ma soprattutto fece da volano per una presa di coscienza delle rivendicazioni ope- raie da parte dei sindacati di base, i quali andarono maturando il progetto di tradurre la prote- 
27 La ripresa economica italiana del secondo dopoguerra aveva subìto una flessione nel periodo che va dal 1963 al 1964, caratterizzato soprattutto da forti tassi inflazionistici. 
28 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.373. 
29 Ibidem. 
30 A tal proposito Tolomelli ne Il Sessantotto fornisce un dato significativo: la settimana lavorativa dei metallur- gici comprendeva quarantotto ore lavorative esclusi gli straordinari. 
31 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.370.
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sta operaia “in un programma di riforme (la casa, la scuola, gli ospedali, il Mezzogiorno)”,32 cercando così di sopperire alla crisi dei partiti e svolgendo anche “un fondamentale ruolo di mediazione”33 verso le componenti più radicali dello spontaneismo operaio. 
In una situazione in cui i principali sindacati non erano ancora del tutto attivi sul fronte delle rivendicazioni, i due poli più dinamici furono Torino e Milano, come conferma l’ingente partecipazione alla prima importante manifestazione, nel marzo 1968, allorchè i sindacati a- vevano proclamato uno sciopero per ottenere migliorie nel sistema pensionistico. Il mese suc- cessivo, nel capoluogo piemontese, gli operai della Fiat protestarono contro “una revisione del sistema retributivo a cottimo e una riduzione della settimana lavorativa da quarantotto a qua- rantaquattro ore”;34 primi segnali di una centralità degli stabilimenti Fiat in questi processi che, con il trascorrere del tempo, assunse carattere nazionale. 
Nel capoluogo lombardo si verificò l’esperienza più significativa di questa “prima fa- se”: quella della Pirelli Bicocca.35 A fronte di un’assunzione di duemila operai, si doveva af- frontare il rinnovo del contratto di lavoro di categoria, che scadeva il 31 dicembre 1967. Le trattative non furono prive di turbolenze: i sindacati, nonostante l’appoggio allo sciopero di tre giorni indetto dalle tute blu, accettarono, nel febbraio 1968, un contratto che lasciava molto insoddisfatti i lavoratori della gomma.36 Il malcontento si tradusse – nel giugno 1969 – nella formazione del Comitato unitario di base (Cub) così da poter continuare a far valere le proprie istanze nella fabbrica; l’iniziativa riscosse adesioni superiori alle attese e diventerà il modello per le altre organizzazioni di lotta aziendale. 
Le richieste degli operai avevano, come sfere di interesse principali, il miglioramento delle condizioni lavorative e del sistema retributivo; quindi figuravano l’abolizione del cotti- 
32 Ibidem. 
33 M. Tolomelli, Il Sessantotto, op. cit., p.96. 
34 Ivi, p.77. 
35 Cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, pp.376-377. 
36 La delusione era dovuta al fatto che il documento prevedeva esigui aumenti salariali e non contemplava mi- gliori condizioni di lavoro.
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mo, l’abbassamento dei ritmi di produzione, la riduzione delle differenze salariali fra operai e impiegati e fra gli stessi operai, il passaggio automatico degli operai comuni – dopo un certo numero di anni di servizio – a una categoria superiore, e ancora la sicurezza sul posto di lavo- ro e l’abolizione delle cosiddette “gabbie” salariali.37 La richiesta che mirava a imprimere una svolta nel mondo del lavoro “riguardava la rottura del legame tra aumenti salariali e aumento della produttività”;38 i primi avrebbero dovuto essere indipendenti dalla produzione aziendale o dalle congiunture economiche; si tendeva, in questo modo, a ridurre i margini di sfruttamen- to dei lavoratori. 
Anche le modalità di insubordinazione rappresentarono delle novità: gli scioperi si arti- colavano in brevi e ripetute interruzioni in reparti di volta in volta diversi, nondimeno era l’intera catena produttiva a subire disagi.39 Inoltre, sempre all’interno degli edifici, si comin- ciarono ad animare assemblee e cortei. 
L’apice di questa “prima fase” di proteste risale all’estate 1969 ed ebbe come teatro gli stabilimenti Fiat di Mirafiori; la data più indicativa è quella del 3 luglio: giorno di sciopero generale proclamato dai sindacati per il diritto alla casa. In quel contesto un cospicuo gruppo di operai di Mirafiori e di altre fabbriche del capoluogo piemontese fece partire un corteo au- tonomo40 e, come già in altre occasioni, ci furono violenti scontri con la polizia. Ai fatti della “battaglia di corso Traiano” seguirono assemblee di massa, in cui si ebbe l’impressione che operai e studenti stessero “formando una vera alleanza, su base rivoluzionaria”.41 
37 Per “gabbie” salariali si intendeva un diverso riconoscimento economico, a fronte dello svolgimento dello stesso lavoro, a seconda delle diverse zone del paese in cui si operava. Il principale discrimine si giocava sull’asse Nord – Sud. 
38 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1843 – 1996, op. cit., p.378. 
39 Le stesse definizioni delle nuove modalità di sciopero sono evocative del disegno sotteso: per sciopero a gatto selvaggio si intende l’interruzione del lavoro di un intero reparto attraverso fermate improvvise; lo sciopero a singhiozzo coinvolgeva l’intera fabbrica, all’interno della quale si alternavano brevi periodi di lavoro ad altri di fermo; lo sciopero a scacchiera prevedeva invece che differenti settori della fabbrica scioperassero per un breve tempo in momenti differenti, questo faceva si che, in ogni momento, ci fossero reparti attivi ed altri no. 
40 È in quest’occasione che viene coniato lo slogan “Che cosa vogliamo? Tutto!”. 
41P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.380.
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L’estate – autunno 1969, oltre ad avere come protagonisti le componenti che volevano “imprimere alle proteste una svolta rivoluzionaria”,42 conobbe anche la risposta dei sindacati, decisi a far proprie le rivendicazioni e quindi a “<<cavalcare la tigre>> dell’attivismo opera- io”,43 all’interno del quale, nonostante tutto, i consensi erano ancora molto elevati. Cgil, Cisl e Uil riuscirono nell’intento anche perché si posero in “parziale autonomia”44 rispetto ai partiti che, come detto, spesso si trovarono impreparati ad affrontare le istanze di cambiamento. I sindacati aspiravano a costruire un “fronte unitario”, dove confluissero anche “le nuove ri- chieste e forme di lotta che venivano dalla base”45 per potersi porre – forti degli appoggi su scala lavorativa e non solo – come veicolo per il conseguimento di quelle riforme mai realiz- zate dalla classe politica. 
Sulla scorta di queste premesse iniziò, nel settembre 1969, l’“autunno caldo”,46 che a- vrebbe avuto, come tappa fondamentale, il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (in sca- denza il 31 dicembre 1969),47 per il quale i sindacati di base avevano concordato una linea comune in luglio. Fra settembre e ottobre, in un clima di tensione, si susseguirono scioperi, serrate e manifestazioni; i due poli di riferimento si confermarono Milano (Pirelli Bicocca) e Torino (Fiat Mirafiori). I lavoratori ottennero importanti risultati, soprattutto il rinnovo del contratto degli edili (8 novembre) e quello dei lavoratori dell’industria chimica (7 dicembre) a pari condizioni: aumenti salariali, orario settimanale di quaranta ore e diritto di assemblea. Il 29 novembre, a Roma, una manifestazione nazionale dei metalmeccanici sollecitò il rinnovo del contratto di categoria. L’11 dicembre il Senato approvò lo Statuto dei diritti dei lavoratori, inoltre fu siglato il rinnovo del contratto dei bancari. 
42 M. Tolomelli, Il Sessantotto, op. cit., p.97. 
43 P. Ginsborg, Storia d’Italia1943 – 1996, op. cit., p.380. 
44 Ibidem. 
45 Ivi, p.381. 
46 L’espressione fu pronunciata, per la prima volta, dal leader del Psi Francesco De Martino ai primi di settembre del 1969 in un intervento alla Camera. 
47 Il rinnovo venne siglato il 21-22 dicembre 1969 e contemplò aumenti uguali per tutti, le quaranta ore settima- nali e diritti sindacali.
15 
Il 1969, oltre che per i processi di trasformazione in ambito lavorativo, fu caratterizzato anche da numerosi episodi eversivi che lo costellarono: “a partire dal 3 gennaio 1969, ci sono stati 145 attentati: dodici al mese, uno ogni tre giorni”,48 i più noti dei quali sono le bombe del 25 aprile alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale di Milano e, in secondo luogo, la serie di ordigni esplosi nella notte tra l’8 e il 9 agosto su treni dislocati in vari luoghi della Penisola. Inoltre il 19 novembre, a seguito di scontri fra le forze dell’ordine ed esponenti dell’Unione dei marxisti – leninisti, che stavano sfilando in corteo davanti al Teatro Lirico di Milano (do- ve si era appena concluso un comizio sindacale sul diritto alla casa) morì – in circostanze che rimangono oscure – l’agente di Pubblica sicurezza Antonio Annarumma. I funerali del fun- zionario di polizia furono l’ennesimo monito del clima di tensione che stava pervadendo il capoluogo lombardo.49 
Ma c’è un ultimo fatto da ricordare: il 12 dicembre 1969 alle 16,37 nella Banca Nazio- nale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano esplose una bomba. Morirono quattordici persone e circa novanta restarono ferite, tre delle quali non sopravvissero. Una strage. 
48 AA. VV., La Strage di Stato. Controinchiesta, Roma, Samonà e Savelli, 1970, p.16. 
49 Nel corso delle esequie esponenti neofascisti misero in atto episodi di violenza verso aderenti al Movimento Studentesco e alla Nuova Sinistra.
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CAPITOLO 2. LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA – PROLOGO. 
La strage di Piazza Fontana si insinuò, fin da subito, nelle coscienze e nelle menti delle persone. Questo luogo, che galleggia fra l’Università Statale in via Festa del Perdono e piazza Duomo,1 si pose all’attenzione dell’opinione pubblica. 
La <<GRANDE MILANO>> ha appreso la notizia della strage di piazza Fontana dalla radio e dalla TV: solo chi si trovava al centro si è reso conto che qualche cosa di grave era accaduto e la notizia è corsa di bocca in bocca. […] Sono cominciate le telefonate ai giornali: voci preoccupate e poi sbalor- dite, nessun commento, una sola domanda: <<Chi è stato?>>.2 
La tensione fu accresciuta dalla paura; fin dalle prime ore successive all’attentato si alimentò il dibattito: si azzardarono le prime interpretazioni dell’accaduto, si cercarono risposte che non potevano esserci ed emersero – inevitabili – le divergenze politiche. 
Organi istituzionali e privati disposero una serie di misure in segno di cordoglio e di lutto: il sindaco di Milano Aldo Aniasi proclamò il lutto cittadino, fece sospendere gli spetta- coli teatrali (fra cui la replica de <<Il barbiere di Siviglia>> alla Scala), ordinò le bandiere ab- brunate fuori dagli uffici pubblici e la disattivazione delle luminarie natalizie. I partiti, i con- sigli comunali di Milano e di molte altre città scrissero documenti di cordoglio per le vittime e di condanna per l’attentato, esempio seguito anche dai sindacati e da numerose altre associa- zioni. Analoghi messaggi giunsero da Roma: dalla Camera, dal Senato e dal Presidente della Repubblica. Chiusero anche i cinema del centro a partire dal penultimo spettacolo serale; nu- merosi negozi abbassarono le saracinesche in segno di lutto. Molti privati cittadini si presenta- rono, di propria iniziativa, agli ospedali milanesi dove venivano portati i feriti – il Policlinico, il Fatebenefratelli e l’Ospedale Maggiore – per donare il sangue. Personale sanitario si recò, sempre in modo volontario, nelle medesime strutture per aiutare i colleghi. 
1 Ermanno Rea accosta piazza Fontana, nella geografia politica del periodo, a una sorta di spartiacque fra una zona sud contestatrice, rappresentata dall’Università, e una zona nord di estrema destra rappresentata da piazza San Babila. Cfr. E. Rea 12 dicembre, in AA. VV., Le bombe di Milano, Parma, Guanda, 1970, p.61. 
2 E. Lucchi, La notizia ai milanesi dai giornali e dalla TV, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.4.
17 
La sera del 12 dicembre 1969 si percepiva la stra-ordinarietà del momento. Se, come ricorda Corrado Stajano, in pochi andarono a dormire perché “si temeva il colpo di Stato”,3 ciononostante si continuava a cercare il confronto, la condivisione. Due furono le dimensioni di quella sera milanese: la periferia, più distante dall’accaduto, ma non per questo meno par- tecipe; infatti “nelle famiglie si attendeva l’ultimo telegiornale”,4 come I mangiatori di patate ritratti da Vincent Van Gogh5 catapultati però in un’epoca industriale e tecnologica in cui è proprio dalla televisione che ci si aspetta un fascio di luce sugli avvenimenti. Altri invece scelsero il ritrovo abituale del bar, ma il copione rimaneva il medesimo, come emerge dalla testimonianza di un barista del Giambellino6 raccolta dall’inviato de Il Giorno Enzo Lucchi: 
<<Non fanno neppure la partita a tresette, vede? – ci ha detto un barista del Giambellino -. Stanno qui a discutere la tragedia di piazza Fontana e non guardano neppure la commedia, ma debbo tenere acce- so perché aspettano le notizie, poi tutti a casa>>7. 
Questi avventori del bar ricordano un’altra comunità vittima di una tragedia: quella consuma- tasi il 9 ottobre 1963. Marco Paolini, narratore teatrale, racconta la storia8 di quel mercoledì sera, in cui nei locali di Longarone, il centro più vitale della valle di Erto e Casso9, si assisteva all’incontro di Coppa dei Campioni fra Rangers Glasgow e Real Madrid, che era trasmesso alla televisione. Quella sera fu spezzata alle 22,39, quando dal monte Toc franò “una massa compatta di 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti”10 che andò a finire nel bacino sotto- stante – creato dalla diga del Vajont – sollevando così una “massa d’acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate.”11 La catastrofe distrusse cinque 
3 C. Stajano, La città degli untori, Milano, Garzanti, 2009, p.65. 
4 E. Lucchi, art. cit. 
5 Il pittore olandese realizzò il dipinto, oggi conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam nella primavera del 1885. L’opera rappresenta una stanza in cui alcuni contadini, in condizioni di miseria, consumano il pasto serale. Van Gogh mostra così la fatica del lavoro dei campi, ma anche la dignità di queste persone – percepibile dalle loro pose e dalle loro espressioni – nonostante le loro precarie condizioni di vita. L’autore non è mosso da intenti di denuncia sociale, ma da un sentimento di solidarietà verso i contadini. 
6 Il Giambellino è un quartiere che si trova nella periferia ovest di Milano. 
7 E. Lucchi, art. cit. 
8 M. Paolini, Vajont 9 ottobre ’63. Orazione civile, Torino, Einaudi, 2008. 
9 Questo centro, in provincia di Belluno, viene chiamato dagli abitanti della zona la “piccola Milano”. 
10 Cfr. www.vajont.net. 
11 Ibidem.
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paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè; i morti furono circa duemila12. Durante quella notte Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa a Longarone, dettò alla redazione questo incipit che avrebbe aperto il servizio del quotidiano piemontese sull’accaduto: “Scrivo da un paese che non esiste più”.13 
Due comunità simili nel senso collettivo della tragedia, nell’innocenza e nell’impotenza di fronte a essa. Due comunità che corrono parallele, ma vicine sui binari della memoria e dell’indignazione, spesso labili e fluttuanti, di chi “viene dopo” ed è per questo che ciascuno potrebbe sentire come propria la riflessione di Marco Paolini: “mi vergogno di non aver saputo e poi di aver saputo e aver dimenticato questa Strage di Stato – afferma l’attore bellunese – che come uomo non posso ancora tollerare in silenzio.”14 
Il centro di Milano, caotico e trafficato come di solito non avviene a fine giornata, fu invece l’altra dimensione della sera di Piazza Fontana: “i curiosi volevano <<vedere>> la scena della strage della banca”,15 inoltre "c’erano anche capannelli tutt’intorno a piazza Fon- tana: cittadini non più giovani che commentavano, molti sostavano come in raccoglimento, non dicevano una parola e se ne andavano”.16 
Altre persone si recavano all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele II, nei pressi del luogo dell’accaduto, dove era stato collocato un registro funebre, per apporre la propria firma.17 A fronte di queste manifestazioni di cordoglio, ci fu spazio anche per una provoca- zione a sfondo politico-ideologico: giovani esponenti dell’estrema destra intonarono slogan a favore delle forze dell’ordine, promesse di vendetta per la morte dell’agente Annarumma e 
12 La tragedia del Vajont fu imputabile, secondo numerose opinioni, anche ad errori umani; il sito www.vajont.net ne sintetizza tre: aver costruito la diga in una valle che non aveva i requisiti geologici idonei per supportare una tale opera, l’innalzamento della quota d’acqua del lago artificiale oltre i limiti di sicurezza e, infi- ne, non aver dato l’allarme, la sera del 9 ottobre, per evacuare le popolazioni che si trovavano in una zona a ri- schio di inondazione. Dietro questi errori si ravvisarono interessi di carattere economico, che non tennero conto dei limiti imposti dalla componente naturale e territoriale e della situazione di pericolo in cui si sarebbe fatta vi- vere la popolazione che qui abitava. 
13 Cfr. Incipit d’autore, la difficile arte di affascinare i lettori, www.stylos.it. 
14 M. Paolini, Il racconto del Vajont. 1956/9-10-1963, in “Note d’autore”, www.jolefilm.com. 
15 E. Lucchi, art. cit. 
16 Ibidem. 
17 Cfr. C. Cederna, Il fucile del droghiere, in AA. VV., Le bombe di Milano, op. cit., p.92.
19 
accuse di assassinio per quanto successo nel pomeriggio; “alcuni avevano bastoni: altri si da- vano da fare per formare gruppetti minacciosi attorno a chi osava esprimere parole di sde- gno.”18 La situazione rimase nei limiti di una relativa tranquillità finchè non arrivò, in piazza Fontana, un gruppo di studenti proveniente dall’Università Statale. In quel momento 
sono volate le prime offese reciproche, poi si è acceso qualche parapiglia: polizia e carabinieri, mentre un commissario ordinava col megafono di sciogliersi, sono intervenuti decisamente e la gazzarra è sfumata nelle vie adiacenti,19 
ma le azioni riprovevoli non terminarono con questo episodio, infatti 
una cinquantina di fascisti hanno tentato una sortita verso mezzanotte: i facinorisi, che si erano <<trincerati>> dietro ai cavalletti tolti dal vicino cantiere di demolizione dell’ex-Commercio, sono stati però dispersi definitivamente.20 
In questo contesto di caos e di smarrimento prese avvio anche l’azione dei giornalisti della carta stampata: furono loro che, monitorando la situazione del capoluogo lombardo, ve- nendo a conoscenza degli ordigni inesplosi a Roma21 e alla Banca Commerciale di Milano, accorrsi in piazza Fontana per raccogliere le prime testimonianze dei sopravvissuti e degli a- stanti, ebbero il compito di ripercorrere quel pomeriggio appena concluso, proponendone la ricostruzione e le interpretazioni. Parole e pagine che alimenteranno un dibattito dalla lunga gittata, che si declinerà nella memoria, nel monito, nella cronaca e nella storia di quel periodo. 
Il 13 dicembre 1969, un giorno sospeso tra i tempi del passato, del presente e del fu- turo, l’opinione pubblica lesse sui giornali, per la prima volta in modo organico, la cronaca e le riflessioni di un fatto che, per tutti, rimarrà nella memoria con il nome di Piazza Fontana: un sito che potrebbe, a buon diritto, entrare nel novero dei “luoghi della memoria”,22 dove, a una dimensione materiale e architettonica, si congiungono entità effimere ma parimenti solide e durature come le parole e i ricordi. 
18 E. Lucchi, art. cit. 
19 Ibidem. 
20 Ibidem. 
21 Un ordigno esplose in un passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, altri due scoppiarono all’Altare della Patria, nei pressi del sacrario del Milite Ignoto. È da ricordare che i quotidiani del 13 dicembre 1969 non riportarono i medesimi orari delle deflagrazioni e che discordanze si ravvisarono anche con gli orari indicati dalla magistratura. 
22 Riprendiamo questa definizione dal titolo di una collana curata da Mario Isnenghi per i tipi di Laterza e deno- minata appunto I luoghi della memoria.
20 
2.1 13 DICEMBRE 1969: GLI EDITORIALI. 
La strage di piazza Fontana monopolizzò le prime pagine dei quotidiani del 13 di- cembre. Se ampio spazio era riservato all’elemento visivo23 attraverso fotografie e titoli a tutta pagina, ciascuna testata affidò alla “prima” anche una riflessione sull’accaduto attraverso edi- toriali24 redatti dalle proprie firme più autorevoli. 
Il tono degli articoli presi in esame è sospeso tra lo sgomento e la volontà di reagire all’accaduto. Le conoscenze erano ancora troppo esigue per poter rispondere anche alle più elementari domande che l’opinione pubblica si stava ponendo, così “i primi commenti dei maggiori quotidiani del 13 e del 14 dicembre – scrive Paolo Murialdi – sono generici, impo- stati sulla difesa delle posizioni politiche sostenute da ciascun giornale.”25 Nonostante questa fosse la condotta generale, ogni editorialista fece delle scelte che, come bussole, iniziarono a orientare i lettori. 
Gli editoriali tentarono di contestualizzare un evento, come Piazza Fontana, fino a quel momento unico nel secondo dopoguerra italiano e in tempo di pace ma, in mancanza di dati certi su cui lavorare, cercarono appigli nella Storia sia recente sia pregressa. I due episodi più citati furono l’attentato al teatro Diana di Milano del 23 marzo 192126 e la morte dell’agente Annarumma, avvenuta poche settimane prima del 12 dicembre 1969: due avveni- menti dal forte impatto emotivo sul pubblico e che, come la strage di piazza Fontana, spacca- rono l’opinione pubblica per i risvolti che ne derivarono e per le questioni irrisolte. 
23 La fotografia dell’atrio sventrato della Banca Nazionale dell’Agricoltura, che apparve in prima pagina sul “Corriere della Sera”, divenne emblematica dell’avvenimento. Cfr. www.corriere.it. 
24 L’editoriale è un articolo in cui un giornalista esperto (e che gode di un certo credito da parte del pubblico del- la testata) analizza un fatto importante di attualità. Di solito, quello che viene scritto nell’articolo, rappresenta il punto di vista della redazione nel suo complesso. 
25 P. Murialdi, Gli anni del centrosinistra, in La stampa italiana del dopoguerra vol.II, Bari, Laterza, 1978, pp.533-534. 
26 La strage del Diana segnò il periodo che precedette la marcia su Roma e la presa del potere da parte del fasci- smo. Si trattò di un attentato dinamitardo, messo in atto da un gruppo anarco-individualista milanese, volto a colpire il questore di Milano Giovanni Gasti, il quale riuscì a salvarsi. In quella circostanza persero la vita ventu- no persone e ottanta rimasero ferite.
21 
L’articolo di commento del Corriere della Sera,27 non firmato, dal titolo Difendere la libertà, collocato nel taglio basso della pagina, cita, in poco più di due colonne,28 per due volte la strage del Diana; la prima menzione: “non sono possibili termini di confronto; non basta nessun richiamo o parallelo storico, con la sola eccezione della strage del <<Diana>>, nella Milano infuocata dell’altro dopoguerra”.29 
L’autore afferma l’unicità dell’episodio, ma riesce a trovare una similitudine storica che innesta deduzioni e correlazioni fra i due avvenimenti. I punti in comune che, al 13 di- cembre 1969 si potevano riscontrare fra le due vicende, erano: il cospicuo numero di vittime e l’ubicazione nel capoluogo lombardo; altre attinenze avrebbero dovuto essere valide solo co- me ipotesi e nulla più. Il Corriere della Sera però, lo stesso giorno, nella sezione Corriere mi- lanese, ritorna una terza volta sulla vicenda del teatro Diana con una ricostruzione più minu- ziosa, ma scoperchiando il tema che nel precedente articolo era rimasto tra le righe: la matrice anarchica dell’attentato, già dal sottotitolo del pezzo (La bomba esplose la sera del 23 marzo 1921 e uccise ventun persone – Autori furono tre anarchici).30 L’incipit “Milano subisce la seconda ondata di anarchica violenza della sua storia”31 può prestarsi a facili connotazioni di carattere ideologico, in un momento in cui le indagini sulla strage di piazza Fontana non ave- vano ancora prodotto alcuna certezza. Dopo aver rimarcato che l’attentato fornì ai fascisti un’ulteriore occasione per compiere azioni violente, come l’aggressione alla sede de l’Avanti la notte stessa del 23 marzo 1921, la conclusione dell’articolo: “dal processo il movimento anarchico milanese uscì distrutto. Ma aveva contribuito, in maniera non modesta, all’ascesa del fascismo e alla morte di ogni libertà”,32 offrì una disamina parziale che non tiene in ade- guata considerazione da un lato l’entusiasmo e l’appoggio di cui il fascismo godeva nei primi 
27 Il quotidiano milanese di via Solferino era proprietà della famiglia Crespi ed era diretto da Giovanni Spadolini. 
28 Per la precisione nello spazio di ottantanove righe. 
29 Difendere la libertà, “Corriere della Sera”, 13 dicembre 1969, p.1. 
30 A. Grisolia, Un tragico precedente: lo scoppio al Diana. La bomba esplose la sera del 23 marzo 1921 – Autori furono tre anarchici, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.9. 
31 Ibidem. 
32 Ibidem.
22 
anni Venti da parte delle classi sociali più agiate, dall’altro la necessità costante dei totalitari- smi di ricercare capri espiatori per giustificare le proprie efferatezze. 
Un secondo quotidiano che ricordò la deflagrazione del Diana fu La Stampa:33 l’espediente fu impiegato a fini cronologici e numerici, per rilevare che Milano, dal 23 marzo 1921 al 12 dicembre 1969, è la città che “ha il triste primato degli attentati”.34 Il quotidiano piemontese però si concentrò su un altro parallelo fra atti terroristici che appaiono ancor più spaventosi perché caratterizzati dalla simultaneità e quindi dalla premeditazione: 
gli attentati di ieri ricordano dunque la <<notte di fuoco>> dell’8 agosto, alla vigilia delle grandi va- canze, quando dieci bombe furono collocate su treni; ma ieri l’azione dinamitarda non voleva diffon- dere il panico: si proponeva di uccidere.35 
L’eccezionalità della strage del 12 dicembre, introdotta dall’avversativa, risiede, a detta di Carlo Casalegno, nel suo scopo. Anche questo paragone storico, così come quello dell’attentato del 1921, non riesce nella sua funzione: le differenze emergono con maggior forza rispetto alle somiglianze. 
L’editorialista del Corriere d’Informazione36 scrisse dell’attentato al Diana ma, a dif- ferenza degli altri due giornali, la menzione si discostò dalla similitudine storica per proporre una contrapposizione basata su termini propri di una sfera trascendente: “ieri a Milano, la città più viva d’Italia, era di casa la morte, come la sera del 23 marzo 1921, per la strage del Dia- na”.37 A conferma del tono aulico e dell’uso di categorie immateriali per raccontare i fatti del giorno precedente, così l’articolo parlò della bomba inesplosa a Milano alla Banca Commer- ciale: “ieri è stato miracolo se alle vittime della Banca dell’Agricoltura non si sono aggiunti quelli di cui un altro ordigno avrebbe potuto popolare le macerie della Banca Commerciale”.38 
33 “La Stampa” è fra i principali quotidiani nazionali e ha sede a Torino. Dal 1926 è proprietà della famiglia A- gnelli. Nel 1969 il direttore era Alberto Ronchey. 
34 C. Casalegno, Prenderli ad ogni costo, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.1. 
35 Ibidem. 
36 Il “Corriere d’Informazione” fu un quotidiano del pomeriggio pubblicato a Milano dal maggio 1945 al maggio 1981. Parte del gruppo editoriale del “Corriere della Sera” ne condivideva proprietà e direzione ed ebbe il ruolo di edizione pomeridiana. La redazione era separata da quella della testata principale. 
37 Mosca, Un impegno per tutti, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.1. 
38 Mosca, art. cit.
23 
L’eccidio del Diana e gli attentati dell’8 agosto 1969 erano avvenimenti già metabo- lizzati dall’opinione pubblica; la morte dell’agente Annarumma, avvenuta il 19 novembre 1969, parlava ancora più alle emozioni che non alla razionalità delle persone. Il giorno stesso della morte del poliziotto il presidente della Repubblica Saragat, attraverso un telegramma,39 si schierò con le forze dell’ordine e fece propria “la tesi dell’assassinio politico”;40 il 13 di- cembre Nino Nutrizio, dalle pagine de La Notte,41 lamentò che l’accaduto del giorno prece- dente “è stato favorito dal disarmo morale e materiale della polizia”,42 riaprendo il dibattito sul disarmo della polizia, diventato centrale dopo i fatti di Battipaglia del 9 aprile 1969,43 e corroborando la difesa delle forze dell’ordine nonchè l’importanza del loro ruolo con queste parole: “quando, a duecento metri da piazza Fontana, morì l’agente Annarumma, si disse che era stata una provocazione della Polizia. Ieri la Polizia non c’era. I morti sì”.44 
Corriere della Sera e Corriere d’Informazione parlarono dell’episodio del 19 no- vembre enfatizzandone la vicinanza rispetto al 12 dicembre: “il dolore e lo sbigottito silenzio caduti su Milano per la morte dell’agente Annarumma sono di neppure tre settimane fa”,45 e cercando di rassicurare i lettori attraverso i propositi delle istituzioni, anche se non mancarono critiche alle forze politiche per le condizioni di governo in cui versava l’Italia: 
il presidente del Consiglio, Rumor, che governa in condizioni di tanto tragica impotenza politica per colpa delle indecifrabili lotte dei partiti e dei sottopartiti, ha preso solenne impegno con il paese che nulla sarà lasciato di intentato per scoprire chi ha distrutto vite umane e gettato un’intera città, una cit- tà come Milano, nella desolazione e nel dolore: a venti giorni dall’eccidio del povero agente Anna- rumma.46 
39 Cfr. G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Torino, Einaudi, 2011, p.49. 
40 Ibidem. 
41“La Notte” fu un quotidiano pomeridiano milanese pubblicato dal 1952 al 1995. Fu finanziato dall’industriale bergamasco Carlo Pesenti e diretto dall’anno della sua comparsa fino al 1979 da Nino Nutrizio. 
42 N. Nutrizio, Violenza e odio, “La Notte”, 13 dicembre 1969, p.2. 
43 A Battipaglia, il 9 aprile 1969, a seguito della decisione di chiudere la manifattura dei tabacchi e lo zuccherifi- cio (le due aziende che davano lavoro a metà della popolazione della città) si ebbero scontri fra i dimostranti contrari a questa risoluzione e le forze dell’ordine. La polizia sparò sui manifestanti, uccidendo due persone. La questione del disarmo della polizia fu discussa alla Camera nella sedutà del 29 aprile 1969. 
44 N. Nutrizio, art. cit. 
45 Mosca, art. cit. 
46 Difendere la libertà, art. cit.
24 
La promessa di Rumor era inevitabile, ma non si comprende il nesso con la morte di Annarumma, se non come una critica alle istituzioni giudiziarie; commento condiviso dal Corriere d’Informazione47 e da La Nazione,48 che parlò di “angosciati, drammatici interroga- tivi”49 posti dai cittadini ai governanti. Il giornale fiorentino e La Notte furono molto vicini nel rimprovero alla classe politica: il quotidiano del pomeriggio milanese si spinse a dire che “siamo arrivati a questo punto per i maledetti partiti e la maledetta politica”;50 Enrico Mattei, definì il dibattito sui responsabili della strage una “disputa settaria basata sul vuoto, degna del villaggio delle scimmie immortalato da Kipling”;51 preferì sposare la teoria degli opposti e- stremismi,52 aggiungendovi però una postilla: 
sappiamo che in Italia esiste una triste violenza di destra, come esiste una violenza di sinistra, che è oggi assai più temibile anche se tanti nostri colleghi, per apparire democratici (e non farsi attaccare dai comunisti) fingono di non accorgersene.53 
Queste parole fanno scivolare il giornalista in quella disputa ricusata solo poche righe prima e dimostrano come i propositi di genericità, ricordati da Murialdi, degli editoriali del 13 dicem- bre 1969 vengano soppiantati, nel breve volgere di un articolo, a favore della già menzionata linea editoriale. 
La teoria degli opposti estremismi fu abbozzata anche da altri editorialisti in ossequio alla volontà di rimanere su posizioni generali e di proporre piuttosto una contrapposizione fra Bene e Male: per il Corriere della Sera l’intento sotteso a Piazza Fontana fu “colpire a morte, come si usa dire con linguaggio orecchiato, <<il sistema>>, egualmente combattuto dagli op- 
47 “Non ci avevano assicurato che ben poche sarebbero state, ancora, le ore di libertà dell’assassino? Niente. Il silenzio continua. Nei tribunali la polvere cade su centinaia di denunce per attentati, violenze, sopraffazioni i cui autori girano liberi nella tranquilla attesa d’una condanna che non verrà”, Mosca, art. cit. 
48 “La Nazione” era e rimane il principale quotidiano fiorentino; all’epoca di Piazza Fontana era proprietà della famiglia Monti ed era diretto da Enrico Mattei. 
49 E. Mattei, La verifica, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.1 
50 N. Nutrizio, art. cit. 
51 E. Mattei, art. cit. 
52 Con l’espressione “teoria degli opposti estremismi” si intende, all’epoca dei fatti di piazza Fontana, mettere in risalto una situazione di conflitto politico fra i gruppi extraparlamentari di destra e di sinistra e le loro azioni vol- te a contrastare le istituzioni dello Stato. 
53 E. Mattei, art. cit.
25 
posti totalitarismi”;54 La Stampa operò il discrimine riguardo agli obiettivi degli attentati di Milano e di Roma che “forse sono stati colpiti come simboli del <<sistema>>, forse per un’abile manovra provocatoria”.55 Il Corriere d’Informazione, in un secondo articolo di commento, dopo aver decretato che gli autori della strage operarono “da professionisti dell’assassinio anarchico ed estremista”,56 invitò i partiti alla coesione e all’azione “senza fare ipotesi che coinvolgano o un rigurgito di destra sulla falsariga autoritaria dei colonnelli ate- niesi o una mostruosità maoista che colpisce gli altari della patria (il Vittoriano) e del capitali- smo (le banche)”.57 La credibilità istituzionale, in quel momento, era incarnata da Saragat,58 “che ha interpretato lo sgomento del paese, da vecchio socialista e democratico che ha cono- sciuto gli orrori della violenza e le conseguenze funeste di attentati analoghi tipo Diana”.59 Es- sendo già stato citato quest’ultimo episodio, si sarebbero potuti ricordare altri avvenimenti fu- nesti del recente passato italiano che riguardarono in prima persona il presidente della Repub- blica, come la scelta dell’esilio durante il ventennio fascista e, nel 1943, al suo ritorno per combattere contro la Repubblica di Salò, l’arresto e la detenzione nel carcere romano di Regi- na Coeli. 
Il Corriere d’Informazione, mantenendo un andamento dell’articolo carico di pathos, portò a confini messianici le parole quirinalizie: “in tanta miseria, unico spiraglio di luce, uni- co motivo di conforto la fermezza e la decisione che spirano dal messaggio del presidente del- la Repubblica”.60 Di tenore prosaico e strumentale il riferimento de La Notte al passo del tele- gramma in cui sono chiamate in causa le autorità giudiziarie,61 in calce al quale Nutrizio 
54 Difendere la libertà, art. cit. 
55 C. Casalegno, art. cit. 
56 A. Spinosa, Evitare la via dell’avventura, “Corriere d’Informazione”, 13 dicembre 1969, p.1. 
57 Ivi, p.2. 
58 Il presidente della Repubblica, a seguito dell’attentato di Piazza Fontana, inviò un telegramma al presidente del Consiglio trascritto e commentato da molti quotidiani il 13 dicembre 1969. Per il contenuto del messaggio, cfr Saragat condanna la violenza omicida, “Corriere della Sera”, 13 dicembre 1969, p.1. 
59 Difendere la libertà, art. cit. 
60 Mosca, art. cit. 
61 “Tocca all’autorità giudiziaria, innanzi alla quale giacciono numerose denunce per istigazione ad atti di terro- rismo”, Saragat condanna la violenza, art. cit.
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snocciolò un trittico di domande: “come reagirà la Magistratura?”,62 si chiese il direttore della testata milanese per poi presentare due possibilità disgiuntive e retoriche; prima ipotesi: “a- scolterà questo monito, davanti alle quattordici bare che fra qualche ora sfileranno per le vie di Milano?”.63 Seconda ipotesi, dove si percepisce anche una vena di sarcasmo: “o continuerà a lasciar giacere quelle pratiche, quasicchè si trattasse di banali contravvenzioni di sosta vieta- ta?”.64 A fronte di queste parole di sfida, Carlo Casalegno, nel suo editoriale su La Stampa, accostò le parole di Saragat a quelle del presidente del Consiglio Mariano Rumor e a quelle del presidente della Camera Sandro Pertini per suggerire al pubblico la compattezza e l’unità d’intenti delle tre cariche dello Stato65. 
Fra gli articoli di fondo, che seguirono la strage di piazza Fontana, si distinse Senza esitazione, apparso su l’Unità66: Sergio Segre, fra i condirettori della testata comunista, non diede spazio a vaghezze discorsive e politiche, ma argomentò: “gli attentati di ieri hanno una firma chiara, e inequivocabile. La firma è quella di provocatori fascisti e reazionari.”67 Questa frase, attorno a cui ruota tutto il pezzo, può essere oggetto di obiezioni68: il giorno dopo l’attentato non era possibile manifestare una tale sicurezza sulla sua matrice, ma lo stesso comportamento lo tennero anche altri quotidiani, solo preoccupandosi di dissimulare il pro- prio orientamento e peraltro non riuscendovi. Due modi differenti di affrontare l’esposizione dei fatti, ma con il medesimo risultato. 
62 N. Nutrizio, art. cit. 
63 Ibidem. 
64 Ibidem. 
65 Il quotidiano piemontese riprese a pagina 2, nella loro interezza, i messaggi di Saragat, di Rumor, di Pertini e aggiunse le parole del presidente del Senato Fanfani e del papa Paolo VI. Cfr. Saragat: <<La tragica catena va spezzata ad ogni costo>>, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.2. 
66 “l’Unità” è una testata che fu fondata da Antonio Gramsci il 12 febbraio 1924; fu organo ufficiale del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita fino al 1991. Nel dicembre 1969 il quotidiano era diretto da Gian Carlo Pa- jetta. La sede centrale si trova a Roma. 
67 S. Segre, Senza esitazione, “l’Unità”, 13 dicembre 1969, p.1. 
68 Il direttore de “La Notte” riportò, nel suo pezzo, la frase sopra citata di Segre facendo del sarcasmo e non con- dividendo le posizioni dell’editorialista de “l’Unità”. Cfr. N. Nutrizio, art. cit.
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Segre scorse nella strage di piazza Fontana un disegno eversivo di destra sulla scorta del modello ateniese,69 che avrebbe avuto propaggini “per tentare di sovvertire, anche nel no- stro Paese, l’ordinamento democratico”,70 bloccando un processo di sviluppo e di riforme che aveva avuto il suo apogeo nell’autunno caldo. Come in altri articoli si fece ricorso a rimandi storici, in questo caso non tanto a fini di contestualizzazione, quanto come moniti: “il fasci- smo in Italia è morto il 25 aprile 1945. Nessuno potrà mai più fargli rialzare la testa. L’Italia della Resistenza e della Costituzione è forte abbastanza per impedirlo”.71 Si propose una con- cezione di storia come maestra di vita, affermando che “la carta del 1960 e del 196472 non possono illudersi di poterla più giocare”.73 Il richiamo a questi fatti storici volle tradursi in un appello all’azione, argomentato con la ripetizione, a cui è affidata la coesione del discorso, della frase “non si può esitare”74 e designando come protagonisti “tutte le forze democratiche ed antifasciste, tutti i lavoratori”, categorie vicine al Pci, cui fu dedicata una chiusa che tradi- sce l’influenza del partito sul giornale: se nulla lasciò dubitare riguardo all’impegno di Botte- ghe Oscure nella congiuntura politica che si era venuta a creare a seguito di Piazza Fontana, enfatica appare la “grande forza” che Segre rivendicò per il suo partito. 
69 La Grecia fu teatro di un colpo di Stato, il 21 aprile 1967, che instaurò quella che sarebbe passata alla storia come la dittatura dei colonnelli e che durò fino al 1974. 
70 S. Segre, art. cit. 
71 Ibidem. 
72 Il 1960 fu caratterizzato, in Italia, dal Governo presieduto da Fernando Tambroni a cuì si imputò l’appoggio del Msi e le misure repressive usate dalla polizia durante le manifestazioni e gli scioperi in maggio e in giugno. I fatti più preoccupanti per le sorti del Paese si verificarono in luglio, quando il presidente del Consiglio autorizzò il Msi a tenere il proprio congresso nazionale a Genova nella prima settimana del mese. Il capoluogo ligure reagì con una protesta che si propagò in tutta la penisola. Il Pci sospettò di una vicinanza fra forze di Governo e gruppi neo-fascisti e la possibilità di un colpo di Stato. La congiuntura politica e sociale portò alle dimissioni di Tam- broni il 9 luglio. Nel 1964, a seguito della crisi del Governo di centro-sinistra presieduto per la prima volta da Aldo Moro, il presidente della Repubblica Antonio Segni e il comandante generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, con l’appoggio del Sifar (Servizio informazioni forze armate), prospettarono un colpo di Stato per in- staurare un Governo di centro-destra ed estromettere i socialisti. Fu il settimanale L’Espresso a fare queste rive- lazioni, smentite dai diretti interessati, ma non dal processo seguito alla querela di De Lorenzo nei confronti della testata giornalistica. 
73 S. Segre, art. cit. 
74 Ibidem.
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L’articolo di fondo del 13 dicembre 1969, apparso su Il Giorno,75 a firma Italo Pietra, presentò peculiarità non riscontrabili in altri pezzi: l’incipit “ci sono tante maniere di far poli- tica: e, fra le tante, c’è quella delle bombe”,76 lascia intravedere una riflessione storica dettata dall’esperienza partigiana del direttore del quotidiano milanese, che valutò la politica delle bombe “una scelta dolorosa, ma può risultare necessaria nel quadro delle grandi lotte di libe- razione”77 e, dopo aver ricordato le più recenti lotte di emancipazione terzomondiste, inqua- drò la situazione italiana come “lontanissima da quei climi e da quelle necessità”, pur non mancando di elencare, attraverso la ripetizione della particella “c’è”, i fenomeni che stavano caratterizzando la fine degli anni Sessanta nel nostro Paese: la crisi politica, l’autunno caldo, “la fuga dei capitali” e la necessità di riforme sociali. 
Il linguaggio si concede poche espressioni auliche e metaforiche: “il tallone chiodato del nazismo che pesa su tutti i cuori”, “le unghie tigrate dei paracadutisti che difendono la be- stia del colonialismo” e infine, riguardo ai momenti successivi la strage di Milano: “l’aria è ancora lacerata dalle sirene delle autolettighe”; le altre parti dell’articolo mantengono uno sti- le piano. Pietra, fra gli editorialisti considerati, è colui che riesce a mantenere il maggior di- stacco analitico rispetto alla vicenda, anche quando risponde alla domanda principale sul mi- stero che circonda l’attentato di piazza Fontana: “chi è stato? A chi assegnare la responsabili- tà? Non ci sono, in questo momento, elementi per rispondere con sicurezza.” Poi l’articolo torna a descrivere la vicenda italiana, questa volta dal punto di vista politico: da un lato “c’è una estrema destra – scrive il direttore de Il Giorno – che fa largo consumo di slogan cinquan- tenni”, dall’altro “c’è il cosiddetto neoanarchismo” ed è a questo punto che il giornalista in- troduce una considerazione politica, rimproverando, in relazione al diffondersi del neoanar- 
75 “Il Giorno” è un quotidiano milanese fondato nel 1956 dall’editore Cino Del Duca con l’ENI di Enrico Mattei e Gaetano Baldacci come direttore. Nel 1959 Del Duca lasciò e venne alla luce la propietà, che era così suddivi- sa: il 49% dell’ENI di Enrico Mattei, un altro 49% dell’IRI e il restante 2% del ministero delle Partecipazioni Statali. Il proprietario della testata era, di fatto, lo Stato, che licenzierà Gaetano Baldacci, cui fu concesso di sce- gliere il suo successore; la scelta cadde su Italo Pietra che diresse il quotidiano dal 1960 al 1972. 
76 I. Pietra, Non si illudano, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.1. 
77 Ibidem.
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chismo, scelte orientate “al massimalismo piuttosto che al riformismo”; Pietra avvalora la sua tesi con un’incursione nella Grecia dei colonnelli e una nella Praga del biennio 1968 – 1969: la contrapposizione si gioca fra la strada dei totalitarismi e quella “della democrazia e delle riforme.” 
La conclusione del pezzo è perentoria nella sua rassicurazione: “non s’illudano, quel- li del terrore: non passeranno”, ma fa trapelare anche un monito del direttore de Il Giorno: “e non si illudano le forze della destra economica e della conservazione, use a utilizzare lo spau- racchio del disordine per trattare la politica da vassalla e per frenare le riforme”; per conclude- re con una personale certezza democratica: “la democrazia cammina” e riformista: “le rifor- me, necessarie alla sua vita e al suo consolidamento, passeranno.” 
L’analisi degli editoriali del 13 dicembre 1969 pone all’attenzione la sopraffazione dell’opinione personale nei confronti delle pretese di oggettività: logica che, in parte, rientra nella stesura dell’articolo di fondo, ma che rischia di travalicare il fatto in sé. Gli editorialisti assumono, nelle loro colonne, il ruolo di storici e di creatori di opinioni. 
Il 12 dicembre 1969, ogni testata inviò, nella piazza milanese della strage, i propri cronisti per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti alla bomba e degli astanti; l’occhio dei giornali si focalizzò su chi aveva vissuto in prima persona l’attentato; queste parole furono le prime memorie di Piazza Fontana. 
2.2 13 DICEMBRE 1969: I GIORALISTI SUL POSTO, LE TESTIMONIANZE. 
Il racconto è un esercizio di condivisione del vissuto, dove l’esperienza incontra e stimola la curiosità. In piazza Fontana si voleva sapere da coloro che c’erano stati: solo loro potevano tracciare la descrizione del quadro nel suo divenire fino alla fine, solo loro potevano dare le prime sfumature al giallo della strage, solo loro potevano spostare l’asse della narra-
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zione dal piano della fantasia a quello della realtà. A raccogliere queste parole, come mondine in un campo di riso, i giornalisti: “fare domande per un giornale – scrive David Randall – ha un solo scopo: raccogliere informazioni, soprattutto dettagli”78 ovvero le primissime fonti di un evento, che in seguito sarà canonizzato. Giorgio Boatti, nel suo saggio su Piazza Fontana, ricorda un uomo con i vestiti a brandelli “dagli occhi deliranti di terrore che stava scappan- do”,79 appena dopo l’esplosione della bomba, lungo corso Vittorio Emanuele: prima testimo- nianza corporea dell’accaduto, antecedente la televisione, la radio e i giornali, riservata a un gruppo di casuali fruitori. L’episodio del “testimone sconosciuto” fu raccontato il 13 dicem- bre 1969 in un articolo apparso sul Corriere della Sera; il giornalista riuscì a cogliere, o a far- si riportare, una frase: “hanno cercato di chiedergli il suo nome, dove abitasse. <<I morti non si chiamano più>>, ha risposto e non c’è stato modo di fermarlo, di soccorrerlo”.80 
Il passato suggestiona il presente, “l’assurdo è di voler rompere il tempo infinito tra- scorso da allora, quarant’anni quasi”81 riflette l’io narrante del saggio in forma di narrazione scritto da Corrado Stajano sulla città di Milano. Oggi, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, c’è la fermata del tram; nel 1969 non c’era, “quella sera avrebbe reso ancor più opprimente la ressa delle ambulanze, delle barelle, dei carri dei pompieri”.82 La piazza, progettata dall’architetto Giuseppe Piermarini sul finire del Settecento, era, già all’epoca dell’eccidio, zona di passaggio dei mezzi pubblici, per esempio degli autobus della linea N, tratta sulla quale si trovava, al momento della deflagrazione, l’allievo sottufficiale di PS Mi- chele Priore il quale intuì che lì vicino c’era bisogno di aiuto: “l’autobus ha traballato, i pas- seggeri hanno gridato di paura e io ho urlato di fermare, di aprire la portiera”;83 di fronte alla 
78 D. Randall, Il giornalista quasi perfetto, Bari, Laterza, 2009, p.110. 
79 G. Boatti, Piazza Fontana, op. cit., p.4. 
80 Lutto cittadino per il barbaro eccidio, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.8. 
81 C. Stajano, La città degli untori, op. cit., p.61. 
82 Ivi, p.62. 
83 Lutto cittadino per il barbaro eccidio, art. cit.
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visione che gli si parava davanti, dopo aver “incontrato un uomo senza un braccio”84 e dopo aver cercato di portare il proprio contributo ai soccorsi, un’ammissione che non si presta a fa- cili eroismi: “sono stato sul punto di fuggire”85 e una confessione: “è stata la pietà, non il co- raggio a farmi restare”.86 
La medesima circostanza può far incontrare diverse persone per caso o seguendo una precisa volontà: i cronisti sperano nel primo, rimediano con la seconda. Nel ricordo di Stajano è un tassista che, durante la corsa, gli comunica la notizia della strage e a quel punto comincia la sua azione giornalistica: “gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa”.87 Il caso e il libe- ro arbitrio possono intrecciarsi: a tanti, quasi tutti i presenti di Piazza Fontana, toccò questa sorte. Un’esperienza, su cui si concentrarono i giornali, fu quella di don Corrado Fioravanti, forse il primo a prestare soccorso dentro la banca: “era proprio vicino alla porta quando ha sentito una tremenda esplosione. Le schegge delle vetrine gli sono schizzate addosso. Poi del- le urla spaventose”.88 La testimonianza del parroco di Cinisello Balsamo diventò importante per chiarire i primi aspetti dell’accaduto, dal momento che “le notizie della strage sono ancora imprecise. Le domande si accavallano”,89 la più ricorrente: “quanti morti, don Corrado? An- che donne?”.90 L’abito del sacerdote attirò a sé alcuni feriti: “mi è venuta incontro una ragaz- za – racconta il prete – senza un braccio; con l’altro mi ha tirato la tonaca: ’Padre, ci aiuti!’ Altri mi hanno tirato la veste, invocando di aiutarli”91 e poi le ultime parole di un signore che stava morendo: “più avanti c’era un uomo che mi sembrava senza gambe. Mi sono chinato per 
84 Ibidem. 
85 Ibidem. 
86 Ibidem. 
87 C. Stajano, La città degli untori, op. cit., p.62. 
88 M. Zoppelli, Ero cappellano so riconoscere l’odor di miccia, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.3. 
89 Ibidem. 
90 Ibidem. 
91 Lutto cittadino per il barbaro eccidio, art. cit.
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dare anche a lui l’assoluzione e ho sentito che mi diceva:’Sono di Novara. Avvertite i miei’. Deve essere morto subito dopo”.92 
Don Fioravanti, oltre al racconto di questa “specie di bolgia dantesca”,93 come lui stesso definì l’interno della banca, spiegò il motivo per cui l’esplosione non derivava da una caldaia, ma da una bomba: “appena sono entrato nel salone ho avvertito l’odore dell’esplosivo: sono stato cappellano militare e certi odori, purtroppo, li riconosco”.94 Solo La Nazione, che nell’articolo non citò nemmeno il nome del prete, riportò questa istantanea del sacerdote: “uscì piangendo e disse, davanti al cielo una frase che forse riassume, da sola, tutto quanto è accaduto: <<Non c’è più Dio>>. Disse proprio così: <<Non c’è più Dio>>”.95 Risul- ta arduo scorgere in queste parole lo stesso prete che, per quanto turbato dall’evento, riuscì a prestare la sua opera e ad avanzare un’ipotesi, che poi si rivelerà veritiera, sulla matrice dell’esplosione. In alcuni casi sui giornali si scivolò verso iperboli che caricavano di ulteriore pathos una circostanza che non aveva certo bisogno di questo e di altri supplementi, che con- tribuirono ad accrescere nell’opinione pubblica una “febbre emotiva”96 che, nel corso dei giorni, subirà molti picchi e rivestirà un ruolo considerevole, purtroppo anche fuorviante, nel- la percezione del fatto. Il periodo dell’anno, a ridosso di Natale, contribuì a questo cortocir- cuito emotivo; non mancarono le contrapposizioni tra l’“atmosfera calda della vigilia delle fe- ste”97 e il tragico colpo di scena di quel pomeriggio: “il suono sinistro delle sirene raggela la folla, mentre come in un lampo il primo annunzio della strage vola da un capo all’altro del centro”.98 
92 P. Radius, I testimoni raccontano la strage, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.4. 
93 Ibidem. 
94 W. Semeraro, <<Hanno coperto col tricolore uno dei morti dilaniati>>, “La Notte”, 13 dicembre 1969, p.4. 
95 E. Tortora, Non c’è più Dio!, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.3. 
96 P. Baldelli, Informazione e contro informazione, Milano, Mazzotta Editore, 1976, p.151. 
97 E. Passanisi, <<Assassini!>> ha gridato la folla, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.10. 
98 Ibidem.
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I giornali enfatizzarono l’accaduto anche focalizzando il sistema di valori di cui Mi- lano da un lato e le vittime dell’attentato dall’altro sarebbero stati interpreti e che la strage a- vrebbe tentato di distruggere; analisi che si presta a una latente interpretazione politica. Il quo- tidiano del pomeriggio Corriere d’Informazione così personificò le generalità delle persone che persero la vita il 12 dicembre: “sono nomi che sembrano tolti di peso dalle porte di una casa di ringhiera appoggiata sul greto del Naviglio”99 e ancora “erano tutti insieme <<a botte- ga>>, a fare milanesemente i loro contratti”.100 Queste suggestioni saranno riprese nei giorni successivi insieme alla vicenda di Enrico e Patrizia Pizzamiglio, due giovanissimi fratelli, che erano a passeggio in centro e che si trovavano in banca per fare un favore ai genitori. Enrico subì l’amputazione di una gamba, Patrizia riportò gravi ustioni. La sola notizia di una simile fatalità, che ha fatto trovare due persone così giovani in mezzo a una strage, non richiederebbe ulteriori commenti, ma “non è il primo dramma per i Pizzamiglio. Di recente – chiosa Il Giorno – il padre ha subito l’amputazione di una gamba in seguito a un incidente strada- le!”;101 e poi un ulteriore particolare: “per colmo di disgrazia, pare che Patrizia abbia perduto la notevole somma di denaro con la quale doveva ritirare la cambiale”.102 La Nazione seguì l’arrivo al Policlinico della ragazzina che “dice di chiamarsi Patrizia Pizzamiglio e invoca, piangendo, notizie del fratello Enrico”;103 la domanda venne soddisfatta da una risposta che il cronista ricostruisce così: “le dicono che è grave, gravissimo, chissà se potranno salvarlo”.104 Per il giornalista in queste contingenze “la regola d’oro è l’immedesimazione”,105 processo che Giampaolo Pansa esplicitò in una riflessione, “penso a mio figlio. Penso ai genitori di 
99 V. Notarnicola, I vivi e i morti di Piazza Fontana, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.3. 
100 Ibidem. 
101 G. Pinasi – S. Battaglioli, Un bambino ha perso una gamba ustionata la sorella, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.6. 
102 Ibidem. 
103 L. T., La tragedia di un bimbo, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.4. 
104 Ibidem. 
105 D. Randall, Il giornalista quasi perfetto, op. cit., p.197.
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quel bambino e mi sento svenire per l’ira e il dolore”,106 attraverso la quale si colgono la pre- occupazione e l’impotenza collettiva. 
Nel campo dei ricordi che rivivono la presa diretta di quel pomeriggio, quelli di Ca- milla Cederna, giornalista de L’Espresso107, iniziano poco dopo l’esplosione della bomba, con la telefonata di un conoscente: “corri subito in piazza Fontana, dev’essere successo qualcosa. Chi dice lo scoppio di una caldaia, chi dice una bomba. Ci sono molti morti”.108 Bisognava andare a verificare la notizia e, “spinta da una curiosità quasi morbosa”,109 una volta arrivata al giardino della banca, dopo aver sopravanzato le forze dell’ordine e la folla, il primo sinto- mo tangibile dell’accaduto: “piedi umidi di colpo, mi entra il sangue nelle scarpe”.110 L’esperienza sensoriale ebbe rilievo nelle testimonianze e nelle cronache del 13 dicembre; la detonazione frantumò i vetri della banca che “scricchiolano sotto le suole delle scarpe”111 di chi entrò in seguito. Egidio Pinziroli, un impiegato sopravvissuto, rimase fuori dalla banca “in maniche di camicia. Fa freddo, ma lui non lo sente”.112 L’incredulità fece da sfondo alla per- cezione e, in alcuni casi, alimentò l’incertezza: “non ho sentito neanche un gran rumore – ri- corda un cliente della banca – o forse lo scoppio è stato così forte che non riesco neanche a ricordarmelo”;113 mentre Michele Carlotto, impiegato al reparto depositi fiduciari, sentì l’esplosione in tutta la sua potenza, dal momento che “quasi lo ha fatto diventare sordo”.114 La vista registrò istantanee non sempre traducibili in parole, come accadde all’addetto alle cal- daie Ambrogio Giambelli, il quale, dopo aver verificato che l’esplosione non era avvenuta nel 
106 G. Pansa, L’orrenda visione nella sala della Banca, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.2. 
107 “L’Espresso” è una rivista italiana fondata nel settembre 1955 da Arrigo Benedetti. La testata si occupa di po- litica, cultura ed economia. Nel 1969 direttore era Gianni Corbi, che subentrò a Eugenio Scalfari eletto alla Ca- mera dei deputati come indipendente nelle liste del Psi. Nel 1970, con direttore Livio Zanetti, il periodico si di- stinse per le sue inchieste sulla vicenda di piazza Fontana e sul caso legato a Pietro Valpreda. 
108 C. Cederna, Il mondo di Camilla, a cura di G. Cherchi, Milano, Feltrinelli, 1980, p.214. 
109 Ibidem. 
110 Ibidem. 
111 G. Zicari, La bomba conteneva sei chili di esplosivo, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.9. 
112 M. M., Dalla strage di Milano alle bombe di Roma, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.2. 
113 P. Radius, I testimoni raccontano la strage, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.4. 
114 Ibidem.
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sotterraneo dell’istituto, corse verso il salone e qui il suo racconto si blocca perché “se dico cosa ho visto non mi credono. Non ci credo ancora io”.115 L’olfatto servì a qualcuno, ad e- sempio al già citato don Fioravanti, che aveva avuto a che fare con precedenti bellici, per intu- ire che lo scoppio era da collegare a una bomba; per altri: “l’odore dolciastro del sangue delle vittime innocenti, dei feriti, si mischia a quello sinistro dell’esplosivo”.116 
Cederna menziona i racconti dei sopravvissuti attraverso le metafore che già dal 13 dicembre si cominciavano a rincorrere per ricondurre la strage di piazza Fontana nell’alveo di efferatezze note e radicate nell’immaginario collettivo: la più reiterata riguardò la guerra. Così la giornalista sintetizzò su L’Espresso quei primi racconti: “così cominciano i febbrili racconti degli scampati, le cui facce van deformandosi tutte nel parlare. La guerra, sì, come la guerra, i bombardamenti, il massacro, il caos, il macello”.117 Alfredo Masanzanica ricordò quando era soldato nella campagna di Grecia, voluta dal regime fascista, nei primi anni Quaranta “e cre- devo di averne visti di orrori […]. Ma uno scempio come questo mai.”118 Ancora Michele Priore: “nel salone della banca sembrava che fosse passata la guerra”.119 L’architettura bellica servì come paragone per il bancone a emiciclo dove si trovavano gli operatori bancari che a- veva fatto da barriera: “ci ha salvati questa trincea di legno compensato”,120 disse un impiega- to. Gian Pietro Testa (Il Giorno), nella sua cronaca, si avvalse di un’altra similitudine per de- scrivere la forza d’urto dell’esplosione: “decine di clienti vengono buttati all’aria come fuscel- li”121 e di una metafora per illustrare la situazione all’interno della banca subito dopo la defla- grazione: “è come entrare in un mattatoio, peggio”122 per poi pensare “è un raffronto irrive- 
115 M. Moscardi, Mi sono caduti in testa i calcinacci del soffitto, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.5. 
116 Caccia al criminale, “La Notte”, 13 dicembre, p.2. 
117 C. Cederna, Una bomba contro il popolo, “L’Espresso”, 21 dicembre 1969, p.2. 
118 P. Radius, art. cit. 
119 Ibidem. 
120 M. Fossati – G. Morrone, Dobbiamo la nostra vita al bancone di compensato, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.4. 
121 G.P. Testa, Infame provocazione, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.1. 
122 Ivi, p.24.
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rente”123 nei riguardi di chi visse in prima persona quel momento. L’accostamento potè appa- rire improprio ma risultò, nella sua durezza, veritiero: fu ripreso da Piero Papetti, uno dei feri- ti ricoverato al Fatebenefratelli, che così ricordò un particolare delle sue condizioni: “ero sporco che sembravo un macellaio”.124 Un altro ferito, Giulio Falappi, prese a prestito un e- vento naturale per spiegare l’effetto visivo dell’esplosione: “ho visto un lampo. Poi più nien- te.”125 Le testimonianze non differiscono molto fra le testate: come ricorderà Cederna, nelle adiacenze della piazza, “un racconto segue l’altro e sono tutti apocalittici”,126 come altrimenti non potrebbe non essere nelle prime parole di persone che hanno vissuto un’esperienza del genere; anche i giornali si lasciarono andare a espressioni del medesimo tenore, come accosta- re la banca “ad una vigna su cui sia passata una grandinata di fuoco”.127 
Ancora una volta si parla più alle emozioni che alla mente; i primi resoconti condu- cono i lettori là dove non erano: al centro della scena, della strage e sono le prime basi di una memoria condivisa, che si forma attraverso un processo di immedesimazione fondato sull’innocenza delle vittime, dei feriti, di chi non era presente, ma avrebbe potuto esserlo. L’orrore, lo sdegno, la rabbia e il terrore sono sentimenti che ci pervadono in breve tempo, non è così per processi più ragionati e meno istintivi. L’io narrante dell’opera di Stajano così ripercorre i momenti in cui, all’interno della banca appena colpita dall’esplosione, il flusso di pensieri ricomincia a scorrere dopo lo straniamento dovuto a quanto si è visto: “cominciavo lentamente a capire l’enormità di quanto era successo ma senza la percezione di trovarmi den- tro una storia di cui si sarebbe discusso per anni”.128 
Se la percezione è lasciata alla soggettività di ciascuno, alcuni articoli aiutarono la comprensione dell’evento, integrando la cronaca della strage con alcune considerazioni e u- 
123 Ibidem. 
124 C. Rossella, Parlano i feriti negli ospedali, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.3. 
125 Ibidem. 
126 C. Cederna, Il mondo di Camilla, op. cit., p.215. 
127M. Fossati-G. Morrone, art. cit. 
128 C. Stajano, La città degli untori, op. cit., p.64.
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sando un linguaggio molto asciutto e concreto, in accordo con il principio che capire “rende meno arduo controllare la paura”.129 Giorgio Bocca, sulle pagine de Il Giorno, scrisse un arti- colo di commento tentando di accostare le poche tessere del mosaico di Piazza Fontana, che potevano avvalersi del discrimine della certezza, e lasciando ogni altra considerazione tutta da verificare. Il giornalista nell’incipit parlò di “attentati alla democrazia”130 senza bisogno di at- tendere ulteriori notizie e indagini, per poi interpretare il fine della strage: “provocare una pro- fonda emozione nel Paese da sfruttare a fini politici”.131 Bocca offrì un ventaglio di possibilità sulla matrice della strage: provocazione di destra, provocazione di sinistra o provocazione proveniente dall’estero, ciascuna delle quali però non rispondeva a ipotesi legate alla natura della bomba, ovvero se fosse stato possibile parlare di un deprecabile errore, pur considerando comunque la gravità anche di questa evenienza, “qualora si trattava di una bomba a orologeri- a”, non finalizzata quindi a provocare una strage, ma a metter in scena un “atto dimostrativo” per creare terrore; oppure di una volontà omicida se la bomba era “a miccia breve”; conside- rando in ogni caso “terroristici e simbolici gli attentati alle banche, specie a quella di Milano”. L’articolo si chiudeva con l’esortazione alla classe politica e ai cittadini di non cedere a quell’emozione che l’attentato aveva voluto scatenare. 
Fernando Strambaci, cronista de l’Unità, ricostruì così “la cruda cronaca dell’agghiacciante tragedia”.132 Dopo aver riferito gli estremi cronologici e spaziali della vi- cenda,133 il primo segno dell’accaduto: al centro del salone, dove c’era un tavolo di legno ot- tagonale a uso dei clienti, il giornalista vide “un buco di ottanta centimetri di diametro attra- 
129 G. Boatti, Piazza Fontana, op. cit., p.10. 
130 G. Bocca, L’obbiettivo vero colpire la democrazia, “Il Giorno”, 13 dicmebre 1969, p.3. 
131 Ibidem. 
132 F. Strambaci, Un orrendo attentato provoca una terribile strage a Milano, “l’Unità”, 13 dicembre 1969, p.2. 
133 Nella cronaca di Strambaci si nota l’adesione al modello del giornalismo anglosassone, in particolare per quanto riguarda la regola delle 5 W, ovvero rispondere alle domande, ritenute fondamentali per la stesura di un articolo: who?, what?, where?, when?, why? (in italiano: chi?, cosa?, dove?, quando?, perché?). Il giorno dopo la strage di piazza Fontana non era possibile rispondere ad ognuna di queste domande.
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verso il quale si scorgeva uno dei sotterranei delle cassette di sicurezza”.134 Riferì poi dell’arrivo dei soccorsi, al quale seguì il chiarimento che azzerava la speranza che non si trat- tasse di un attentato: non un guasto alla caldaia, ma “qualcuno aveva deliberatamente provo- cato il massacro”135 e la concomitanza con gli altri attentati di Milano e di Roma faceva sup- porre che ci fosse “un disegno preordinato”. Dopo una breve allusione alle indagini, Stramba- ci si concentrò sulla ricostruzione dei fatti, dove i ricordi dei sopravvissuti, ancora molto scos- si per l’accaduto, si mescolano alle testimonianze materiali che il luogo offriva e “consente di immaginare che cosa è successo in quei momenti di terrore”. La confusione prese il soprav- vento, sia all’interno della banca, come confermato da un impiegato che, ricordando gli attimi successivi allo scoppio e il suo tentativo di portare soccorso ai feriti, ammise “è difficile coor- dinare le idee”, sia nelle zone limitrofe dove “è stato un fuggi fuggi di gente”. Strambaci quindi, grazie alle testimonianze, enucleò gli indizi che avrebbero confermato la premedita- zione della strage, che non era avvenuta per errore: la borsa, dove era collocata la bomba, si trovava sotto il tavolo centrale della banca, come era consuetudine dei clienti abituali; c’era la consapevolezza dell’orario prolungato di venerdì con la conseguenza “che la bomba sarebbe scoppiata quando la banca era ancora affollata”; infine, è la prova principale della volontà di uccidere, “l’ordigno era innescato con una miccia”. L’articolo proseguì con la cronaca del ri- trovamento della bomba alla Banca Commerciale di Milano fornendone due particolari: “la mano di specialisti” nella fabbricazione dell’ordigno e la descrizione della borsa, “nuovissima di similpelle nera, a soffietto, chiusa con una serratura d’ottone”, in cui era contenuto l’esplosivo; peculiarità che avranno grande importanza nelle indagini e nel dibattito su Piazza Fontana che seguiranno, insieme alla scelta degli artificieri di far brillare la seconda bomba. L’articolo si chiude con un resoconto della serata: il trasporto dell’ottava vittima all’obitorio, l’arrivo nel capoluogo lombardo del sottosegretario agli Interni Angelo Salizzoni, i fermi ope- 
134 F. Strambaci, art. cit. 
135 Ibidem.
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rati dalla polizia e i tafferugli verificatisi tra esponenti dell’estrema destra e del Movimento studentesco. 
La cronaca di Strambaci è attenta alle testimonianze e al susseguirsi degli eventi dall’esplosione della bomba fino alla sera del 12 dicembre. L’analisi dei fatti (si pensi alle os- servazioni relative alla bomba e alla dinamica del piano dell’attentato) prevale rispetto alla pura descrizione. L’inviato tratta gli avvenimenti con un distacco giornalistico che si ritrova, sulle pagine de Il Giorno nel pezzo di Gian Pietro Testa, che scrisse un resoconto dalla caden- za più vicina ai ritmi del racconto. Peculiarità dell’articolo è la rielaborazione delle testimo- nianze che non appaiono sotto forma di discorso diretto, ma inserite nel flusso della narrazio- ne. Dopo un’introduzione che si basava, come in quella apparsa su l’Unità, sulla regola delle 5 W, cominciò il racconto: “sono dunque le 16,37. L’ora è precisa, l’orologio elettrico del grande salone della banca si è fermato a causa dell’esplosione. È il primo dato certo”,136 a cui seguì la descrizione di ciò che gli agricoltori stavano facendo in piazza Fontana: “parlano di affari, di raccolti, di bestiame, contrattano, discutono”137 e del luogo: il salone della banca “ancora affollato di clienti”, circolare, alto “non meno di quindici metri, copre due piani”; in- fine il tavolone sotto cui fu posizionato l’ordigno. La narrazione si avvicina al momento cen- trale della deflagrazione che né la memoria né tantomeno la fantasia riuscirono a riportare nel- la sua interezza poiché “sono attimi fuggenti”. Testa provò a dar forma al momento dell’esplosione riproponendo l’offesa subita dai corpi, ma dovette arrendersi alla constatazio- ne che “il momento è indescrivibile”. Il giornalista-narratore propose delle riflessioni su que- sto momento e sulle sue conseguenze: l’accostamento fra l’effetto della bomba di piazza Fon- tana e i bombardamenti aerei della guerra, la metafora secondo cui “i muri del salone sono la testimonianza del massacro” e una domanda che il cronista rivolse in primo luogo a se stesso, solo in un secondo momento ai lettori: “Come si può descrivere un simile spettacolo?”. La ri- 
136 G. P. Testa, art. cit. 
137 Ibidem.
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sposta fu nel raffronto, già ricordato, con un mattatoio. L’azione riprese con il turbinio che seguì la deflagrazione, protagonisti furono gli esponenti involontari di una nuova categoria creata dalla strage, “sono gli scampati: urlano, sono le scene di panico comprensibili”; il ritmo della cronaca aumenta nel descrivere l’azione dei soccorsi: le telefonate, l’arrivo, le operazio- ni. Il racconto si sposta fuori dalla banca, fra la gente che, venuta a conoscenza della natura dell’esplosione cominciò a discutere in termini politici dell’eccidio, e fra le autorità che arri- varono sul posto verso le 17,20. Allo scoccare delle 18 “il grande salone della morte si vuota. Rimangono ancora gli inquirenti”, è il momento in cui la narrazione si sposta dal piano della strage a quello delle indagini e dell’inchiesta. Dalle investigazioni sul campo alla notte della Questura: i fermi, le perquisizioni e l’ipotesi, smentita dal diretto interessato, che un ferito a- vesse “visto due giovani allontanarsi in fretta e furia dopo la deflagrazione”. La chiusa dell’articolo, che apre ulteriori scenari nel campo delle indagini, parlò di un viaggio del vice- capo della squadra politica Luigi Calabresi138 per avere informazioni, ipotizzò il giornalista, “sull’attività nell’area del MEC (Mercato comune europeo) di una organizzazione greca”,139 argomento trattato il 12 dicembre da un giornale di Ginevra. 
Tra i cronisti di Piazza Fontana il servizio che realizzò Giampaolo Pansa, sulle co- lonne de La Stampa, coniugò il versante analitico con quello descrittivo. Se Strambaci fornì la sceneggiatura e Testa il canovaccio della vicenda, Pansa sembrò scrivere con una macchina da presa “una prima, convulsa cronaca della strage”.140 L’incipit, come si era verificato negli articoli degli altri due giornalisti, fornì le informazioni basilari del fatto: che cosa era succes- so, l’ubicazione, l’ora, il numero dei feriti e dei morti, rispondendo alla regola delle 5 W. Do- po aver aggiunto dei particolari alla descrizione della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in re- lazione alla sua posizione nella Milano della contestazione e dell’autunno caldo, il giornalista 
138 Nei giorni successivi alla strage di piazza Fontana, quasi tutti i giornali riportarono il nome del pubblico uffi- ciale con un refuso: Luigi Calabrese in luogo di Luigi Calabresi. L’errore fu forse dovuto alla presenza di un funzionario di nome Luigi Calabrese che lavorava presso la Questura di Milano nello stesso periodo. 
139 G. P. Testa, art. cit. 
140 G. Pansa, Un boato, una vampata, dovunque grida e lamenti, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.1.
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introdusse le prime testimonianze dei sopravvissuti e prese le mosse, con maggior cautela ri- spetto a Strambaci, per una ricostruzione: 
è probabile […] che il criminale abbia compiuto l’attentato proprio in questo modo, abbia, cioè nasco- sto l’ordigno esplosivo in una borsa o lo abbia avvolto in un pacco che poi, con freddezza, è andato a deporre sotto il banco ottagonale.141 
La riflessione si posa sull’esplosivo, di cui ancora non si conosceva la composizione, ma che il cronista, screditando l’ipotesi dell’attentato dimostrativo, considerò “confezionato per ucci- dere, e per uccidere nel modo più brutale e spaventoso”.142 Dopo la testimonianza di don Fio- ravanti, comparve sulla scena, in prima persona, il personaggio-giornalista: “io arrivo sul po- sto trenta minuti dopo l’esplosione”,143 inizio di un’interazione tra chi c’era e chi non c’era. Pansa si soffermò sulla distruzione materiale dell’edificio, per poi vedere “in questo caos fi- gure che – è terribile scriverlo – non hanno quasi più nulla di umano”.144 Dall’aspetto visivo, reso con questo inciso metagiornalistico vicino alla riflessione di Testa, si passa alle parole dei sopravvissuti, i quali avevano bisogno di far comprendere e di condividere quel che ave- vano subìto: “fuori trovo, ancora choccati, alcuni degli impiegati rimasti illesi o feriti in modo lieve. I loro racconti danno la misura della tragedia”;145 poi una metafora: “un inferno, vero, con fuoco e fiamme”,146 avallata dal racconto di un testimone. 
Pansa riportò altri racconti, infine la chiusa fornì le prime informazioni sulla bomba inesplosa alla Banca Commerciale e sulla nottata di indagini delle autorità e di dichiarazioni dei gruppi politici, ma soprattutto accostò questa strage di civili, similitudine presente anche nell’articolo di Testa, ai bombardamenti che colpirono Milano nell’agosto 1943. “Invano cer- chi tra la polvere, / povera mano, la città è morta”147 scrisse Salvatore Quasimodo per ricorda- re quel tempo. La strage di piazza Fontana condivide con i bombardamenti bellici oltre al do- 
141 Ibidem. 
142 Ibidem. 
143 G. Pansa, art. cit. 
144 Ibidem. 
145 Ibidem. 
146 Ibidem. 
147 S. Quasimodo, Milano, agosto 1943 in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1966, p.237.
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Tesi giornali e pza fontana

  • 1. 1 INTRODUZIONE. È il 12 dicembre 1969, ore 16,37, Milano, piazza Fontana, salone della Banca Nazio- nale dell’Agricoltura: una bomba esplode uccidendo quattordici persone e ferendone novanta. La storia d’Italia ebbe il suo più cruento spartiacque da quando la guerra era finita: alle sue spalle un “prima” tormentato ma vissuto; davanti a sé un “dopo” magmatico e ancora da af- frontare. Questo lavoro propone una ricostruzione della strage di Milano attingendo in partico- lar modo alle fonti rappresentate dagli articoli apparsi sui giornali nei giorni successivi al 12 dicembre e dalle testimonianze, che con gli anni presero forma di libro, dei giornalisti che vis- sero in presa diretta quell’evento. Evento che sarà osservato dall’angolatura della carta stam- pata, analizzando gli articoli scritti in quel periodo ed esaminando l’operato di chi li firmò. Lo studio muove dalle coordinate storiche del biennio 1968 – 1969 in Italia: un peri- odo caratterizzato dalla forte frammentazione politica, sia a livello generale sia all’interno dei singoli partiti, che portò all’immobilismo e al susseguirsi di Governi d’attesa incapaci di ri- spondere a una società in fermento che chiedeva riforme atte a migliorare le condizioni di vita generali. Un fermento che ebbe il suo apice con le esperienze della contestazione studentesca nelle università e dell’autunno caldo nelle fabbriche: due momenti che portarono alcune mi- gliorie nel campo dell’istruzione ma ancor più in ambito lavorativo; due momenti che stavano indicando la strada di un cambiamento. Ma questa stagione fu interrotta dalla strage di Mila- no. Il secondo e il terzo capitolo dell’elaborato entrano nel vivo della questione: si ana- lizzano i resoconti apparsi sui giornali il 13 e il 14 dicembre concentrandosi sia sugli editoriali scritti dalle firme più autorevoli delle varie testate, sia sulle testimonianze raccolte dai cronisti fra i sopravvissuti alla strage e fra la gente comune che aveva vissuto di riflesso la tragedia, infine dando conto dei primi passi mossi dagli inquirenti nella ricerca degli autori
  • 2. 2 dell’eccidio. Fin da subito si avverte il risvolto politico della vicenda: la maggior parte delle interpretazioni e delle opinioni sia dei giornalisti sia della gente prese forma da questa pro- spettiva; così si fece largo la tendenza a intuire la colorazione politica dei colpevoli. Altra ca- ratteristica che emerge è l’opacità che gravitò attorno ai fatti e alle indagini svolte. Il quarto capitolo avrà come oggetto il 15 dicembre 1969: il giorno dei funerali delle vittime innocenti della strage e della risposta spontanea e unitaria che Milano diede alla bom- ba, o meglio a chi l’aveva ordita. Ma il 15 dicembre registrò anche inquietanti colpi di scena: un anarchico in stato di fermo, Giuseppe Pinelli, nel corso di un interrogatorio volò dalla fine- stra di un ufficio al quarto piano della Questura di Milano; un altro anarchico, Pietro Valpre- da, presentatosi al Palazzo di Giustizia di Milano per rendere conto di un volantino anticleri- cale, alla fine dell’interrogatorio si vide portato via di peso da due agenti della squadra politi- ca: su di lui cadde l’accusa di reato di strage, sarebbe stato lui a uccidere. La chiave di volta la offrì un tassista milanese, Cornelio Rolandi, che sostenne di aver trasportato un cliente nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura poco prima dell’esplosione. Quel cliente sareb- be stato Pietro Valpreda. In questi tre episodi si possono scorgere tre elementi che accompa- gnarono la vicenda di Piazza Fontana: la voglia di reagire e di non cedere a tentazioni autori- tarie, il fitto mistero e l’illusione scaturita da un’apparente soluzione del caso. I giornalisti si trovarono a operare in un frenetico susseguirsi di eventi, dove non era agevole districarsi né distinguere tra realtà e menzogna. Ci fu una frattura all’interno della ca- tegoria: da un lato chi senza il minimo dubbio percorse la rassicurante strada delle versioni dei fatti proposte dalle autorità e non esitò a condannare gli anarchici, dall’altro chi viaggiò ostinatamente in direzione contraria tentando di demistificare artefatte spiegazioni dei fatti volte a occultare particolari segreti se non proprio indicibili. Questi giornalisti sfidarono la scrittura di una pagina di Storia a senso unico, la rivisitarono e inserirono delle correzioni.
  • 3. 3 Infine il titolo. La frase: “io l’ho saputo dai giornalisti” è di Licia Rognini Pinelli e spiega come lei stessa scoprì la morte del marito. Il senso individuale di queste parole appar- tiene solo e soltanto alla signora Pinelli e alle sue due figlie Silvia e Claudia. Ma queste stesse parole racchiudono anche un senso collettivo: i giornalisti furono i primi narratori e i primi storici della strage di piazza Fontana, dalle loro penne nacquero le prime cronache e i primi commenti di quello che stava succedendo: furono per l’opinione pubblica la fonte principale delle notizie e delle interpretazioni. A quei giornalisti che raccontarono Piazza Fontana con il coraggio necessario ad an- dare controcorrente non perché mossi da ottuse prese di posizione ma perchè spinti dalla ri- cerca della verità attraverso l’indagine giornalistica, vorremmo dedicare una riflessione che testimonia come la loro lezione sia rimasta viva lungo l’incedere della Storia e abbia trovato cittadinanza alle più diverse latitudini; è quasi superfluo ricordare che rimase e rimane invisa a molti. “Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo” (Anna Politkovskaja).
  • 4. 4 CAPITOLO 1. QUADRO STORICO. In Italia il biennio 1968 – 1969 fu caratterizzato da trasformazioni sociali e da cambia- menti politici, economici e culturali che attraversarono gran parte della società. I protagonisti di questa stagione furono gli studenti e gli operai: i due soggetti collettivi che più si batterono per un rinnovamento dell’istruzione, delle condizioni lavorative e, in generale, per un miglio- ramento della qualità della vita. Le rivendicazioni spesso portarono a violenti scontri con le forze dell’ordine, con le frange più conservatrici della popolazione e con una classe politica sospesa fra la necessità di attuare importanti riforme e l’esigenza di formare governi stabili per adempiere i doveri istituzionali. 1.1 LA SITUAZIONE POLITICA.1 Le elezioni politiche del 19 – 20 maggio 1968 fecero segnare i seguenti risultati alla Camera: Dc 39,1%, Pci 26,9%, Psu (Psdi e Psi unificati) 14,5%, Msi 4,4%, Pli 5,8%. Oltre al- la vittoria democristiana e al consolidamento del Pci, la sconfitta del Psu (Psdi e Psi unificati) è il dato che più influì sulla sesta legislatura in quanto “le elezioni del 1968 rendevano più dif- ficile il ritorno al centro – sinistra e ne turbavano gravemente gli equilibri originari”,2 prova ne sia che all’interno del Psu, in seguito all’esito elettorale, si formarono due correnti: l’una propensa a un ritorno al centro – sinistra, l’altra orientata su posizioni attendiste. Sarà quest’ultima linea – vista con favore anche da Giuseppe Saragat, colui che più di tutti si era speso per la fusione – a prevalere: il 31 maggio 1968 il Comitato centrale del Psu optò per il “disimpegno” governativo. 1 Per lo svolgimento del paragrafo ci siamo avvalsi principalmente delle linee – guida presenti in G. Mammarel- la, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), Bologna, il Mulino, 1989. 2 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.347.
  • 5. 5 Quello appena eletto si rivelò un Governo monocolore d’attesa, che condusse il Paese fino al 19 novembre 1968 quando, come da programma, si dimise il Governo presieduto da Giovanni Leone. Il Presidente della Repubblica Saragat, dopo un turno di consultazioni, affidò a Sandro Pertini (Presidente della Camera) un mandato esplorativo, che avrà come esito il primo Go- verno presieduto da Mariano Rumor, insediatosi il 16 dicembre 1968 e formato da esponenti della Democrazia cristiana, del Partito socialista unitario e del Partito repubblicano. L’unica azione rilevante che il Governo riuscì a portare a termine fu la riforma delle pensioni: il clima sociale si stava sempre più inasprendo e anche le dinamiche politiche non favorivano uno svolgimento adeguato del programma legislativo. La primavera – estate 1969 sarà infatti caratterizzata dalla fine dell’unità del Psu, espe- rienza che era iniziata alle fine del 1965, e dalla conseguente scissione del partito in due cor- renti: una socialista e una socialdemocratica. Il 5 luglio – all’indomani della separazione fra le due componenti – con l’uscita dall’Esecutivo degli esponenti socialdemocratici, Rumor pre- senterà le dimissioni. Il Presidente della Repubblica affidò ancora l’incarico a Rumor “che tentò di riannodare le file del centro – sinistra, ma invano”;3 dopo una “missione esplorativa”4 condotta da Amintore Fanfani (Presidente del Senato) apparve chiaro come l’unica soluzione percorribile, già adottata anche nel recente passato,5 fosse un Governo monocolore democri- stiano: una nuova risoluzione temporanea, in attesa di poter tornare alla formula del centro – sinistra. La crisi dell’Esecutivo era accompagnata da una crisi dei partiti, minati al loro interno da “un inasprimento delle lotte per il potere”6 che portava all’immobilismo in una fase in cui 3 Ivi, p.363. 4 Ibidem. 5 Nella primavera del 1960 Fernando Tambroni, non riuscendo a trovare un’intesa con i socialdemocratici e con i repubblicani, formò un Governo monocolore democristiano (per la costituzione del quale furono decisivi i voti del Movimento sociale). 6 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.363.
  • 6. 6 si sentiva sempre più urgente il bisogno di vedere attuate riforme soprattutto in ambito scola- stico, lavorativo e urbanistico. In questo contesto le difficoltà dei socialisti non rimasero un caso isolato: all’interno della Dc, a fine settembre 1969, in seguito all’alleanza fra i fanfaniani, il gruppo facente capo a Paolo Emilio Taviani e una parte della sinistra di Base si andò delineando sia una rottura in seno ai “dorotei”7 (all’interno dei quali si formò la corrente Andreotti – Colombo) sia una nuova maggioranza: l’on. Flaminio Piccoli, diventato segretario del partito dopo l’insediamento di Rumor a Primo ministro, verrà sostituito il 9 novembre 1969 dal fanfaniano Arnaldo Forlani. Il clima sociale, che si stava sempre più affermando nel Paese, minò gli equilibri anche del Pci. Il Partito comunista si trovò a confronto dapprima con un soggetto collettivo (gli stu- denti) che, pur muovendosi su un retroterra politico – ideologico a tratti molto simile, gli ri- volgeva l’accusa di essere “<<opposizione integrata>> incapace di combattere il sistema.”8 I dissidi più profondi all’interno del Pci si registrarono però in seguito alle agitazioni della clas- se operaia: situazione che poneva una riflessione agli esponenti comunisti riguardo alla linea da perseguire nei confronti di una categoria da sempre molto legata al partito. Inoltre espo- nenti comunisti emergenti criticarono la stessa gestione politica, affidata a Luigi Longo e a Enrico Berlinguer, “ritenuta eccessivamente possibilista verso il governo e la Dc.”9 In questa contingenza si tenne, a Bologna a metà febbraio 1969, il XII congresso del Pci ed emerse la presenza di una corrente autonoma10 all’interno del partito, che animò il periodico il Manife- sto, organo dal quale si argomentò la volontà di “un ritorno del Pci a un’azione politica rivo- 7 È una corrente democristiana che nasce nel 1959 e si caratterizza per un cauto approccio al centro – sinistra e una particolare vicinanza alle dinamiche e agli interessi ecclesiastici e industriali. 8 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996. Famiglia, società, Stato, Torino, Einaudi, 1998, p.366. 9 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.364. 10 I principali esponenti furono Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli e Lucio Magri: alcuni elementi di- rigenti della cosiddetta terza generazione.
  • 7. 7 luzionaria e al suo tradizionale ruolo di rappresentanza delle forze operaie e proletarie.”11 Il gruppo fu radiato il 26 novembre 1969:12 era incolmabile la distanza che si era frapposta fra questi esponenti e la “politica gradualistica”13 del Pci per ipotizzare una soluzione alternativa alla scissione, la quale però avvenne per volontà dell’organo direttivo del partito “che trovava incompatibile con i principi del centralismo democratico l’esistenza di una dissidenza orga- nizzata all’interno del Pci.”14 Un Esecutivo di ripiego e una classe politica fragile e frammentata si trovarono a fron- teggiare la contestazione studentesca prima, l’autunno caldo in seguito: fuori dalle sedi istitu- zionali c’era da misurarsi con nuovi interpreti che segneranno la storia italiana di questo peri- odo. 1.2 LA CONTESTAZIONE STUDENTESCA.15 Da un lato una classe dirigente inerte e imbrigliata nelle sue stesse logiche interne, dall’altro una protesta che andava crescendo nelle università. La contestazione prendeva le mosse dalle riforme scolastiche degli anni Sessanta: nel 1962 fu introdotta la scuola media dell’obbligo fino a quattordici anni, formando così un sistema di istruzione a livello di massa che, pur dando nuove possibilità a quanti provenivano dai ceti medi e dalla classe operaia, che spesso decidevano di iscriversi anche all’università, non era in grado di sostenere un cambia- mento di tale portata, considerando che “l’ultima seria riforma universitaria risaliva al 1923 e 11 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.364. 12 Il gruppo del Manifesto divenne il più autorevole di tutti quei gruppi e movimenti che, sorti all’estrema sinistra dello schieramento politico istituzionale, saranno conosciuti con l’appellativo di “gruppuscoli”. 13 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.364. 14 Ivi, p.365. 15 Per lo svolgimento del paragrafo ci siamo avvalsi prevalentemente dei riferimenti presenti in P. Ginsborg, Sto- ria d’Italia 1943 – 1996.
  • 8. 8 da allora si era fatto ben poco per rispondere ai bisogni di un numero quasi decuplicato di stu- denti”.16 Si andava delineando un sistema d’istruzione liberalizzato, ma che dava vita a “una forma di selezione di tipo classista:”17 prova ne sia la bassa percentuale di studenti lavoratori, o comunque provenienti dalle classi sociali meno agiate, che riuscivano a conseguire la laurea (nel 1966 solo il 44% a fronte dell’81% di quanti, in possesso di licenza media superiore, si iscrissero all’università). Inoltre il titolo di studio non era garanzia di un posto di lavoro: “la “massificazione” produceva immediatamente la svalutazione del titolo accademico”.18 Il Sessantotto si pose in contrapposizione ai valori introdotti dal “miracolo economico” nella società: il consumismo, l’individualismo, la famiglia e l’importanza attribuita alla tecno- logia. La rottura interessò quindi anche il versante ideologico, in primo luogo con una rivisi- tazione critica del pensiero cattolico e di quello comunista: le due teorie più importanti e se- guite in Italia. “L’attenzione era rivolta, assai più che in passato, alla necessità di una maggio- re giustizia sociale e alla formazione di comunità di base fondate su un forte senso di colletti- vità e solidarietà.”19 Inoltre si andò a riscoprire il pensiero marxista, che si intersecò con un sempre maggiore interesse verso le dinamiche in atto nella classe operaia. La matrice ideologica comune a tutte le componenti di questa stagione poggiava sull’azione collettiva, sulla solidarietà e sulla contrapposizione a ogni forma di ingiustizia so- ciale. Il Sessantotto varcò quindi l’ambito studentesco e, secondo lo storico Paul Ginsborg, assunse i caratteri di “una rivolta etica”,20 corroborata, su scala internazionale, dalla tensione emotiva e politica suscitata dalla guerra in Vietnam e dalla Rivoluzione culturale cinese. I prodromi del Sessantotto italiano risalgono al biennio 1965 – 1966. Il 1965 fu attraver- sato dai malumori per la proposta di riforma universitaria avanzata dal ministro della Pubblica 16 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.359. 17 Ivi, p.360. 18 M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2009, p.25. 19 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.361. 20 Ivi, p.362.
  • 9. 9 istruzione Luigi Gui;21 nel 1966, per la prima volta, fu occupata la facoltà di Sociologia di Trento e, nel corso della primavera, a Roma, perse la vita lo studente socialista Paolo Rossi, aggredito da un gruppo neofascista nel periodo delle elezioni degli organi rappresentativi ac- cademici. L’accaduto inasprì il clima in tutto il Paese e portò alle prime occupazioni anche nella Capitale. La prima svolta maturò nel febbraio 1967, quando si registrò l’occupazione dell’Università di Pisa; nell’autunno – inverno seguirono altre importanti occupazioni: di nuovo Sociologia a Trento; a metà novembre l’Università Cattolica di Milano in seguito a un aumento delle tasse. Il 27 novembre 1967 fu la volta dell’ateneo di Torino: “dal dicembre 1967 al febbraio 1968 il movimento si diffuse per tutto il paese.”22 Un nuovo momento decisivo si ebbe il 1° marzo 1968 in quella che viene ricordata co- me “la battaglia di Valle Giulia” ovvero il tentativo, da parte degli studenti, di rioccupare la Facoltà di architettura di Roma sgombrata in precedenza dalla polizia. Da questo momento in poi aumentò sempre più il livello di violenza nel corso delle dimostrazioni. La primavera 1968 segnò il punto più alto della contestazione; di lì a poco, pur non e- saurendosi, iniziò il declino. Un nuovo “soggetto – rivoluzionario”, così indicato dagli stessi studenti, stava ponendosi all’attenzione nel contesto italiano: la classe operaia. 1.3 L’AUTUNNO CALDO. La protesta all’interno dell’università stava scemando, ma i contestatori guardavano con interesse ad altre realtà per espandere in vari strati sociali le istanze di trasformazione. Una prima interazione si ebbe fra gli studenti e i promotori delle riviste operaiste (come Quaderni 21 Filo conduttore della contestazione studentesca, il disegno di legge n.2314 prevedeva, come punti salienti, la pianificazione degli interventi su ricerca, didattica ed edilizia, portando a un sistema di iscrizioni a numero chiu- so. Il disegno di legge contemplava inoltre la formazione di dipartimenti mediante l’accorpamento di insegna- menti e l’istituzione di tre livelli di laurea. 22P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.364.
  • 10. 10 rossi e Classe operaia) così denominate “perchè sottolineavano la centralità della classe ope- raia nel conflitto di classe e il suo bisogno di una organizzazione autonoma”.23 Le collaborazioni del 1968 – 1969 tra studenti e operaisti portarono “all’emergere delle organizzazioni della Nuova Sinistra: da Avanguardia operaia a Potere Operaio e a Lotta Con- tinua.”24 L’uscita dall’università era avvenuta e aveva portato a un contatto più diretto con le ri- vendicazioni del movimento operaio. Se il 1968 era stato l’anno degli studenti, il 1969 si sa- rebbe caratterizzato come quello degli operai. Come accadde per la contestazione studentesca, anche le rivendicazioni operaie di fine anni Sessanta ebbero un principio: a Torino, tra il 6 e il 10 luglio 1962, i metalmeccanici della Fiat scioperarono in piazza Statuto contro l’accordo a- ziendale stipulato dai sindacati (Cgil, Cisl e Uil) riguardo al rinnovo del contratto nazionale di categoria; nel corso delle giornate di mobilitazione si verificarono violenti scontri con le forze dell’ordine con numerosi feriti, fermi e arresti . Un dato si pone all’attenzione: “l’esistenza di fasce di lavoratori che non si riconoscevano nelle organizzazioni sindacali e che dunque non si sentivano da queste rappresentati”.25 Il periodo che separa il 1962 dalla fine del decennio non portò migliorie per gli operai: le dinamiche sviluppatesi avevano anzi acuito “il conflitto di classe.”26 Una prima questione è legata alla ripresa, nel 1967, dell’emigrazione dal Sud verso le mete industriali del centro – nord della Penisola, fenomeno che aveva subito una flessione nel biennio precedente. Questo secondo flusso migratorio dovette far fronte a un’integrazione ancor più difficile rispetto al primo (1958 – ’63) sia per le precarie condizioni abitative in cui i nuovi arrivati venivano ac- colti nelle grandi città (aspetto che rimase costante da fine anni Cinquanta – primi anni Ses- 23 D. Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960 – 1995, Bari, Laterza, 1996, p.24. 24 Ibidem. 25 M. Tolomelli, Il Sessantotto, op. cit., p.76. 26 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.371.
  • 11. 11 santa) sia perché, nonostante la ripresa economica del 1966,27 l’offerta lavorativa rappresenta- ta dagli operai provenienti dal Mezzogiorno non poteva essere assorbita per intero da un mer- cato che si andava sempre più frammentando e che sperimentava, per la prima volta, gli effetti di un sistema scolastico di massa: da un lato escluse dalla fabbrica un numero più elevato di giovani rispetto al passato, “accentuando così la rigidità dell’offerta in questo segmento di mercato;”28 dall’altro portando – per mezzo dei nuovi assunti – una base culturale nuova e più solida, acuì la consapevolezza riguardo alla realtà in cui si era inseriti. Non è improprio ravvi- sare “un legame – come afferma Ginsborg – tra l’aumento dell’istruzione e le agitazioni dell’<<autunno caldo>>.”29 A seguito del biennio 1964 – 1965 le condizioni di lavoro in fabbrica subirono modifi- che non favorevoli per gli operai: aumento della meccanizzazione, incremento dei ritmi lavo- rativi, diffusione del cottimo quale principale sistema di retribuzione, mancanza di tempo li- bero,30 un crescente autoritarismo da parte dei vertici aziendali e casi di discriminazione verso soggetti politicamente attivi. Proprio nell’anti-autoritarismo si può ravvisare un’importante comunanza fra lavoratori e studenti già a partire dalla primavera del 1968. Lo stesso periodo fu indicativo anche per quel che riguarda il rapporto tra operai comuni e sindacati di base, in quanto molti lavoratori continuavano a non sentirsi rappresentati da Cgil, Cisl e Uil e, di conseguenza, diedero vita a una protesta spontanea “attraverso l’azione dei comitati unitari di base”:31 questa iniziativa rappresentò il principale punto d’incontro con gli studenti, ma soprattutto fece da volano per una presa di coscienza delle rivendicazioni ope- raie da parte dei sindacati di base, i quali andarono maturando il progetto di tradurre la prote- 27 La ripresa economica italiana del secondo dopoguerra aveva subìto una flessione nel periodo che va dal 1963 al 1964, caratterizzato soprattutto da forti tassi inflazionistici. 28 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.373. 29 Ibidem. 30 A tal proposito Tolomelli ne Il Sessantotto fornisce un dato significativo: la settimana lavorativa dei metallur- gici comprendeva quarantotto ore lavorative esclusi gli straordinari. 31 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943 – 1985), op. cit., p.370.
  • 12. 12 sta operaia “in un programma di riforme (la casa, la scuola, gli ospedali, il Mezzogiorno)”,32 cercando così di sopperire alla crisi dei partiti e svolgendo anche “un fondamentale ruolo di mediazione”33 verso le componenti più radicali dello spontaneismo operaio. In una situazione in cui i principali sindacati non erano ancora del tutto attivi sul fronte delle rivendicazioni, i due poli più dinamici furono Torino e Milano, come conferma l’ingente partecipazione alla prima importante manifestazione, nel marzo 1968, allorchè i sindacati a- vevano proclamato uno sciopero per ottenere migliorie nel sistema pensionistico. Il mese suc- cessivo, nel capoluogo piemontese, gli operai della Fiat protestarono contro “una revisione del sistema retributivo a cottimo e una riduzione della settimana lavorativa da quarantotto a qua- rantaquattro ore”;34 primi segnali di una centralità degli stabilimenti Fiat in questi processi che, con il trascorrere del tempo, assunse carattere nazionale. Nel capoluogo lombardo si verificò l’esperienza più significativa di questa “prima fa- se”: quella della Pirelli Bicocca.35 A fronte di un’assunzione di duemila operai, si doveva af- frontare il rinnovo del contratto di lavoro di categoria, che scadeva il 31 dicembre 1967. Le trattative non furono prive di turbolenze: i sindacati, nonostante l’appoggio allo sciopero di tre giorni indetto dalle tute blu, accettarono, nel febbraio 1968, un contratto che lasciava molto insoddisfatti i lavoratori della gomma.36 Il malcontento si tradusse – nel giugno 1969 – nella formazione del Comitato unitario di base (Cub) così da poter continuare a far valere le proprie istanze nella fabbrica; l’iniziativa riscosse adesioni superiori alle attese e diventerà il modello per le altre organizzazioni di lotta aziendale. Le richieste degli operai avevano, come sfere di interesse principali, il miglioramento delle condizioni lavorative e del sistema retributivo; quindi figuravano l’abolizione del cotti- 32 Ibidem. 33 M. Tolomelli, Il Sessantotto, op. cit., p.96. 34 Ivi, p.77. 35 Cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, pp.376-377. 36 La delusione era dovuta al fatto che il documento prevedeva esigui aumenti salariali e non contemplava mi- gliori condizioni di lavoro.
  • 13. 13 mo, l’abbassamento dei ritmi di produzione, la riduzione delle differenze salariali fra operai e impiegati e fra gli stessi operai, il passaggio automatico degli operai comuni – dopo un certo numero di anni di servizio – a una categoria superiore, e ancora la sicurezza sul posto di lavo- ro e l’abolizione delle cosiddette “gabbie” salariali.37 La richiesta che mirava a imprimere una svolta nel mondo del lavoro “riguardava la rottura del legame tra aumenti salariali e aumento della produttività”;38 i primi avrebbero dovuto essere indipendenti dalla produzione aziendale o dalle congiunture economiche; si tendeva, in questo modo, a ridurre i margini di sfruttamen- to dei lavoratori. Anche le modalità di insubordinazione rappresentarono delle novità: gli scioperi si arti- colavano in brevi e ripetute interruzioni in reparti di volta in volta diversi, nondimeno era l’intera catena produttiva a subire disagi.39 Inoltre, sempre all’interno degli edifici, si comin- ciarono ad animare assemblee e cortei. L’apice di questa “prima fase” di proteste risale all’estate 1969 ed ebbe come teatro gli stabilimenti Fiat di Mirafiori; la data più indicativa è quella del 3 luglio: giorno di sciopero generale proclamato dai sindacati per il diritto alla casa. In quel contesto un cospicuo gruppo di operai di Mirafiori e di altre fabbriche del capoluogo piemontese fece partire un corteo au- tonomo40 e, come già in altre occasioni, ci furono violenti scontri con la polizia. Ai fatti della “battaglia di corso Traiano” seguirono assemblee di massa, in cui si ebbe l’impressione che operai e studenti stessero “formando una vera alleanza, su base rivoluzionaria”.41 37 Per “gabbie” salariali si intendeva un diverso riconoscimento economico, a fronte dello svolgimento dello stesso lavoro, a seconda delle diverse zone del paese in cui si operava. Il principale discrimine si giocava sull’asse Nord – Sud. 38 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1843 – 1996, op. cit., p.378. 39 Le stesse definizioni delle nuove modalità di sciopero sono evocative del disegno sotteso: per sciopero a gatto selvaggio si intende l’interruzione del lavoro di un intero reparto attraverso fermate improvvise; lo sciopero a singhiozzo coinvolgeva l’intera fabbrica, all’interno della quale si alternavano brevi periodi di lavoro ad altri di fermo; lo sciopero a scacchiera prevedeva invece che differenti settori della fabbrica scioperassero per un breve tempo in momenti differenti, questo faceva si che, in ogni momento, ci fossero reparti attivi ed altri no. 40 È in quest’occasione che viene coniato lo slogan “Che cosa vogliamo? Tutto!”. 41P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943 – 1996, op. cit., p.380.
  • 14. 14 L’estate – autunno 1969, oltre ad avere come protagonisti le componenti che volevano “imprimere alle proteste una svolta rivoluzionaria”,42 conobbe anche la risposta dei sindacati, decisi a far proprie le rivendicazioni e quindi a “<<cavalcare la tigre>> dell’attivismo opera- io”,43 all’interno del quale, nonostante tutto, i consensi erano ancora molto elevati. Cgil, Cisl e Uil riuscirono nell’intento anche perché si posero in “parziale autonomia”44 rispetto ai partiti che, come detto, spesso si trovarono impreparati ad affrontare le istanze di cambiamento. I sindacati aspiravano a costruire un “fronte unitario”, dove confluissero anche “le nuove ri- chieste e forme di lotta che venivano dalla base”45 per potersi porre – forti degli appoggi su scala lavorativa e non solo – come veicolo per il conseguimento di quelle riforme mai realiz- zate dalla classe politica. Sulla scorta di queste premesse iniziò, nel settembre 1969, l’“autunno caldo”,46 che a- vrebbe avuto, come tappa fondamentale, il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (in sca- denza il 31 dicembre 1969),47 per il quale i sindacati di base avevano concordato una linea comune in luglio. Fra settembre e ottobre, in un clima di tensione, si susseguirono scioperi, serrate e manifestazioni; i due poli di riferimento si confermarono Milano (Pirelli Bicocca) e Torino (Fiat Mirafiori). I lavoratori ottennero importanti risultati, soprattutto il rinnovo del contratto degli edili (8 novembre) e quello dei lavoratori dell’industria chimica (7 dicembre) a pari condizioni: aumenti salariali, orario settimanale di quaranta ore e diritto di assemblea. Il 29 novembre, a Roma, una manifestazione nazionale dei metalmeccanici sollecitò il rinnovo del contratto di categoria. L’11 dicembre il Senato approvò lo Statuto dei diritti dei lavoratori, inoltre fu siglato il rinnovo del contratto dei bancari. 42 M. Tolomelli, Il Sessantotto, op. cit., p.97. 43 P. Ginsborg, Storia d’Italia1943 – 1996, op. cit., p.380. 44 Ibidem. 45 Ivi, p.381. 46 L’espressione fu pronunciata, per la prima volta, dal leader del Psi Francesco De Martino ai primi di settembre del 1969 in un intervento alla Camera. 47 Il rinnovo venne siglato il 21-22 dicembre 1969 e contemplò aumenti uguali per tutti, le quaranta ore settima- nali e diritti sindacali.
  • 15. 15 Il 1969, oltre che per i processi di trasformazione in ambito lavorativo, fu caratterizzato anche da numerosi episodi eversivi che lo costellarono: “a partire dal 3 gennaio 1969, ci sono stati 145 attentati: dodici al mese, uno ogni tre giorni”,48 i più noti dei quali sono le bombe del 25 aprile alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale di Milano e, in secondo luogo, la serie di ordigni esplosi nella notte tra l’8 e il 9 agosto su treni dislocati in vari luoghi della Penisola. Inoltre il 19 novembre, a seguito di scontri fra le forze dell’ordine ed esponenti dell’Unione dei marxisti – leninisti, che stavano sfilando in corteo davanti al Teatro Lirico di Milano (do- ve si era appena concluso un comizio sindacale sul diritto alla casa) morì – in circostanze che rimangono oscure – l’agente di Pubblica sicurezza Antonio Annarumma. I funerali del fun- zionario di polizia furono l’ennesimo monito del clima di tensione che stava pervadendo il capoluogo lombardo.49 Ma c’è un ultimo fatto da ricordare: il 12 dicembre 1969 alle 16,37 nella Banca Nazio- nale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano esplose una bomba. Morirono quattordici persone e circa novanta restarono ferite, tre delle quali non sopravvissero. Una strage. 48 AA. VV., La Strage di Stato. Controinchiesta, Roma, Samonà e Savelli, 1970, p.16. 49 Nel corso delle esequie esponenti neofascisti misero in atto episodi di violenza verso aderenti al Movimento Studentesco e alla Nuova Sinistra.
  • 16. 16 CAPITOLO 2. LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA – PROLOGO. La strage di Piazza Fontana si insinuò, fin da subito, nelle coscienze e nelle menti delle persone. Questo luogo, che galleggia fra l’Università Statale in via Festa del Perdono e piazza Duomo,1 si pose all’attenzione dell’opinione pubblica. La <<GRANDE MILANO>> ha appreso la notizia della strage di piazza Fontana dalla radio e dalla TV: solo chi si trovava al centro si è reso conto che qualche cosa di grave era accaduto e la notizia è corsa di bocca in bocca. […] Sono cominciate le telefonate ai giornali: voci preoccupate e poi sbalor- dite, nessun commento, una sola domanda: <<Chi è stato?>>.2 La tensione fu accresciuta dalla paura; fin dalle prime ore successive all’attentato si alimentò il dibattito: si azzardarono le prime interpretazioni dell’accaduto, si cercarono risposte che non potevano esserci ed emersero – inevitabili – le divergenze politiche. Organi istituzionali e privati disposero una serie di misure in segno di cordoglio e di lutto: il sindaco di Milano Aldo Aniasi proclamò il lutto cittadino, fece sospendere gli spetta- coli teatrali (fra cui la replica de <<Il barbiere di Siviglia>> alla Scala), ordinò le bandiere ab- brunate fuori dagli uffici pubblici e la disattivazione delle luminarie natalizie. I partiti, i con- sigli comunali di Milano e di molte altre città scrissero documenti di cordoglio per le vittime e di condanna per l’attentato, esempio seguito anche dai sindacati e da numerose altre associa- zioni. Analoghi messaggi giunsero da Roma: dalla Camera, dal Senato e dal Presidente della Repubblica. Chiusero anche i cinema del centro a partire dal penultimo spettacolo serale; nu- merosi negozi abbassarono le saracinesche in segno di lutto. Molti privati cittadini si presenta- rono, di propria iniziativa, agli ospedali milanesi dove venivano portati i feriti – il Policlinico, il Fatebenefratelli e l’Ospedale Maggiore – per donare il sangue. Personale sanitario si recò, sempre in modo volontario, nelle medesime strutture per aiutare i colleghi. 1 Ermanno Rea accosta piazza Fontana, nella geografia politica del periodo, a una sorta di spartiacque fra una zona sud contestatrice, rappresentata dall’Università, e una zona nord di estrema destra rappresentata da piazza San Babila. Cfr. E. Rea 12 dicembre, in AA. VV., Le bombe di Milano, Parma, Guanda, 1970, p.61. 2 E. Lucchi, La notizia ai milanesi dai giornali e dalla TV, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.4.
  • 17. 17 La sera del 12 dicembre 1969 si percepiva la stra-ordinarietà del momento. Se, come ricorda Corrado Stajano, in pochi andarono a dormire perché “si temeva il colpo di Stato”,3 ciononostante si continuava a cercare il confronto, la condivisione. Due furono le dimensioni di quella sera milanese: la periferia, più distante dall’accaduto, ma non per questo meno par- tecipe; infatti “nelle famiglie si attendeva l’ultimo telegiornale”,4 come I mangiatori di patate ritratti da Vincent Van Gogh5 catapultati però in un’epoca industriale e tecnologica in cui è proprio dalla televisione che ci si aspetta un fascio di luce sugli avvenimenti. Altri invece scelsero il ritrovo abituale del bar, ma il copione rimaneva il medesimo, come emerge dalla testimonianza di un barista del Giambellino6 raccolta dall’inviato de Il Giorno Enzo Lucchi: <<Non fanno neppure la partita a tresette, vede? – ci ha detto un barista del Giambellino -. Stanno qui a discutere la tragedia di piazza Fontana e non guardano neppure la commedia, ma debbo tenere acce- so perché aspettano le notizie, poi tutti a casa>>7. Questi avventori del bar ricordano un’altra comunità vittima di una tragedia: quella consuma- tasi il 9 ottobre 1963. Marco Paolini, narratore teatrale, racconta la storia8 di quel mercoledì sera, in cui nei locali di Longarone, il centro più vitale della valle di Erto e Casso9, si assisteva all’incontro di Coppa dei Campioni fra Rangers Glasgow e Real Madrid, che era trasmesso alla televisione. Quella sera fu spezzata alle 22,39, quando dal monte Toc franò “una massa compatta di 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti”10 che andò a finire nel bacino sotto- stante – creato dalla diga del Vajont – sollevando così una “massa d’acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate.”11 La catastrofe distrusse cinque 3 C. Stajano, La città degli untori, Milano, Garzanti, 2009, p.65. 4 E. Lucchi, art. cit. 5 Il pittore olandese realizzò il dipinto, oggi conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam nella primavera del 1885. L’opera rappresenta una stanza in cui alcuni contadini, in condizioni di miseria, consumano il pasto serale. Van Gogh mostra così la fatica del lavoro dei campi, ma anche la dignità di queste persone – percepibile dalle loro pose e dalle loro espressioni – nonostante le loro precarie condizioni di vita. L’autore non è mosso da intenti di denuncia sociale, ma da un sentimento di solidarietà verso i contadini. 6 Il Giambellino è un quartiere che si trova nella periferia ovest di Milano. 7 E. Lucchi, art. cit. 8 M. Paolini, Vajont 9 ottobre ’63. Orazione civile, Torino, Einaudi, 2008. 9 Questo centro, in provincia di Belluno, viene chiamato dagli abitanti della zona la “piccola Milano”. 10 Cfr. www.vajont.net. 11 Ibidem.
  • 18. 18 paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè; i morti furono circa duemila12. Durante quella notte Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa a Longarone, dettò alla redazione questo incipit che avrebbe aperto il servizio del quotidiano piemontese sull’accaduto: “Scrivo da un paese che non esiste più”.13 Due comunità simili nel senso collettivo della tragedia, nell’innocenza e nell’impotenza di fronte a essa. Due comunità che corrono parallele, ma vicine sui binari della memoria e dell’indignazione, spesso labili e fluttuanti, di chi “viene dopo” ed è per questo che ciascuno potrebbe sentire come propria la riflessione di Marco Paolini: “mi vergogno di non aver saputo e poi di aver saputo e aver dimenticato questa Strage di Stato – afferma l’attore bellunese – che come uomo non posso ancora tollerare in silenzio.”14 Il centro di Milano, caotico e trafficato come di solito non avviene a fine giornata, fu invece l’altra dimensione della sera di Piazza Fontana: “i curiosi volevano <<vedere>> la scena della strage della banca”,15 inoltre "c’erano anche capannelli tutt’intorno a piazza Fon- tana: cittadini non più giovani che commentavano, molti sostavano come in raccoglimento, non dicevano una parola e se ne andavano”.16 Altre persone si recavano all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele II, nei pressi del luogo dell’accaduto, dove era stato collocato un registro funebre, per apporre la propria firma.17 A fronte di queste manifestazioni di cordoglio, ci fu spazio anche per una provoca- zione a sfondo politico-ideologico: giovani esponenti dell’estrema destra intonarono slogan a favore delle forze dell’ordine, promesse di vendetta per la morte dell’agente Annarumma e 12 La tragedia del Vajont fu imputabile, secondo numerose opinioni, anche ad errori umani; il sito www.vajont.net ne sintetizza tre: aver costruito la diga in una valle che non aveva i requisiti geologici idonei per supportare una tale opera, l’innalzamento della quota d’acqua del lago artificiale oltre i limiti di sicurezza e, infi- ne, non aver dato l’allarme, la sera del 9 ottobre, per evacuare le popolazioni che si trovavano in una zona a ri- schio di inondazione. Dietro questi errori si ravvisarono interessi di carattere economico, che non tennero conto dei limiti imposti dalla componente naturale e territoriale e della situazione di pericolo in cui si sarebbe fatta vi- vere la popolazione che qui abitava. 13 Cfr. Incipit d’autore, la difficile arte di affascinare i lettori, www.stylos.it. 14 M. Paolini, Il racconto del Vajont. 1956/9-10-1963, in “Note d’autore”, www.jolefilm.com. 15 E. Lucchi, art. cit. 16 Ibidem. 17 Cfr. C. Cederna, Il fucile del droghiere, in AA. VV., Le bombe di Milano, op. cit., p.92.
  • 19. 19 accuse di assassinio per quanto successo nel pomeriggio; “alcuni avevano bastoni: altri si da- vano da fare per formare gruppetti minacciosi attorno a chi osava esprimere parole di sde- gno.”18 La situazione rimase nei limiti di una relativa tranquillità finchè non arrivò, in piazza Fontana, un gruppo di studenti proveniente dall’Università Statale. In quel momento sono volate le prime offese reciproche, poi si è acceso qualche parapiglia: polizia e carabinieri, mentre un commissario ordinava col megafono di sciogliersi, sono intervenuti decisamente e la gazzarra è sfumata nelle vie adiacenti,19 ma le azioni riprovevoli non terminarono con questo episodio, infatti una cinquantina di fascisti hanno tentato una sortita verso mezzanotte: i facinorisi, che si erano <<trincerati>> dietro ai cavalletti tolti dal vicino cantiere di demolizione dell’ex-Commercio, sono stati però dispersi definitivamente.20 In questo contesto di caos e di smarrimento prese avvio anche l’azione dei giornalisti della carta stampata: furono loro che, monitorando la situazione del capoluogo lombardo, ve- nendo a conoscenza degli ordigni inesplosi a Roma21 e alla Banca Commerciale di Milano, accorrsi in piazza Fontana per raccogliere le prime testimonianze dei sopravvissuti e degli a- stanti, ebbero il compito di ripercorrere quel pomeriggio appena concluso, proponendone la ricostruzione e le interpretazioni. Parole e pagine che alimenteranno un dibattito dalla lunga gittata, che si declinerà nella memoria, nel monito, nella cronaca e nella storia di quel periodo. Il 13 dicembre 1969, un giorno sospeso tra i tempi del passato, del presente e del fu- turo, l’opinione pubblica lesse sui giornali, per la prima volta in modo organico, la cronaca e le riflessioni di un fatto che, per tutti, rimarrà nella memoria con il nome di Piazza Fontana: un sito che potrebbe, a buon diritto, entrare nel novero dei “luoghi della memoria”,22 dove, a una dimensione materiale e architettonica, si congiungono entità effimere ma parimenti solide e durature come le parole e i ricordi. 18 E. Lucchi, art. cit. 19 Ibidem. 20 Ibidem. 21 Un ordigno esplose in un passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, altri due scoppiarono all’Altare della Patria, nei pressi del sacrario del Milite Ignoto. È da ricordare che i quotidiani del 13 dicembre 1969 non riportarono i medesimi orari delle deflagrazioni e che discordanze si ravvisarono anche con gli orari indicati dalla magistratura. 22 Riprendiamo questa definizione dal titolo di una collana curata da Mario Isnenghi per i tipi di Laterza e deno- minata appunto I luoghi della memoria.
  • 20. 20 2.1 13 DICEMBRE 1969: GLI EDITORIALI. La strage di piazza Fontana monopolizzò le prime pagine dei quotidiani del 13 di- cembre. Se ampio spazio era riservato all’elemento visivo23 attraverso fotografie e titoli a tutta pagina, ciascuna testata affidò alla “prima” anche una riflessione sull’accaduto attraverso edi- toriali24 redatti dalle proprie firme più autorevoli. Il tono degli articoli presi in esame è sospeso tra lo sgomento e la volontà di reagire all’accaduto. Le conoscenze erano ancora troppo esigue per poter rispondere anche alle più elementari domande che l’opinione pubblica si stava ponendo, così “i primi commenti dei maggiori quotidiani del 13 e del 14 dicembre – scrive Paolo Murialdi – sono generici, impo- stati sulla difesa delle posizioni politiche sostenute da ciascun giornale.”25 Nonostante questa fosse la condotta generale, ogni editorialista fece delle scelte che, come bussole, iniziarono a orientare i lettori. Gli editoriali tentarono di contestualizzare un evento, come Piazza Fontana, fino a quel momento unico nel secondo dopoguerra italiano e in tempo di pace ma, in mancanza di dati certi su cui lavorare, cercarono appigli nella Storia sia recente sia pregressa. I due episodi più citati furono l’attentato al teatro Diana di Milano del 23 marzo 192126 e la morte dell’agente Annarumma, avvenuta poche settimane prima del 12 dicembre 1969: due avveni- menti dal forte impatto emotivo sul pubblico e che, come la strage di piazza Fontana, spacca- rono l’opinione pubblica per i risvolti che ne derivarono e per le questioni irrisolte. 23 La fotografia dell’atrio sventrato della Banca Nazionale dell’Agricoltura, che apparve in prima pagina sul “Corriere della Sera”, divenne emblematica dell’avvenimento. Cfr. www.corriere.it. 24 L’editoriale è un articolo in cui un giornalista esperto (e che gode di un certo credito da parte del pubblico del- la testata) analizza un fatto importante di attualità. Di solito, quello che viene scritto nell’articolo, rappresenta il punto di vista della redazione nel suo complesso. 25 P. Murialdi, Gli anni del centrosinistra, in La stampa italiana del dopoguerra vol.II, Bari, Laterza, 1978, pp.533-534. 26 La strage del Diana segnò il periodo che precedette la marcia su Roma e la presa del potere da parte del fasci- smo. Si trattò di un attentato dinamitardo, messo in atto da un gruppo anarco-individualista milanese, volto a colpire il questore di Milano Giovanni Gasti, il quale riuscì a salvarsi. In quella circostanza persero la vita ventu- no persone e ottanta rimasero ferite.
  • 21. 21 L’articolo di commento del Corriere della Sera,27 non firmato, dal titolo Difendere la libertà, collocato nel taglio basso della pagina, cita, in poco più di due colonne,28 per due volte la strage del Diana; la prima menzione: “non sono possibili termini di confronto; non basta nessun richiamo o parallelo storico, con la sola eccezione della strage del <<Diana>>, nella Milano infuocata dell’altro dopoguerra”.29 L’autore afferma l’unicità dell’episodio, ma riesce a trovare una similitudine storica che innesta deduzioni e correlazioni fra i due avvenimenti. I punti in comune che, al 13 di- cembre 1969 si potevano riscontrare fra le due vicende, erano: il cospicuo numero di vittime e l’ubicazione nel capoluogo lombardo; altre attinenze avrebbero dovuto essere valide solo co- me ipotesi e nulla più. Il Corriere della Sera però, lo stesso giorno, nella sezione Corriere mi- lanese, ritorna una terza volta sulla vicenda del teatro Diana con una ricostruzione più minu- ziosa, ma scoperchiando il tema che nel precedente articolo era rimasto tra le righe: la matrice anarchica dell’attentato, già dal sottotitolo del pezzo (La bomba esplose la sera del 23 marzo 1921 e uccise ventun persone – Autori furono tre anarchici).30 L’incipit “Milano subisce la seconda ondata di anarchica violenza della sua storia”31 può prestarsi a facili connotazioni di carattere ideologico, in un momento in cui le indagini sulla strage di piazza Fontana non ave- vano ancora prodotto alcuna certezza. Dopo aver rimarcato che l’attentato fornì ai fascisti un’ulteriore occasione per compiere azioni violente, come l’aggressione alla sede de l’Avanti la notte stessa del 23 marzo 1921, la conclusione dell’articolo: “dal processo il movimento anarchico milanese uscì distrutto. Ma aveva contribuito, in maniera non modesta, all’ascesa del fascismo e alla morte di ogni libertà”,32 offrì una disamina parziale che non tiene in ade- guata considerazione da un lato l’entusiasmo e l’appoggio di cui il fascismo godeva nei primi 27 Il quotidiano milanese di via Solferino era proprietà della famiglia Crespi ed era diretto da Giovanni Spadolini. 28 Per la precisione nello spazio di ottantanove righe. 29 Difendere la libertà, “Corriere della Sera”, 13 dicembre 1969, p.1. 30 A. Grisolia, Un tragico precedente: lo scoppio al Diana. La bomba esplose la sera del 23 marzo 1921 – Autori furono tre anarchici, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.9. 31 Ibidem. 32 Ibidem.
  • 22. 22 anni Venti da parte delle classi sociali più agiate, dall’altro la necessità costante dei totalitari- smi di ricercare capri espiatori per giustificare le proprie efferatezze. Un secondo quotidiano che ricordò la deflagrazione del Diana fu La Stampa:33 l’espediente fu impiegato a fini cronologici e numerici, per rilevare che Milano, dal 23 marzo 1921 al 12 dicembre 1969, è la città che “ha il triste primato degli attentati”.34 Il quotidiano piemontese però si concentrò su un altro parallelo fra atti terroristici che appaiono ancor più spaventosi perché caratterizzati dalla simultaneità e quindi dalla premeditazione: gli attentati di ieri ricordano dunque la <<notte di fuoco>> dell’8 agosto, alla vigilia delle grandi va- canze, quando dieci bombe furono collocate su treni; ma ieri l’azione dinamitarda non voleva diffon- dere il panico: si proponeva di uccidere.35 L’eccezionalità della strage del 12 dicembre, introdotta dall’avversativa, risiede, a detta di Carlo Casalegno, nel suo scopo. Anche questo paragone storico, così come quello dell’attentato del 1921, non riesce nella sua funzione: le differenze emergono con maggior forza rispetto alle somiglianze. L’editorialista del Corriere d’Informazione36 scrisse dell’attentato al Diana ma, a dif- ferenza degli altri due giornali, la menzione si discostò dalla similitudine storica per proporre una contrapposizione basata su termini propri di una sfera trascendente: “ieri a Milano, la città più viva d’Italia, era di casa la morte, come la sera del 23 marzo 1921, per la strage del Dia- na”.37 A conferma del tono aulico e dell’uso di categorie immateriali per raccontare i fatti del giorno precedente, così l’articolo parlò della bomba inesplosa a Milano alla Banca Commer- ciale: “ieri è stato miracolo se alle vittime della Banca dell’Agricoltura non si sono aggiunti quelli di cui un altro ordigno avrebbe potuto popolare le macerie della Banca Commerciale”.38 33 “La Stampa” è fra i principali quotidiani nazionali e ha sede a Torino. Dal 1926 è proprietà della famiglia A- gnelli. Nel 1969 il direttore era Alberto Ronchey. 34 C. Casalegno, Prenderli ad ogni costo, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.1. 35 Ibidem. 36 Il “Corriere d’Informazione” fu un quotidiano del pomeriggio pubblicato a Milano dal maggio 1945 al maggio 1981. Parte del gruppo editoriale del “Corriere della Sera” ne condivideva proprietà e direzione ed ebbe il ruolo di edizione pomeridiana. La redazione era separata da quella della testata principale. 37 Mosca, Un impegno per tutti, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.1. 38 Mosca, art. cit.
  • 23. 23 L’eccidio del Diana e gli attentati dell’8 agosto 1969 erano avvenimenti già metabo- lizzati dall’opinione pubblica; la morte dell’agente Annarumma, avvenuta il 19 novembre 1969, parlava ancora più alle emozioni che non alla razionalità delle persone. Il giorno stesso della morte del poliziotto il presidente della Repubblica Saragat, attraverso un telegramma,39 si schierò con le forze dell’ordine e fece propria “la tesi dell’assassinio politico”;40 il 13 di- cembre Nino Nutrizio, dalle pagine de La Notte,41 lamentò che l’accaduto del giorno prece- dente “è stato favorito dal disarmo morale e materiale della polizia”,42 riaprendo il dibattito sul disarmo della polizia, diventato centrale dopo i fatti di Battipaglia del 9 aprile 1969,43 e corroborando la difesa delle forze dell’ordine nonchè l’importanza del loro ruolo con queste parole: “quando, a duecento metri da piazza Fontana, morì l’agente Annarumma, si disse che era stata una provocazione della Polizia. Ieri la Polizia non c’era. I morti sì”.44 Corriere della Sera e Corriere d’Informazione parlarono dell’episodio del 19 no- vembre enfatizzandone la vicinanza rispetto al 12 dicembre: “il dolore e lo sbigottito silenzio caduti su Milano per la morte dell’agente Annarumma sono di neppure tre settimane fa”,45 e cercando di rassicurare i lettori attraverso i propositi delle istituzioni, anche se non mancarono critiche alle forze politiche per le condizioni di governo in cui versava l’Italia: il presidente del Consiglio, Rumor, che governa in condizioni di tanto tragica impotenza politica per colpa delle indecifrabili lotte dei partiti e dei sottopartiti, ha preso solenne impegno con il paese che nulla sarà lasciato di intentato per scoprire chi ha distrutto vite umane e gettato un’intera città, una cit- tà come Milano, nella desolazione e nel dolore: a venti giorni dall’eccidio del povero agente Anna- rumma.46 39 Cfr. G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Torino, Einaudi, 2011, p.49. 40 Ibidem. 41“La Notte” fu un quotidiano pomeridiano milanese pubblicato dal 1952 al 1995. Fu finanziato dall’industriale bergamasco Carlo Pesenti e diretto dall’anno della sua comparsa fino al 1979 da Nino Nutrizio. 42 N. Nutrizio, Violenza e odio, “La Notte”, 13 dicembre 1969, p.2. 43 A Battipaglia, il 9 aprile 1969, a seguito della decisione di chiudere la manifattura dei tabacchi e lo zuccherifi- cio (le due aziende che davano lavoro a metà della popolazione della città) si ebbero scontri fra i dimostranti contrari a questa risoluzione e le forze dell’ordine. La polizia sparò sui manifestanti, uccidendo due persone. La questione del disarmo della polizia fu discussa alla Camera nella sedutà del 29 aprile 1969. 44 N. Nutrizio, art. cit. 45 Mosca, art. cit. 46 Difendere la libertà, art. cit.
  • 24. 24 La promessa di Rumor era inevitabile, ma non si comprende il nesso con la morte di Annarumma, se non come una critica alle istituzioni giudiziarie; commento condiviso dal Corriere d’Informazione47 e da La Nazione,48 che parlò di “angosciati, drammatici interroga- tivi”49 posti dai cittadini ai governanti. Il giornale fiorentino e La Notte furono molto vicini nel rimprovero alla classe politica: il quotidiano del pomeriggio milanese si spinse a dire che “siamo arrivati a questo punto per i maledetti partiti e la maledetta politica”;50 Enrico Mattei, definì il dibattito sui responsabili della strage una “disputa settaria basata sul vuoto, degna del villaggio delle scimmie immortalato da Kipling”;51 preferì sposare la teoria degli opposti e- stremismi,52 aggiungendovi però una postilla: sappiamo che in Italia esiste una triste violenza di destra, come esiste una violenza di sinistra, che è oggi assai più temibile anche se tanti nostri colleghi, per apparire democratici (e non farsi attaccare dai comunisti) fingono di non accorgersene.53 Queste parole fanno scivolare il giornalista in quella disputa ricusata solo poche righe prima e dimostrano come i propositi di genericità, ricordati da Murialdi, degli editoriali del 13 dicem- bre 1969 vengano soppiantati, nel breve volgere di un articolo, a favore della già menzionata linea editoriale. La teoria degli opposti estremismi fu abbozzata anche da altri editorialisti in ossequio alla volontà di rimanere su posizioni generali e di proporre piuttosto una contrapposizione fra Bene e Male: per il Corriere della Sera l’intento sotteso a Piazza Fontana fu “colpire a morte, come si usa dire con linguaggio orecchiato, <<il sistema>>, egualmente combattuto dagli op- 47 “Non ci avevano assicurato che ben poche sarebbero state, ancora, le ore di libertà dell’assassino? Niente. Il silenzio continua. Nei tribunali la polvere cade su centinaia di denunce per attentati, violenze, sopraffazioni i cui autori girano liberi nella tranquilla attesa d’una condanna che non verrà”, Mosca, art. cit. 48 “La Nazione” era e rimane il principale quotidiano fiorentino; all’epoca di Piazza Fontana era proprietà della famiglia Monti ed era diretto da Enrico Mattei. 49 E. Mattei, La verifica, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.1 50 N. Nutrizio, art. cit. 51 E. Mattei, art. cit. 52 Con l’espressione “teoria degli opposti estremismi” si intende, all’epoca dei fatti di piazza Fontana, mettere in risalto una situazione di conflitto politico fra i gruppi extraparlamentari di destra e di sinistra e le loro azioni vol- te a contrastare le istituzioni dello Stato. 53 E. Mattei, art. cit.
  • 25. 25 posti totalitarismi”;54 La Stampa operò il discrimine riguardo agli obiettivi degli attentati di Milano e di Roma che “forse sono stati colpiti come simboli del <<sistema>>, forse per un’abile manovra provocatoria”.55 Il Corriere d’Informazione, in un secondo articolo di commento, dopo aver decretato che gli autori della strage operarono “da professionisti dell’assassinio anarchico ed estremista”,56 invitò i partiti alla coesione e all’azione “senza fare ipotesi che coinvolgano o un rigurgito di destra sulla falsariga autoritaria dei colonnelli ate- niesi o una mostruosità maoista che colpisce gli altari della patria (il Vittoriano) e del capitali- smo (le banche)”.57 La credibilità istituzionale, in quel momento, era incarnata da Saragat,58 “che ha interpretato lo sgomento del paese, da vecchio socialista e democratico che ha cono- sciuto gli orrori della violenza e le conseguenze funeste di attentati analoghi tipo Diana”.59 Es- sendo già stato citato quest’ultimo episodio, si sarebbero potuti ricordare altri avvenimenti fu- nesti del recente passato italiano che riguardarono in prima persona il presidente della Repub- blica, come la scelta dell’esilio durante il ventennio fascista e, nel 1943, al suo ritorno per combattere contro la Repubblica di Salò, l’arresto e la detenzione nel carcere romano di Regi- na Coeli. Il Corriere d’Informazione, mantenendo un andamento dell’articolo carico di pathos, portò a confini messianici le parole quirinalizie: “in tanta miseria, unico spiraglio di luce, uni- co motivo di conforto la fermezza e la decisione che spirano dal messaggio del presidente del- la Repubblica”.60 Di tenore prosaico e strumentale il riferimento de La Notte al passo del tele- gramma in cui sono chiamate in causa le autorità giudiziarie,61 in calce al quale Nutrizio 54 Difendere la libertà, art. cit. 55 C. Casalegno, art. cit. 56 A. Spinosa, Evitare la via dell’avventura, “Corriere d’Informazione”, 13 dicembre 1969, p.1. 57 Ivi, p.2. 58 Il presidente della Repubblica, a seguito dell’attentato di Piazza Fontana, inviò un telegramma al presidente del Consiglio trascritto e commentato da molti quotidiani il 13 dicembre 1969. Per il contenuto del messaggio, cfr Saragat condanna la violenza omicida, “Corriere della Sera”, 13 dicembre 1969, p.1. 59 Difendere la libertà, art. cit. 60 Mosca, art. cit. 61 “Tocca all’autorità giudiziaria, innanzi alla quale giacciono numerose denunce per istigazione ad atti di terro- rismo”, Saragat condanna la violenza, art. cit.
  • 26. 26 snocciolò un trittico di domande: “come reagirà la Magistratura?”,62 si chiese il direttore della testata milanese per poi presentare due possibilità disgiuntive e retoriche; prima ipotesi: “a- scolterà questo monito, davanti alle quattordici bare che fra qualche ora sfileranno per le vie di Milano?”.63 Seconda ipotesi, dove si percepisce anche una vena di sarcasmo: “o continuerà a lasciar giacere quelle pratiche, quasicchè si trattasse di banali contravvenzioni di sosta vieta- ta?”.64 A fronte di queste parole di sfida, Carlo Casalegno, nel suo editoriale su La Stampa, accostò le parole di Saragat a quelle del presidente del Consiglio Mariano Rumor e a quelle del presidente della Camera Sandro Pertini per suggerire al pubblico la compattezza e l’unità d’intenti delle tre cariche dello Stato65. Fra gli articoli di fondo, che seguirono la strage di piazza Fontana, si distinse Senza esitazione, apparso su l’Unità66: Sergio Segre, fra i condirettori della testata comunista, non diede spazio a vaghezze discorsive e politiche, ma argomentò: “gli attentati di ieri hanno una firma chiara, e inequivocabile. La firma è quella di provocatori fascisti e reazionari.”67 Questa frase, attorno a cui ruota tutto il pezzo, può essere oggetto di obiezioni68: il giorno dopo l’attentato non era possibile manifestare una tale sicurezza sulla sua matrice, ma lo stesso comportamento lo tennero anche altri quotidiani, solo preoccupandosi di dissimulare il pro- prio orientamento e peraltro non riuscendovi. Due modi differenti di affrontare l’esposizione dei fatti, ma con il medesimo risultato. 62 N. Nutrizio, art. cit. 63 Ibidem. 64 Ibidem. 65 Il quotidiano piemontese riprese a pagina 2, nella loro interezza, i messaggi di Saragat, di Rumor, di Pertini e aggiunse le parole del presidente del Senato Fanfani e del papa Paolo VI. Cfr. Saragat: <<La tragica catena va spezzata ad ogni costo>>, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.2. 66 “l’Unità” è una testata che fu fondata da Antonio Gramsci il 12 febbraio 1924; fu organo ufficiale del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita fino al 1991. Nel dicembre 1969 il quotidiano era diretto da Gian Carlo Pa- jetta. La sede centrale si trova a Roma. 67 S. Segre, Senza esitazione, “l’Unità”, 13 dicembre 1969, p.1. 68 Il direttore de “La Notte” riportò, nel suo pezzo, la frase sopra citata di Segre facendo del sarcasmo e non con- dividendo le posizioni dell’editorialista de “l’Unità”. Cfr. N. Nutrizio, art. cit.
  • 27. 27 Segre scorse nella strage di piazza Fontana un disegno eversivo di destra sulla scorta del modello ateniese,69 che avrebbe avuto propaggini “per tentare di sovvertire, anche nel no- stro Paese, l’ordinamento democratico”,70 bloccando un processo di sviluppo e di riforme che aveva avuto il suo apogeo nell’autunno caldo. Come in altri articoli si fece ricorso a rimandi storici, in questo caso non tanto a fini di contestualizzazione, quanto come moniti: “il fasci- smo in Italia è morto il 25 aprile 1945. Nessuno potrà mai più fargli rialzare la testa. L’Italia della Resistenza e della Costituzione è forte abbastanza per impedirlo”.71 Si propose una con- cezione di storia come maestra di vita, affermando che “la carta del 1960 e del 196472 non possono illudersi di poterla più giocare”.73 Il richiamo a questi fatti storici volle tradursi in un appello all’azione, argomentato con la ripetizione, a cui è affidata la coesione del discorso, della frase “non si può esitare”74 e designando come protagonisti “tutte le forze democratiche ed antifasciste, tutti i lavoratori”, categorie vicine al Pci, cui fu dedicata una chiusa che tradi- sce l’influenza del partito sul giornale: se nulla lasciò dubitare riguardo all’impegno di Botte- ghe Oscure nella congiuntura politica che si era venuta a creare a seguito di Piazza Fontana, enfatica appare la “grande forza” che Segre rivendicò per il suo partito. 69 La Grecia fu teatro di un colpo di Stato, il 21 aprile 1967, che instaurò quella che sarebbe passata alla storia come la dittatura dei colonnelli e che durò fino al 1974. 70 S. Segre, art. cit. 71 Ibidem. 72 Il 1960 fu caratterizzato, in Italia, dal Governo presieduto da Fernando Tambroni a cuì si imputò l’appoggio del Msi e le misure repressive usate dalla polizia durante le manifestazioni e gli scioperi in maggio e in giugno. I fatti più preoccupanti per le sorti del Paese si verificarono in luglio, quando il presidente del Consiglio autorizzò il Msi a tenere il proprio congresso nazionale a Genova nella prima settimana del mese. Il capoluogo ligure reagì con una protesta che si propagò in tutta la penisola. Il Pci sospettò di una vicinanza fra forze di Governo e gruppi neo-fascisti e la possibilità di un colpo di Stato. La congiuntura politica e sociale portò alle dimissioni di Tam- broni il 9 luglio. Nel 1964, a seguito della crisi del Governo di centro-sinistra presieduto per la prima volta da Aldo Moro, il presidente della Repubblica Antonio Segni e il comandante generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, con l’appoggio del Sifar (Servizio informazioni forze armate), prospettarono un colpo di Stato per in- staurare un Governo di centro-destra ed estromettere i socialisti. Fu il settimanale L’Espresso a fare queste rive- lazioni, smentite dai diretti interessati, ma non dal processo seguito alla querela di De Lorenzo nei confronti della testata giornalistica. 73 S. Segre, art. cit. 74 Ibidem.
  • 28. 28 L’articolo di fondo del 13 dicembre 1969, apparso su Il Giorno,75 a firma Italo Pietra, presentò peculiarità non riscontrabili in altri pezzi: l’incipit “ci sono tante maniere di far poli- tica: e, fra le tante, c’è quella delle bombe”,76 lascia intravedere una riflessione storica dettata dall’esperienza partigiana del direttore del quotidiano milanese, che valutò la politica delle bombe “una scelta dolorosa, ma può risultare necessaria nel quadro delle grandi lotte di libe- razione”77 e, dopo aver ricordato le più recenti lotte di emancipazione terzomondiste, inqua- drò la situazione italiana come “lontanissima da quei climi e da quelle necessità”, pur non mancando di elencare, attraverso la ripetizione della particella “c’è”, i fenomeni che stavano caratterizzando la fine degli anni Sessanta nel nostro Paese: la crisi politica, l’autunno caldo, “la fuga dei capitali” e la necessità di riforme sociali. Il linguaggio si concede poche espressioni auliche e metaforiche: “il tallone chiodato del nazismo che pesa su tutti i cuori”, “le unghie tigrate dei paracadutisti che difendono la be- stia del colonialismo” e infine, riguardo ai momenti successivi la strage di Milano: “l’aria è ancora lacerata dalle sirene delle autolettighe”; le altre parti dell’articolo mantengono uno sti- le piano. Pietra, fra gli editorialisti considerati, è colui che riesce a mantenere il maggior di- stacco analitico rispetto alla vicenda, anche quando risponde alla domanda principale sul mi- stero che circonda l’attentato di piazza Fontana: “chi è stato? A chi assegnare la responsabili- tà? Non ci sono, in questo momento, elementi per rispondere con sicurezza.” Poi l’articolo torna a descrivere la vicenda italiana, questa volta dal punto di vista politico: da un lato “c’è una estrema destra – scrive il direttore de Il Giorno – che fa largo consumo di slogan cinquan- tenni”, dall’altro “c’è il cosiddetto neoanarchismo” ed è a questo punto che il giornalista in- troduce una considerazione politica, rimproverando, in relazione al diffondersi del neoanar- 75 “Il Giorno” è un quotidiano milanese fondato nel 1956 dall’editore Cino Del Duca con l’ENI di Enrico Mattei e Gaetano Baldacci come direttore. Nel 1959 Del Duca lasciò e venne alla luce la propietà, che era così suddivi- sa: il 49% dell’ENI di Enrico Mattei, un altro 49% dell’IRI e il restante 2% del ministero delle Partecipazioni Statali. Il proprietario della testata era, di fatto, lo Stato, che licenzierà Gaetano Baldacci, cui fu concesso di sce- gliere il suo successore; la scelta cadde su Italo Pietra che diresse il quotidiano dal 1960 al 1972. 76 I. Pietra, Non si illudano, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.1. 77 Ibidem.
  • 29. 29 chismo, scelte orientate “al massimalismo piuttosto che al riformismo”; Pietra avvalora la sua tesi con un’incursione nella Grecia dei colonnelli e una nella Praga del biennio 1968 – 1969: la contrapposizione si gioca fra la strada dei totalitarismi e quella “della democrazia e delle riforme.” La conclusione del pezzo è perentoria nella sua rassicurazione: “non s’illudano, quel- li del terrore: non passeranno”, ma fa trapelare anche un monito del direttore de Il Giorno: “e non si illudano le forze della destra economica e della conservazione, use a utilizzare lo spau- racchio del disordine per trattare la politica da vassalla e per frenare le riforme”; per conclude- re con una personale certezza democratica: “la democrazia cammina” e riformista: “le rifor- me, necessarie alla sua vita e al suo consolidamento, passeranno.” L’analisi degli editoriali del 13 dicembre 1969 pone all’attenzione la sopraffazione dell’opinione personale nei confronti delle pretese di oggettività: logica che, in parte, rientra nella stesura dell’articolo di fondo, ma che rischia di travalicare il fatto in sé. Gli editorialisti assumono, nelle loro colonne, il ruolo di storici e di creatori di opinioni. Il 12 dicembre 1969, ogni testata inviò, nella piazza milanese della strage, i propri cronisti per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti alla bomba e degli astanti; l’occhio dei giornali si focalizzò su chi aveva vissuto in prima persona l’attentato; queste parole furono le prime memorie di Piazza Fontana. 2.2 13 DICEMBRE 1969: I GIORALISTI SUL POSTO, LE TESTIMONIANZE. Il racconto è un esercizio di condivisione del vissuto, dove l’esperienza incontra e stimola la curiosità. In piazza Fontana si voleva sapere da coloro che c’erano stati: solo loro potevano tracciare la descrizione del quadro nel suo divenire fino alla fine, solo loro potevano dare le prime sfumature al giallo della strage, solo loro potevano spostare l’asse della narra-
  • 30. 30 zione dal piano della fantasia a quello della realtà. A raccogliere queste parole, come mondine in un campo di riso, i giornalisti: “fare domande per un giornale – scrive David Randall – ha un solo scopo: raccogliere informazioni, soprattutto dettagli”78 ovvero le primissime fonti di un evento, che in seguito sarà canonizzato. Giorgio Boatti, nel suo saggio su Piazza Fontana, ricorda un uomo con i vestiti a brandelli “dagli occhi deliranti di terrore che stava scappan- do”,79 appena dopo l’esplosione della bomba, lungo corso Vittorio Emanuele: prima testimo- nianza corporea dell’accaduto, antecedente la televisione, la radio e i giornali, riservata a un gruppo di casuali fruitori. L’episodio del “testimone sconosciuto” fu raccontato il 13 dicem- bre 1969 in un articolo apparso sul Corriere della Sera; il giornalista riuscì a cogliere, o a far- si riportare, una frase: “hanno cercato di chiedergli il suo nome, dove abitasse. <<I morti non si chiamano più>>, ha risposto e non c’è stato modo di fermarlo, di soccorrerlo”.80 Il passato suggestiona il presente, “l’assurdo è di voler rompere il tempo infinito tra- scorso da allora, quarant’anni quasi”81 riflette l’io narrante del saggio in forma di narrazione scritto da Corrado Stajano sulla città di Milano. Oggi, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, c’è la fermata del tram; nel 1969 non c’era, “quella sera avrebbe reso ancor più opprimente la ressa delle ambulanze, delle barelle, dei carri dei pompieri”.82 La piazza, progettata dall’architetto Giuseppe Piermarini sul finire del Settecento, era, già all’epoca dell’eccidio, zona di passaggio dei mezzi pubblici, per esempio degli autobus della linea N, tratta sulla quale si trovava, al momento della deflagrazione, l’allievo sottufficiale di PS Mi- chele Priore il quale intuì che lì vicino c’era bisogno di aiuto: “l’autobus ha traballato, i pas- seggeri hanno gridato di paura e io ho urlato di fermare, di aprire la portiera”;83 di fronte alla 78 D. Randall, Il giornalista quasi perfetto, Bari, Laterza, 2009, p.110. 79 G. Boatti, Piazza Fontana, op. cit., p.4. 80 Lutto cittadino per il barbaro eccidio, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.8. 81 C. Stajano, La città degli untori, op. cit., p.61. 82 Ivi, p.62. 83 Lutto cittadino per il barbaro eccidio, art. cit.
  • 31. 31 visione che gli si parava davanti, dopo aver “incontrato un uomo senza un braccio”84 e dopo aver cercato di portare il proprio contributo ai soccorsi, un’ammissione che non si presta a fa- cili eroismi: “sono stato sul punto di fuggire”85 e una confessione: “è stata la pietà, non il co- raggio a farmi restare”.86 La medesima circostanza può far incontrare diverse persone per caso o seguendo una precisa volontà: i cronisti sperano nel primo, rimediano con la seconda. Nel ricordo di Stajano è un tassista che, durante la corsa, gli comunica la notizia della strage e a quel punto comincia la sua azione giornalistica: “gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa”.87 Il caso e il libe- ro arbitrio possono intrecciarsi: a tanti, quasi tutti i presenti di Piazza Fontana, toccò questa sorte. Un’esperienza, su cui si concentrarono i giornali, fu quella di don Corrado Fioravanti, forse il primo a prestare soccorso dentro la banca: “era proprio vicino alla porta quando ha sentito una tremenda esplosione. Le schegge delle vetrine gli sono schizzate addosso. Poi del- le urla spaventose”.88 La testimonianza del parroco di Cinisello Balsamo diventò importante per chiarire i primi aspetti dell’accaduto, dal momento che “le notizie della strage sono ancora imprecise. Le domande si accavallano”,89 la più ricorrente: “quanti morti, don Corrado? An- che donne?”.90 L’abito del sacerdote attirò a sé alcuni feriti: “mi è venuta incontro una ragaz- za – racconta il prete – senza un braccio; con l’altro mi ha tirato la tonaca: ’Padre, ci aiuti!’ Altri mi hanno tirato la veste, invocando di aiutarli”91 e poi le ultime parole di un signore che stava morendo: “più avanti c’era un uomo che mi sembrava senza gambe. Mi sono chinato per 84 Ibidem. 85 Ibidem. 86 Ibidem. 87 C. Stajano, La città degli untori, op. cit., p.62. 88 M. Zoppelli, Ero cappellano so riconoscere l’odor di miccia, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.3. 89 Ibidem. 90 Ibidem. 91 Lutto cittadino per il barbaro eccidio, art. cit.
  • 32. 32 dare anche a lui l’assoluzione e ho sentito che mi diceva:’Sono di Novara. Avvertite i miei’. Deve essere morto subito dopo”.92 Don Fioravanti, oltre al racconto di questa “specie di bolgia dantesca”,93 come lui stesso definì l’interno della banca, spiegò il motivo per cui l’esplosione non derivava da una caldaia, ma da una bomba: “appena sono entrato nel salone ho avvertito l’odore dell’esplosivo: sono stato cappellano militare e certi odori, purtroppo, li riconosco”.94 Solo La Nazione, che nell’articolo non citò nemmeno il nome del prete, riportò questa istantanea del sacerdote: “uscì piangendo e disse, davanti al cielo una frase che forse riassume, da sola, tutto quanto è accaduto: <<Non c’è più Dio>>. Disse proprio così: <<Non c’è più Dio>>”.95 Risul- ta arduo scorgere in queste parole lo stesso prete che, per quanto turbato dall’evento, riuscì a prestare la sua opera e ad avanzare un’ipotesi, che poi si rivelerà veritiera, sulla matrice dell’esplosione. In alcuni casi sui giornali si scivolò verso iperboli che caricavano di ulteriore pathos una circostanza che non aveva certo bisogno di questo e di altri supplementi, che con- tribuirono ad accrescere nell’opinione pubblica una “febbre emotiva”96 che, nel corso dei giorni, subirà molti picchi e rivestirà un ruolo considerevole, purtroppo anche fuorviante, nel- la percezione del fatto. Il periodo dell’anno, a ridosso di Natale, contribuì a questo cortocir- cuito emotivo; non mancarono le contrapposizioni tra l’“atmosfera calda della vigilia delle fe- ste”97 e il tragico colpo di scena di quel pomeriggio: “il suono sinistro delle sirene raggela la folla, mentre come in un lampo il primo annunzio della strage vola da un capo all’altro del centro”.98 92 P. Radius, I testimoni raccontano la strage, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.4. 93 Ibidem. 94 W. Semeraro, <<Hanno coperto col tricolore uno dei morti dilaniati>>, “La Notte”, 13 dicembre 1969, p.4. 95 E. Tortora, Non c’è più Dio!, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.3. 96 P. Baldelli, Informazione e contro informazione, Milano, Mazzotta Editore, 1976, p.151. 97 E. Passanisi, <<Assassini!>> ha gridato la folla, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.10. 98 Ibidem.
  • 33. 33 I giornali enfatizzarono l’accaduto anche focalizzando il sistema di valori di cui Mi- lano da un lato e le vittime dell’attentato dall’altro sarebbero stati interpreti e che la strage a- vrebbe tentato di distruggere; analisi che si presta a una latente interpretazione politica. Il quo- tidiano del pomeriggio Corriere d’Informazione così personificò le generalità delle persone che persero la vita il 12 dicembre: “sono nomi che sembrano tolti di peso dalle porte di una casa di ringhiera appoggiata sul greto del Naviglio”99 e ancora “erano tutti insieme <<a botte- ga>>, a fare milanesemente i loro contratti”.100 Queste suggestioni saranno riprese nei giorni successivi insieme alla vicenda di Enrico e Patrizia Pizzamiglio, due giovanissimi fratelli, che erano a passeggio in centro e che si trovavano in banca per fare un favore ai genitori. Enrico subì l’amputazione di una gamba, Patrizia riportò gravi ustioni. La sola notizia di una simile fatalità, che ha fatto trovare due persone così giovani in mezzo a una strage, non richiederebbe ulteriori commenti, ma “non è il primo dramma per i Pizzamiglio. Di recente – chiosa Il Giorno – il padre ha subito l’amputazione di una gamba in seguito a un incidente strada- le!”;101 e poi un ulteriore particolare: “per colmo di disgrazia, pare che Patrizia abbia perduto la notevole somma di denaro con la quale doveva ritirare la cambiale”.102 La Nazione seguì l’arrivo al Policlinico della ragazzina che “dice di chiamarsi Patrizia Pizzamiglio e invoca, piangendo, notizie del fratello Enrico”;103 la domanda venne soddisfatta da una risposta che il cronista ricostruisce così: “le dicono che è grave, gravissimo, chissà se potranno salvarlo”.104 Per il giornalista in queste contingenze “la regola d’oro è l’immedesimazione”,105 processo che Giampaolo Pansa esplicitò in una riflessione, “penso a mio figlio. Penso ai genitori di 99 V. Notarnicola, I vivi e i morti di Piazza Fontana, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.3. 100 Ibidem. 101 G. Pinasi – S. Battaglioli, Un bambino ha perso una gamba ustionata la sorella, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.6. 102 Ibidem. 103 L. T., La tragedia di un bimbo, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.4. 104 Ibidem. 105 D. Randall, Il giornalista quasi perfetto, op. cit., p.197.
  • 34. 34 quel bambino e mi sento svenire per l’ira e il dolore”,106 attraverso la quale si colgono la pre- occupazione e l’impotenza collettiva. Nel campo dei ricordi che rivivono la presa diretta di quel pomeriggio, quelli di Ca- milla Cederna, giornalista de L’Espresso107, iniziano poco dopo l’esplosione della bomba, con la telefonata di un conoscente: “corri subito in piazza Fontana, dev’essere successo qualcosa. Chi dice lo scoppio di una caldaia, chi dice una bomba. Ci sono molti morti”.108 Bisognava andare a verificare la notizia e, “spinta da una curiosità quasi morbosa”,109 una volta arrivata al giardino della banca, dopo aver sopravanzato le forze dell’ordine e la folla, il primo sinto- mo tangibile dell’accaduto: “piedi umidi di colpo, mi entra il sangue nelle scarpe”.110 L’esperienza sensoriale ebbe rilievo nelle testimonianze e nelle cronache del 13 dicembre; la detonazione frantumò i vetri della banca che “scricchiolano sotto le suole delle scarpe”111 di chi entrò in seguito. Egidio Pinziroli, un impiegato sopravvissuto, rimase fuori dalla banca “in maniche di camicia. Fa freddo, ma lui non lo sente”.112 L’incredulità fece da sfondo alla per- cezione e, in alcuni casi, alimentò l’incertezza: “non ho sentito neanche un gran rumore – ri- corda un cliente della banca – o forse lo scoppio è stato così forte che non riesco neanche a ricordarmelo”;113 mentre Michele Carlotto, impiegato al reparto depositi fiduciari, sentì l’esplosione in tutta la sua potenza, dal momento che “quasi lo ha fatto diventare sordo”.114 La vista registrò istantanee non sempre traducibili in parole, come accadde all’addetto alle cal- daie Ambrogio Giambelli, il quale, dopo aver verificato che l’esplosione non era avvenuta nel 106 G. Pansa, L’orrenda visione nella sala della Banca, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.2. 107 “L’Espresso” è una rivista italiana fondata nel settembre 1955 da Arrigo Benedetti. La testata si occupa di po- litica, cultura ed economia. Nel 1969 direttore era Gianni Corbi, che subentrò a Eugenio Scalfari eletto alla Ca- mera dei deputati come indipendente nelle liste del Psi. Nel 1970, con direttore Livio Zanetti, il periodico si di- stinse per le sue inchieste sulla vicenda di piazza Fontana e sul caso legato a Pietro Valpreda. 108 C. Cederna, Il mondo di Camilla, a cura di G. Cherchi, Milano, Feltrinelli, 1980, p.214. 109 Ibidem. 110 Ibidem. 111 G. Zicari, La bomba conteneva sei chili di esplosivo, “Corriere della Sera – Corriere milanese”, 13 dicembre 1969, p.9. 112 M. M., Dalla strage di Milano alle bombe di Roma, “La Nazione”, 13 dicembre 1969, p.2. 113 P. Radius, I testimoni raccontano la strage, “Corriere d’Informazione”, 13-14 dicembre 1969, p.4. 114 Ibidem.
  • 35. 35 sotterraneo dell’istituto, corse verso il salone e qui il suo racconto si blocca perché “se dico cosa ho visto non mi credono. Non ci credo ancora io”.115 L’olfatto servì a qualcuno, ad e- sempio al già citato don Fioravanti, che aveva avuto a che fare con precedenti bellici, per intu- ire che lo scoppio era da collegare a una bomba; per altri: “l’odore dolciastro del sangue delle vittime innocenti, dei feriti, si mischia a quello sinistro dell’esplosivo”.116 Cederna menziona i racconti dei sopravvissuti attraverso le metafore che già dal 13 dicembre si cominciavano a rincorrere per ricondurre la strage di piazza Fontana nell’alveo di efferatezze note e radicate nell’immaginario collettivo: la più reiterata riguardò la guerra. Così la giornalista sintetizzò su L’Espresso quei primi racconti: “così cominciano i febbrili racconti degli scampati, le cui facce van deformandosi tutte nel parlare. La guerra, sì, come la guerra, i bombardamenti, il massacro, il caos, il macello”.117 Alfredo Masanzanica ricordò quando era soldato nella campagna di Grecia, voluta dal regime fascista, nei primi anni Quaranta “e cre- devo di averne visti di orrori […]. Ma uno scempio come questo mai.”118 Ancora Michele Priore: “nel salone della banca sembrava che fosse passata la guerra”.119 L’architettura bellica servì come paragone per il bancone a emiciclo dove si trovavano gli operatori bancari che a- veva fatto da barriera: “ci ha salvati questa trincea di legno compensato”,120 disse un impiega- to. Gian Pietro Testa (Il Giorno), nella sua cronaca, si avvalse di un’altra similitudine per de- scrivere la forza d’urto dell’esplosione: “decine di clienti vengono buttati all’aria come fuscel- li”121 e di una metafora per illustrare la situazione all’interno della banca subito dopo la defla- grazione: “è come entrare in un mattatoio, peggio”122 per poi pensare “è un raffronto irrive- 115 M. Moscardi, Mi sono caduti in testa i calcinacci del soffitto, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.5. 116 Caccia al criminale, “La Notte”, 13 dicembre, p.2. 117 C. Cederna, Una bomba contro il popolo, “L’Espresso”, 21 dicembre 1969, p.2. 118 P. Radius, art. cit. 119 Ibidem. 120 M. Fossati – G. Morrone, Dobbiamo la nostra vita al bancone di compensato, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.4. 121 G.P. Testa, Infame provocazione, “Il Giorno”, 13 dicembre 1969, p.1. 122 Ivi, p.24.
  • 36. 36 rente”123 nei riguardi di chi visse in prima persona quel momento. L’accostamento potè appa- rire improprio ma risultò, nella sua durezza, veritiero: fu ripreso da Piero Papetti, uno dei feri- ti ricoverato al Fatebenefratelli, che così ricordò un particolare delle sue condizioni: “ero sporco che sembravo un macellaio”.124 Un altro ferito, Giulio Falappi, prese a prestito un e- vento naturale per spiegare l’effetto visivo dell’esplosione: “ho visto un lampo. Poi più nien- te.”125 Le testimonianze non differiscono molto fra le testate: come ricorderà Cederna, nelle adiacenze della piazza, “un racconto segue l’altro e sono tutti apocalittici”,126 come altrimenti non potrebbe non essere nelle prime parole di persone che hanno vissuto un’esperienza del genere; anche i giornali si lasciarono andare a espressioni del medesimo tenore, come accosta- re la banca “ad una vigna su cui sia passata una grandinata di fuoco”.127 Ancora una volta si parla più alle emozioni che alla mente; i primi resoconti condu- cono i lettori là dove non erano: al centro della scena, della strage e sono le prime basi di una memoria condivisa, che si forma attraverso un processo di immedesimazione fondato sull’innocenza delle vittime, dei feriti, di chi non era presente, ma avrebbe potuto esserlo. L’orrore, lo sdegno, la rabbia e il terrore sono sentimenti che ci pervadono in breve tempo, non è così per processi più ragionati e meno istintivi. L’io narrante dell’opera di Stajano così ripercorre i momenti in cui, all’interno della banca appena colpita dall’esplosione, il flusso di pensieri ricomincia a scorrere dopo lo straniamento dovuto a quanto si è visto: “cominciavo lentamente a capire l’enormità di quanto era successo ma senza la percezione di trovarmi den- tro una storia di cui si sarebbe discusso per anni”.128 Se la percezione è lasciata alla soggettività di ciascuno, alcuni articoli aiutarono la comprensione dell’evento, integrando la cronaca della strage con alcune considerazioni e u- 123 Ibidem. 124 C. Rossella, Parlano i feriti negli ospedali, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.3. 125 Ibidem. 126 C. Cederna, Il mondo di Camilla, op. cit., p.215. 127M. Fossati-G. Morrone, art. cit. 128 C. Stajano, La città degli untori, op. cit., p.64.
  • 37. 37 sando un linguaggio molto asciutto e concreto, in accordo con il principio che capire “rende meno arduo controllare la paura”.129 Giorgio Bocca, sulle pagine de Il Giorno, scrisse un arti- colo di commento tentando di accostare le poche tessere del mosaico di Piazza Fontana, che potevano avvalersi del discrimine della certezza, e lasciando ogni altra considerazione tutta da verificare. Il giornalista nell’incipit parlò di “attentati alla democrazia”130 senza bisogno di at- tendere ulteriori notizie e indagini, per poi interpretare il fine della strage: “provocare una pro- fonda emozione nel Paese da sfruttare a fini politici”.131 Bocca offrì un ventaglio di possibilità sulla matrice della strage: provocazione di destra, provocazione di sinistra o provocazione proveniente dall’estero, ciascuna delle quali però non rispondeva a ipotesi legate alla natura della bomba, ovvero se fosse stato possibile parlare di un deprecabile errore, pur considerando comunque la gravità anche di questa evenienza, “qualora si trattava di una bomba a orologeri- a”, non finalizzata quindi a provocare una strage, ma a metter in scena un “atto dimostrativo” per creare terrore; oppure di una volontà omicida se la bomba era “a miccia breve”; conside- rando in ogni caso “terroristici e simbolici gli attentati alle banche, specie a quella di Milano”. L’articolo si chiudeva con l’esortazione alla classe politica e ai cittadini di non cedere a quell’emozione che l’attentato aveva voluto scatenare. Fernando Strambaci, cronista de l’Unità, ricostruì così “la cruda cronaca dell’agghiacciante tragedia”.132 Dopo aver riferito gli estremi cronologici e spaziali della vi- cenda,133 il primo segno dell’accaduto: al centro del salone, dove c’era un tavolo di legno ot- tagonale a uso dei clienti, il giornalista vide “un buco di ottanta centimetri di diametro attra- 129 G. Boatti, Piazza Fontana, op. cit., p.10. 130 G. Bocca, L’obbiettivo vero colpire la democrazia, “Il Giorno”, 13 dicmebre 1969, p.3. 131 Ibidem. 132 F. Strambaci, Un orrendo attentato provoca una terribile strage a Milano, “l’Unità”, 13 dicembre 1969, p.2. 133 Nella cronaca di Strambaci si nota l’adesione al modello del giornalismo anglosassone, in particolare per quanto riguarda la regola delle 5 W, ovvero rispondere alle domande, ritenute fondamentali per la stesura di un articolo: who?, what?, where?, when?, why? (in italiano: chi?, cosa?, dove?, quando?, perché?). Il giorno dopo la strage di piazza Fontana non era possibile rispondere ad ognuna di queste domande.
  • 38. 38 verso il quale si scorgeva uno dei sotterranei delle cassette di sicurezza”.134 Riferì poi dell’arrivo dei soccorsi, al quale seguì il chiarimento che azzerava la speranza che non si trat- tasse di un attentato: non un guasto alla caldaia, ma “qualcuno aveva deliberatamente provo- cato il massacro”135 e la concomitanza con gli altri attentati di Milano e di Roma faceva sup- porre che ci fosse “un disegno preordinato”. Dopo una breve allusione alle indagini, Stramba- ci si concentrò sulla ricostruzione dei fatti, dove i ricordi dei sopravvissuti, ancora molto scos- si per l’accaduto, si mescolano alle testimonianze materiali che il luogo offriva e “consente di immaginare che cosa è successo in quei momenti di terrore”. La confusione prese il soprav- vento, sia all’interno della banca, come confermato da un impiegato che, ricordando gli attimi successivi allo scoppio e il suo tentativo di portare soccorso ai feriti, ammise “è difficile coor- dinare le idee”, sia nelle zone limitrofe dove “è stato un fuggi fuggi di gente”. Strambaci quindi, grazie alle testimonianze, enucleò gli indizi che avrebbero confermato la premedita- zione della strage, che non era avvenuta per errore: la borsa, dove era collocata la bomba, si trovava sotto il tavolo centrale della banca, come era consuetudine dei clienti abituali; c’era la consapevolezza dell’orario prolungato di venerdì con la conseguenza “che la bomba sarebbe scoppiata quando la banca era ancora affollata”; infine, è la prova principale della volontà di uccidere, “l’ordigno era innescato con una miccia”. L’articolo proseguì con la cronaca del ri- trovamento della bomba alla Banca Commerciale di Milano fornendone due particolari: “la mano di specialisti” nella fabbricazione dell’ordigno e la descrizione della borsa, “nuovissima di similpelle nera, a soffietto, chiusa con una serratura d’ottone”, in cui era contenuto l’esplosivo; peculiarità che avranno grande importanza nelle indagini e nel dibattito su Piazza Fontana che seguiranno, insieme alla scelta degli artificieri di far brillare la seconda bomba. L’articolo si chiude con un resoconto della serata: il trasporto dell’ottava vittima all’obitorio, l’arrivo nel capoluogo lombardo del sottosegretario agli Interni Angelo Salizzoni, i fermi ope- 134 F. Strambaci, art. cit. 135 Ibidem.
  • 39. 39 rati dalla polizia e i tafferugli verificatisi tra esponenti dell’estrema destra e del Movimento studentesco. La cronaca di Strambaci è attenta alle testimonianze e al susseguirsi degli eventi dall’esplosione della bomba fino alla sera del 12 dicembre. L’analisi dei fatti (si pensi alle os- servazioni relative alla bomba e alla dinamica del piano dell’attentato) prevale rispetto alla pura descrizione. L’inviato tratta gli avvenimenti con un distacco giornalistico che si ritrova, sulle pagine de Il Giorno nel pezzo di Gian Pietro Testa, che scrisse un resoconto dalla caden- za più vicina ai ritmi del racconto. Peculiarità dell’articolo è la rielaborazione delle testimo- nianze che non appaiono sotto forma di discorso diretto, ma inserite nel flusso della narrazio- ne. Dopo un’introduzione che si basava, come in quella apparsa su l’Unità, sulla regola delle 5 W, cominciò il racconto: “sono dunque le 16,37. L’ora è precisa, l’orologio elettrico del grande salone della banca si è fermato a causa dell’esplosione. È il primo dato certo”,136 a cui seguì la descrizione di ciò che gli agricoltori stavano facendo in piazza Fontana: “parlano di affari, di raccolti, di bestiame, contrattano, discutono”137 e del luogo: il salone della banca “ancora affollato di clienti”, circolare, alto “non meno di quindici metri, copre due piani”; in- fine il tavolone sotto cui fu posizionato l’ordigno. La narrazione si avvicina al momento cen- trale della deflagrazione che né la memoria né tantomeno la fantasia riuscirono a riportare nel- la sua interezza poiché “sono attimi fuggenti”. Testa provò a dar forma al momento dell’esplosione riproponendo l’offesa subita dai corpi, ma dovette arrendersi alla constatazio- ne che “il momento è indescrivibile”. Il giornalista-narratore propose delle riflessioni su que- sto momento e sulle sue conseguenze: l’accostamento fra l’effetto della bomba di piazza Fon- tana e i bombardamenti aerei della guerra, la metafora secondo cui “i muri del salone sono la testimonianza del massacro” e una domanda che il cronista rivolse in primo luogo a se stesso, solo in un secondo momento ai lettori: “Come si può descrivere un simile spettacolo?”. La ri- 136 G. P. Testa, art. cit. 137 Ibidem.
  • 40. 40 sposta fu nel raffronto, già ricordato, con un mattatoio. L’azione riprese con il turbinio che seguì la deflagrazione, protagonisti furono gli esponenti involontari di una nuova categoria creata dalla strage, “sono gli scampati: urlano, sono le scene di panico comprensibili”; il ritmo della cronaca aumenta nel descrivere l’azione dei soccorsi: le telefonate, l’arrivo, le operazio- ni. Il racconto si sposta fuori dalla banca, fra la gente che, venuta a conoscenza della natura dell’esplosione cominciò a discutere in termini politici dell’eccidio, e fra le autorità che arri- varono sul posto verso le 17,20. Allo scoccare delle 18 “il grande salone della morte si vuota. Rimangono ancora gli inquirenti”, è il momento in cui la narrazione si sposta dal piano della strage a quello delle indagini e dell’inchiesta. Dalle investigazioni sul campo alla notte della Questura: i fermi, le perquisizioni e l’ipotesi, smentita dal diretto interessato, che un ferito a- vesse “visto due giovani allontanarsi in fretta e furia dopo la deflagrazione”. La chiusa dell’articolo, che apre ulteriori scenari nel campo delle indagini, parlò di un viaggio del vice- capo della squadra politica Luigi Calabresi138 per avere informazioni, ipotizzò il giornalista, “sull’attività nell’area del MEC (Mercato comune europeo) di una organizzazione greca”,139 argomento trattato il 12 dicembre da un giornale di Ginevra. Tra i cronisti di Piazza Fontana il servizio che realizzò Giampaolo Pansa, sulle co- lonne de La Stampa, coniugò il versante analitico con quello descrittivo. Se Strambaci fornì la sceneggiatura e Testa il canovaccio della vicenda, Pansa sembrò scrivere con una macchina da presa “una prima, convulsa cronaca della strage”.140 L’incipit, come si era verificato negli articoli degli altri due giornalisti, fornì le informazioni basilari del fatto: che cosa era succes- so, l’ubicazione, l’ora, il numero dei feriti e dei morti, rispondendo alla regola delle 5 W. Do- po aver aggiunto dei particolari alla descrizione della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in re- lazione alla sua posizione nella Milano della contestazione e dell’autunno caldo, il giornalista 138 Nei giorni successivi alla strage di piazza Fontana, quasi tutti i giornali riportarono il nome del pubblico uffi- ciale con un refuso: Luigi Calabrese in luogo di Luigi Calabresi. L’errore fu forse dovuto alla presenza di un funzionario di nome Luigi Calabrese che lavorava presso la Questura di Milano nello stesso periodo. 139 G. P. Testa, art. cit. 140 G. Pansa, Un boato, una vampata, dovunque grida e lamenti, “La Stampa”, 13 dicembre 1969, p.1.
  • 41. 41 introdusse le prime testimonianze dei sopravvissuti e prese le mosse, con maggior cautela ri- spetto a Strambaci, per una ricostruzione: è probabile […] che il criminale abbia compiuto l’attentato proprio in questo modo, abbia, cioè nasco- sto l’ordigno esplosivo in una borsa o lo abbia avvolto in un pacco che poi, con freddezza, è andato a deporre sotto il banco ottagonale.141 La riflessione si posa sull’esplosivo, di cui ancora non si conosceva la composizione, ma che il cronista, screditando l’ipotesi dell’attentato dimostrativo, considerò “confezionato per ucci- dere, e per uccidere nel modo più brutale e spaventoso”.142 Dopo la testimonianza di don Fio- ravanti, comparve sulla scena, in prima persona, il personaggio-giornalista: “io arrivo sul po- sto trenta minuti dopo l’esplosione”,143 inizio di un’interazione tra chi c’era e chi non c’era. Pansa si soffermò sulla distruzione materiale dell’edificio, per poi vedere “in questo caos fi- gure che – è terribile scriverlo – non hanno quasi più nulla di umano”.144 Dall’aspetto visivo, reso con questo inciso metagiornalistico vicino alla riflessione di Testa, si passa alle parole dei sopravvissuti, i quali avevano bisogno di far comprendere e di condividere quel che ave- vano subìto: “fuori trovo, ancora choccati, alcuni degli impiegati rimasti illesi o feriti in modo lieve. I loro racconti danno la misura della tragedia”;145 poi una metafora: “un inferno, vero, con fuoco e fiamme”,146 avallata dal racconto di un testimone. Pansa riportò altri racconti, infine la chiusa fornì le prime informazioni sulla bomba inesplosa alla Banca Commerciale e sulla nottata di indagini delle autorità e di dichiarazioni dei gruppi politici, ma soprattutto accostò questa strage di civili, similitudine presente anche nell’articolo di Testa, ai bombardamenti che colpirono Milano nell’agosto 1943. “Invano cer- chi tra la polvere, / povera mano, la città è morta”147 scrisse Salvatore Quasimodo per ricorda- re quel tempo. La strage di piazza Fontana condivide con i bombardamenti bellici oltre al do- 141 Ibidem. 142 Ibidem. 143 G. Pansa, art. cit. 144 Ibidem. 145 Ibidem. 146 Ibidem. 147 S. Quasimodo, Milano, agosto 1943 in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1966, p.237.